Convegno Legge 180 atti

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Convegno Legge 180 atti
La Legge 180: una nuova coscienza del concetto di salute mentale e di dignità di terapia
Convegno di Studio, Padova 13 maggio 2014
ULSS 16 Padova
Premessa
Il 13 maggio 2014 a Padova si è tenuto un convegno sulla legge 180/1978 di cui trasmettiamo qui di
seguito gli atti. Era doveroso dopo trentasei anni richiamare l’attenzione su di una legislazione che ha
determinato una svolta nella concezione stessa di malattia mentale e nella conseguente terapia applicata.
E’ stato un onore avere come relatori proprio coloro che, come rappresentanti delle rispettive
associazioni, furono tra gli attori principali della riforma del 1978. Di ognuno riferiamo l’intervento ed
alleghiamo stralci di loro scritti dell’epoca, considerando anche il notevole apporto dato all’attuazione
della suddetta legge da parte di Franco Basaglia, purtroppo scomparso.
La presentazione è stata tenuta dal Dr. Giancarlo Cuccato a cui è stato affidato il compito di inquadrare
dal punto di vista storico e culturale il passaggio a questa legge che, in mezzo a mille difficoltà e
compromessi, ha voluto ridare dignità ai malati psichiatrici.
Il dottor Eliodoro Novello, come rappresentante di Amopi (Associazione Medici Ospedali Psichiatrici
Italiani), ha ricordato come fosse riuscito all’epoca ad aggregare quasi 800 colleghi in tutta Italia e a
portare all’attenzione del Parlamento la proposta dell’Associazione per un ricovero volontario del
malato svincolandolo dalla sua iscrizione nel casellario giudiziario. Ci furono lotte e scioperi,
incomprensioni e compromessi, ma alla fine la legge andò avanti.
Il dottor Giampaolo Martina, che fece parte del direttivo nazionale di Psichiatria Democratica,
movimento a cui apparteneva anche Franco Basaglia, ha fatto un interessante intervento sulle criticità
della legge 180/78 sollevate all’epoca dal movimento e dallo stesso Basaglia per quanto concerneva gli
investimenti sulle strutture territoriali ed il reale svuotamento dei manicomi, osservazioni ancora oggi
molto attuali.
Il professor Antonio Balestrieri, rappresentante del SIP (Società Italiana di Psichiatria) ha ripercorso il
cammino dell’iter legislativo di allora e si è fatto testimone di quanto abbia lottato insieme a Basaglia per
instaurare un rapporto territoriale che permettesse di seguire i pazienti anche nell’ambiente esterno
dopo la dimissione.
Infine il professor Luigi Massignan ha centrato il suo intervento sul malato psichiatrico come persona
che, attraverso il recupero delle relazioni con gli altri, può ritornare ad essere uomo e non solo
individuo. E per giungere a questo ha bisogno di una rete di servizi esterni e del suo ambiente
comunitario in quanto il fine deve essere quello di riattivare le sue capacità di vivere in società.
Pertanto il convegno non ha trascurato nessun aspetto di questa sofferta conquista per la dignità e la
cura del malato psichiatrico ed ha ritrovato a confronto dopo tanto tempo i principali fautori di questo
innegabile progresso della scienza medica nella nostra società.
Presentazione
Dr. Giancarlo Cuccato
Dopo avere rivisitato fotograficamente gli ex padiglioni dell’ex Ospedale Psichiatrico Provinciale di
Padova, ci addentriamo ora nel tema del Convegno, partendo da ciò che è stato il 1978 non solo da un
punto di vista psichiatrico, ma anche storico culturale.
L’ANNO 1978
Il 1978 è un anno denso di eventi, di eventi da considerare come una base per ulteriori cambiamenti:
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9 maggio 1978: morte di Aldo Moro, rapito dalle Brigate rosse il 16 marzo dello stesso anno
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13 maggio 1978: approvazione della Legge 180, detta anche Legge Basaglia,
“Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”
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22 maggio 1978: Legge 194, “Interruzione volontaria di gravidanza”
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8 luglio 1978: elezione di Giovanni Pertini a Presidente della Repubblica
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6 agosto 1978: muore Paolo VI. Il 1978 è l’anno dei tre papi: il 26 agosto viene eletto Giovanni
Paolo 1°, che morirà dopo poche settimane, e il 16 ottobre viene eletto papa Giovanni Paolo
2°, un cardinale non italiano, ma proveniente da un paese dell’Est europeo,
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23 dicembre 1978: approvazione della Legge 833, di Istituzione del Servizio Sanitario
Nazionale, Legge in cui confluisce quasi per intero la Legge 180
Il 1978 è un anno importante anche per me perché il 31 luglio, dopo alcuni anni di tirocinio e di
frequenza dell’Ospedale Psichiatrico vengo assunto come Avventizio e vengo assegnato al Reparto
Osservazione II, diretta dal Prof. Giovanni Gozzetti, mio grande maestro.
IL 1978 E LA LEGGE 180
Il 1978 è per la psichiatria italiana l’anno della Legge 180, legge che ha fatto la storia della
psichiatria
Firmata il 13 maggio 1978 dal Capo dello Stato Leone, dal Guardasigilli Bonifacio e dal Ministro della
Sanità Anselmi, il testo, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 133 del 16/5/1978, divenne Legge dello
Stato ed entrò in vigore il giorno successivo.
Nella ricorrenza dell’approvazione della Legge 180, poi recepita nella Legge 833 di Istituzione del
Servizio Sanitario Nazionale, si è ritenuto importante dedicare un momento di riflessione sulla storia,
sulle origini e sui principi del moto riformatore che ha portato alla chiusura dei manicomi e
soprattutto a un nuovo concetto di cura.
L’idea originaria era quella di condividere questo momento di riflessione culturale e storica in un
contesto che è stato chiuso come Manicomio e che ha in alcuni padiglioni problemi di agibilità, ma che
è un luogo che deve continuare a rimanere aperto come luogo di cura e del prendersi cura della
persona.
A dire il vero, oggi la prospettiva è anche un’altra, perché grazie al progetto di questa Azienda Ulss e
della sua direzione, di questa città, ciò che era Manicomio diventerà nei prossimi anni Casa ai Colli, Casa
della salute.
Dal Manicomio alla Casa della Salute, da un luogo che era non solo un concentrato di malattia, ma
anche di miseria, da un luogo dove la persona è vista come pericolosa per gli altri a luogo dove il malato
è prima di tutto una persona e come tale deve essere considerato, a un nuovo modello di sanità
territoriale e di integrazione sociosanitaria.
Da un luogo costruito fuori delle mura della città a un luogo che è punto di riferimento per i cittadini
sul territorio per quanto riguarda "la salute" nel senso più ampio del termine.
Senza però dimenticare la storia di ciò che il Manicomio è stato e di ciò che esso ha rappresentato.
Questa ricorrenza, e il convegno ad essa dedicato, assume così una particolare risonanza di quello che
ha rappresentato l’approvazione della Legge 180 più di trenta anni fa e di quello che essa continua a
rappresentare oggi.
A più anni dall’approvazione della Legge 180 scrive così Bruno Orsini, estensore materiale della legge
alla Camera dei Deputati, nonché psichiatra e politico:
“Essendone stato partecipe, per vocazione e vicende personali e per il ruolo di “relatore” alla Camera,
credo di poter affermare che la “180” non è “attribuibile” ad una persona o ad un gruppo. Essa,
piuttosto, fu il punto di arrivo - o, almeno, tappa decisiva - di un lungo cammino che ha conosciuto
apporti diversificati e preziosi, spesso non convergenti e talvolta persino conflittuali, ma anche per
questo essenziali ad evitare semplificazioni arbitrarie e pericolose estremizzazioni.
Nella fase finale (1976-1978) fu il risultato di una mediazione alta, raggiunta con il contributo di uomini
noti ed oscuri, di società scientifiche e sindacali (Sip, Amopi, Psichiatria Democratica), di intellettuali, di
forze politiche e di alcuni parlamentari di grande onestà intellettuale e di limpido rigore morale”.
In un recente incontro sulla Legge 180, il giornalista domanda provocatoriamente ai relatori presenti
“E’ valsa la pena di chiudere i manicomi”? e subito si fa sentire la voce del professor Novello: “sì, per
ridare dignità e tutela a persone bisognose di cure e perché il manicomio era non solo un concentrato di
malattia, ma anche di miseria”.
LEGGE 180 E PROGETTO “CASA AI COLLI”
L’idea di realizzare questo Convegno di studio nasce nella circostanza della presentazione da parte della
Direzione aziendale a tutti gli operatori che oggi lavorano all’interno del Complesso Socio sanitario ai
Colli del progetto “Casa ai Colli, “La casa della salute”. Era il 13 febbraio di quest’anno. In quei giorni
era uscito anche il libro scritto da Alberta Basaglia, figlia di Franco Basaglia (“Le nuvole di Picasso. Una
bambina nella storia del manicomio liberato, edito da Feltrinelli) e c’era l’idea di invitarla per la
presentazione del libro.
Avevo letto una recensione del libro. Nel libro l’autrice scrive principalmente della sua particolarissima
infanzia, di se stessa bambina-adolescente-studentessa universitaria, storia strettamente collegata alla
storia del padre.
In quella circostanza, visto che c’era comunque un riferimento a Basaglia e che ci si trovava all’interno
degli spazi ex manicomiali, proposi al direttore generale, dott. Urbano Brazzale, che sarebbe stata una
cosa buona invitare quei psichiatri che negli anni 60 e 70 si erano impegnati a costruire un nuovo modo
di curare le persone affette da malattie mentali, anche perché il luogo in cui viene a concretizzarsi il
progetto “Casa ai colli” è stato per molti anni il Manicomio Provinciale di Padova, un luogo di
sofferenza, e questo non deve essere dimenticato. Questo pensiero lo trovate ben specificato, anche se
in modo sintetico, nel razionale del Convegno.
Il Convegno lo si voleva realizzare all’interno dell’attuale Complesso Socio sanitario ai colli, ma non è
stato possibile per motivi di sicurezza e di agibilità. Con la realizzazione del Progetto “Casa ai Colli”
verrà rimesso a nuovo il vecchio teatro e anche la biblioteca e allora sarà possibile realizzare i convegni
anche all’ex Manicomio.
Ospedale Psichiatrico Provinciale di Padova – Il teatro
Il convegno di oggi non vuole essere un convegno sull’organizzazione dei servizi, sulle problematiche e
sulle criticità attuali, vuole essere un momento di riflessione dal punto di vista storico e culturale su ciò
che ha portato alla nuova legislazione psichiatrica e su ciò che essa rappresenta.
Nell’organizzare il Convegno si è ritenuto doveroso dare spazio a tutte le componenti del movimento
riformatore che ha portato all’approvazione di una nuova legge per l’assistenza psichiatrica, la Legge
180: AMOPI (Associazione dei Medici degli Ospedali Psichiatrici Italiani), SIP (Società Italiana di
Psichiatria) e PSICHIATRIA DEMOCRATICA.
Per questo sono oggi presenti al tavolo dei relatori rappresentanti di queste Associazioni nel 1978: il
dottor Eliodoro Novello, il professore Antonio Balestrieri, il dottor Giampaolo Martina e il professor
Luigi Massignan.
Il dott Eliodoro Novello, che in quegli anni è stato il presidente nazionale dell'AMOPI, organizzazione
sindacale che raccoglieva l'adesione della stragrande maggioranza degli psichiatri, è stato anche uno dei
Primari prima dell’Ospedale Psichiatrico e poi del 1° Servizio psichiatrico padovano aperto dopo
l’approvazione della Legge 180.
Il prof Antonio Balestrieri, che in quegli anni è stato Presidente della Società italiana di Psichiatria, è
stato anche direttore dell’Istituto di Psichiatria dell'Università di Verona.
Il dott. Giampaolo Martina, psichiatra e neuropsichiatra infantile, ha fatto parte del Direttivo
nazionale di Psichiatria Democratica e si occupa di storia della psichiatria.
Il prof Luigi Massignan, che dal 1959 al 1971 è stato direttore dell'Ospedale Psichiatrico di Udine e
dal 1971 di quello di Padova fino al pensionamento, e che a Padova ha contribuito all’applicazione della
Legge 180.
Era stato invitato anche Peppe dell’Acqua, stretto collaboratore di Basaglia sin dall’esperienza di
Gorizia, ma non ha potuto partecipare perché impegnato in un altro evento a Trieste.
DALLA LEGGE 1904 ALLA LEGGE 180: IL PUNTO DI VISTA DEI RELATORI
Ho ritenuto opportuno far precedere i loro interventi dalla lettura di alcune pagine prese da un
seminario che ha tenuto Franco Basaglia a Padova nel 1971. E’ un testo che ho trovato in un ciclostilato
stampato dal Collettivo delle Facoltà Umanistiche dell’Università degli Studi di Padova, che aveva
invitato Basaglia a Padova a parlare e discutere di Psichiatria e Antipsichiatria.
Così come voglio proporre due passaggi presi dal Progetto di ristrutturazione dell’Ospedale Psichiatrico
Provinciale di Padova, scritti ancora nel 1977 dal direttore prof. Luigi Massignan, e leggere alcuni cenni
sull’azione del prof. Balestrieri e del dott Novello.
Basaglia Franco
Dr. Balestrieri Antonio
“Se torniamo alle origini della 180, più che una ricostruzione storica precisa, può interessare una
descrizione di atmosfera da parte di chi, in tale atmosfera, era presidente della Società Italiana di
Psichiatria.
La critica alla legge manicomiale e, soprattutto, alla realtà dei manicomi, si era accentuata negli ultimi 10
anni. Anni critici, quelli del decennio '70, nei quali tutto l'esistente sembrava sbagliato e tutto
l'inesistente sembrava possibile. Era una svolta epocale, in cui era difficile dire se il problema
psichiatrico era trainante o trainato rispetto al resto. Certamente un'ala del movimento “rivoluzionario”
(ma non violento) era locata nei manicomi, si riconosceva (più o meno) in Psichiatria democratica e
seguiva il singolare carisma di Basaglia. Del resto, anche la Società italiana di Psichiatria sul piano
riformistico, prospettava necessità di radicali cambiamenti (Congresso di Bologna). Tutto fu precipitato
dal referendum di Pannella per la cancellazione della legge del 1904.
A Montecitorio si installò una commissione per elaborare una legge nuova ed alternativa, che
permettesse di evitare il referendum. I protagonisti erano i senatori Scarpa (PCI) ed Orsini (DC). A loro
si deve, in sostanza, l'operazione che portò la Legge 180 ad essere redatta, proposta e votata, sulla base
di progetti ed ipotesi formulati in varie aree psichiatriche. Le altre parti politiche non parevano
interessate.
Dal lato degli psichiatri erano disponibili tre rappresentanze qualificate: la Società Italiana di Psichiatria
(Balestrieri), Psichiatria Democratica (Basaglia) e la Associazione Medici Psichiatri Ospedalieri
(Novello). Basaglia fu in qualche modo contattato da Roma per un parere ed un consenso. Egli,
correttamente, chiese a me e Novello, di andare assieme.
Ricordo però benissimo che al telefono mi disse: “questa non era la legge che volevamo ma bisogna
prendere quello che si può avere!” Lui non voleva, essenzialmente, i reparti psichiatrici per il ricovero
(anche coatto) negli Ospedali Generali.
Andammo a Roma dove non ci ascoltarono molto, ma la legge venne fuori ed Orsini la presentò.
Dovrebbe quindi chiamarsi “legge Orsini”, anche se la fama di Basaglia (giusta) è prevalsa.
Nella urgenza del momento decisivo accettai la legge in base al realismo storico per cui bisognava
cogliere i momenti del possibile. Una riforma graduale mi sembrava un'operazione poco realistica per il
nostro Paese.
Di fatto la riforma si è attuata, bene o male in tutta Italia, gli psichiatri italiani hanno fatto miracoli. Le
famiglie dei malati (a parte qualche inutile radicalismo) hanno tenuto, non hanno abbandonato quasi
nessuno, hanno fatto quello che forse solo la famiglia italiana poteva fare.
E' mancato, purtroppo, quasi totalmente l'appoggio dei mezzi di informazione. Non hanno spiegato
niente a nessuno. Hanno definito la Legge 180 come la “legge che abolisce la pazzia” e come la legge
che si intitola “Norme per il trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale”. Hanno giocato
allo sfascio dando eco solo alle proteste e quasi mai ai chiarimenti.
Ce l'abbiamo fatta lo stesso ed oggi vengono da fuori a vedere cosa abbiamo fatto.”
Dr. Eliodoro Novello
Da “Pol.it: Memoria e Riflessioni sulla approvazione della Legge 180 di E. Novello”
“Per chi come me che ha vissuto le vicende della assistenza psichiatrica dagli anni cinquanta agli anni
ottanta collegando strettamente l'impegno sul piano clinico e assistenziale con la necessità e l'impegno a
cambiare modalità e ambiente in cui questo impegno clinico terapeutico potesse pienamente esprimersi,
il ricordare a distanza di venti anni la Legge 180/78 comporta il ripensare al contesto in cui tale Legge
ha potuto essere varata e il riproporre, pur in estrema sintesi, i dati più salienti dipanatesi nell'arco di
una trentennio e di cui, mi sembra, si stia perdendo la memoria storica; memoria che vorrei qui un po'
rinfocolare.
Dopo la seconda guerra mondiale pur nell'assillo della ricostruzione materiale, già alla fine degli anni
'40, c'erano state iniziative sia pur sporadiche, e comunque senza risultati pratici, tese a mettere in
discussione i dettami della legge Giolitti (1904) sui manicomi soprattutto per come fu interpretata alla
luce del codice Rocco del 1933.
Fu agli inizi degli anni '60 che lungo l'asse Veneto, Lombardia, Emilia, Toscana si saldò l'incontro di
allora giovani psichiatri ospedalieri che riuscirono poi a coinvolgere nella progettualità riformista la
maggior parte dei colleghi italiani sino ad assumere a Napoli, nel 1963, la responsabilità di gestire
l'AMOPI (Associazione Medici Ospedali Psichiatrici Italiani), unica realtà associativa del genere
esistente allora nel nostro paese.
Cominciò così un'opera di pubblicizzazione e di comparazione delle realtà manicomiali italiane e delle
prospettive che potevano aprirsi modificando presupposti e modalità tecnico giuridiche del ricovero
ospedaliero psichiatrico con lo spostamento all'esterno delle strutture ospedaliere del baricentro
dell'assistenza psichiatrica.
A mio parere è nel 1968, con la Legge 431, che deve essere collocato il fondamentale punto di svolta
dell'assistenza psichiatrica In Italia. Il problema di un intervento legislativo avente per oggetto
l'assistenza psichiatrica non poté più essere eluso, soprattutto dopo la pubblicazione del "libro bianco"
sullo stato dell'assistenza psichiatrica in Italia da parte del Ministro della Sanità (on. Mariotti) e la
presentazione di una proposta di legge per l'assistenza psichiatrica che in realtà poneva le basi per un
controllo di polizia di tutti gli utenti dei Servizi Psichiatrici ospedalieri o ambulatoriali che fossero.
Rispondemmo alle proposte ministeriali con un contro libro bianco di critica argomentato e
documentato ed il risultato fu la rinuncia ministeriale a quel testo e l'elaborazione di una legge stralcio,
la 431, che, pur senza affrontare di fatto i problemi di fondo legati all'O.P., in realtà modificò
profondamente l'organizzazione e le possibilità operative all'interno degli O.O.P.P. stessi, sia per
l'aumentata dotazione di personale, soprattutto medico, sia, soprattutto, con il riconoscimento di un
ricovero volontario, non più legato alle decisioni del direttore e del tribunale, e per la possibilità di
trasformare il ricovero coatto in un ricovero volontario. L’istituzione dei Centri di Salute Mentale, pure
affidati alle Amministrazioni provinciali, contribuiva, poi, decisamente a facilitare le dimissioni.
L'applicazione di questa Legge trovò, purtroppo, interpretazioni differenziate a livello delle
amministrazioni provinciali. … Laddove amministratori e psichiatri furono aperti e pronti nell'applicare
i nuovi dettami legislativi si aprì, veramente, una nuova stagione per l'assistenza psichiatrica con
riferimento sostanzialmente a due filoni culturali: quello che si richiama all'esperienza francese del
"settore" psichiatrico e quello che si richiamava alle esperienze inglesi di Maxwel Jones, di cui pioniere
fu F. Basaglia a Gorizia. Per l’esperienza di settore furono luoghi di riferimento in particolare Varese,
Padova e Firenze. E’ a questi due filoni che in pratica fecero riferimento, più o meno direttamente, le
proposte legislative relative all'assistenza psichiatrica fatte a partire dal 1976 da vari gruppi politici in
occasione dei lavori preparatori della Legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale in cui venivano
inserite. Inserimento che rappresentava il primo risultato dell'azione dell' AMOPI, teso a combattere i
ricorrenti propositi di una nuova legge speciale psichiatrica..
A dire il vero, il fatto che L'AMOPI avesse sempre rifiutato una collocazione politica aveva portato ad
essa una adesione massiccia degli psichiatri ospedalieri, che coinvolgeva colleghi provenienti da partiti
politici diversi, a volte anche contrapposti, il che non incideva minimamente, e fu sempre un nostro
vanto, sulle discussioni ed elaborazioni tecniche. E nella stessa stagione della 180, quale anticipazione
settoriale della riforma sanitaria, ci trovammo ad avere nella commissione Sanità della Camera colleghi
deputati, Bruno Orsini per la DC e Vanda Milano per il PCI, che non dimenticarono certo né i progetti
né le lotte fatte dentro e con l'AMOPI. In un momento delicato, come quello del referendum radicale
sui primi tre articoli della Legge Giolitti del 1904, furono di sommo aiuto nel sottolineare il valore delle
nostre proposte. Ciò portò la Commissione Sanità della Camera ad accettare, fra l' altro, la nostra
soluzione al problema dei posti letto, utilizzando un dispositivo della Legge Mariotti sugli Ospedali
civili, relativo ai Servizi di Diagnosi e Cura, una proposta sulla quale avevano infine concordato sia il
presidente della SIP Balestrieri sia l'amico Basaglia.
E così anche la 180 fu una Legge stralcio, ma, per fortuna, durata solo i mesi necessari alla
formulazione completa della Legge istitutiva del S.S.N., la 833/78; i suoi articoli furono ulteriormente
perfezionati con l'inserimento di ulteriori proposte AMOPI, fra cui, fondamentale, l'indicazione
all'art.34 della "struttura dipartimentale" dei servizi per la tutela della salute mentale. Una indicazione
che nel bene e nel male, a seconda della interpretazione di tipo sanitario o di tipo amministrativo, ha
condizionato la maggior parte dei provvedimenti regionali sull'organizzazione dei servizi psichiatrici.
Come sempre una legge è più o meno validata dall'applicazione che se ne dà. E la 180/833/1978 ha
aperto spazi imprevisti, ed imprevedibili anche per chi contribuì alla sua elaborazione, legati soprattutto
alla organizzazione dipartimentale (in senso non burocratico) dei Servizi psichiatrici.”
Dr. Luigi Massignan
Dal Progetto di ristrutturazione dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Padova, scritto ancora nel
1977:
CASA AI COLLI: UNA NUOVA PROSPETTIVA DI INTEGRAZIONE E DI ASSISTENZA
SOCIO SANITARIA
Oggi 13 maggio 2014, sono passati 36 anni dall’approvazione della Legge 180. Nel testo della Legge c’è
un punto particolare e importante, che prospetta che una volta che sarà approvata la Legge 833 (Legge
di Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale) l’assistenza psichiatrica rientrerà nell’ambito
dell’assistenza sanitaria generale. Così è oggi e l’integrazione socio sanitaria è un principio dal quale non
si può prescindere nell’organizzazione e nel funzionamento dei servizi per la salute.
A dire il vero, oggi la prospettiva è anche un’altra, perché finalmente si è compreso che non c’è salute se
non c’è salute mentale (Conferenza di Helsinki 2005).
Oggi, grazie al progetto di questa Azienda Ulss e della sua direzione, di questa città, ciò che era
Manicomio diventerà nei prossimi anni Casa ai Colli, Casa per la salute, Casa della salute, nel senso più
ampio del termine.
Sta per nascere una nuova sanità.
Si chiamerà “Casa ai Colli”,
sarà la casa della salute di tutti i padovani.
Dal Manicomio alla Casa della Salute, da un luogo che era non solo un concentrato di malattia, ma
anche di miseria, da un luogo dove la persona è vista come pericolosa per gli altri a luogo dove il malato
è prima di tutto una persona e come tale deve essere considerata, a un nuovo modello di sanità
territoriale e di integrazione sociosanitaria.
Da un luogo costruito fuori delle mura della città a un luogo, Casa ai Colli, che diventa punto di
riferimento per i cittadini sul territorio per quanto riguarda "la salute" nel senso più ampio del termine.
Prima di lasciare la parola ai relatori e al moderatore del Convegno, non posso non ringraziare tutti
coloro che hanno collaborato per realizzarlo, la direzione generale e aziendale, che ha accettato questa
proposta di riflessione storico culturale, e tutti voi che avete condiviso di essere qui oggi.
Dr. Giampaolo Martina
Primo intervento:
C'è chi poco fa mi sollecitava a trasmettere in modo vivo ed approfondito il pensiero di Franco
Basaglia. Mi spiace di non poter soddisfare queste aspettative se non in parte. Descrivere il pensiero di
Franco Basaglia nel suo percorso evolutivo è per me un compito troppo complesso.
Credo però che possa essere di interesse, e strettamente legato al tema del Convegno, quel che posso
dire sulla lotta al manicomio, sul movimento di Psichiatria Democratica e sul dibattito riguardante la
Legge 180.
Ho cominciato a lavorare in manicomio nel 1970, facendo parte di un gruppo di giovani medici, che
operava per i servizi psichiatrici della Terraferma veneziana, a San Servolo in Venezia e nel centro di
salute mentale di Mestre.
Tale gruppo si è subito orientato per una aperta critica alla gestione manicomiale della malattia mentale
e verso una ricerca teorico e pratica, che desse impulso ad una nuova psichiatria.
Nel 1974 sono entrato nel movimento di Psichiatria Democratica, svolgendo anche le funzioni di
segretario della sezione di Venezia sino alla fine del 1976, quindi della sezione di Trento, eletto nel
settembre 1976 nel Direttivo nazionale della stessa.
Ripensando a queste mie esperienze, devo dire che resto amareggiato e irritato da quello che leggo su
Basaglia, la lotta anti istituzionale e Psichiatria Democratica.
Più spesso si tratta di articoli a firma di qualche giornalista, ma anche descrizioni o considerazioni di
psichiatri e psicologi, che lavorano nel campo della psichiatria e della salute mentale infantile, non ne
differiscono di molto.
Di fatto si insiste essenzialmente sulla figura di Franco Basaglia, come uno psichiatra che, in totale
inconsapevolezza del mondo della sanità (dopo più di dieci anni di lavoro presso una clinica
universitaria!) e delle istituzioni psichiatriche ed in isolamento culturale, viene per così dire folgorato
sulla via di Gorizia. Decide così, a capo di uno striminzito manipolo di discepoli, di trasformare la
psichiatria italiana, di rovesciare ed abbattere ogni tipo di struttura assistenziale segregante, di chiudere i
manicomi, e ... ci riesce.
Questa grave distorsione della storia è il prodotto di un infantilismo culturale e politico, che non può
accettare che per cambiamenti così importanti in campo sociale sia necessaria un'azione “di massa” di
lungo periodo.
Un nutrito numero di operatori psichiatrici (psichiatri, psicologi, assistenti sociali e sanitarie, infermieri
ecc.), organizzazioni sindacali e partitiche e semplici cittadini hanno sostenuto una lotta molto dura
contro le arretratezze culturali e gli interessi economici, elettoralistici, di partito ecc., che mantenevano
la follia e il crimine dei manicomi.
Già questo fa intuire come nel comune impegno per un cambiamento radicale delle istituzioni
psichiatriche, ma anche delle altre sanitarie ed assistenziali, le posizioni politiche e scientifiche non
potessero essere così omogenee, come si vuole tuttora far credere.
Un esempio è quanto accade all'interno di Psichiatria Democratica. Nata nel 1973, la sua definizione
come organizzazione strutturata (con una segreteria, un direttivo nazionale etc.) ha luogo al primo
Congresso ad Arezzo il 24-26 settembre del 1976.
Si sono riuniti oltre 160 delegati provenienti da tutta Italia. La segreteria precongressuale fondatrice del
movimento (Basaglia. Ongaro, Pirella, Piro, Slavich, Accattatis, Risso, Marzi ecc.) al momento delle
elezioni del Direttivo nazionale insiste e fa pressione sull'assemblea perché vengano votati alcuni
“preferiti”.
All'interno di questa lista appaiono i nomi di due psichiatri iscritti al Partito Comunista Italiano, non
conosciuti come parte attiva del movimento. Non compare invece quello di Giovanni Jervis, psichiatra
ben noto per il suo lavoro teorico e pratico non solo contro il manicomio, ma anche contro i sistemi
assistenziale, educativo, sanitario, dai quali esso assume di fatto molte delle proprie caratteristiche.
Avendo fatto parte del gruppo goriziano ha scelto poi di impegnarsi per un lavoro sul territorio,
responsabile dei servizi psichiatrici della Amministrazione Provinciale di Reggio Emilia.
Scrive a ripetizione anche sugli aspetti tecnici del lavoro psichiatrico, come la formazione degli
operatori, la psicoterapia, la psicoanalisi; non nasconde critiche alla gestione ambigua e contraddittoria
della politica psichiatrica da parte di politici ed amministratori dei partiti della sinistra. Segnala poi in
modo reiterato e pungente la presenza di semplificazioni e banalizzazioni a livello culturale e politico
anche all'interno di Psichiatria Democratica.
A questo punto prende corpo una aperta contestazione da parte dei delegati e nelle elezioni Jervis
risulta il primo eletto (134 voti su 155 schede valide), mentre Basaglia occupa l'ottava posizione. Questo
avvenimento viene sottaciuto da numerosi “storici” della psichiatria alternativa in Italia, in ogni caso si
evita di entrare nel merito con una analisi chiara ed esplicita.
Lo stesso prof. Minguzzi presidente di P.D., persona di grande onestà intellettuale, a distanza di tempo
definirà la situazione semplicemente come “confusa”. Ciò mi fa pensare che veramente non era stato in
grado di comprenderla del tutto.
C'è evidentemente la necessità di creare dei miti, piuttosto che riflettere sulla complessità delle
situazioni e imparare dall'esperienza. Riflessione che è necessaria, non per rinverdire antiche diatribe,
ma per una maggior comprensione e capacità di scelta rispetto alla politica sanitaria e psichiatrica
attuale.
Psichiatria Democratica nasce con una spaccatura, che non si sanerà nel tempo, all'interno del Direttivo
e del movimento generale.
Certo alcuni centrano essenzialmente il proprio discorso sulla necessità che tutte le energie siano rivolte
all'abolizione del manicomio, mettendo tra parentesi la malattia mentale e gli aspetti teorici che la
definiscono, a volte con atteggiamenti che suggeriscono la negazione della stessa psichiatria. Altri, pur
partendo da una comune analisi di classe per individuare le funzioni sociopolitiche delle istituzioni
psichiatriche e assistenziali segreganti, per le quali non si può accettare un semplice ammodernamento,
si interrogano su un modo nuovo di rispondere ai bisogni del paziente malato di mente, sostenuti anche
da una conoscenza più approfondita del ruolo dei fattori psicologici e delle modalità di trattamento
psicoterapiche, specie di gruppo.
In ogni caso nego in modo assoluto quanto sostenuto a più riprese da una controparte culturale e
politica tendente a squalificare Basaglia e il movimento di Psichiatria Democratica, cioè che per questi la
malattia mentale non esiste nemmeno, anzi considerano emarginati, carcerati, reclusi in manicomio
quali “naturali” agenti rivoluzionari.
Nei primi anni '70 a San Servolo (uno dei due manicomi veneziani) si riunisce, come ho già detto, un
gruppo di giovani medici.
Nel 1968 infatti era stata emanata una legge, la n. 431, detta Mariotti dal nome del ministro socialista
proponente, che per alcuni aspetti parificava l'ospedale psichiatrico a quello civile, con un
ridimensionamento drastico delle mega-strutture manicomiali (alcune contenevano migliaia di
ricoverati), l'aumento del personale all'interno delle stesse, il potenziamento dei servizi territoriali,
l'individuazione di alcune nuove figure professionali, come lo psicologo, e - quello che è più importante
- la possibilità di trasformazione del ricovero coatto in volontario ed abolizione del casellario
giudiziario.
È grazie a questa nuova normativa che nell'arco di tempo di un solo anno vengono assunti dieci giovani
medici. Precedentemente operavano nell'ospedale quattro medici, impegnati nelle ore mattutine, ad
eccezione naturalmente del giorno di guardia. Trecentocinquanta pazienti era un numero piuttosto
contenuto rispetto ad altre istituzioni, in ogni modo è intuibile che era gestito di fatto dal personale
infermieristico.
I giovani medici passano gran parte del tempo con i pazienti e gli infermieri, discutono
quotidianamente tra loro e gli altri operatori i problemi da affrontare, scambiano le proprie esperienze,
in un tempo pieno, a volte troppo pieno.
Nel 1973 sono parte attiva di uno sciopero di 24 giorni di tutto il personale del manicomio, che
costringe l'Amministrazione Provinciale a firmare un accordo per il decentramento dei servizi, una
nuova organizzazione del lavoro basata sulla formazione permanente, la degerarchizzazione ecc..
La maggior parte di questo gruppo, facente parte di Psichiatria Democratica, si occupa da subito anche
della propria formazione, si interessa alla psicopatologia, alla psicodinamica, alla psicoanalisi. Io stesso
sono socio fondatore di un Centro internazionale di studi con tali finalità.
Ma posso assicurare che la voglia di approfondimento era comune a molti colleghi, in molte parti
d'Italia. Per la mia formazione partecipavo infatti a sedute di psicoterapia di gruppo, con persone che
venivano dalle zone più remote. Naturalmente queste attività si svolgevano nel proprio tempo libero, ad
esempio nel fine settimana.
Tra queste desidero ricordare la dottoressa Vanda Milano, psichiatra presso l'ospedale psichiatrico di
Feltre, che svolse, all'interno della Commissione parlamentare di igiene e sanità pubblica, in
rappresentanza del Partito Comunista Italiano, un ruolo molto importante nella definizione e
approvazione della Legge 180. Purtroppo questa amica è deceduta nemmeno un mese fa.
È vero che in base a “parole d'ordine” provenienti anche dai vertici di Psichiatria Democratica i
partecipanti ad alcuni convegni si sono espressi contro la psicoanalisi e la psicoterapia come interventi
”repressivi” e funzionali ad una psichiatrizzazione dei problemi sociali della popolazione, ma,
nonostante ciò, molti, come me, non li hanno vissuti come contraddittori con il proprio impegno
sociale e politico, anzi.
L'esito della votazione al Congresso di P.D. sta ad indicare che una buona parte dei delegati, oltre ad
essere insofferente per l'atteggiamento paternalistico del nucleo “storico” e critico del comportamento
tenuto in quegli anni da aderenti al P.C.I. nei confronti dell'azione di Psichiatria Democratica, non
condivideva il discorso basagliano, in tutti i suoi aspetti.
Altri elementi sembrano corroborare questa mia valutazione. Tra i delegati era presente un numero
piuttosto nutrito di colleghi conosciuti nel corso delle mie attività di formazione (compresa quella per la
specializzazione in Psichiatria) o per i loro scritti, che ponevano grande attenzione agli aspetti
psicodinamici della relazione, spesso impegnati non solo in manicomio, ma anche sul territorio con
pazienti adulti e minori.
Certamente non potevano esser concordi con chi predicava il rifiuto di queste conoscenze e tecniche,
come semplice espressione del potere borghese, quindi “naturalmente” manipolatrici e repressive nei
confronti del malato di mente.
Non dimentichiamo che la lotta contro le strutture segreganti si è rivolta anche alla chiusura degli istituti
assistenziali e sanitari per l'infanzia e l'adolescenza, per offrire invece un aiuto coordinato tra più servizi
nell'ambiente di vita dell'assistito, si è rivolta allo smantellamento delle scuole differenziali e speciali e
all'inserimento dei minori in difficoltà nella Scuola di tutti.
Non c'è qui il tempo per trattare in modo adeguato questa parte, poco conosciuta dalle generazioni più
giovani, anche perché in genere poco ricordata da chi scrive la storia del movimento anti istituzionale di
allora. Spero di poter segnalare in bibliografia alcuni riferimenti interessanti.
Alla fine del 1976 ho lasciato il manicomio per fare il neuropsichiatra infantile in un servizio territoriale
in Trentino.
Ciò ha voluto dire tra l'altro entrare in contatto e in conflitto con la situazione culturale, sociale, politica,
che continuava a sostenere il manicomio, in armonia con le altre organizzazioni assistenziali e sanitarie.
Ma qui il discorso, pur coerente col tema del Convegno, diverrebbe troppo esteso oltre che di difficile
sintesi.
Voglio solo segnalare che la negazione della malattia mentale, è ancora imperante nella nostra società.
Questo è più evidente nella risposta ai disturbi psichici dei minori (per i quali si continua a non voler
vedere connessione alcuna con la malattia mentale dell'età adulta).
Non è un caso se fuori della porta del servizio, nel quale ho concluso la mia attività, allora definito
chiaramente di Neuropsichiatria infantile, almeno dal 2004 si legge “Unità Operativa famiglia ed età
evolutiva”. Che vuol dire? Si tratta di una struttura educativa o assistenziale o sanitaria? Forse di tutto
un po'.
Ma quello che per me è evidente, anche in base alla mia esperienza, è che la maggior parte della gente,
dei medici sia di base che ospedalieri, dei politici pensa che qualche educatore o riabilitatore di buona
volontà alla fine sia sufficiente per rispondere ai bisogni di qualche “handicappato” e della sua famiglia.
E poi un vero servizio specialistico non è ospedaliero? Come può esserlo uno ambulatoriale?
Se medici e psicologi, che vanno in pensione, da anni non vengono sostituiti c'è chi avanza una debole
protesta; ma dove volete che prioritariamente risparmi sulle spese l'azienda sanitaria?
È così che i fisioterapisti, i logopedisti, gli psicomotricisti hanno in trattamento i casi più difficili di
psicosi infantile, naturalmente di quelle famiglie che non hanno le risorse economiche per rivolgersi ad
un privato.
Spero che questo racconto, che risveglia in me ancora tante emozioni, possa contribuire a far percepire
meglio in quale contesto la Legge 180 si sia sviluppata e sia potuta arrivare in porto. Naturalmente si
tratta di una lettura personale, che per fortuna oggi può essere integrata (e in parte corretta) da quella
degli altri relatori, colleghi di vasta esperienza e che hanno svolto un ruolo importante nella
elaborazione e promozione della riforma psichiatrica.
Secondo intervento:
Non sono in grado di rispondere in modo esauriente sugli ultimi sviluppi della situazione, perché da
tempo non lavoro più nei servizi psichiatrici, specie in quelli per gli adulti.
Credo di poter dire però con sicurezza che con la legge 180 il servizio psichiatrico non è più collocato,
relegato in uno spazio “alieno”, tra l'assistenziale e il giudiziario.
Il ricovero non è più una misura di sicurezza necessaria per impedire al paziente di diventare un
delinquente (qual era considerato in potenza). Il paziente psichiatrico è ora un cittadino in carico alla
Sanità. Si tratta di una conquista politica e sociale importante e decisiva.
Purtroppo bisogna però constatare che molti obiettivi della Riforma Sanitaria (e quindi di quella
psichiatrica che ne fa parte) continuano ad essere ostacolati.
Dico a buona ragione continuano. Ricordo infatti che in Trentino, dove poi si elaboreranno (in
coordinamento con l'Emilia Romagna) piani sanitari, che serviranno da modello ad altre Regioni, pochi
mesi dopo la entrata in vigore della legge (23 dicembre 1978), i quotidiani locali titolavano sulle prime
pagine “Riformare la riforma?”.
D'altra parte ricordo anche che già nell'agosto 1979 il ministro della Sanità del novello governo Cossiga
era l'on. Altissimo del Partito Liberale Italiano, partito che assieme al Movimento Sociale Italiano aveva
votato contro la Riforma Sanitaria.
Se pensiamo che punti cardine della stessa erano: la unitarietà in ogni servizio delle attività di
prevenzione, cura e riabilitazione, il ridimensionamento della centralità dell'ospedale, il netto sviluppo
dei servizi sul territorio coordinati tra loro e con le strutture di ricovero, il controllo da parte dei
cittadini e delle forze sociali sulla operatività e funzionalità dei servizi sociosanitari, credo che abbiamo
l'impressione di sentire delle voci provenienti da un altro mondo.
Gli episodi di malasanità, che tanto clamore suscitano tra la gente, assumono un aspetto folkloristico, se
si tiene conto di quello che viene prodotto in modo routinario, nel silenzio quotidiano, da una rete
diffusa di interessi, che ha ben poco rispetto per i bisogni del cittadino.
Ma voglio tornare a Basaglia, alla posizione di Psichiatria Democratica rispetto alla Legge 180.
Non è vero che, quella che da sempre è chiamata nei giornali, alla televisione, alla radio “Legge
Basaglia”, sia stata fatta da Basaglia.
Non solo non l'ha fatta, ma non l'ha mai amata, perché si rendeva conto che la chiusura degli ospedali
psichiatrici e la centralità dei servizi extraospedalieri (la parte della legge che può essere chiamata a
buona ragione sua) erano piuttosto una dichiarazione di principio, visto che in essa non esisteva alcun
supporto coercitivo o di risarcimento economico per obbligare-allettare le Provincie a rinunciare ai
vecchi centri di potere per investire sul personale e sulle strutture territoriali, così fuori dal proprio
controllo.
Sapeva che l'unico punto che avrebbe avuto realizzazione in tempi brevi sarebbe stata la creazione dei
posti letto negli ospedali generali, col rischio di trasformarsi, magari in forma mascherata, in reparti
classici di psichiatria.
Il servizio psichiatrico sarebbe stato fagocitato dal potere esorbitante dell'ospedale civile, con
assopimento della spinta culturale e politica al cambiamento, che il movimento della nuova psichiatria
portava con sé. Sarebbe avvenuta inoltre una nuova “contenzione” dei pazienti tramite una
medicalizzazione dei loro problemi sociali .
Era particolarmente critico su un altro punto: il trattamento sanitario obbligatorio (art. 30); vedeva il
pericolo di una riproposizione di una norma speciale per il malato di mente, senza una adeguata tutela
da parte del giudice.
Si tenga conto, d'altra parte, che la promulgazione della legge di Riforma Sanitaria era annunciata come
imminente, ma, se non fosse andata in porto, la legge 180 avrebbe corso il rischio di restare ancora una
volta una leggina settoriale, speciale.
Quanto riferisco è facilmente reperibile in interviste giornalistiche ed interventi a convegni nella
imminenza della emanazione della legge e subito dopo.
Ad esempio pochi giorni dopo la sua approvazione Basaglia scrive: “Non vi sono garanzie che la
situazione muterà in modo sostanziale. È facilmente prevedibile una generica riconversione
dell'assistenza psichiatrica nella medicina, come già in altri paesi è avvenuta.” (Convegno nazionale sui
Progetti finalizzati di medicina preventiva, Roma 17-20 maggio 1978).
Anche il Direttivo di Psichiatria Democratica in più occasioni aveva discusso quanto proposto in alcune
bozze della legge e il 29 aprile 1978, riunitosi ad Arezzo, aveva esaminato e dibattuto i vari punti,
esprimendo numerose critiche, una valutazione globalmente negativa.
Di fatto la legge 180 potrebbe essere chiamata allo stesso modo legittimamente “Legge Novello”.
Voglio dire che assieme alla parte “basagliana”, o meglio di tutto il movimento della nuova psichiatria,
su citata, che con la chiusura del manicomio mette in grave dissesto lo stesso cuore ideologico della
psichiatria e delle forze politiche più conservatrici, ci sta una parte corposa, che riproduce alla lettera le
richieste dell'associazione sindacale A.M.O.P.I. (Associazione medici organizzazioni psichiatriche
italiane).
Da almeno una decina di anni questa si batteva ed insisteva per inserire la psichiatria, i pazienti di sua
competenza e le strutture deputate, costrette dallo Stato in una “terra di nessuno”, nella sanità generale.
Lo psichiatra dell'ex manicomio doveva avere la stessa dignità e riconoscimento economico di quello
della clinica universitaria e dell'ospedale civile; così è in questo ambito che i posti letto dovevano essere
organizzati e i pazienti psichiatrici assumere lo stesso valore di qualsiasi altro cittadino in cura presso un
servizio specialistico.
La legge 180 è il prodotto di un compromesso all'interno della coalizione dei cinque partiti di governo,
col ruolo trainante della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista Italiano, sostenuto
“tecnicamente” da Psichiatria Democratica, dall'A.M.O.P.I. e dalla S.I.P. (Società Italiana di Psichiatria).
Questa importante conquista si mostra tanto più preziosa, se solo si considera la violenza degli attacchi
alla quale continua ad esser sottoposta a distanza di trentacinque anni.
Molte Regioni non hanno chiuso il manicomio nemmeno a distanza di un decennio e si sono ben
guardate dall'investire nella organizzazione dei servizi territoriali anche solo quanto ricavato dalla
riduzione del numero degli assistiti e del personale infermieristico nei manicomi.
Si è creato, in un modo che non esito a definire delinquenziale, un vuoto assistenziale, provocando
grandi sofferenze e giusti allarmi nella popolazione.
Solo nel 1994, grazie ad un'azione in comune di P.D. e della Società Italiana di Psichiatria iniziata nel
1992, è stato predisposto dallo Stato un Piano Obiettivo nazionale per la tutela della salute mentale.
Solo nel 1996 la Legge n.662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica, articoli 20-25),
prescrivendo, in sede di ripartizione del fondo sanitario nazionale, una riduzione della quota spettante,
per le Regioni inadempienti nella adozione di appositi strumenti di pianificazione per l'attuazione di
quanto previsto dal progetto obiettivo “Tutela della salute mentale 1994-1996” e nella chiusura degli
ospedali psichiatrici entro il 31 dicembre 1996 (già previsto dalla legge 23 dicembre 1994 n.724) è
riuscita a costringere tali enti a scemare il proprio ostruzionismo.
Alcuni hanno proseguito con false chiusure, cambiando solo le etichette a pazienti e strutture, non
utilizzando la legge n.662, che consentiva di acquisire dei fondi con la vendita di beni mobili ed
immobili dell'ospedale psichiatrico dismesso e finanziare il potenziamento di centri diurni e case
alloggio.
Solo nel 1999 il ministro della Sanità Rosy Bindi ha potuto annunciare la definitiva chiusura dei
manicomi. Naturalmente ciò non può corrispondere alla realtà, considerati i contenuti delle relazioni
delle Commissioni parlamentari di qualche mese prima. Segnala solo un qualche miglioramento della
situazione.
Nel frattempo ed anche recentemente ripetuti progetti di legge sono stati presentati in Parlamento, non
tanto per integrare, ma per inficiare l'applicazione della legge180, o per meglio dire della riforma
sanitaria.
Una recente relazione (30.01.2013) della Commissione parlamentare di inchiesta sull'efficacia ed
efficienza del Servizio Sanitario Nazionale segnala riguardo ai Dipartimenti di Salute Mentale: frequenti
applicazioni incomplete delle indicazioni di legge e del progetto obiettivo, con deroghe non sempre
legate ad impedimenti economici, apertura solo diurna dei Centri di salute mentale, spesso per cinque
giorni a settimana, ridotti gli interventi a domicilio, visite ambulatoriali ogni 2-3 mesi essenzialmente per
il controllo psicofarmacologico.
Il ricordo va agli inizi della mia attività, quando, pur con la più buona volontà dei vari operatori, spesso
si scopriva che il paziente non l'aveva visto nessuno da anni; magari con regolarità al Centro di salute
mentale erano venuti i parenti a ritirare le medicine.
Tutto ciò produce uno scarico sul Pronto Soccorso dell'Ospedale Civile, “inevitabili” ricoveri presso i
posti letto psichiatrici di diagnosi e cura, nella maggior parte chiusi e con pratiche di contenzione, e
presso le cliniche private convenzionate, accessibili anche senza il coordinamento del Centro di Salute
Mentale.
Anche per i servizi per la salute mentale dell'infanzia e della adolescenza sono riscontrate grandi
difformità sui posti letto e sulla organizzazione dei servizi territoriali e difficoltà di integrazione con gli
stessi Dipartimenti di Salute Mentale e Materno-infantile.
Aggiungo in base alla mia esperienza: appartenenza formale, come dalle indicazioni dei Progetto
Obiettivo Nazionali e dei Piani Sanitari Regionali, a Dipartimenti con l'area materno-infantile e la salute
mentale adulta, di fatto mai operativi.
Insomma un passo importante è stato fatto ed è stato possibile grazie alla spinta culturale e politica del
movimento del 1968 e le lotte degli anni '70 di studenti, operai, sanitari, educatori ecc. per il rispetto dei
diritti alla salute, allo studio, con particolare riguardo ai malati di mente, gli handicappati, le donne.
Ora ci sono tanti operatori motivati, con idee e nuove energie da mettere in campo.
Pedantemente suggerisco loro di occuparsi anche della storia della nostra disciplina e delle nostre
istituzioni sociosanitarie, valido aiuto alla lettura dell'attualità..
Dr. Eliodoro Novello
Io sono molto grato al collega Martina perché quello che ha detto mette in luce in parte la fonte del
mito Basaglia.
Basaglia era un veneziano come me, eravamo coetanei, ci conoscevamo, ci si stimava a vicenda. Però lui
veniva da un iter universitario, legato alla Clinica universitaria delle malattie nervose e mentali di Padova,
in cui doveva lavorare per conseguire la libera docenza, che apriva la strada alla carriera universitaria
come in tutta Italia.
In essa lo studio era centrato sulla Neurologia mentre l’interesse per i problemi psichiatrici avevano un
ruolo marginale e pochi letti erano riservati agli affetti da disturbi psichici, scelti quasi esclusivamente in
funzione delle poche lezioni accademiche dedicate a tale patologia. Però la vita in ambiente
manicomiale era tutt’altra cosa. In tale contesto universitario Franco Basaglia con il suo preminente
interesse per la psicopatologia rappresentava quasi una eccezione e il suo punto di riferimento era, quasi
clandestinamente, come mi risulta personalmente, il direttore dell’Ospedale Psichiatrico di Padova, il
prof. Barison.
Il prof. Barison, di cui ho avuto l’occasione insperata di diventare assistente nell’Ospedale Psichiatrico
poco dopo la mia laurea, era all’epoca uno dei pochi psicopatologi italiani di vaglia, conosciuto anche
all’estero (basta citare il prof. Henry Ey luminare della psichiatria francese del tempo) per pubblicazioni
di psicopatologia, edite già ai 28 anni.
Mi piace anche quello che ha detto il collega Martina, relativamente al movimento Psichiatria
Democratica fondato nel 1973 e alla posizione di Franco Basaglia che pur nel suo fondamentale
apporto alla polemica anti-istituzionale non ha mai negato l’esistenza dei problemi legati alle malattie
mentali.
Nella relazione da lui tenuta a Padova, prima citata dal dottor Cuccato, di fronte a richieste specifiche
dall’uditorio se credeva alla patologia mentale affermò che esisteva e che abbisognava di cure, anche se
occorreva distinguere tra la realtà di una vera malattia e ciò che veniva etichettato come psichiatrico, ma
era frutto invece di un disagio sociale. Un’altra domanda che ricorreva abbastanza frequentemente in
quell’incontro: l’ideologia serve? Infatti il movimento antistituzionale costituitosi in Psichiatria
democratica, era molto legato all’ideologia e come sta scritto dal testo del dottor Cuccato lui disse di no.
Ora tutto questo mi permette di introdurre il perché fra Psichiatria Democratica e il movimento Amopi
(Associazione Medici Ospedali Psichiatri Italiani) c’è stato un percorso anche conflittuale con critiche
da parte di membri di Psichiatria democratica, nei confronti della nostra azione, azione che era legata a
dei propositi ben precisi.
Ritengo necessario parlarvi di una storia lontana per voi ma che può servirvi per capire qualcosa anche
di certa cultura attuale. Quali e dove erano gli ospedali psichiatrici in Italia negli anni cinquanta? Le
uniche regioni in cui ogni Amministrazione Provinciale gestiva direttamente un ospedale psichiatrico
erano il Veneto, la Lombardia, il Piemonte; la Liguria ne aveva due, ma che non servivano il versante
occidentale della stessa regione, i cui malati venivano ricoverati altrove. Anche l’Emilia Romagna ne
aveva più di uno ma erano gestiti in modo consortile. La Toscana era abbastanza ben fornita perché
aveva alle spalle tutto ciò che si era cominciato a fare per l’assistenza ai malati mentali, con l’appoggio
del Granduca di Toscana, dal famoso Prof. Chiarugi a cui è intitolato tuttora l’ex manicomio di Firenze;
ma anche a Perugia e nelle Marche, e in parte nella Sicilia. Al di fuori di questo c’erano strutture isolate
per lo più legate a iniziative religiose a Roma, Napoli, e qualcosa in Puglia e in Campania.
Parecchi di noi medici psichiatri, per motivi economici che ci legavano al restante personale delle
Amministrazioni provinciali, facevamo parte dei Sindacati generali CISL e CIGL. Per caso ci siamo
incontrati abbastanza numerosi ad Ancona nel 1962, dove mettemmo in discussione il fatto di non
essere considerati medici nella pienezza delle funzioni, con ripercussioni negative anche sul piano
economico.
Infatti l’unico medico la cui figura aveva valore amministrativo-legale in base alla legge Giolitti era il
direttore dell’Ospedale Psichiatrico, che fra l’altro non era sempre uno psichiatra; la legge del 1904 e
relativo regolamento stabilivano che per diventare direttore dell’Ospedale Psichiatrico occorreva la
libera docenza o in Malattie nervose mentali o in Medicina legale.
Io purtroppo ho fatto una esperienza di sei mesi a Venezia a San Servolo, ben prima del dottor Martina.
avendo come direttore un medico legale. Mi esimo da ogni commento.
Quando ci incontrammo ad Ancona constatammo che eravamo quasi tutti più o meno delle classi del
1924 e del 1925, gente che durante la Repubblica di Salò aveva dovuto decidere di dove e con chi stare.
Il gruppo più deciso era di quelli che avevano rifiutato l’arruolamento fra i repubblichini: alcuni se ne
erano andati sulle montagne come il prof. Massignan e il sottoscritto; altri come il prof. Barucci era
stato catturato a Firenze nell’ultimo rastrellamento prima che tedeschi e fascisti abbandonassero la città
per concentrarsi sulla linea gotica e successivamente fu portato in Germania; e poi c’era il buon dottor
Coen-Giordana, che era riuscito a sfuggire alle retate antisemite, e così via..
La cosa su cui ci trovammo subito d’accordo era che noi, che avevamo rischiato non poco la vita in
nome della libertà, eravamo enormemente esposti nel trovarci ad essere i custodi, Kapò, di un lager
come era il manicomio, dato che con la legge Giolitti il cittadino dichiarato malato dal giudice titolare su
indicazione del direttore dell’Ospedale Psichiatrico era escluso dal diritto fondamentale per un cittadino.
Poche settimane dopo ci riconvocammo a Bologna e lì decidemmo di agire come gruppo sindacale
autonomo dato che sia nell’ambito della Cisl che nell’ambito delle Cgil ci eravamo accorti che il
problema di modificare il quadro dell’assistenza manicomiale non trovava alcun spazio. Ma non trovava
spazio neanche nei partiti a cui per lo più noi appartenevamo, soprattutto Democrazia Cristiana e
Partito Comunista.
Sotto la guida del Prof. Mario Barucci decidemmo così quella che è poi rimasta sempre la nostra forza,
cioè il rifiuto di qualsiasi connotazione politica e quindi il rifiuto di qualsiasi condizionamento politico.
A quel punto però dovemmo trovare uno strumento operativo, che individuammo nella Amopi,
associazione istituita tre anni prima ad opera soprattutto di colleghi meridionali, in gran parte direttori,
in cui si parlava di libere docenze, assistenza, di rivalutazione economica. In realtà tali propositi non
avevano trovato realizzazione, a parte gli accordi con gli universitari riguardanti le libere docenze e di
conseguenza l’accesso alla direzione degli Ospedali Psichiatrici.
Il progetto possibile era di vincere il Congresso annunciato a Napoli nel 1963, ma di fronte a certi
cattedratici, a certe figure di potere la nostra posizione era impari data la nostra età relativamente
giovane, non avendo ruoli importanti. Perciò su iniziativa soprattutto dell’amico Barucci convincemmo
il prof. Barison ad essere la nostra bandiera, data la sua autorevolezza in campo scientifico e la sua
azione in campo assistenziale. Così andammo a Napoli e riuscimmo a vincere.
A ben chiarire il significato della nostra azione e del suo successo fu l’esordio programmatico del prof
Barison. Con la sua cultura di fenomenologo, con l’esperienza di chi aveva veramente cambiato la
struttura organizzativa e partecipativa all’interno del manicomio di Padova, egli aveva iniziato da anni
qualcosa che in Italia allora non era concepibile. Infatti aveva imposto a tutti noi, che volevamo far
parte della sua equipe, la considerazione di lavorare solo per l’ospedale e non fare la libera professione,
avendo però a disposizione una biblioteca ricchissima superiore a quella dell’Università. Forse
Balestrieri lo ricorda e un laboratorio di test proiettivi centrato sulle ricerche relative al Rorschach, di cui
era maestro, perché frequentatore e in parte responsabile all’Università Cattolica di Milano di uno fra i
pochi centri italiani dove quel test veniva studiato.
Questa la nostra bandiera, con accanto la prospettiva di un’azione sindacale tesa al riconoscimento
anche economico: per esempio uno nel mio ruolo guadagnava un terzo di quello che guadagnava un
assistente volontario dell’ospedale civile (Martina: “scusa, in coerenza col valore sociale assegnato al
nostro paziente”).
Dominava però il disegno di promuovere una cultura degli psichiatri ben più approfondita di quanto
prospettato dagli studi universitari del tempo. La nostra lotta è cominciata cercando anzitutto di
aggregare i colleghi degli Ospedali Psichiatrici di tutta Italia: all’inizio eravamo 350, in breve arrivammo
a quasi 800; quindi l’adesione si estese a tutta la platea degli ospedali. Però non è stato facile convincere
i colleghi perché, relativamente ai nuovi progetti operativi Amopi, nelle Amministrazioni provinciali da
cui dipendevano era praticamente riconosciuto come medico solo il direttore dell’Ospedale Psichiatrico.
Aveva infatti il rapporto diretto con gli uffici giudiziari per dichiarare il malato meritevole o meno di
dimissione, oppure di una conduzione della cura. In quanto dipendenti in pratica dal Ministero degli
interni eravamo considerati come semplici impiegati e come tali pagati. Per questo in tutte le Provincie,
eccetto Padova, date le premesse personali di Barison, i colleghi giustamente rimediavano alle carenze di
tipo economico, operando come consulenti per l’Inam, l’Inal etc., essendo quasi tutti neurologi.
Potevano così integrare il modesto stipendio assegnato dalle Amministrazioni provinciali. Per noi di
Padova c’era sì l’introito del servizio di elettroencefalografia, che pur in conflitto con quello della
Università ci dava qualcosa in più, ma non era sufficiente.
Accanto al Barison presidente c’era però come segretario nazionale il Prof. Mario Barucci, morto
alcuni anni fa, che è stato veramente il principale attore della nuova Amopi, di cui è stato il primo
segretario generale eletto. Egli impostò anzitutto un giornale di comunicazione con i soci, in modo che
finalmente gli psichiatri degli Ospedali Psichiatrici potessero comunicare fra di loro, spiegare quale fosse
la loro situazione e quindi quella degli ammalati.
Su questo filone comunicativo e con un certo tipo di approccio culturale alle spalle arrivammo ad avere
intorno agli anni ‘60, attraverso soprattutto l’onorevole professoressa Marcella Balconi, neuropsichiatra
infantile, le prime realistiche indicazioni politiche per una legge che modificava quanto stabilito da
Giolitti.
Per la legge Giolitti si veniva ricoverati in ospedale psichiatrico teoricamente su indicazione di un
giudice tutelare con successiva delibera del direttore dell’Ospedale Psichiatrico. In realtà nei 25 anni che
ho operato nell’Ospedale Psichiatrico vigente quella legge, ho visto solo due ricoveri indetti dal giudice
tutelare; tutti gli altri erano fatti dai responsabili della pubblica sicurezza con successiva convalida del
giudice. Il dettato legislativo relativo all’ordinanza di ricovero parlava sì di pericolosità per sé o per gli
altri, ma anche di pubblico scandalo.
L'imputazione di pubblico scandalo a livello di polizia e in generale di società, dobbiamo pur dirlo,
veniva attribuito anche all’odierno barbone, all’alcolista, ma quello che era più grave per noi che lo
abbiamo vissuto era dato dal fatto che nelle case di risposo di allora chi defecava a letto, chi urlava di
notte, pur non essendo un demente, veniva dichiarato di pubblico scandalo per la collettività in cui
alloggiava e perciò veniva ricoverato nell’Ospedale Psichiatrico.
Spesso lo stato fisico e comportamentale, pur migliorati, rendeva impossibile la dichiarazione di
guarigione da parte del medico, come imponevano la legge e il relativo regolamento e perciò gli ospedali
psichiatrici erano ampiamente occupati in maniera assurda da persone, che non avevano bisogno di
assistenza psichiatrica, ma solo di un’assistenza generale.
Partendo da ciò cominciammo ad andare addosso ai politici, sostenendo appunto il progetto Balconi.
che poi si arricchì dei contributi di altri partiti.
Ma l’imprevista caduta della legislatura diede luogo al primo governo a partecipazione socialista e alla
nomina del senatore Luigi Mariotti, un toscano di Firenze, che riuscì a portare avanti la trasformazione
delle opere pie ospedaliere, per lo più di origine religiosa, in enti ospedalieri (Legge n.132 del 12
febbraio 1968). Fra gli enti ospedalieri inserì oltre agli ospedali già opere pie, quelli dell’Inail, i sanatori,
qualcosa dell’Inps, ma lasciò fuori gli Ospedali Psichiatrici.
Facemmo uno sciopero di quelli solidi, ma al momento senza grossi risultati. I risultati vennero invece
successivamente quando egli fece pubblicare il famoso “Libro bianco sulla psichiatria”, in cui accusava
praticamente gli psichiatri della mala gestione dei malati mentali.
Rispondemmo con un libro bianco (c’è lo qui sul tavolo) intitolato “L’assistenza italiana psichiatrica
cerca ancora la legge”, in cui affermavamo che la responsabilità era soprattutto delle Amministrazioni
provinciali dato che i miseri stipendi da essi forniti costringevano i medici a cercare altrove una
integrazione economica, al dì fuori dell’impegno ospedaliero e di conseguenza i malati dell’Ospedale
Psichiatrico erano affidati veramente quasi solo agli infermieri.
L’Amopi voleva ribaltare quasi completamente tutto questo e lo dicemmo chiaramente. Il risultato fu
che ad un certo punto ci fu una convergenza fra i più importanti partiti del tempo (democristiani,
comunisti, socialisti) per arrivare ad una legge speciale sganciata da quella degli ospedali generali. Non
dichiaravano però quella che è stata la vera ragione del perché gli ospedali psichiatrici non erano stati
trasformati in enti ospedalieri.
La realtà era che metà dei bilanci delle amministrazioni provinciali erano legati alla gestione
dell’Ospedale Psichiatrico e in particolare ai problemi del personale infermieristico. Era il periodo della
migrazione della campagne alle città, verso l’industria, c’era il dato di fatto che i vari consiglieri
provinciali avevano nel rispettivo territorio molti interessi elettorali; assumere un infermiere sulla base
della semplice quinta elementare come disposto dalla legge del 1904 significava poter contare
elettoralmente sul nucleo famigliare dello stesso (Martina: a San Servolo c’erano due ispettori, uno era
della Democrazia Cristiana, uno era del Partito comunista, tanto per dire).
Questo rendeva le amministrazioni pur di diverso colore politico del tutto uguali sul piano gestionale.
Basta citare, dallo scritto datovi da Cuccato, quando disse nel ‘72 proprio Franco Basaglia: “Sono
direttore dell’Ospedale Psichiatrico di Parma e mi trovo nella stessa realtà in cui mi sono trovato dieci
anni fa nel tentativo di sovvertire l’ordine sociale interno dell’Ospedale Psichiatrico: ho vinto il
concorso a Parma e ho accettato perché si trova in una regione rossa e speravo che l’amministrazione
provinciale mi desse la possibilità di gestire diversamente l’ospedale considerato il contesto politico ben
diverso da quello, ad esempio, di Vicenza”.
Ma situazioni così agli antipodi politicamente non offrono possibilità di trasformazioni perché fanno
parte di uno stesso gioco che rende impossibile una reale trasformazione delle istituzioni” (Psichiatria
democratica fu fondata nel 1973). Questo era il clima politico e imperava soprattutto il potere politico.
Il nostro gruppo Amopi già dal 1963 con la ripresa in mano dell’associazione voleva combattere e
rovesciare questa situazione. Ci arrivammo perché alla fine i politici si resero conto che di fronte agli
scioperi che avevamo fatto, ma anche ad un certo movimento che comunicammo nella opinione
pubblica qualcosa bisognava cambiare. Cambiare come?
Escluso l’inserimento degli Ospedali Psichiatrici fra gli enti ospedalieri ci furono alcuni tentativi
legislativi parlamentari che fallirono per la loro incongruità e così vinse la nostra proposta articolata
soprattutto su 5 punti, poi accolti nella legge n. 431 “Provvidenze per l’assistenza psichiatrica”,
approvata dal Parlamento il 18 marzo 1968 (vedi articolo 1, 2, 3, 4, 5, e 11).
Cito i più importanti: anzitutto la decisione del ricovero volontario nell’Ospedale Psichiatrico, che prima
era legato all’ordinanza del magistrato o al direttore, doveva spettare al medico in servizio di guardia e
posso ricordare che nel giorno di prima applicazione della legge mi ci misi io di guardia per affermare il
diritto di valutare se le ragioni adottate per il ricovero coatto fossero valide o no, e quindi anche poterlo
rifiutare.
Debbo riconoscere che il prof. Barison pur avendo qualche perplessità non si oppose come invece
fecero i direttori di altri Ospedali Psichiatrici. All’inizio simile atteggiamento non fu facilmente
condiviso da tutti i colleghi degli Ospedali Psichiatrici soprattutto per paura delle possibili responsabilità
(è infatti alcuni si misero in pensione). La conseguenza più importante in realtà era che una volta
entrato in reparto in base al ricovero coatto non solo il Direttore, ma ogni dirigente di reparto aveva la
possibilità di trasformare il ricovero da coatto a volontario del malato, che accettava il soggiorno in
Ospedale Psichiatrico per il tempo considerato necessario dal medico e quindi era un cittadino libero di
muoversi se pur nella solo area dell’Ospedale Psichiatrico. Ci potevano ovviamente essere delle fughe,
ma se il paziente veniva riportato in Ospedale Psichiatrico la modalità del ricovero volontario cessava.
Per fortuna a Padova il clima era tale che tale evenienza divenne un ricordo del passato.
Un’altra modifica fondamentale riguarda il casellario giudiziario: ricordo che nel casellario giudiziario,
richiesto per ogni concorso pubblico, c'erano le annotazioni delle condanne, delle reclusioni carcerarie
etc.
Nel 1933 il Codice Rocco fascista inserì fra tali annotazioni anche il decreto di internamento definitivo
psichiatrico di fronte al fatto che, specialmente nelle regioni delle Emilia Romagna, Toscana, ma anche
altre, alcuni avversari politici con l’aiuto di colleghi psichiatri si erano ricoverati volontariamente negli
Ospedali Psichiatrici, venendo poi dimessi prima del decreto di internamento, perché dichiarati sani.
Sfuggivano così alle maglie della censura fascista. L’annotazione introdotta in detto Codice bloccava
così ogni pur meritata assunzione dell’interdetto in un’amministrazione pubblica.
Tutto questo è nella citata legge stralcio del 1968, che per me rappresenta un punto fondamentale di
partenza per arrivare al dettato per la psichiatria inserita nella legge istitutiva del servizio sanitario
nazionale.
Moderatore: ma cosa rimane di questa riforma?
Mah! Rimangono i principi su cui si è formata l’azione nostra nel ‘63, che si può illustrare con quello
che disse Barison appena insediato come Presidente Amopi: “L’assistenza settoriale è la tendenza
moderna della psichiatria ad adattare l’assistenza a naturali ripartizioni topologiche della popolazione in
modo che ad ogni settore di popolazione corrispondono specifici organismi psichiatrici che assicurino
un’assistenza unitaria e continua in tutti i servizi “.
Per le dichiarazioni di tipo più sindacalista voglio citare quelle di Gianfranco Zeloni fiorentino,
elemento centrale dell’azione Amopi, morto un anno fa a Firenze, che ha polemizzato molto anche con
il conterraneo ministro Mariotti: “ E’ da evitare una visione settoriale di sindacalismo, ristretto al solo
scopo di miglioramenti economi e delle condizioni di lavoro, perché in un ospedale psichiatrico, ma in
genere in ogni struttura sanitaria tutto è connesso con la terapia dalle mura, all’organizzazione, agli orari
di servizio del personale etc.“. Questa visione complessiva dei problemi sanitari psichiatrici è un
concetto che vale tuttora come si può constatare molto spesso nel Veneto.
Ma al disotto dell’area Toscana c’è ancora una secca divisione fra ciò che è l’attività di tipo l’ospedaliero
e quella di tipo territoriale. E questo non solo per motivi legati ai problemi di carriera di medici
provenienti sia da strutture pubbliche sia da strutture private delegate all’assistenza psichiatrica dalle
Amministrazioni provinciali, ma per la presenza di interventi di interesse politico legati alla opinione
che la nuova organizzazione dei servizi psichiatrici potesse dare a breve termine frutti elettorali.
Questa riorganizzazione dell’assistenza psichiatrica aveva invece bisogno di un tempo non breve anche
perché bisognava modificare l’atteggiamento sociale di fronte ai problemi dei disturbi mentali.
Il Barison, che cessò di essere il presidente Amopi nel 1973, nel nostro congresso di Perugia era
definito un sindacalista tranquillo. Però per sottolineare la personalità di questo uomo vorrei ricordare
che, come medico dirigente di un ospedale nel settore dell’isola di Creta occupata dalle truppe italiane,
di fronte a feriti che provenivano dalla zona occupata dai tedeschi e accusati di essere partigiani, si è
sempre rifiutato di consegnarli agli stessi tedeschi. Se ci pensate non era certo una cosa semplice per
come i tedeschi consideravano gli italiani. Un atteggiamento che si rifletterà poi nella determinazione a
sostenere i propri criteri di assistenza, pur di fronte allo scetticismo di tanti suoi colleghi con analoghe
responsabilità di incidere sulla struttura manicomiale.
E’ da sottolineare che l’importanza della legge del 1968 è in gran parte legata anche all’istituzione di
Centri di Salute Mentale, cioè di strutture extraospedaliere, e della unificazione del lavoro collettivo, fra
il dentro e il fuori dell’ospedale psichiatrico. Per indicare cosa può comportare l’intromissione della
politica anche in una tale legge ricordo che il ministro Mariotti, stimolato anche da funzionari
ministeriali, aveva ipotizzato che al posto dell’annotazione nel casellario giudiziario ci fosse una
anagrafe psichiatrica affidata ai medici provinciali, il che praticamente riproponeva la situazione di
controllo totale degli affetti da disturbi psichici. Per fortuna con i nostri scioperi abbiamo bloccato
politicamente anche questa ipotesi.
Dopo la pubblicazione delle nuove norme legislative del ‘68 vi fu fra i soci Amopi a Roma (sesto
congresso nazionale 11-12 gennaio 1969) un grosso scontro in un congresso straordinario convocato
perché noi del direttivo in quanto responsabili delle proposte accolte nella legge citata in precedenza
per l’assistenza psichiatrica si voleva conoscere il pensiero dei soci in proposito. Vi fu anzitutto chi era
preoccupato per le responsabilità che venivano attribuite loro (parecchi primari infatti scelsero di andare
in pensione); vi era chi voleva entrare nei sindacati generali, chi era deciso a continuare l’azione
intrapresa e portarla fino in fondo e cioè fino all’inserimento dell’assistenza psichiatrica sia ospedaliera
che non ospedaliera nel disegno generale delle riforma sanitaria, che si stava costruendo.
Io ero fra questi e dato che l’amico Barucci colpito da un grave lutto famigliare pur essendo il vero
leader del movimento doveva dedicare ogni sua attenzione alla famiglia, fui nominato dal Congresso
come nuovo presidente Amopi. Di conseguenza assieme ad altri colleghi del direttivo abbiamo
partecipato a tutte le discussioni al Ministero del lavoro fra 1976 e il 1977 proprio per la elaborazione
del testo, che poi è diventato la base della riforma sanitaria generale del dicembre del ‘78.
Fu durante quelle discussioni che siamo riusciti finalmente a imporre la presenza dell’assistenza
psichiatrica nel contesto generale della sanità. Il testo complessivo della legge, per accordo fra i politici,
doveva essere promulgata entro la fine del ‘78; però c’era in ballo il referendum radicale che aboliva i
primi 3 articoli della legge Giolitti e con questo praticamente si creava un vuoto. Ricordo i miei
frequenti viaggi a Roma, i corridoi della camera di Montecitorio e del Senato dove i parlamentari mi
chiedevano “ ma volete i matti per le strade?”, anche perché c’era Psichiatria democratica che negava la
necessità di posti letto negli ospedali generali, una volta chiusi i manicomi.
(Martina, con tono ironico: “Ma tu volevi le divisioni degli ospedali civili, diciamolo”). No, non è vero
anche se in realtà nell’Amopi c’erano dei colleghi primari i quali volevano trasferirsi con tutti i 100 posti
letto negli ospedali civili. Mi opposi duramente a tali indicazione, ma la soluzione non era facile.
Ricordo con soddisfazione la notte in cui scoprii un articolo della legge ospedaliera, che nessuno aveva
mai applicato, che parlava di servizi ospedalieri di diagnosi e cura riferiti alla radiologia e all’anestesia, un
articolo che poneva a questi servizi il limite di 30 posti letto, corrispondenti cioè a una sezione delle
divisioni specialistiche.
Per il lavoro che era stato fatto a Padova con Barison e Massignan soprattutto quei 30 posti letto
corrispondevano per noi esattamente alle necessità di ricovero di una popolazione di 200 mila abitanti,.
che era la base poi per le Ulss indicate dalla riforma sanitaria. Lo proposi al consiglio direttivo Amopi
che lo accettò. Lo portammo come proposta all’allora Ministro della Sanità Tina Anselmi.
Il caso ha voluto che nella commissione sanità della camera, la prima ad interessarsi al problema, ci
fosse come membro della DC l’onorevole Orsini, che era stato uno dei nostri nel direttivo e quindi
sapeva tutto della nostra azione pluriennale e inoltre la dottoressa Vanda Milano da Feltre, che era stata
eletta per il PCI; due persone che per noi hanno rappresentato un riferimento molto preciso nello
ambito di questa vicenda. L’onorevole Orsini fu poi indicato come relatore della proposta di legge, ma
l’accettazione della nostra proposta non fu senza difficoltà dato il referendum radicale in scadenza e
quindi il testo elaborato per la psichiatria nell’ambito della legge del Servizio Sanitario Nazionale fu
estrapolato e assegnato in sede legislativa alle Commissioni sanità della camera e del senato e divenne il
testo della legge 180 del '78. Poi soppressa specificatamente con la legge sanitaria n. 833 del 23
dicembre 1978.
Dr. Antonio Balestrieri
Io ringrazio gli organizzatori di questo convegno che mi hanno voluto invitare; devo precisare che non
ho avuto un’informazione molto precisa sul significato e la strada che doveva seguire la discussione. Io
sono arrivato nella psichiatria attraverso la carriera universitaria, che poi è stata la stessa che ha seguito
Franco Basaglia. Io e Basaglia siamo sempre stati amici, anche se qualche volta ci siamo detti in faccia
quello che pensavamo. Lavoravamo sullo stesso tavolo nella clinica di Padova. Quando lui lasciò la
clinica e l’ambiente universitario per andare all’ospedale psichiatrico di Gorizia, io partivo in direzione
diametralmente opposta: andai a Sassari al seguito del Prof. Rigotti come aiuto per iniziare la carriera
universitaria. Ai due anni a Sassari seguirono gli otto anni a Bari e poi a Verona, dove tutto cominciò ex
novo perché in realtà arrivammo là che stavano ancora finendo di sistemare l’impianto di riscaldamento
del nuovo policlinico. Quindi quella di Verona fu la prima clinica universitaria definita psichiatrica e non
delle malattie nervose e mentali. Ce ne era un'altra soltanto a Pisa, col Prof. Satteschi. Adesso bisogna
capire da dove venisse Basaglia come carriera personale. Laureatosi prima di me, era entrato nella clinica
delle malattie nervose e mentali del Prof. Belloni a Padova, perché in Italia non esisteva la psichiatria
come insegnamento universitario autonomo. In Italia quando è stata fatta la legge universitaria con la
costituzione del regno d’Italia sulla fine dell’Ottocento, furono appunto riconosciute le malattie nervose
e mentali, così che le cliniche universitarie praticamente erano cliniche neurologiche. Non esistevano
primariati neurologici negli ospedali, ce ne era uno a Trieste. Verona, Vicenza e la stessa Padova al di
fuori della clinica, non avevano primariati neurologici, cioè la neurologia, che si occupava di malattie dei
nervi, paralisi facciali, sclerosi multiple e via di seguito era ospitata nei reparti internistici. Quindi in
realtà eravamo in una situazione estremamente arcaica … Nella nostra clinica il personaggio più di
rilievo era Terzian, il quale veniva da esperienze fatte anche a Marsiglia ed era un neurologo molto
bravo in elettroencefalografia. Basaglia è cresciuto in questo ambiente. Io ho fatto il concorso di
cattedra nazionale in psichiatria, nell’ultimo tempo che ero a Bari, poi sono arrivato a Verona dove con
Basaglia abbiamo fondato la prima clinica psichiatrica soltanto universitaria, che non c’era neanche a
Padova. Basaglia usciva da questo ambiente ed il motivo per cui andò a Gorizia, era un motivo di
carriera. Lui aveva una posizione politica- ideologica … diciamo, di sinistra. Lui aveva avuto anche
qualche partecipazione alla resistenza nell’ultimo periodo a Venezia, ma era logicamente una persona di
venticinque, trent’anni che cercava una strada. Quindi l’impatto con l’ambiente psichiatrico
manicomiale per Basaglia è stato un grosso shock, cioè un’esperienza che ha realmente forgiato in lui il
desiderio di cambiare le cose, in tutto questo atteggiamento c’era molto di umano. Direi quasi, guardate,
ve lo sta dicendo una persona che è gelosamente laica, c’era del cristiano in Basaglia, cioè questo amore
per il paziente, questo bisogno di capire perché questa gente soffriva in questo modo. Non aveva quella
dotazione caratteriale aggressiva che invece era in altri personaggi. Era tutt’altro che un fanatico, aveva
un umorismo anche da gran signore, diciamo, da gran signore veneziano, si esprimeva spesso in dialetto.
Quando mi ha telefonato a Verona per dirmi di andare a Roma con lui perché ci avevano convocato a
Montecitorio dove Orsini stava presentando la 180 e lui, Basaglia andava come capo… insomma…
come se fosse stato mandato da psichiatria democratica, io ero allora presidente nazionale della società
di psichiatria e Novello rappresentava l’ AMOPI. Mi ricordo ancora che mi disse in veneziano “bisogna
prendere quello che ci danno". Arrivato a Gorizia vide davvero cos’era la psichiatria, perché noi in
pratica in clinica di malati psichiatrici vedevamo al massimo qualche nevrastenico, abbastanza
disprezzato perché in genere gli ipocondriaci venivano disprezzati. Di schizofrenici, era molto se ne ho
visto qualcuno che faceva qualche coma insulinico. In realtà la vera rivoluzione era stata la farmacologia.
Io ero stato un allievo del prof. Meneghetti, per il quale avevo un sacro ricordo e avevo fatto la tesi con
lui ed ero passato dall’istituto di farmacologia alla clinica, qui mi interessavo di farmaci e vivevo un
impatto diciamo strumentale sulla malattia mentale rappresentato dall’arrivo dei neurolettici, nel quale
Terzian aveva avuto una parte perché lui era collegato al modello francese. Ecco, questo cambiò
radicalmente le cose e permise molti cambiamenti. Facciamo un altro esempio per l’impatto della
farmacologia. Io credo di essere stato uno dei primi che ha pubblicato un articolo sul nuovo farmaco
anti depressivo, non esistevano farmaci contro la depressione e relativi libri nel 1959. Prima di allora in
clinica capitavano dei depressi. Io e Basaglia eravamo incaricati nelle prime ore del pomeriggio,
nell’ultimo piano della clinica nuova, di fare loro l’elettro-shock. Mi ricordo i malumori di Basaglia: a lui
non piaceva per nulla fare l’elettro-shock. Però era evidente che quando gli si faceva un paio di shock o
tre, a questi passava la depressione e diventavano normali perché gli si provocava un attacco epilettico
con l’elettricità che passava attraverso il cervello, era una crisi epilettica. Si era capito da tempo che i
depressi, che soffrivano di epilessia, quando avevano degli attacchi poi guarivano della depressione.
Ecco quindi c’è stato questo passaggio, diciamo, dalla semplice detenzione del malato all’uso di farmaci.
Circa il coma insulinico, io non ho mai capito bene che cosa servisse, in realtà li abbiamo fatti anche per
molti anni. Quando sono venuto a Verona io per qualche anno mi sono dilettato di escursioni
nell’Europa orientale allora detta comunista. Nel decennio degli anni Ottanta sono stato a Varsavia, in
Cecoslovacchia, a Praga, a Budapest, là facevano ancora i bagni gelati agli schizofrenici e cose di questo
genere. Lo stesso Basaglia scrive di essere stato in Russia e in Cecoslovacchia e di aver visto condizione
di estremo controllo. L’unica cosa che in realtà era ed è stato un grandissimo passo è stata la via
farmacologica perché ha permesso di mettere questi pazienti in condizione di comunicabilità. Il mito
del rischio, la paura, la violenza, erano completamente ingiustificati e smentiti perché bastava un
trattamento ragionevole per poter riportare queste persone, diciamo, ad un rapporto umano
comprensibile e praticamente accettabile. Ecco questo fu l’inizio di tutto. Noi arrivammo a Verona
attorno al 1959-60, nei momenti in cui veniva fondata questa sezione dell’Università di Padova a
Verona. Io avevo già fatto il concorso di cattedra ed ero incaricato di psichiatria, solamente psichiatria, e
riuscii, spingendo e sgomitando, a fare in modo che la psichiatria avesse una sua clinica nel policlinico di
Borgo Roma indipendente dalla clinica di malattie nervose e mentali, e dico, voi capite, che con Terzian
non era una cosa molto semplice. Comunque ci sono riuscito: è da quella clinica che i miei
collaboratori, soprattutto il prof. Transella e il prof. Siciliani, impostarono subito un rapporto col
territorio. Noi come clinica ci occupavamo di pazienti che potevano comunque esser seguiti prima,
dopo e durante anche nell’ambiente esterno, cioè instaurammo quel rapporto territoriale che ci evitò di
diventare una funzione di solo scarico dei cosiddetti casi difficili che interessavano gli studenti. Gli
studenti devono imparare a fare lo psichiatra medico, cioè devono occuparsi dei casi che si vedono tutti
i giorni. I casi difficili lasciamoli allo studio dei super specialisti. Quando noi inaugurammo la clinica a
Verona si rischiò che diventasse di nuovo una specie di scarico. Telefonavano dalla Val Pusteria dicendo
che avevano un paziente difficile che volevano mandare a Verona. Quella volta Transella disse che se il
paziente parlava solo tedesco essendo io appena venuto da Bari non potevo risolvere il problema. Noi
creammo un sistema di collegamento al centro esterno di salute mentale, che ci permetteva un continuo
scambio dentro-fuori. Cioè il paziente veniva seguito anche fuori, in realtà. Il principio di quello che poi
diventò la vera legge 180 fu il trasferimento al servizio territoriale di quelle funzioni che venivano
riservate soltanto alla reclusione nell’istituto. Ecco questa fu la storia. Basaglia con noi ebbe un ottimo
rapporto ma non era certamente entusiasta dell’atteggiamento generale delle cliniche universitarie che,
salvo qualche eccezione, tentavano anche quando diventano cliniche psichiatriche e non più cliniche
delle malattie nervose e mentali, a puntare sul ricovero e non a sviluppare l’attività esterna. In questo
senso, ricordo che a Mantova ad un convegno dichiarò: “le cliniche universitarie invece non vogliono
fare la psichiatria” ed io, franco, intervenni dicendo: “noi la stiamo facendo da dieci anni “ “Vabbè,
allora le cliniche universitarie, tranne quella di Verona”, rettificò. Dopo il convegno andammo a pranzo
insieme, ma dopo dieci giorni lo andai a trovare in ospedale dove doveva essere operato per un tumore
al cervello: morì così. Questa è la storia mia e di Basaglia; poi non avevo modo di raccontare tante altre
cose ma, attraverso questi rapporti personali, questa storia, credo che si possa ricostruire anche quello
che è stato l’iter della psichiatria italiana, in quel periodo, che è stato poi decisivo.
Dr. Luigi Massignan
Ogni volta che andavo nel nostro manicomio di Padova, venivo avvicinato da un degente che era lì da
quarant’anni, praticamente da sempre. Piccolino, vispo, mi veniva incontro e mi diceva: ”Dottore,
ancora vivo? Ancora vivo? Sì, ancora vivo, ancora vivo” e andava via. Questo era il suo benvenuto e
non parlava con cattiveria, era veramente contento di vedere che ero ancora vivo.
Ricordo un altro tipo di accoglienza che ho ricevuto quando sono arrivato per la prima volta in un altro
ospedale psichiatrico. Incontro una signora, una bella signora, ben vestita, con un enorme gatto in
braccio. Si ferma e mi chiede “Chi è Lei?”. “Sono il nuovo direttore dell’ospedale” rispondo. “Ah.. Le
ho dato l’autorizzazione?”. “Sì signora, me l’ha data”. “Ah sì? Perché non l’ho visto bene”. “No, no me
l’ha data e sono molto contento di conoscerla”. “Va bene, va bene, vada pure”. “Grazie!” e mentre mi
allontano lei, parlando al gatto, sento che dice: “Beh, per lo meno è educato …”.
In un certo senso queste sono solo delle storielline, ma rendono bene conto dell’atmosfera in cui ci si
muoveva e che si doveva accettare; prima di fare qualsiasi cosa bisognava sapere chi avevamo di fronte.
E di fronte avevamo dei malati di mente.
E chi sono questi malati di mente? In cosa consiste la loro malattia? Perché devono restare in un
istituto? Cosa impedisce loro di andare fuori, cercarsi un lavoro, ecc?
C’è un problema, diremo, di antropologia e di socialità. I motivi sono molteplici e sfaccettati gli aspetti.
Bisogna saper cosa fare quando escono dall’ospedale psichiatrico. Facendoli semplicemente uscire
dall’edificio-ospedale psichiatrico abbiamo risolto il problema? Li mettiamo fuori, ma fuori cosa fanno?
E come li possiamo seguire? Per sapere come agire devo sapere di cosa hanno bisogno. Sotto il profilo
filosofico, biologico, occorre sapere, perlomeno immaginare di sapere, quali siano le esigenze
fondamentali che ha ogni uomo. Come uomini hanno delle esigenze di sicuro, altrimenti non sarebbero
uomini.
Fin dalla nascita, con la prima relazione con la mamma, poi con gli altri membri della famiglia e infine
con la società si sviluppa e si forma l’uomo. Ma se gli manca, per qualsiasi motivo, questa possibilità di
relazione, si manifestano disturbi, i sintomi della malattia. Non può più essere uomo, gli manca qualche
cosa: ha perso la capacità di avere delle relazioni con gli altri. E’ un individuo, ma non una persona; per
essere una persona deve avere delle relazioni con gli altri, attraverso la relazione l’individuo diventa
uomo.
L’essere ricoverato deriva proprio dal fatto di non essere più uomo.
Il filosofo Martin Buber sostiene che l’uomo per essere tale deve definirsi “uomo con”. Altrimenti è
solo un individuo.
Ora, negli ospedali psichiatrici viene ricoverato chi non è accettato dalla comunità per motivi di
pericolosità. Ma l’ospedale spesso si è rivelato un luogo non idoneo a garantire all’individuo il recupero
delle proprie capacità di vivere in comunità. Lì non riuscirà mai a ristabilire le relazioni che gli sono
indispensabili. Dimesso, con il supporto di una rete di servizi esterni e nel suo ambiente comunitario,
potrà superare il suo isolamento e ritrovare la capacità di relazionarsi.
Non è simpatico riferire esperienze personali, ma ce n’è una particolare (che per fortuna la maggior
parte delle persone non ha fatto ..) come quella di ritornare a casa dopo essere stati prigionieri nel
campo di concentramento di Mauthausen come è successo a me.
In un capannone c’erano tre piani di ‘letti’ (una tavola di un metro per due) dove dovevano stare da tre
a quattro, a volte sei, persone. Era considerato l’infermeria. Ammalati davvero strani per cui succedeva
che a un determinato momento della notte si accapigliavano, si spingevano, qualcuno cadeva giù dal
terzo piano. Si sentiva nell’oscurità il tonfo della caduta, qualche lamento e poi niente, tutto finito. La
mattina quelli che lavoravano lì lo prendevano per le gambe e lo trascinavano fuori dietro il capannone.
E di notte nel silenzio, che non esisteva perché era pieno di lamenti, qualcuno cominciava a dire ‘Dobra
Jesus’ (molti erano polacchi) ’buon Dio’.. ’buon Dio’… e continuava, continuava, con voce sempre più
fievole fino a quando finiva. Si capiva che era finito. Dopo un po’ si sentiva il tonfo, bum, era stato
buttato giù, era morto. Se non era ‘Dobra Jesus’ l’invocazione era ‘mamma’. Non ho sentito altre parole
che venissero gridate per chiedere aiuto.
‘Dobra Jesus’ rappresenta la speranza in qualche cosa che ci sarà dopo, che farà giustizia per tutte le
sofferenze patite. ‘Mamma’ riassume tutti gli affetti della famiglia, della vicinanza e anche della società.
Ho capito che queste due presenze sono i ‘con’ fondamentali di cui l’uomo ha bisogno.
Questi noi dobbiamo ridare. Ma nell’istituzione psichiatrica questo ‘con’ non si ristabilisce
perché l’istituto non è un luogo adatto a ciò, è fatto più per riabituare a comportarsi in un certo modo,
ad avere una regola, come se si fosse in una caserma. Manca però la .. liaison, proprio quella più
importante: amore, affetto.
Bisogna quindi sostituire questo soggiorno in manicomio con una situazione dove sia possibile ritrovare
il vero ‘con’ che manca. Questo ridarà la sicurezza, l’utilità di essere un uomo per ritrovare poi se stesso
un po’ alla volta.
Non tutto finisce lì, ma è l’aspetto più importante, indispensabile per risolvere un po’ alla volta i
problemi.
Questo, proprio perché l’ho vissuto, come ho raccontato, per me è indiscutibile. Dimettere dal
manicomio non è sufficiente se non facciamo tutto quello che permette, aiuta, a ritrovare la liaison.
Per gli antichi Romani chi non era riconosciuto, non aveva importanza, non valeva niente era definito
alius. Alter era invece l’altro da sé ma riconosciuto uomo.
Da alius deriva alieno.
La legge del 1904 parla di alienati, fu fatta per gli alienati, era una legge per persone già qualificate come
altra ‘razza’, qualcosa di differente, alius. Per i Romani alius era il barbaro. Dal momento che la legge del
1904 è stata redatta da giuristi che il latino lo conoscevano bene, se hanno usato il termine alius significa
che volevano proprio affermare che questi individui erano di un altro mondo, erano tagliati fuori. E
quindi dove ricoverarli? In ospedale? No, l’ospedale è fatto per persone. Li mettevano nel manicomio,
un luogo speciale con un nome differente. Sia per il luogo in cui venivano ricoverate, sia per come
venivano definite, queste persone erano escluse doppiamente dalla nostra comunità di uomini.
E’ stato importante che la legge del 1904 sia stata abrogata. “Le parole sono pietre”, non sempre una
parola equivale ad un’altra, ce ne sono alcune che colpiscono, fanno male.
Vorrei aggiungere ancora qualcosa sulla legge 180 che tendeva a dimettere i malati e a chiudere i
manicomi. Impossibile in questa sede parlare in modo esauriente di tutte le problematiche legate
all’applicazione di questa legge, diciamo che le prime furono di carattere economico ed erano
determinate dalla nuova ripartizione delle competenze e degli oneri di Comuni e Province tra cui ci
furono non poche tensioni. Altre difficoltà nascevano invece dalla resistenza della gente a convivere con
soggetti temuti perché ritenuti pericolosi.
A Padova, per esempio, quando abbiamo deciso di aprire un Day Hospital in una strada tranquilla di un
certo livello, diciamo così, abbiamo dovuto affrontare l’opposizione degli abitanti che hanno fatto una
petizione per spostarlo perché la presenza di matti squalificava la zona. E poi erano pericolosi, come
fare a uscire la sera? Peccato che il centro, essendo diurno, chiudesse alle 16.00…
In un paese della cintura urbana, invece, avevamo trovato un signore proprietario di due appartamenti
molto belli e che era disposto ad affittarci per costituire due ‘case famiglia’. Ma gli abitanti della zona
non ne volevano sapere. Abbiamo fatto tre riunioni di sera, con tutta la popolazione, il parroco, il
maresciallo, il medico di base, i ragazzi di varie associazioni, ma: “Com’è ’sta roba? Proprio in piazza
volete metterci i matti?”. Ho dovuto dare la mia parola di direttore che se fosse successa anche una
minima cosa dopo dieci minuti li avremmo portati via. La condizione venne firmata anche dal
maresciallo dei Carabinieri e dal parroco.
Avevamo una dozzina di ‘case famiglia’, che era una delle nostre modalità di reinserimento: creavamo
dei gruppi famigliari all’interno dell’ospedale e quando si erano armonizzati bene li alloggiavamo in un
appartamento fuori. Sono stati sempre accettati. Solo la volta in cui abbiamo avuto l’audacia di crearne
uno misto un paio di signore scandalizzate sono venute a protestare. Ma niente di più.
Ci sarebbero molte cose da dire, ma non voglio abusare delle parole.
Chiudo ricordando nuovamente che l’orientamento preso da noi a Padova, e che ha ispirato tutta la
nuova organizzazione, era basato sulla convinzione che il disturbo mentale è principalmente legato a
una rottura della capacità di relazione. Sia in caso di ricovero per motivi di sicurezza sia in caso di
assistenza domiciliare, sia dentro che fuori, sempre e comunque il fine deve essere quello di riattivare la
capacità di vivere in società.
In caso contrario ogni nuova soluzione residenziale ricreerebbe, più o meno, un piccolo ’manicomio’.
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