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IL CENTRO DI UN LABIRINTO
di Valentina Stocco
Ecco fatto, il treno era partito. Ed Elizabeth era di nuovo in viaggio.
Si appoggiò stancamente allo schienale della poltrona, chiuse gli occhi e inspirò profondamente. Notò
distrattamente come l'odore del velluto che rivestiva i sedili dei treni fosse sempre lo stesso, in qualsiasi
angolo di mondo si fosse.
Come sempre si sentiva fragile. Viaggiava da quando era piccola, era una persona apparentemente
molto sicura di sé e lei per prima si sentiva estremamente soddisfatta della propria vita e del proprio
modo di essere.
Ma sentiva di essere vulnerabile e la coscienza di questa sensibilità la rendeva in qualche modo molto
meno forte di quanto non le piacesse apparire.
Ma ora era in treno, partita alla volta di Venezia, e aveva davanti a sé diverse ore per rilassarsi e
concentrarsi sulla meta del suo viaggio. E a questo si decise a pensare guardando il paesaggio che
scorreva fuori dal finestrino. Stava lasciando Monaco e gli amici con cui aveva condiviso la splendida
settimana in giro per la Baviera.
Si passò una mano fra i corti capelli rosso scuro e si aggiustò i grandi occhiali neri sul naso. Non li
toglieva quasi mai. Dietro quegli occhiali nascondeva i suoi occhi verdi ulteriormente schermati da un
trucco scuro, come se volesse essere assolutamente sicura che il suo sguardo fosse protetto.
Tirò fuori dalla borsa l’inseparabile macchina fotografica e inserì un rullino in bianco e nero. C'erano
due cose che portava praticamente sempre con sé: la macchina fotografica ed un grosso quaderno su cui
scriveva ed annotava tutto, disegnava, dipingeva, copiava poesie e custodiva le fotografie più care. Lo
estrasse dalla valigia insieme ad una delle foto della Baviera che ritraeva lei e i suoi compagni di
viaggio. Con la matita iniziò a riportare quell'immagine sulla pagina bianca.
Il pensiero cominciò a vagare come i segni sulla carta.
Si era laureata da un anno e non aveva combinato quasi nulla nei mesi trascorsi. Aveva cambiato un
paio di lavori che non avevano molto a che fare con i suoi studi di storia. Lavori intervallati a periodi
sabbatici spesi a riflettere fondamentalmente su cosa voleva davvero fare nella vita. In un alternarsi di
domande che ancora non avevano ottenuto risposta.
Ma a quel punto non era così importante. Non sapeva quando sarebbe potuta tornare a Londra, dove
viveva, e non aveva urgenza di riprendere in mano la propria vita. Si stava recando in un paese della
Riviera del Brenta, fra Venezia e Padova, a passare un periodo di tempo non ancora definito da una zia
che conosceva soltanto per lettera.
Teresa era la sorella maggiore di suo padre, più vecchia di lui di più di dieci anni. Dopo la morte
prematura del fratello aveva scritto in Inghilterra ad Elizabeth - Elisa, come la chiamava lei - che
all'epoca aveva solo sei anni, dando inizio ad una corrispondenza che si era infittita sempre di più nel
corso degli anni.
Elizabeth era molto affezionata a Teresa ma non l'aveva mai incontrata, per questo l'improvviso e
irrifiutabile invito ricevuto l'aveva colta alla sprovvista. Due settimane prima la zia aveva subito un
brutto incidente in bicicletta, procurandosi diverse contusioni e una frattura multipla della gamba
sinistra, lesioni che si erano andate a sommare alla non più giovanissima età. E, nonostante non le
mancasse l'assistenza necessaria, aveva richiesto insistentemente la compagnia della nipote,
sottolineando il fatto che era la sua unica parente in vita, che era la figlia di suo fratello, che viveva
tanto distante, che non l'aveva mai vista... e avanti così in una lettera che non aveva permesso ad
Elizabeth di porsi il benché minimo dubbio sul da farsi.
Ed ora non sapeva quanto tempo sarebbe dovuta rimanere in Italia. Tentò di distogliere la mente dal
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costante ronzio di fondo di dubbi e domande e si concentrò sul disegno, senza riuscire a trattenersi dal
lanciare sguardi preoccupati al cielo che, con il procedere del treno, diventava sempre più scuro e
nuvoloso.
Stavano per imboccare il Ponte della Libertà, finalmente alle porte di Venezia, quando il maltempo che
l'aveva accompagnata per quasi tutto il viaggio esplose in un fortissimo temporale. Elizabeth credeva di
non aver mai visto nulla di simile. Rimbombavano i tuoni e la pioggia scendeva talmente fitta che
cancellava quasi completamente tutto ciò che si trovava al di là del vetro.
Nonostante la violenza del nubifragio la rendesse inquieta, Elizabeth rimase senza fiato quando un
lampo illuminò la laguna e Venezia in lontananza, donandole un'immagine incredibilmente suggestiva.
Come se un fotografo molto più intuitivo di lei stesse immortalando il profilo della città con una
gigantesca macchina fotografica.
Un brivido non del tutto spiacevole le corse lungo la schiena. Non era mai stata a Venezia e quella
"fotografia" le sarebbe rimasta in mente per sempre. In fondo la famiglia di suo padre proveniva in
parte da quella città. La nonna, che si chiamava Elisa, si era trasferita in Riviera quando si era sposata,
quindi parte delle sue radici erano lì. Elizabeth giustificò così l'emozione che provava in quel momento
e l'impazienza di lasciare quel vagone, altrimenti inspiegabile considerando le condizioni atmosferiche.
Il treno si fermò in mezzo al ponte e si spensero le luci, mentre un altro lampo illuminava a giorno la
distesa d'acqua e un tuono riempiva il silenzio lasciato dal viaggio interrotto. Di lì a poco il mezzo
riprese a muoversi e tutto d’un tratto Elizabeth si ritrovò su un marciapiede della Stazione S. Lucia con
la sua valigia a guardare inerme la pioggia scrosciante.
Non se l’aspettava così l’arrivo a Venezia. Aveva immaginato di arrivare in un pomeriggio di sole,
passeggiare per le calli fino a trovare un albergo che la soddisfacesse per passare la notte, prima di
prendere l’autobus per il paese dove abitava Teresa.
E invece, appena smontata dal treno, si era diretta all’Ufficio Informazioni, e aveva atteso in coda,
intirizzita dal freddo e dall’umido, per cercare semplicemente una stanza in un albergo o in una
pensione il più vicino possibile. Trovò posto in una delle innumerevoli locande che negli ultimi anni
erano state aperte in città, nonostante le difficoltà dovute alla sua scarsa abitudine a parlare Italiano e
alla scortesia dimostrata dall’impiegato che chiaramente non aveva la pazienza necessaria ad aspettare
che Elizabeth rispolverasse una lingua che peraltro conosceva benissimo.
Incurante delle sue difficoltà, quell’uomo continuava a parlarle troppo velocemente e – sospettava –
usando espressioni in parte dialettali. Chiese con gentilezza di ripetere più lentamente e l’uomo la
guardò indispettito per poi ricominciare a parlare alla stessa velocità di prima, solo a voce più alta.
Elizabeth era al limite della sopportazione.
“Posso aiutarti?”. Ignorando la distanza di cortesia, il ragazzo che era in coda dopo di lei si era
avvicinato allo sportello e fissava l’impiegato con uno sguardo tagliente come un rasoio.
“Non capisco niente” disse lei con voce rassegnata “Parla troppo veloce per me. Sto solo cercando di
trovare una stanza…” ma il ragazzo non la lasciò neanche continuare. In tono molto freddo si rivolse
all’impiegato, guardandolo con occhi gelidi e in pochi minuti la questione fu risolta.
“Avevo anche io lo stesso problema. E’ una locanda, non distante da qui” le spiegò uscendo, mentre
Elizabeth lasciava dietro di sé il suo sguardo più cattivo “Vai in quella direzione, non ti puoi sbagliare.
E’ giusto sopra ad un pub!” e si allontanò lentamente, salutandola solo con un cenno della mano
Elizabeth rimase muta e interdetta, ma ora il suo unico pensiero era di arrivare alla locanda al più
presto possibile. Raccolse le borse e si avviò per la strada indicatale.
“Ma tu guarda che tipo… A momenti non mi lasciava neanche parlare e se n’è andato quasi senza
salutare…”
E poi se stavano andando nello stesso posto poteva almeno aspettarla e accompagnarla, invece di
indicarle semplicemente la strada. Si liberò di questi pensieri con una scrollata di spalle.
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La locanda fu effettivamente molto facile da trovare. Il pub era ben visibile e invitante con la sua tacita
promessa di una bella birra, ma in quel momento la sua priorità era sistemarsi in una stanza e
soprattutto asciugarsi e scaldarsi. Infatti, nonostante la strada non fosse stata lunga, la pioggia
continuava a scendere così insistente e obliqua da rendere pressoché inutile il suo piccolo ombrello.
La stanza che le avevano assegnato era piccola ma più che confortevole, arredata con mobili antichi,
non seriali.
Era un po’ troppo cara per lei, ma davanti alla necessità non poteva farci nulla.
Dalla finestra si vedeva un canale ed i palazzi che vi si affacciavano, con le finestre appena illuminate.
I lampioni cominciavano ad accendersi in quel momento e le luci venivano spezzettate e moltiplicate
dalle mille goccioline che scorrevano lungo il vetro.
Elizabeth si tolse solo il maglione inzuppato, ma non perse tempo ad asciugarsi. Aprì la finestra e
sedette sul basso davanzale con la macchina fotografica in mano. Immortalò l’acqua e le barche e fissò
il movimento delle persone che passavano sul ponte sottostante con i loro ombrelli grandi e piccoli,
neri e colorati, fra stecche rotte sporgenti e scritte promozionali di qualche ristorante.
Passò così una ventina di minuti. Guardare la pioggia in fondo l’aveva aiutata a rilassarsi. Ora forse era
arrivato il momento per la birra che aveva tanto desiderato prima. Estrasse dalla borsa la giacca di pelle
nera, prese il portafogli e si chiuse la porta della camera alle spalle.
Cadeva ancora qualche goccia, ma la porta del pub era proprio lì accanto ed Elizabeth non voleva
davvero saperne più dell’ombrello.
Prese la sua pinta di birra e si sedette ad un tavolo. Il locale era pieno di gente seduta a chiacchierare e
lei trovò un posto un po’ defilato, vicino alla finestra aperta.
Stava lì, persa nei suoi pensieri, rimpiangendo una sigaretta che non si poteva più fumare.
“Guarda che hai una striscia nera lungo la guancia”, la voce le suonò quasi familiare. Alzò lo sguardo e
vide il ragazzo che l’aveva aiutata alla stazione. Vestito di nero, con un bicchiere di vino bianco in
mano, le passò accanto con lo stesso sguardo glaciale e si diresse verso il fondo del locale.
Elizabeth si portò istintivamente le mani al volto per ritrovarsi le dita sporche di rimmel. Si diresse di
mala voglia verso il bagno dove lo specchio le rimandò l’immagine di un viso reso ancora più pallido
dalle ciocche di capelli rossi umidi che le stavano appiccicate sulla pelle. Il trucco degli occhi si era un
po’ sciolto con la pioggia e il suo sguardo sembrava più infossato di quanto non fosse in realtà. La
giornata era stata davvero lunga.
E poi quello strano ragazzo. Lo osservò tornando al tavolo. Era lì, seduto da solo a sorseggiare il suo
vino leggendo un libro. Capelli neri e carnagione chiarissima. Non riusciva a vedere i suoi occhi ma
dovevano essere tra il verde e il grigio, freddi come l’acciaio.
Finì l’ultimo sorso di birra e tornò in albergo. A quel punto voleva solo andare a dormire in vista di
arrivare finalmente da Teresa l’indomani.
Nonostante la grande stanchezza, non si addormentò subito. Rimase distesa su un fianco, rivolta verso
la finestra ad ascoltare il picchiettare della pioggia, intervallato ogni tanto dal rombo di un tuono,
confortata dal profumo di bucato delle lenzuola. Rimpiangeva la tenue luce di una candela. “Sarebbe
da leggere Bram Stoker in una notte come questa…”
Si svegliò la mattina dopo con la sensazione del nuovo giorno. Era presto, circa le otto, ma Elizabeth si
sentiva fresca e riposata come se avesse dormito ventiquattr’ore di fila. Il sole inondava la stanza e la
prima cosa che fece fu di aprire la finestra, lasciando entrare la luce ed il forte odore di pietra bagnata
caratteristico delle prime ore successive alla pioggia. Piena di energie, si preparò in pochi minuti. Il bel
tempo e il buon umore condizionarono la sua scelta, e i vestiti chiari che aveva indossato facevano
sembrare ancora più rossi i suoi capelli, più verdi gli occhi e più bianca la pelle del volto.
Sul pullman che la portava finalmente da sua zia cominciò a leggere un libro di poesie di William
Blake.
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O rose, thou art sick.
The invisible worm,
that flies in the night,
in the howling storm,
has found out thy bed
of crimson joy;
and his dark, secret love
does thy life destroy.1
Continuava a cantilenare quelle parole nella testa mentre si lasciava alle spalle Marghera all’altezza di
Malcontenta. Lì Elizabeth sapeva esserci uno degli edifici più belli progettati da Andrea Palladio, Villa
Foscari detta – appunto – La Malcontenta.
A casa avevano un libro sulla Riviera del Brenta, probabilmente appartenuto a suo padre, e lei aveva
passato tutta la sua infanzia a sfogliarlo e a fantasticare su quelle splendide dimore destinate in origine
ad ospitare la villeggiatura delle grandi famiglie veneziane. E di tutte, quella che l’aveva sempre
affascinata di più era proprio Villa Foscari. Forse per la struttura architettonica assolutamente unica,
forse per la leggenda che accompagnava il suo nome.
Realizzata verso la fine degli anni ’50 del XVI sec. per i fratelli Nicolò e Luigi Foscari, si diceva che
venisse chiamata La Malcontenta per via di una dama di quel casato costretta a vivere in solitudine lì,
in quel magnifico edificio lungo il Naviglio del Brenta, come pena per una condotta troppo
sconveniente per i tempi. Dalla sua infelicità quello splendido luogo avrebbe ereditato un nome
indelebile come un tatuaggio, a conferma del fatto che la privazione della libertà poteva causare un
dolore così grande da non poter essere cancellato neanche dalla più alta bellezza artistica o dal più
dolce dei paesaggi.
Annotò mentalmente un appuntamento con quel luogo, ora così vicino alla sua nuova temporanea
abitazione, cominciando a godersi il paesaggio e a pregustare quel soggiorno a tempo indeterminato in
terra semi-straniera.
Smontò alla fermata indicata da Teresa e solo in quel momento si rese conto che non aveva mai pensato
a come raggiungere l’abitazione della zia, una volta arrivata. Prese in mano il cellulare e sbuffando lo
riaccese. Quando era in viaggio tendeva a tenerlo spento, non le piaceva per principio l’idea che la sua
reperibilità dipendesse da quell’oggettino e non da lei.
Teresa rispose quasi subito, con una voce squillante e gioiosa che la spinse a controllare bene il nome
del destinatario della chiamata sullo schermo del telefonino. La vitalità della zia la spiazzava sempre.
Non era abituata a parlare spesso con lei, avevano sempre mantenuto fra di loro questa usanza di
scriversi lettere e ogni volta che Elizabeth la sentiva di persona aveva la disorientante impressione di
avere a che fare con una persona di almeno una decina di anni più giovane.
“Tesoro! Sei arrivata, finalmente… non sai che gioia! Mi scuserai se non sono venuta a prenderti, ma
sai come sono malandata… alla mia età…” A sentire pronunciare queste parole con una voce così
giovanile Elizabeth sollevò automaticamente un sopracciglio. “Comunque ho pregato un mio caro
amico di darti un passaggio fino a casa. Dovrebbe essere già lì! Non ti ha chiamato? Gli avevo dato il
tuo numero di cellulare…”
“Merda”
“Comunque mi ha detto che ti avrebbe aspettato nel bar lì di fronte… lo vedi? Quello con l’insegna
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O rosa, tu sei malata,/ il verme invisibile,/ che vola nella notte/ nella tempesta urlante/ ha scoperto il tuo letto/ di gioia cremisi:/ e il suo
oscuro segreto amore/ distrugge la tua vita
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rossa… a destra, lì accanto. Sì dai, aspetta… E’ tutto bianco e nero anche in vetrina, sono juventini…”
Elizabeth continuava a girare come una banderuola alle indicazioni della zia, cominciando a sentirsi un
po’ stupida, finché la fede calcistica dei titolari del locale non venne provvidenzialmente in suo aiuto.
“Grazie zia, trovato. Non vedo l’ora di abbracciarti!”
“Ma non mi chiamare zia, mi hai sempre chiamata Teresa!”
Era vero… l’aveva sempre chiamata per nome. Ma ora Elizabeth cominciava a sentirsi un po’ confusa.
Era lì, in un posto mai visto e di cui aveva sempre sentito parlare. A conversare con una donna che
conosceva meglio di chiunque altro ma di cui non era abituata alla voce e che finalmente avrebbe visto
di persona, dopo anni e anni di frequentissime lettere. La sorella di suo padre… chissà cosa avrebbe
visto in quel volto…
Cercando di non darsi troppo pensiero, si diresse verso il bar ed entrò. Al bancone alcune persone
sorseggiavano un caffè conversando, mentre altre erano sedute ai pochi tavolini bevendo e leggendo
quotidiani locali o – soprattutto – sportivi.
Ad uno di questi tavoli vide un uomo di circa settant’anni. Comodamente seduto con le gambe
accavallate, con il suo espresso davanti, leggeva tranquillamente una copia del Gazzettino come se
avesse davanti tutto il tempo del mondo.
Signore fu l’esatta parola che le venne in mente quando lo vide. Un paio di pantaloni grigi e una
camicia azzurra su una pelle ancora abbronzata nonostante l’estate stesse per finire. Era pronta a
scommettere di avere di fronte l’amico di Teresa.
Quasi come per telepatia, l’uomo le rispose abbassando il giornale e fissando su di lei il suo sguardo
sereno. Si alzò galante e in uno slancio di familiarità si accinse ad abbracciarla.
“Elisa! Sei tu Elisa, non è vero?” sicuro di una risposta positiva ancora prima di riceverla, la strinse
leggermente a sé, giusto il tempo di darle due baci sulle guance. “Ero sicuro che ti avrei riconosciuto
subito! Ho visto tante di quelle foto della piccola Elisa!”
Che tenerezza! Teresa l’aveva sempre chiamata Elisa… Forse perché era il nome della nonna. E forse
proprio per questo i suoi genitori le avevano dato nome Elizabeth.
“Buongiorno! Sì sono io… Mi perdoni, zia Teresa mi ha detto che le aveva dato il mio numero di
cellulare, ma avevo la batteria quasi scarica – mentì! – e ho preferito tenerlo spento il più possibile!”
“Ma no, non ti preoccupare! Non avevo provato neanche a chiamarti, il numero me l’ero fatto dare solo
in caso di emergenza. Da come Teresa mi ha sempre parlato di te, mi è sembrato inutile. Ero sicuro che
ci saremmo trovati senza alcun problema!”
Con quella sola frase quell’uomo aveva fatto un primo balzo avanti nella sua considerazione.
“Posso offrirti un caffè o come immagino sei impaziente di abbracciare Teresa?”
Alfredo era un ufficiale dei carabinieri in pensione. Nato a Roma aveva girato gran parte dell’Italia per
poi finire la sua carriera a Venezia. Innamorato della campagna veneta e avendo scelto come dimora
elettiva ormai da anni una vecchia casa lì sul Brenta, al momento di ritirarsi non aveva neanche pensato
di tornare indietro. Era rimasto lì, in quella terra adottiva. Non si era mai sposato e aveva deciso di
godersi in solitudine la sua vecchia casa, condividendo il suo tempo con gli amici conosciuti negli
ultimi quindici anni di carriera lì in Veneto. Amici come Teresa. E con Teresa, evidentemente, era
proprio di famiglia.
La macchina rallentò fino a fermarsi del tutto davanti ad un’alta casa rosso scuro di tre piani. L’edera
che ricopriva in gran parte i muri le dava un aspetto ancora più cupo di quanto non facesse il colore
dell’intonaco, e gli alti alberi che la separavano dal cancello lasciavano indovinare come l’edificio
attuale fosse il prodotto di un continuo realizzarsi dei più disparati desideri architettonici da
generazioni. Il risultato era un esemplare strutturalmente unico che lasciò Elizabeth lì, muta, in piedi
sul marciapiede.
Si avviò oltre il cancello aperto, mentre Alfredo rimaneva discretamente indietro, vicino alla macchina.
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Avvicinandosi cominciò ad intravedere meglio i particolari della casa. Le finestre, i vetri piombati ai
primi due piani, i grigi scalini in pietra che portavano alla porta d’ingresso. E lì in cima Teresa, che
quasi saltellava verso di lei.
L’unico segno di infortunio che avesse in sé era una caviglia ingessata ed un bastone che, a giudicare
dalle sue energie, pareva avere esclusivamente una funzione decorativa. Erano tutte lì le gravi lesioni
che l’avevano immobilizzata a letto nella sua solitaria abitazione?
“Elisa! Mia cara!” Le si avvicinò con incedere elegante, per nulla ostacolata dalla gamba rotta.
No, decisamente le poche foto che le aveva mandato non le rendevano giustizia. Invece di un’anziana
zia acciaccata, si trovò davanti una raffinata signora vestita con un bel tailleur di lino grigio, e con i
capelli neri striati di bianco raccolti dietro la nuca. Nonostante l’ennesimo stupore, Elizabeth sorrise e
le andò incontro abbracciandola. “Teresa ciao!”
Non si dissero altro. Rimasero avvinte in uno stretto abbraccio che esprimeva molto meglio delle parole
ciò che provavano tutte e due in quel momento.
Le venne in mente una frase di Shakespeare:
Il silenzio è l’araldo più perfetto della gioia2
Teresa asciugò di nascosto una lacrima, ridendo e stringendole la spalla con fare ben poco elegante, per
sdrammatizzare. In quel momento Elizabeth si accorse che, alla faccia di un’austera eleganza, sotto la
giacca Teresa indossava una camicia di un’eccentricità che si adattava al bizzarro aspetto della casa che
stava per accoglierla.
“Teresa, spiegami un po’, cosa ti sei fatta esattamente in quell’incidente?” domandò passandosi a sua
volta una mano sul viso, mentre si avviavano verso l’interno.
La zia arrossì fino alla cima dei capelli e sorrise furba. Il suo sguardo era sfuggente. “Mi ero resa conto
di aver un po’ esagerato in quella lettera. Ma sai… avevo tanta voglia di conoscerti di persona. E poi in
fin dei conti mi sono sempre rotta una gamba e slogata un polso. Non ti sembra sufficiente per la mia
veneranda età?”
“Teresa, se avessi io una gamba rotta, non penso proprio che starei bene come te” le rispose ridendo
mentre entravano.
“Vieni cara, c’è un aperitivo che ti aspetta, prima di pranzo. Ma per prima cosa ti accompagno in
camera tua, così posi le valigie e ti rinfreschi un po’.” E con l’aiuto del suo bastone la accompagnò al
piano superiore, nonostante le proteste della nipote che temeva di farla affaticare troppo.
Eizabeth non se l’immaginava davvero così grande, quella casa. Teresa non le aveva mai mandato
alcuna foto, le aveva sempre solo raccontato di quanto avevano amato quel posto lei e suo padre, dei
mille giochi che, come sorella maggiore, aveva inventato e delle storie di fantasmi che gli leggeva
quando andavano a dormire. Sì, lì decisamente certe favole si ambientavano alla perfezione.
Elizabeth non aveva mai avuto paura dei fantasmi. I racconti di quelle vite, sempre in qualche modo
sofferte, erano affascinanti. Dolci e struggenti in quel loro bisogno di giustizia che attraversava anni,
decenni o anche secoli. Forse tutti avrebbero dovuto sentire la responsabilità di rispondere a quel grido
d’aiuto e di rimettere a posto le cose, magari portando un po’ di ordine dove potevano nel presente, pur
non potendo agire sul passato.
La stanza che la zia le aveva preparato era bellissima e lei si sentì a suo agio come non si sentiva da
tanto tempo, neanche nella sua Londra. Le stanze che l’avevano accolta durante gli anni universitari
erano state delle comode dimore temporanee che lei si era divertita ad adattare a sé man mano che la
vita di quegli anni la portava a cambiare. La laurea l’aveva riportata a casa, da sua madre, ma lei era
ormai così diversa che ancora dopo mesi faceva fatica a riadattarsi e a capire come mai quel posto le
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Da Molto rumore per nulla
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stesse così stretto.
Lì sentiva che finalmente poteva rilassarsi, respirare e guardarsi attorno fra i mobili antichi della stanza
e lo spazio verde intervallato da alberi che si vedeva fuori dalle grandi finestre. Era ammaliata dalla
bellezza che la circondava.
La bellezza ferisce il cuore3
Era una frase di un film di Bertolucci che le fece subito venire in mente il testo di una canzone dei
Manic Street Preachers da lei tanto amata.
Beauty she poisons unfaithful all
Stifled, her touch is leprous and pale
The less she gives the more you need her4
“La bellezza ferisce il cuore, ma è solo la nostra sete di bellezza a ferirci. Vedere ciò che per noi è
bello ci fa male perché ci fa capire quanto ne abbiamo bisogno e ci fa sentire deboli”. A questo
pensava mentre, dopo essersi rinfrescata e cambiata d’abito, scendeva per raggiungere Teresa e Alfredo
per l’aperitivo.
Per trovarli si affidò al proprio istinto e trovò la zia seduta con l’amico di vecchia data in una grande
sala. In realtà era una stanza composta da due ambienti contigui che comunicavano attraverso una porta
a vetri che prendeva quasi tutta la parete divisoria. Metà dello spazio ospitava la biblioteca, anche se
praticamente era arredata come un salotto, mentre la parte opposta ospitava un divano e delle poltrone
bianchi intorno ad un tavolino di cristallo. Una parete di questa seconda stanza era adattata ad angolo
bar, con un moderno e fornitissimo banco affiancato da alti sgabelli con la seduta in pelle color
tabacco. Lì era stato preparato un aperitivo di benvenuto dove pareva non mancasse nulla. Dalla caraffa
di spritz alla bottiglia di prosecco in ghiaccio, a piatti di salatini e tartine praticamente sostitutivi di un
pranzo.
“Hai capito la zia…”
Alfredo era comodamente seduto in divano con in mano un bicchiere di vino e tutta la sua persona
esprimeva un forte senso di soddisfazione.
Teresa balzò in piedi sollevandosi sulla gamba sana e roteando il bastone quasi come una majorette.
“Elisa adesso siediti e rilassati! Ti preparo uno spritz o preferisci un prosecco? Ho anche del vino
fermo, se vuoi… magari ad analcolici non sono molto attrezzata…ma che stupida! Forse vorrai una
birra! Sei inglese dopo tutto…!” esplose entusiasta continuando inarrestabile ad aprire sportellini,
prendere bicchieri, scrutare l’interno del piccolo frigorifero posizionato sotto il bancone del bar.
Elizabeth si precipitò a tentare inutilmente di aiutarla, mentre la zia le intimava di andare a sedersi
usando il bastone quasi per minacciarla. Quella donna aveva un carico di energie sovrumano.
Rassegnata come una bambina si decise ad accomodarsi, dopo essersi espressa a favore di un bicchiere
di prosecco.
Prese posto sulla poltrona a fianco a quella di Alfredo, con il quale già si sentiva in qualche modo in
confidenza e prese a fargli qualche domanda sulla sua passata professione. Già dopo il loro breve
viaggio in macchina aveva capito che non gli dispiaceva affatto parlarne. Anzi sembrava ben contento
di rispolverare vecchie storie. Come se l’investigatore che era in lui non si fosse mai rassegnato alla
pensione e, in mancanza di nuovi casi, si accontentasse di coccolare i ricordi di quelli passati.
Teresa arrivò con il calice per la nipote trovandoli che conversavano scherzando e l’aperitivo continuò
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Da Stealing Beauty (Io ballo da sola)
La bellezza infida avvelena tutti gli infedeli/ soffocata, il suo tocco è lebbroso e debole/ meno lei si dona più si ha bisogno di lei
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così, con serenità.
Elizabeth sentì i propri nervi distendersi in quell’ambiente accogliente e così familiare. Ascoltò le
storie di Alfredo, raccontò un po’ di Londra e della sua vita in Inghilterra e continuò a fare domande su
questo o quel particolare della casa.
“Teresa, mi ha colpito molto il ritratto appeso nella mia camera. Di chi è? E’ bellissimo…”
Teresa si illuminò di entusiasmo. Si alzò per andare a prendere un vecchio volume nella stanza vicina e
tornò sfogliandolo. Trovata la pagina che riproduceva il quadro in questione, le porse il libro.
“Ti presento Elisa. Tua nonna” disse con gli occhi lucidi di soddisfazione e di eccitata commozione.
Era difficile che Teresa si lasciasse invadere languidamente dalle emozioni, in lei i sentimenti si
manifestavano come un torrente in piena, e in questo la nipote le somigliava.
“Elisa? E’ lei?”
“La stanza dove dormirai era quella di tua nonna. Il ritratto glielo fece fare nostro padre. Diceva che
nelle foto non risultava mai naturale. Voleva che venisse immortalata com’era in realtà tutti i giorni.
Così le portò questo pittore in biblioteca, mentre lei se ne stava tranquilla a leggere un libro. La
immobilizzò letteralmente. Me lo ricordo bene, anche se ero piccola, tuo padre doveva ancora nascere.”
Si sedette sulla poltrona di fronte a lei. “Tua nonna era così, aveva un carattere un po’ strano, se vuoi.
Completamente estranea al mondo esterno, sembrava che non le importasse niente di tutto ciò che stava
al di fuori di questa casa, ma al tempo stesso sapeva sempre tutto. Sapeva leggere negli occhi della
gente.”
Teresa guardava un punto non ben definito dello spazio, oltre la testa della nipote. Guardava ed
attingeva ad un mondo di ricordi che, stranamente, non suonava tanto estraneo ad Elizabeth.
“Viveva nel suo mondo riservato e nelle foto non veniva naturale perché d’istinto mostrava un volto
diverso. Non che avesse paura di farsi vedere com’era, semplicemente non riteneva che il suo modo di
essere riguardasse gli altri. Nel preciso istante in cui il pittore entrò in quella stanza, tuo nonno ebbe la
certezza che Elisa sarebbe stata immortalata esattamente com’era nella vita di tutti i giorni. Non le
diedero neanche il tempo di guardarsi allo specchio o di posare il libro. Solo così si riuscì a ritrarre la
nonna con i suoi antiquati abiti neri e con i gioielli d’argento che portava sempre.”
Concluse con la voce che andava diminuendo di volume man mano che il discorso si avvicinava alla
fine. L’ultima parola risultò quasi incomprensibile e il silenzio lasciò tutti e tre in muta contemplazione
della bella donna dai capelli neri.
Il ragazzo parcheggiò il suo fuoristrada nel cortile della grande casa isolata, cercando di sistemarla il
più possibile al riparo del sole di mezzogiorno. Entrò lanciando le chiavi sul mobile vicino alla porta.
La grande stanza d’ingresso al piano terra era immersa nella penombra. Le imposte erano chiuse e lui
non si scomodò neanche ad accendere la luce. Aprì soltanto una delle finestre e rimase lì in piedi,
accendendosi una sigaretta. Strinse quegli occhi chiari e taglienti per evitare il fumo o per lasciar fuori
il mondo.
Estrasse dalla tasca una foto un po’ sgualcita e piegata in due e si mise a guardare quel volto pallido e
magro, contornato da lisci capelli rossi e quegli occhi verde chiaro.
Per un attimo il suo sguardo freddo perse la propria impassibilità.
Rimase ad osservare quel ritratto per un po’, poi – finita la sigaretta – ripiegò la foto, la ripose in tasca
e chiuse nuovamente gli scuri della finestra.
“Bene, il pranzo è praticamente pronto!” esclamò Teresa tornando in salotto, dove aveva lasciato
Alfredo e la nipote a finire i loro aperitivi. “Ma di cosa stavate parlando?” domandò incuriosita
dall’espressione di Elizabeth.
“Le stavo raccontando del ragazzo che adesso abita nella vecchia casa di pietra grigia, proprio fuori dal
paese. E’ un tipo così strano. Sembra che non si compri neanche da mangiare! E’ qui da almeno un
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mese e i negozianti non sanno niente di lui.”
“Ma non mi sembra affatto strano!” tagliò corto Teresa “Sarà semplicemente una persona riservata. In
molti decidono di trasferirsi in questa zona sperando di trovare un po’ di solitudine e senza immaginarsi
di incontrare un carabiniere lungo il proprio cammino!” cercò di sdrammatizzare, prendendo
sottobraccio Elizabeth, quasi a volerla spingere verso la sala da pranzo.
Alla ragazza, invece, quel discorso cominciava ad interessare.
“Non ci credo” insistette l’amico “Non un ragazzo della sua età! Sarà poco più grande di tua nipote.
Sempre vestito di nero, pallido pallido con quei capelli neri e quell’aria da fantasma… e quegli occhi,
poi! Freddi come il ghiaccio! Sembra sempre scrutare tutto come se cercasse qualcosa o qualcuno…”
“Oh smettila Alfredo! Così spaventi Elisa!”
La ragazza trasalì e arrossì violentemente. Sembrava trattarsi del ragazzo che aveva incontrato a
Venezia. Ma cosa ci faceva lì? E perché lei stava tacendo il fatto di averlo conosciuto? All’improvviso
si sentì colpevole della propria omertà, ma nonostante questo, continuò a tenere per sé il fatto di averlo
probabilmente già visto.
“No no, non mi convince… scoprirò qualcosa sul suo conto! Ci vuole poco qui. Elisa, sei arrossita!”
concluse sospettoso Alfredo.
“Sarà il vino” asserì Teresa “Vai a lavarti le mani, tesoro!” aggiunse, come se fosse impaziente di
mettere fine a quel discorso.
Sua nipote accettò con gratitudine quel trattamento da bambina e si rifugiò al piano di sopra, sperando
che la zia fosse riuscita davvero a cambiare argomento. Non capiva perché, ma sentiva di dover
garantire una certa riservatezza a quel ragazzo. Sempre che si trattasse della stessa persona che l’aveva
aiutata alla stazione.
Elizabeth si svegliò di buon umore, con le prime luci del mattino. Si era addormentata guardando le
foto della Baviera e aveva sognato di nuovo quel bellissimo viaggio. Il cielo era così terso e l’aria così
limpida…indossò il primo vestito bianco che si trovò in mano.
Era la mattina del suo terzo giorno a casa della zia, e aveva deciso finalmente di chiedere in prestito la
macchina di Teresa e di andare a fare un primo giro nei dintorni, andare a guardare anche solo da fuori
tutte quelle ville che l’avevano fatta sognare da piccola. Immortalare con la macchina fotografica
quegli edifici, gli scorci di paesaggio che aveva intravisto arrivando in autobus.
Aveva bisogno di stare un po’ per conto suo, per riflettere e assimilare quei primi tre giorni con Teresa,
in quella casa dove aveva vissuto con tanta gioia suo padre e che era ancora così vivamente popolata
dallo spirito di quella bellissima donna di cui lei portava il nome.
Teresa era in biblioteca. Osservava il mondo esterno da dietro una finestra chiusa. In realtà stava
seguendo con lo sguardo un ragazzo alto e pallido con i capelli neri che stava passando in quel
momento lanciando uno sguardo alla casa. Era così concentrata su di lui che si accorse della presenza
della nipote solo quando questa la salutò.
“Buon giorno!” la zia quasi trasalì. Si voltò a guardarla con un sorriso, per poi girarsi rapidamente
un’ultima volta a guardare la strada. Il ragazzo non c’era più. Elizabeth la guardava senza capire e la
zia le si avvicinò e la baciò su una guancia per rassicurarla. Poi si sedette accanto a lei, davanti al
tavolo della prima colazione.
Lo sguardo di Teresa continuava ad essere un po’ assente, si incupì solo un poco quando Elizabeth le
chiese di poter guidare la macchina. In quel momento la ragazza ebbe l’impressione che la
preoccupazione che le sembrava di aver letto sul suo volto poco prima non fosse solo frutto della sua
fantasia, ma che anzi si fosse accentuata alla sua richiesta.
“Non sei abituata alla guida italiana…” balbettò Teresa, con fare quasi colpevole, come a voler
motivare a tutti i costi la propria reazione.
“Starò attenta, vorrei solo cominciare ad orientarmi e fare qualche foto” si giustificò Elizabeth
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inutilmente. La zia si era già alzata per andare a prendere le chiavi dell’auto, un po’ sovrappensiero.
“Non sono sicura che tu sia pronta…” la sentì parlare dall’altra stanza.
Finita la colazione Elizabeth prese le chiavi e la macchina fotografica, rassicurò Teresa con un bacio e
si avviò verso il garage, felice, nonostante tutto, di avere un po’ di spazio tutto per sé.
Dalla finestra della biblioteca Teresa guardò l’automobile che si allontanava. E ripeteva sottovoce
“Non sono sicura che tu sia pronta…”
Guidare era in assoluto la cosa che la faceva sentire più libera e amava le macchine piccole come
quella. Spalancò completamente il finestrino in quella bellissima giornata di sole, lasciando entrare gli
odori del verde e dell’acqua, con la luce che filtrava attraverso le foglie ad intermittenza.
Per prima cosa aveva deciso di andare a Stra. Da lì si sarebbe mossa lungo la strada verso Mira e infine
a Malcontenta. Aveva studiato un po’ la strada su una cartina quella stessa mattina, per il resto si
sarebbe affidata ai cartelli stradali e alle indicazioni della gente. Alla fine aveva tutto il tempo che
voleva, e anche se non fosse riuscita a vedere Villa Foscari quel giorno non sarebbe stata una tragedia.
Si sentiva elettrizzata, senza vincoli.
Persa nei suoi pensieri, stava impegnando un incrocio quando fu colpita dal suono prolungato di un
clacson alle sue spalle. Istintivamente inchiodò mentre una macchina le sfrecciava davanti. Aveva
sbagliato a calcolare la precedenza…
Rabbrividì cercando di non pensare alle potenziali conseguenze di quella disattenzione. Rapida, si
sporse dal finestrino rivolgendo un gesto di gratitudine al fuoristrada dietro di lei. Il sole rifletteva su
parabrezza della macchina ed Elizabeth non riuscì a vederne il conducente che semplicemente sporse
una mano fuori come risposta.
Si rifugiò nei piccoli automatismi di ogni buon guidatore. Si assicurò che la freccia fosse inserita, come
anche la marcia, e scrutò nello specchietto retrovisore. La jeep aspettò con insolita pazienza che lei
riprendesse la sua strada. Ultimamente le sembrava quasi di avere un angelo custode.
Non ci mise molto a riacquistare la calma. L’aria era fresca e le strade tranquille, e in brevissimo tempo
si ritrovò davanti all’ingresso di Villa Pisani, a Stra.
Smontò dall’auto con la macchina fotografica senza neanche chiudere la portiera. Era senza fiato.
L’edificio era a dir poco maestoso e a giudicare da quello che aveva letto sul giardino, dove si trovava
anche un famoso labirinto, capì subito che per lei non era il momento giusto di fermarsi a visitare quel
luogo.
Scattò qualche fotografia. Per quel giorno sentiva il bisogno di essere in movimento, di esplorare senza
fermare troppo a lungo lo sguardo su qualcosa.
Ripartì e si diresse lungo la Riviera, con il vento che le portava il sole sul viso, procedendo lentamente,
senza fretta.
Arrivò a Mira e scese dalla macchina all’altezza di Villa Widmann Rezzonico Foscari, per dedicarle
non più del tempo che aveva dedicato a Villa Pisani, poi proseguì verso Malcontenta.
Accidenti a lei si era persa. Spinta dalla voglia improvvisa di vedere e cominciare a conoscere
veramente la zona, aveva deciso di lasciare la via principale e di esplorare le strade più interne. La sua
solita mania di cambiare direzione, non seguire mai la strada maestra.
Voleva fermarsi a bere un caffè, fumare una sigaretta. Scattare qualche fotografia.
Invece, a forza di girare a destra, a sinistra, di nuovo a destra, poi a sinistra e ancora a sinistra e poi a
destra, capì ben presto di essersi persa o di essere prossima al farlo. Cercò di riportare alla mente quale
fosse il segreto per uscire dai labirinti ma non riuscì a ricordarlo.
L’unica soluzione era chiedere informazioni.
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Continuava a girare e girare, quasi appesa al volante, incrociando poche macchine, motorini, donne e
uomini con sacchetti della spesa, finché non si trovò davanti ad un cancello aperto. E lì istintivamente
si fermò.
Parcheggiò e, animata da una strana fiducia, entrò nel giardino oltre il cancello, attratta forse dai fiori e
dal profumo.
Camminava curiosa in mezzo alle piante sperando di incontrare qualcuno, quando, un po’ distratta dai
colori che la circondavano, si trovò stupita davanti ad una specie di container. Era aperto e dal suo
interno la osservava una splendida donna olio su tela. E lì al suo fianco l’uomo che le aveva dato il
volto.
Nonostante la decisione di non fermarsi troppo a lungo in nessun posto per quel giorno, Elizabeth non
riusciva a staccare gli occhi da quel quadro.
La dama che aveva dato nome a Malcontenta la guardava dalla tela. I capelli rossi raccolti dietro la
nuca ed il lungo e semplice abito bianco di cui sollevava leggermente l’orlo mentre a piedi nudi
camminava in mezzo ai fiori e alle piante che crescono lungo il fiume. Si dirigeva verso la villa, in
lontananza, volgendo leggermente il capo verso Elizabeth, visitatrice indiscreta, che era entrata inattesa
nel suo giardino.
In qualche modo quella donna sembrava aver trovato un proprio spazio. La lunga veste era lontana
dagli abiti sontuosi che doveva aver indossato nella sua precedente vita e con la falce che teneva in
mano di sicuro era andata cercando e raccogliendo erbe per chissà quale pozione.
Istintivamente ripensò al ritratto appeso in camera sua. Quei due volti non potevano essere più diversi,
eppure avevano un qualcosa in comune che in quel momento non riusciva a decifrare. Forse la forza del
loro sguardo.
Lo strano vestito nero della nonna contrastava con la semplice tunica chiara della donna che lei ora
stava ammirando. Elisa, poi, era stata ritratta all’interno di quella casa che era praticamente il suo
regno, mentre la dama dai capelli rossi camminava all’esterno della sontuosa villa che era la sua
prigione. Solo che sembrava aver trovato anche lei un regno in quel giardino. Uno stesso sguardo…
Forse era questo che colpiva Elizabeth. Quella donna aveva capelli rossi come i suoi, indossava una
veste bianca come lei e la guardava con gli stessi occhi di Elisa.
Era arrivato il momento di salutare il pittore. Un po’ stordita dalle sensazioni in cui si era imbattuta, si
allontanò dall’immagine della carismatica abitante di quel luogo.
Mentre riportava la macchina verso il fiume, fantasticava immaginandola come un antico nume
tutelare. Un po’ adorato e un po’ temuto. Imprigionato in quel ricordo. In quella storia. Senza nessuno a
liberarlo.
Dopo aver perso il proprio sguardo in quegli occhi così stranamente familiari, non poteva tornare a casa
senza aver camminato lungo il fiume dove la dama in bianco aveva mosso forse i suoi unici passi liberi
in tanto tempo.
Arrivò alla Malcontenta in un attimo, grazie alle indicazioni appena ricevute o per via dell’impazienza
che ormai l’animava.
Parcheggiò la piccola automobile, ma non si diresse verso la villa. Non le interessava più visitare
l’edificio, ma respirare l’odore dell’erba e del fiume. Tentare di tornare indietro nel tempo anche solo
per un poco.
Cercare le piccole impronte dell’antica padrona di casa, sperando di trovare il proprio sentiero.
Era per questo che era partita per l’Italia? Per perdersi lungo un fiume allo scopo di ritrovare se stessa e
la propria storia? Se era così, forse non era lì che doveva cercare. Non davanti al ritratto di una donna
dai capelli rossi ma al cospetto della dama dai capelli neri che la stava aspettando a casa.
Eppure, mentre camminava lungo l’acqua, un piede davanti all’altro, sentiva che quello era il posto
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giusto e il momento giusto. Sentiva che da quando era arrivata tutto era andato come doveva andare e
con fatalismo andò incontro a qualsiasi fossero le scoperte che doveva fare. Passo dopo passo. Lungo il
fiume, vicino all’acqua, sempre più vicino.
Fu un attimo, una vertigine. Forse le sembrò di vedere la dama in bianco e in un capogiro pensò che
finalmente poteva liberare quel fantasma, senza invece rendersi conto che stava solo scivolando e che
stava cadendo nelle acque del Brenta.
La presa fu forte, come deve essere quella delle radici di un albero e l’unica cosa che vide, prima
ancora di sentire quel violento abbraccio, furono gli occhi gelidi del suo angelo custode.
In un istante fu travolta anche dall’abbraccio del panico, spezzettato in mille immagini: l’acqua sempre
più vicina, il volto di sua nonna che si sommava a quello di Teresa, l’ondeggiare della veste bianca di
uno spirito – o forse era la sua? – e quello sguardo d’acciaio che l’aveva quasi perseguitata per giorni
con la sua costante presenza e con una strana promessa. Come una porta socchiusa su un mondo che
l’attirava e la spaventava.
Il ragazzo fece non poca fatica a tenerla ferma, per evitare che la forza di quello spavento spingesse nel
fiume tutti e due. Elizabeth sembrava avere più paura di lui che dell’acqua.
Costretta ad una distanza ravvicinata con quello sguardo capì che vi vedeva quello che aveva cercato e
che aveva temuto di trovare nello sguardo di Teresa. Lo sguardo di suo padre. Era questa la promessa.
Era questo il mondo che le offriva.
Alvise non aveva intenzione di lasciarla scivolare via. L’aveva cercata per tutta la vita. Almeno fin da
quando era venuto a sapere della sua esistenza. Quella sorella più piccola così lontana che lui sentiva
così vicina.
Doveva essere vicina, per forza. Figli di un padre che lui non aveva mai conosciuto e che non lo aveva
mai conosciuto, lo stesso padre che Elizabeth aveva perso così presto. Solo negli occhi l’uno dell’altra
avrebbero potuto trovare i pezzi mancanti della loro vita.
Seduti al tavolino di un bar, lei aveva dei fiori impigliati all’orlo del suo abito. Guardava il fiume,
beveva un bicchiere di vino stringendo in mano una spiegazzata fotografia che la ritraeva in un passato
molto prossimo.
Alvise aveva ricevuto quell’immagine da Teresa, come molte altre, prima di quella, in un costante
aggiornamento sulla vita di Elizabeth. Metà delle foto che lei mandava alla zia dall’Inghilterra erano
passate alle mani del ragazzo che ora le sedeva di fronte.
Lei spostava il suo sguardo dalla foto al fiume, senza preoccuparsi se ogni tanto scendeva una lacrima.
Lui raccontava, e stavolta gli occhi d’acciaio non riuscivano ad immobilizzare la commozione.
Raccontava della sua infanzia.
Di come sua madre lo aveva allevato descrivendogli suo padre nei minimi dettagli, omettendo solo il
nome.
Di come presto aveva capito che le visite regolari di Teresa non erano solo le visite di una vecchia
amica.
Della propria ossessione per l’unica cosa che la madre aveva sempre omesso nei suoi racconti: un
nome.
Raccontò di come un giorno, ormai adulto, ormai solo, Teresa aveva bussato alla sua porta con una
scatola piena di fotografie ed una lunga storia per lui.
Elizabeth guardava la propria immagine sulla carta e non si riconosceva più. Tutta la sua vita stava
cambiando colore, sapore e odore. Aveva gli occhi annebbiati e i suoni giungevano ovattati alle
orecchie. Eppure non era confusa. Ora sentiva ancora più definita la sensazione di essere al posto giusto
e al momento giusto.
“Avevo ragione. Qui, lungo il fiume, vicino all’acqua.”
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Strinse le mani di suo fratello. Avevano un passato da ricostruire, un presente da reinterpretare e un
futuro da ridisegnare.
C’era ancora molto da fare.
Intanto lì, in quel luogo e insieme, stavano liberando il loro fantasma.
Teresa li accolse in cima ai gradini in pietra grigia, davanti alla porta di casa spalancata. Li stava
aspettando. Abbracciò i suoi nipoti. Baciò la fronte di Elizabeth.
“Solo non ero sicura che tu fossi pronta…”
C’era ancora molto da fare…
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