pp. 1÷8 - Cantook.net

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pp. 1÷8 - Cantook.net
FP3
Percorsi didattici di attività motorie
per soggetti diversamente abili
Collana
Intelligenze in campo diretta da Maurizio Sibilio
a cura di Maurizio Sibilio
ellissi
Gruppodella
Editoriale
Esselibri - Simone
Estratto
pubblicazione
®
ellissi
Gruppo Editoriale Esselibri - Simone
Estratto della pubblicazione
A tutti coloro che dedicano i propri studi e profondono il proprio impegno
per affermare e difendere i diritti delle persone.
Estratto della pubblicazione
a cura Maurizio Sibilio
le abilità
diverse
Percorsi didattici di attività motorie
per soggetti diversamente abili
®
ellissi
Gruppo Editoriale Esselibri - Simone
Estratto della pubblicazione
Copyright © 2003 Esselibri S.p.A. - Via F. Russo, 33/D - 80123 Napoli
Serie
ellissi
- Febbraio 2003
Copertina: Giuseppe Ragno
Coordinamento e revisione del testo di Pietro Mango
Il catalogo è consultabile al sito Internet: www.ellissi.it
Stampa: OFFICINA GRAFICA IRIDE
Via P.le Arzano-Casandrino, VII Traversa, 24 - Arzano (NA)
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©
ellissi
è un marchio della ESSELIBRI S.p.A.
Estratto della pubblicazione
Presentazione
Se è vero che le questioni che si riferiscono alle difficoltà di apprendimento,
in generale, e dell’handicap, in particolare, rappresentano ancora oggi una
emergenza pedagogica, a fortiori, nell’ottica specifica di una pedagogia di
marca sociale (tanto che lo stesso termine di handicap conserva la propria
significatività inclusiva della dimensione, appunto, sociale, a differenza della definizione di deficit), è anche vero che, sul piano della riflessione teorica
e della ricerca scientifica nell’ambito delle scienze dell’educazione, sono
stati fatti importanti passi avanti nella prospettiva della costruzione di contesti comunitari e formativi al cui interno siano effettivamente rispettati i valori delle pari opportunità e dell’integrazione delle differenze.
Infatti, gli attuali sviluppi teorico-scientifici modificano sostanzialmente
l’approccio euristico e interpretativo relativo al «pianeta handicap» e tale
«rivoluzione» si manifesta anche nella codificazione di un nuovo lessico,
coerente con i nuovi costrutti scientifici, portatore, d’altra parte, di nuovi
significati e sensi da mettere in comune nei contesti sociali di vita quotidiana e di formazione.
Ecco, quindi, che, all’interno — ovviamente — di un quadro molto più
ampio e complesso di modificazioni culturali ed epistemologiche, insieme
alle ricerche di J. Bruner sulle differenze cognitive, di H. Gardner sulle
intelligenze multiple, di R. J. Stenberg sugli stili cognitivi, di S. B. Cohen
sulla differenza di sistematizzazione individuale delle informazioni che pervengono al cervello umano, ecc., nascano espressioni come diverso stile
cognitivo, coniato da F. Happé, in sostituzione di deficit cognitivo, oppure,
la definizione di soggetto diversamente abile, fatto proprio dalla stessa
attuale normativa italiana, in materia di handicap, in sostituzione di termini come disabile, handicappato, e di definizioni quali portatore di handicap o soggetto in situazione di handicap.
Si comprende come tale inversione di tendenza rappresenti, effettivamente,
una fondamentale virata culturale, oltre che scientifica, foriera di sviluppi in
relazione alle modificazioni degli schemi mentali e comportamentali dei
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Presentazione
soggetti, individualmente e collettivamente intesi, nonché, nella prospettiva
dell’attuazione di sempre più adeguate politiche generali e specifiche.
La portata di tali fenomeni trasformativi, sul piano scientifico, sociale,
culturale, non sarebbe, tuttavia, comprensibile fino in fondo, se non si inquadrasse l’insieme dei problemi all’interno di una nuova cultura dell’integrazione tra mente e corpo nel soggetto umano, che è inteso, così, come
unità psicofisica. Se la tradizione culturale e filosofica occidentale ha separato, irriducibilmente, la mente o, meglio, l’ anima dal corpo, essendo
sostanzialmente separati, in prima e ultima istanza, lo spirito dalla materia, la ragione dall’inanimato, e, quindi, l’intelligere dal mero sentire, oggi,
invece, si è portati a considerare la mente nella propria «corposità» e il
corpo nella propria dimensione «intelligente».
Ebbene, la descrizione e l’uso di questi contesti culturali e scientifici, coniugati e declinati insieme all’interpretazione delle differenze soggettive come
risorsa e come valore aggiunto dei contesti di vita e di formazione, fanno da
sfondo e da cornice al testo di Maurizio Sibilio, esperto di problemi di educazione alla motricità e alla corporeità, il quale, partendo dalle teorie di H.
Gardner, analizza e approfondisce i temi delle possibilità di sviluppo e di
utilizzazione delle capacità corporee nei meccanismi e nei processi di apprendimento, mettendo in primo piano i soggetti diversamente abili.
Protagonista del testo è, quindi, il corpo, con le sue potenzialità di conoscenza e di apprendimento.
Il corpo e il movimento risultano, infatti, le dimensioni chiave di accesso
alle questioni che riguardano i processi di sviluppo dell’autonomia di soggetti diversamente abili, nei contesti scolastici e, quindi, nelle relazioni
didattiche e formative.
Maurizio Sibilio premette all’analisi sincronica un excursus storico sulle leggi
e sulle riforme realizzate in Europa e, in particolare, in Italia negli ultimi
secoli, analisi che offre al lettore e, in particolare, allo studente la possibilità
di inquadrare cronologicamente — ma anche di connettere, culturalmente e
logicamente — i temi che vengono affrontati successivamente.
Allo stesso fine di orientamento del lettore, l’autore riporta le definizioni
di disabilità proposte dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.);
questa parte del testo costituisce un utile glossario dei termini ricorrenti in
materia di handicap e descrive le implicazioni motorie delle diverse patologie debilitanti.
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Presentazione
Estratto della pubblicazione
Procede, poi, con una terza parte del testo nella quale si affrontano le questioni relative ai rapporti tra differenze cognitive e diversità di intervento e di
innesco della motricità nei processi di apprendimento. In essi, le attività e la
dimensione motoria, in generale, vengono implicate, di volta in volta, in
situazioni differenti e specifiche, sia con funzioni vicarianti della dimensione precipuamente cognitiva deficitaria, sia come veri e propri dispositivi di
integrazione, ovvero, come agenti di interconnessione della dimensione corporea e di quella psichica, nei processi e nei fenomeni cognitivi.
A questo livello dell’analisi, seguono, nel testo, tre parti articolate su un
piano prevalentemente prassico.
Maurizio Sibilio introduce, a questo punto, una serie di indicazioni operative, di sicura utilità, in particolare, per i docenti, le quali si intrecciano con la
descrizione del nuovo profilo di professionalità del docente di sostegno. Il
docente di sostegno per la formazione dell’attualità, è visto, così, quale risorsa professionale territoriale specializzata, il cui campo d’azione formativa è rappresentato dalla rete territoriale e non già dallo spazio chiuso e isolato della relazione diadica con il singolo allievo diversamente abile.
Altrettanto efficace, per la fruizione del testo, risultano sia la ricognizione
della normativa attuale di riferimento in materia di handicap, sia l’esemplificazione di una modellistica relativa ai possibili itinerari didattici, presentati in linea verticale (dalla scuola dell’infanzia alla secondaria superiore), centrati sul corpo come «ambiente di apprendimento».
Questi, a grandi linee, i temi e la struttura del lavoro di Maurizio Sibilio,
che costituisce una valida guida didattica, un interessante strumento di studio su argomenti di forte pregnanza pedagogica, nonché, un contributo,
corposo e intelligente, al dibattito attuale sulla formazione e sulla riforma
della scuola italiana.
Tali motivi conferiscono al testo un valore intrinseco, per il quale vale la
pena leggerlo, in ogni caso, e un valore d’uso, per il quale esso è agevolmente fruibile nei contesti della scuola dell’autonomia.
Vincenzo Sarracino *
* Ordinario di Pedagogia generale presso la Facoltà di Psicologia della Seconda Università degli Studi di Napoli.
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Presentazione
Estratto della pubblicazione
Prefazione
Questo nuovo saggio di Maurizio Sibilio colloca le attività motorie nella
prospettiva dei rapporti fra pedagogia e neuroscienze, in particolare procedendo ad un’indagine sui meccanismi neurofisiologici e neuropsicologici
che controllano il movimento e l’educazione del corpo e li collegano ai
processi di apprendimento.
Si tratta in buona sostanza di un’approfondita riflessione di come la mente
ed il corpo esercitino reciproci influssi e di come, sia dal punto di vista
filosofico che pedagogico, si sia per lungo tempo dato al corpo un ruolo di
mero strumento di espressione dell’«anima», giustificando quindi l’indipendenza dell’educazione dello spirito da quella del corpo. Il superamento,
in tempi recenti, di tale concetto di separatezza ha naturalmente comportato la necessità di definire le basi biologiche ed epistemologiche
dell’interazione fra il corpo e la mente, spingendo di volta in volta ad attribuire valore esclusivo al portato dell’esperienza o, all’estremo opposto, a
considerare la completa prevalenza dei fattori costituzionali dell’essere
umano su quelli derivanti dall’ambiente.
Sulla base del presupposto di dover invece conciliare queste due posizioni
estreme e cioè di dover trovare gli strumenti per valutare gli equilibri che si
stabiliscono fra le basi genetiche delle capacità di apprendimento e l’effetto dei fattori ambientali, si è tenuto a partire dal 1997 presso l’Istituto Internazionale di Genetica e Biofisica (attualmente denominato Istituto di
Genetica e Biofisica «A. Buzzati Traverso») un percorso di studi
multidisciplinari sulle «Metodologie ed approcci per lo studio di substrati
genetici di attività psicomotorie», descritte dallo stesso Autore in un precedente saggio. Tale approccio multidisciplinare è stato volto prevalentemente alla ricerca di un linguaggio comune fra esperti di discipline dotate
a loro volta di lessico e metodologie epistemologiche molto differenziate
ed ha portato ad un superamento, di certo parziale, ma di promettente sviluppo, delle difficoltà di comunicazione che esistono fra i diversi settori e
ne limitano le possibilità di confluenza e la reciproca fecondazione.
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Prefazione
Le fasi di apprendimento e le prestazioni motorie ad esse connesse sono,
come è ben evidente, soggette a differenze individuali di notevole entità e
dipendenti dalle capacità di focalizzare l’attenzione, di elaborare le informazioni, di formulare la decisione e di sostenere il controllo motorio. Questi processi dimostrano variabilità entro ambiti molto estesi, rendendo di
difficile definizione la «normalità» e, di conseguenza, le situazioni patologiche. Le condizioni che determinano l’instabilità motoria possono dunque essere molteplici ed essere condivise da sindromi di diversa origine
comportanti iperattività, impulsività, deficit di attenzione, etc. L’ambiguità di talune definizioni è ulteriormente aggravata dalla loro descrizione in
termini qualitativi o semi-quantitativi che risentono fortemente della soggettività dell’osservatore, diventando di ridotta generalizzabilità per quanto riguarda l’identificazione oggettiva delle patologie sottese. Per contro,
il metodo della ricerca genetica richiede lo studio della trasmissione di
tratti (fenotipi) quantitativi in seno a famiglie di individui affetti o a popolazioni geneticamente correlate. La capacità di identificare lo stesso fenotipo
in diversi individui, indipendentemente dall’osservatore e di valutarne l’intensità di espressione è perciò cruciale per il genetista. Per contro la misurazione quantitativa e la diagnosi non soggettiva sono difficili da ottennersi
nel campo delle patologie psicomotorie. In effetti, anche grazie all’esplosivo progresso della genetica, le metodologie per lo studio dell’ereditarietà
sarebbero in larga misura disponibili anche per lo studio di tratti particolarmente complessi come quelli relativi ai disturbi dell’apprendimento ed
all’instabilità motoria ove fosse possibile sviluppare protocolli affidabili
per la valutazione quantitativa dei comportamenti umani che ne costituiscono il fenotipo, per il monitoraggio dei loro meccanismi di trasmissione
e per la loro associazione a specifici loci del genoma umano.
È interessante notare come, successivamente all’esperienza svoltasi presso l’Istituto Internazionale di Genetica e Biofisica, si sia assistito ad alcuni
significativi progressi nell’analisi genetica di disordini quali l’ADHD
(attention deficit/hyperactivity disorder), il disordine autistico (AutD) e
l’RD (reading disability). Tali studi hanno innanzitutto rafforzato, ed in
alcuni casi provato, l’esistenza di una componente genetica
nell’eziopatogenesi di questi disordini ed hanno fornito indicazioni sui loci
probabilmente coinvolti. Studi molecolari su coppie di fratelli affetti da
ADHD, un disordine ereditario molto frequente e che si esprime precoce-
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Prefazione
Estratto della pubblicazione
mente nell’infanzia, indicano il possibile coinvolgimento di più regioni
cromosomiche appartenenti ai cromosomi 2 e 16. Altri studi genetici indicano che il cromosoma 7 possa contenere un locus per la suscettibilità
all’autismo detto AUTS1, anche se l’analisi non ha permesso di identificare il gene o i geni responsabili di tale suscettibilità. Dopo il riconoscimento
dell’autismo come disordine dello sviluppo neurologico, nel 1943, le ipotesi sulla sua eziologia hanno spaziato da quelle puramente biologiche a
quelle psicologiche, fino a che lo studio di coppie di gemelli negli anni
1970 e 1980 non ha permesso di stabilire l’esistenza di una componente
genetica complessa, probabilmente risalente all’effetto di numerosi geni
presenti su più cromosomi, fra cui il cromosoma 7 citato, il cromosoma X
ed altri. L’eterogeneità del disordine autistico ne complica ovviamente l’analisi.
La frequenza di comorbidità, cioè della coincidenza di diversi disordini
psichiatrici nello stesso paziente, costituisce un’ulteriore difficoltà per il
genetista. I meccanismi eziopatologici di tale fenomeno sono per il momento sconosciuti, anche se è ipotizzabile una comune base ereditaria di
più disordini di questo genere. Ad esempio, l’analisi di linkage genetico
suggerisce l’esistenza di un locus del cromosoma 6 che conferirebbe suscettibilità per l’ADHD ed al tempo stesso eserciterebbe effetti pleiotropici
sull’RD. Sembrerebbe molto probabile da queste risultanze che in questi
casi sono coinvolti tratti genetici complessi a cui partecipano più geni strutturali e, forse, geni regolatori, con diversa penetranza ed in grado di modificare significativamente il fenotipo in individui diversi.
La genetica, avendo ampiamente esplorato le malattie genetiche
monofattoriali (cioè che si possono far risalire all’effetto di un unico gene) si
sta oggi orientando verso l’analisi di tratti complessi quantitativi, sviluppando le opportune metodologie. Pertanto la possibilità di decifrare le componenti ereditarie dei disordini del comportamento, dell’apprendimento e delle
capacità motorie gode di ottime prospettive. È bene sottolineare però che
l’esistenza di fattori costituzionali (genetici) non implica affatto il loro dominio sull’espressione delle capacità motorie e di apprendimento. Basta osservare che molti dei loci genetici che si suppone contribuiscano ai fenotipi
in questione sono definiti come loci di suscettibilità, intendendo che la presenza di determinate mutazioni in tali loci non conducono necessariamente
all’insorgere di una determinata sindrome, ma ne possono costituire un fat-
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Prefazione
Estratto della pubblicazione
tore predisponente. D’altra parte, la completa descrizione della sequenza del
genoma umano e di quella di altre specie, al di là della messe stupefacente di
informazioni che sta fornendo sulla conoscenza dei meccanismi biologici
più disparati e sulla struttura dei geni, non ha (ancora) consentito di decifrare
l’essenza di ciò che rende una specie animale quale l’uomo diversa dal punto
di vista dell’intelligenza e del comportamento da altre specie animali, siano
esse molto vicine evolutivamente all’uomo, come le scimmie, che più distanti. Per quanto la sequenza completa di un genoma di primati non-umani
non sia ancora disponibile, le conoscenze attuali indicano tuttavia che le
differenze fra il patrimonio genetico umano e quello delle scimmie siano
minime per quanto riguarda la porzione relativa alla codifica delle proteine e
quindi non tali da giustificare l’enorme differenza che separa le specie. E
dunque se tale differenza non è scritta nel genoma, essa può solo risiedere
nell’esistenza di diversi livelli di controllo dell’espressione genica e
nell’interazione fra questi e gli stimoli ambientali.
Partendo dalle considerazioni sopra riportate ed approfondendo i temi inizialmente sviluppati nel corso dell’attività di studio multidisciplinare presso
l’Istituto Internazionale di Genetica e Biofisica, l’Autore del saggio che
viene qui presentato ha perseverato nella ricerca di un linguaggio comune
fra le discipline che devono contribuire alla definizione dei meccanismi
eziopatologici dei disturbi dell’apprendimento e della motricità ed al tentativo di collegare le basi genetiche di tali disordini all’espressione fenotipica
così come determinata da fattori ambientali e culturali. Dal 1999, Egli,
come incaricato di ricerca presso l’Istituto, ha sviluppato lo studio
dell’«Educazione motoria come strumento di apprendimento nella scuola», investigando le relazioni intercorrenti fra la corporeità e l’intelligenza,
fra le capacità di apprendimento e le doti costituzionali degli individui.
L’approccio privilegiato di queste ricerche è stato di tipo sperimentale
mediante lo sviluppo di attività di laboratorio motorio che, attraverso l’osservazione ripetuta e standardizzata, può condurre alle scale quantitative
che costituiscono a loro volta le basi necessarie per procedere allo studio
della genetica di questi processi.
John Guardiola*
* Dirigente di Ricerca, C.N.R.
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Prefazione
Introduzione
Per introdurre questo testo sulle diverse abilità umane, è utile ricordare gli
studi di Howard Gardner che aprono una prospettiva interessante sulla pluralità delle capacità umane, dove si scoprono potenzialità inesplorate e
capacità che si esprimono diversamente «…questi stessi studi implicano
un’organizzazione neurale che pare conciliarsi con la nozione di modi diversi di elaborazione dell’informazione. Almeno nei campi della psicologia e della neurobiologia, lo Zeitgeist (spirito del tempo) appare preparato
all’identificazione di varie competenze intellettuali umane… Diventa perciò necessario dire — e dirlo una volta per tutte — che non c’è, non potrà
mai esserci, un elenco singolo inconfutabile e universalmente accettato
delle intelligenze umane…» (1).
L’integrazione scolastica degli alunni diversamente abili, a più di venti
anni dall’entrata in vigore dalla legge n. 517, si impatta spesso e quotidianamente con una rigida cultura dell’apprendimento umano, visto come
meccanismo ripetitivo prodotto da pratiche didattiche non sempre adeguate ai bisogni degli alunni.
La novità introdotta dalla legge è stata quella di considerare l’apprendimento come meccanismo soggettivo e l’alunno come espressione di una
diversità che può essere risorsa, se compresa e valorizzata.
Anche la terminologia di questo ventennio, si è evoluta in direzione di una
visione rinnovata delle differenze umane che non sono espressione di una
«minore capacità» della persona, ma ne rappresentano una «potenzialità
che si può manifestare in forme diverse».
L’intelligenza umana, infatti, non è una capacità esprimibile in una sola
area della persona, in quanto «...una competenza intellettuale umana
deve comportare un insieme di abilità di soluzione di problemi, consentendo all’individuo di risolvere genuini problemi o difficoltà in cui si
sia imbattuto e, nel caso, di creare un prodotto efficace; inoltre deve com(1) GARDNER, Formae mentis, Feltrinelli, Milano, 2000, p. 79.
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Introduzione
portare la capacità di trovare o creare problemi, preparando in tal modo
il terreno all’acquisizione di nuova conoscenza…» (2).
La persona che la società definiva «minorata» era, rispetto agli altri, minore e le era negato il diritto alla sua diversità, oggi la stessa persona è chiamata diversamente abile, riconoscendole forme abilitative differenti, ma
non per questo meno efficaci.
Questa profonda ridefinizione, prima culturale e poi terminologica, rilancia
il valore della soggettività della persona come sede dell’interazione delle
capacità umane, come luogo spesso inespresso delle varie potenzialità, come
dimensione individuale del pensare, del fare e dell’agire.
La teoria sulla pluralità delle intelligenze umane ha ampiamente dimostrato il
valore inespresso di alcune intelligenze, definendone le caratteristiche, «...I requisiti preliminari sono un modo per assicurare che un’intelligenza umana
sia veramente utile e importante, almeno in certi contesti culturali…» (3).
Da qui quindi si deduce che la persona dispone di molteplici motori intelligenti che si esprimono in abilità diverse, ognuna delle quali entra in gioco quando il contesto e la situazione problematica lo richiedono.
Il contesto sociale ha quindi un valore fondamentale per l’utilizzazione di
ogni abilità umana, riconoscendone l’importanza in rapporto al suo modello valoriale.
Se, per esempio, dovessimo giudicare gerarchicamente le intelligenze in
una tribù dell’Amazzonia, ci accorgeremmo che l’intelligenza corporea è
prevalente sulle altre, mentre in un paese occidentale diventa prioritario il
riconoscimento sociale dell’intelligenza linguistica e logico-matematica.
In questo testo si prende in considerazione il problema delle abilità partendo dalle loro potenzialità, dalla capacità della persona di utilizzarle per
esprimersi a pieno, riconoscendo fino in fondo il valore delle forme intellettive intese come risorse presenti in ognuno.
In particolare, si analizzerà il corpo come soggetto dell’apprendimento per
i diversamente abili, un corpo intelligente che interagisce con le altre abilità umane.
All’interno di questo lavoro è stata raccolta una piccola storia autobiografica raccontata da Gennaro Morra, un giovane portatore di tetraparesi
(2) GARDNER, op.cit., p. 79.
(3) GARDNER, op.cit., p. 79.
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Introduzione
Estratto della pubblicazione
spastica, che è uno straordinario esempio nell’uso diverso delle abilità
umane.
Credo sia fondamentale, per chi sceglie la professione di docente, riflettere
sull’importanza di profondere costantemente sforzi professionali, studi e
ricerche che favoriscano l’abbattimento di ogni barriera che limita l’autonomia della persona.
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Introduzione
IN BILICO
di Gennaro Morra
Il mio precario equilibrio
mi tiene in bilico
mi costringe a cercare un appiglio.
Devo avvinghiarmi ai muri
alle sedie, alle persone
non posso commettere
il minimo errore.
Barcollo come un birillo
sfiorato da una palla
traballo come una bottiglia
urtata da una biglia.
Ho paura di cadere
non tanto per il dolore che potrei avvertire
ma per il peso dei loro occhi
che su quel pavimento
mi potrebbero inchiodare.
Basterebbe un sorriso
il protrarsi di una mano
alla quale mi potrei aggrappare
per non sentire più l’imbarazzo
del mio continuo ondeggiare.
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Introduzione
Estratto della pubblicazione
Modulo 1
Cenni storici sul ruolo sociale
del soggetto diversamente abile
◗
1.1 Il diversamente abile nella società: cenni storici dall’antichità agli inizi del XX secolo
«Prima del XIX secolo, il problema di una definizione valutativa o dell’inserimento sociale dell’handicappato non era stato nemmeno preso in considerazione. I motivi sono storici, ma anche morali e scientifici. Il fatto è
che in una cultura dominata dalla necessità della sopravvivenza fisica, non
avanzava posto per la pietà; oppure, se questa c’era, veniva presto superata
dai bisogni quotidiani, tra cui quelli urgenti dell’alimentazione» (1).
Le iniziative e gli interventi di carattere legislativo, sociale e pedagogico,
in favore delle persone diversamente abili, hanno assunto negli ultimi
vent’anni una rilevanza crescente.
Le profonde trasformazioni culturali della società hanno contribuito ad
una rivisitazione del problema dell’integrazione sociale. Un excursus storico sulla condizione dei soggetti con deficit, renderà evidente che spesso
il vero handicap non è la menomazione, ma il modello di società che non è
in grado di valorizzare le differenze umane.
Sin dall’antichità, il termine «normalità» ha coinciso con un modello di
persona conforme alle richieste della società; si è quindi costruito un vero
e proprio inventario delle abilità umane indispensabili all’uomo per essere
autonomo.
La menomazione fisica è stata quindi, per un lungo periodo, causa di omologazione negativa della persona, fattore discriminante nell’integrazione
sociale e motivo forte di emarginazione sociale.
(1) Cfr. TRISCIUZZI L., Dizionario di didattica, Pisa, Ed. ETS, 2001.
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Estratto della pubblicazione
M o d u l o
1
A Sparta, ancora nel IX secolo a.C., i bambini giudicati gracili o deformi
venivano lanciati dall’alto del monte Taigeto mentre a Roma fino al I secolo a.C. lo stesso macabro rito veniva perpetuato dalla Rupe Tarpea. Questa
pratica sopravvive ancora oggi in alcune regioni del pianeta. In Africa,
presso alcune tribù, si perpetuano riti crudeli per eliminare i neonati che
presentano malformazioni fisiche.
I Romani utilizzarono i termini di ebes (in contrapposizione a acutus),
stupidus (con il senso di attonito), stultus (con il senso di inerte), deminutus (con il senso di scemo, deficiente), imbecille (da inbaculus, ossia senza
bastone, senza appoggi).
Con l’avvento del Cristianesimo, a Roma, i neonati minorati venivano esposti fuori delle mura, affidati alla pietà dei passanti e molto spesso abbandonati ad una tragica fine.
Nel Medioevo cristiano i disabili non subivano più la soppressione fisica,
ma continuavano ad essere vittime di emarginazione sociale.
Nell’ Europa del XVI e del XVII secolo gli idioti e i disabili fisici vivevano ai margini della società, internati nelle carceri, dove il ceto borghese
del tempo era solito portare i rampolli di famiglia a vedere questa saga
dell’emarginazione sociale perché i minorati suscitavano orrore e venivano considerati una minaccia per la società «…Nella civiltà contadina, sovente la nascita di una figlia era considerata una disgrazia ai fini della
produzione lavorativa, figurarsi quella di un handicappato. Nel mondo
cristiano l’infanticidio è stato da sempre considerato con orrore, e condannato, sia che avvenisse mediante l’esposizione, sia in forma violenta,
come lo strangolamento, il soffocamento, l’avvelenamento o mediante
altri mezzi. Tuttavia, ciò non significa che non avesse luogo. È bene ricordare che il primo tornio aperto a Milano, trova la sua giustificazione nel
fatto che i piccoli abbandonati di notte davanti alla porta delle chiese erano dilaniati dai cani randagi. Ancora nel Settecento non era raro vedere
dei corpicini di neonati abbandonati nelle strade o negli immondezzai.
Nel 1741, uno studioso, parlando di Londra ricorda la fondazione di un
Ospedale per trovatelli…» (2).
(2) LANGER, Checks on Population Growth, 1750-1850; in «Scientific American», 226,
February 1972.
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Cenni storici
Estratto della pubblicazione
Nel XVIII secolo si diffonde il termine cretino, derivato direttamente dall’espressione cristiano e usato in lingua provenzale per definire «povero
cristo» chi aveva il gozzo.
Nel 1784, in Francia, risultano accolti nelle varie istituzioni ben 138.000
bambini.
La condizione dei portatori di handicap è lo specchio di un modello di
società che considera la menomazione come un male da nascondere, un
fantasma da rimuovere, una punizione divina, un marchio di infamia. Per
Malthus, lo studioso inglese di problemi demografici, il vaiolo e la mortalità infantile erano serviti, durante l’ultimo millennio, a contenere l’aumento della popolazione e a garantire il giusto livello di sopravvivenza.
L’illuminismo nella seconda metà del XVIII secolo produce un’inversione
di tendenza nella considerazione dei disabili.
La cultura illuministica, aperta ai valori del progresso, considera l’anormalità come una condizione umana che non pregiudica la dignità dell’individuo. Più tardi i principi sanciti dalla rivoluzione francese, con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, enunciano il diritto all’uguaglianza per tutti gli uomini, a prescindere dal ceto sociale, dal sesso, dalla
razza e dalle condizioni fisiche e psichiche.
In Francia e in Inghilterra, con Pinel e Tuke che fondano le prime case di
cura, si realizzano i primi interventi dello Stato a favore di un’assistenza
sanitaria per i disabili.
Fa scalpore, in questo periodo, l’opera di Itard, un esperto in problematiche speciali che prova a riabilitare il sauvage dell’Aveyron, un bambino di
12 anni vissuto tra gli animali in una foresta, a dimostrazione che era possibile curare il disadattamento. Il suo intervento ha il merito di dimostrare
che:
• in campo educativo non bisogna partire da situazioni oggettive lontane
dalla realtà;
• è necessaria sempre una distinzione diagnostica e prognostica tra ritardo mentale cognitivo, dovuto a menomazione, e ritardo derivante da
isolamento socio-culturale;
• la relazione educativa deve avere un ruolo molto importante, soprattutto se si riferisce a soggetti con deficit.
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M o d u l o
1
«Sappiamo che, dal ritrovamento del sauvage, inizia un’avventura pedagogica che segna una vera e propria rottura epistemologica per l’educazione in generale e per quella degli handicappati in particolare» (3).
A Itard si ispirano una serie di studiosi, tra i quali Guggenbuehl, fondatore,
nel 1836, di un istituto per l’educazione dei «cretini» e Seguin che sperimenta dei metodi differenziati per i soggetti disabili e istituisce in America
tre scuole speciali.
Nell’Ottocento secolo si afferma l’uso del termine idiota (4), poi quelli di
subnormale, disabile e, più di recente, handicappato. Il riferimento all’ultimo termine include già un discorso scientifico» (5).
Nel nostro Paese, nel periodo tra la fine del XIX e la prima parte del XX
secolo, l’educazione dei diversamente abili si realizza in strutture speciali
gestite dai Comuni, che godono di una loro autonomia nel settore scolastico.
Tra il 1861 al 1928, la formazione scolastica degli handicappati non è garantita dallo Stato, ma è affidata a organizzazioni private, enti e associazioni religiose. «…In Italia, ancora nel 1891, un censimento indica che il
totale degli assistiti era di 144.733 bambini…» (6).
Alla fine del XIX secolo, i progressi delle scienze e le trasformazioni sociali ed economiche offrono la possibilità di recuperare i disabili, in particolar modo i ciechi e i sordi.
Il notevole aumento della domanda di lavoro, prevalentemente nelle fabbriche, richiede il miglioramento del livello di scolarizzazione e favorisce
una prima collocazione lavorativa dei meno abili e degli handicappati, che
possono entrare a far parte del ciclo produttivo.
La Riforma Gentile del 1923 istituisce per la prima volta nelle scuole elementari le «classi differenziali» per gli alunni che «presentavano anormalità di sviluppo».
(3) C ANEVARO Fondamenti di pedagogia e didattica, Ed. Laterza, Bari.
(4) SÉGUIN Traitement moral, bygiène, et éducation des idiots et des autres enfants arrièrés, 1846.
(5) cfr. TRISCIUZZI op. cit.
(6) cfr. TRISCIUZZI op. cit.
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Cenni storici
Estratto della pubblicazione
Nel 1933, oltre agli istituti e alle scuole per ciechi e per sordomuti già
esistenti, nascono le «scuole speciali» per «affetti da malattie contagiose»,
«fanciulli anormali» e «minorati fisici».
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1.2 Cenni storici sulla scolarizzazione dei portatori di handicap
nell’Italia del XX secolo (Nadia Carlomagno)
Il neuropsichiatra Sante De Sanctis, padre della neuropsichiatria infantile,
fu tra i primi in Italia ad interessarsi dei problemi dei fanciulli con handicaps costituendo a Roma, alla fine del XIX secolo, con la collaborazione
di Maria Montessori, un ospizio-scuola «dove i fanciulli furono raccolti
dalla mattina alla sera, ogni giorno, per tutto l’anno, onde ricevervi il necessario nutrimento, le cure mediche, l’educazione fisica e morale, l’istruzione, il tutto adatto ai bisogni di ogni singolo alunno» (7).
Maria Montessori elaborò un proprio sistema educativo destinato alle scuole
materne e si interessò in maniera mirata all’educazione dei bambini portatori di handicaps, dirigendo a Roma la prima scuola ortofrenica sostenendo
che «…è inutile riformare la scuola e i metodi, se a questa scuola e a questi
metodi sfuggono appunto coloro che per la difesa sociale più ne sarebbero
bisognosi! Qualunque metodo vale a rendere utile e morale un individuo
sano e normale. La riforma che si impone è quella della scuola e della pedagogia che ci conduca a proteggere nel loro sviluppo tutti i fanciulli, compresi
quelli che si dimostrano refrattari all’ambiente della vita sociale…» (8).
Nel periodo fascista la scolarizzazione degli alunni handicappati fu trascurata e con l’obiettivo del recupero funzionale della disabilità di migliaia di
persone, i bambini con handicaps vennero, in realtà, tolti dall’ambiente
familiare e destinati ad appositi istituti riabilitativi. All’educazione e all’inserimento scolastico fu, quindi, sostituito il principio della medicalizzazione, che pose i soggetti diversamente abili ai margini della società.
L’handicap fu, in quest’ottica, considerato una malattia.
(7) IESU, Handicap e integrazione nel contesto europeo, V Edizione, Tecnodid, Napoli,
1995, pp. 104-105.
(8) MONTESSORI, Il metodo della Pedagogia scientifica applicato all’educazione infantile
nella casa dei bambini Ed. Lapi, Città di Castello, Perugia 1909
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Nascono così, con il R.D. 31-12-1923 n. 3126, apposite strutture scolastiche destinate solo ai bambini minorati di scuola elementare: le scuole «speciali», le classi differenziali, gli istituti destinati ai fanciulli ciechi e sordomuti.
Con il R.D. 415/25 n. 653, si stabilisce che tutti coloro che non hanno le
capacità funzionali degli organi idonee per sostenere prove di profitto, possono essere dispensati parzialmente o totalmente dai normali esami con
l’obbligo di sottoporsi a prove equipollenti.
Relativamente alle classi differenziali, il T.U. 5-2-1928 n. 577 cita, all’art.
415, che «…quando gli atti di permanente indisciplina siano tali da lasciare il dubbio che possano derivare da anormalità psichiche, il maestro può,
su parere conforme dell’Ufficiale Sanitario, proporre l’allontanamento
definitivo dell’alunno al Direttore Didattico il quale curerà l’assegnazione
dello scolaro alle classi differenziali che siano istituite nel Comune e, secondo i casi, d’accordo con la famiglia, inizierà le pratiche opportune per
l’educazione dei corrigendi…» (9).
Il R.D. 1-7-33 n. 786, inoltre, nell’istituire il passaggio delle scuole elementari dei Comuni autonomi allo Stato, prevede scuole speciali per «anormali».
Il primo vero documento che afferma i diritti del diversamente abile nel
nostro Paese è la Costituzione che, agli articoli 3, 34 e 36, stabilisce l’uguaglianza, il diritto allo studio da parte di tutti i cittadini e definisce i compiti
dello Stato nel rimuovere ogni tipo di ostacolo che non consenta al cittadino la sua piena affermazione.
In particolar modo all’art. 3, la Costituzione Italiana statuisce perentoriamente che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di
opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
Il primo passo da parte dello Stato verso il riconoscimento delle esigenze
particolari degli alunni affetti da handicaps è avvenuto nel 1947 con la
Circolare n. 6676/87, allorché il Ministero della P. I. definisce sia la metodologia e che i vincoli organizzativi per costituire le classi differenziali.
«La guerra», scrive Celli, «è da poco finita, e le distruzioni materiali, morali e culturali sono state immani, anche i soggetti in età di istruzione e di
(9) T.U. 5-2-1928, n. 577, art. 415.
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educazione patiscono le conseguenze negative di essa. Quando ancora risuona nelle orecchie il sibilo delle sirene e rimbombano i boati delle esplosioni provenienti dal cielo, i figli devono pur trovare la via della scuola, ma
gli edifici scolastici non ci sono più e si occupano le fatiscenti strutture
diroccate; si fa scuola persino nelle chiese. Ma questi figli sono diversi da
quelli di un tempo: sono affetti in gran numero da handicaps fisici, sensoriali e psichici…» (10).
Con la nascita della Carta Costituzionale, iniziano i passi lenti e graduali
verso l’integrazione, «…secondo il principio dell’ex facto oritor ius, il legislatore, acquistando conoscenze e sensibilità nuove, incomincia a rivolgere ad essi una specifica attenzione e si pone in posizione di ascolto dei
bisogni fondamentali dell’uomo e del suo sviluppo…» (11).
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con la Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo, stabilisce che ogni bambino con menomazione fisica,
mentale e sociale ha diritto di ricevere il trattamento, l’educazione e le
cure speciali di cui ha bisogno per il suo stato e la sua condizione sociale.
In Italia nel 1962 si avvia il Piano di sviluppo della Scuola e, con la legge
3-12-62, n. 1859, nasce la Scuola Media unificata con le classi per gli
alunni disadattati, la cui istituzione doveva essere conforme ad un parere
espresso da una apposita equipe di tipo medico-psico-pedagogica.
Nella scuola materna, conformemente alla legge 18-3-68, n. 144, si compie un ulteriore passo in avanti con la possibilità di istituire apposite sezioni speciali per alunni con handicaps. La stessa legge all’art.12 prevedeva
che, nella scuola media, i bisognosi di particolari cure, individuati da un’apposita commissione costituita da due medici specialisti in Neuropsichiatria e Psicologia e da un esperto in Pedagogia, potevano frequentare con
profitto la I classe di scuola media in gruppi non superiori alle 15 unità.
Nel decennio 1960-70, si assiste al fenomeno della cosiddetta istituzionalizzazione dei soggetti portatori di handicaps e alla loro emarginazione mediante il ricovero in istituti riabilitativi. In particolare nel Meridione, furono
ricoverati in centri e strutture sanitarie di tipo riabilitativo oltre il 70% dei
soggetti con handicaps al di sotto dei 5 anni, e circa il 50% dai 5 ai 17 anni.
(10) C ELLI, Gli handicappati tra le norme, in «Rivista giuridica della Scuola», 2, MarzoAprile 1994, EDAS Editore, Roma, p. 436.
(11) CELLI, op. cit.
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Il 1968 fu l’anno della scoperta della «diversità». A partire da tale anno,
infatti, ci fu un’evoluzione della concezione dell’handicap che si trasformò in diversità, risorsa da riconoscere e integrare socialmente sulla scia
dei principi di uguaglianza sociale, recuperando la dignità dei soggetti
portatori di handicaps con il loro graduale inserimento nella scuola e nella
vita sociale lavorativa.
Si fa lentamente strada l’integrazione come principio di diritto, «…Essere
integrati nel sistema era per loro una colpa imperdonabile, dopo che si era
scoperto che il sistema discriminava ed escludeva. La virtù consisteva nell’integrarsi nel mondo degli esclusi. La trasgressione delle norme vigenti
era il battesimo per passare dall’ingiusta società dei garantiti alla giusta
società degli esclusi» (12).
È per questo «…che il ’68, pur nelle sue valenze negative, è una data storica: da quell’anno inizia un tipo diverso di riscossa dei deboli, degli emarginati, degli oppressi: una riscossa che fa leva non sull’umanitarismo e
filantropismo dei sani, che è sempre da dimostrare, bensì sull’umanità dei
deboli, che è un dato di fatto da cui partire» (13).
Nel 1971 con la legge 118 in favore degli invalidi e mutilati civili, si realizza una svolta nel processo di integrazione scolastica, con l’eliminazione in
tutti gli Uffici pubblici, nelle scuole e nelle istituzioni di interesse sociale
delle barriere architettoniche, prevedendo norme sul trasporto, sul lavoro,
sulla prevenzione e sulla riabilitazione dei soggetti con handicaps.
L’art. 28 della legge stabilisce che ai portatori di handicaps deve essere garantita l’istruzione dell’obbligo nelle classi normali della scuola pubblica, a meno
che il deficit renda irrealizzabile l’inserimento del soggetto, prevedendo che
«…sarà facilitata inoltre la frequenza degli invalidi e mutilati civili alla scuola
media superiore ed universitaria» (14); il quarto comma, infine, estende la
medesima disciplina alle istituzioni parascolastiche e al doposcuola.
Giova qui ricordare la legge n. 82 del 1975, istitutiva della scuola a tempo
pieno che, attraverso la riduzione del numero degli alunni per classi da 60
alle 25, ha favorito le condizioni di accoglienza dei portatori di handicaps
nelle classi normali.
(12) CORRADINI, Il ’68 come esperimento sociale, in Annali della P.I., nn. 4 - 5, Le Monnier, Roma 1988, p. 436
(13) IESU, op. cit., p. 48
(14) Art. 28, comma III, Legge n. 118/71.
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