Vol. 11 N° 3 - Salute per tutti

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Vol. 11 N° 3 - Salute per tutti
Anno 11
n.3/2008
I presidi farmacologici nel dolore oncologico.
Emidio Cianciola, Giulia Monaco, Pina Capo
Ornella Taddeo, Gerardo Garofalo
Dermatite allergica da contatto del volto
e cosmetici.
Alessia Provini, Ornella De Pità
Patologie mammarie in età adolescenziale:
approccio diagnostico-terapeutico.
Erika Gubellini, Sara Brachi, Gloria Borsari
Vincenzo De Sanctis
Rottura prematura delle membrane
a term i n e (≥37 settimane) (PROM):
indurre il travaglio o attendere?
La risposta dell’evidence based medicine.
Pietro Cazzola
Editoriale
Antonino Di Pietro
Dermocosmetologia della pelle scura
Stefano Veraldi
Il trattamento mini-invasivo
delle “malattie prostatiche”
Alessandro Bertaccini
Trattamento del dolore
pelvico cronico nella donna
Alessandro Bertaccini
Volume 11, n. 3, 2008
Indice
I presidi farmacologici nel dolore oncologico.
Emidio Cianciola, Giulia Monaco, Pina Capo
Ornella Taddeo, Gerardo Garofalo
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Pietro Cazzola
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Consulenza Amministrativa
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Consulenza Grafica
Piero Merlini
pag.
115
Dermatite allergica da contatto del volto e cosmetici.
pag.
Alessia Provini, Ornella De Pità
133
Patologie mammarie in età adolescenziale:
approccio diagnostico-terapeutico.
Erika Gubellini, Sara Brachi, Gloria Borsari
Vincenzo De Sanctis
137
pag.
Rottura prematura delle membrane a termine
(≥37 settimane) (PROM): indurre il travaglio o attendere?
La risposta dell’evidence based medicine.
pag.
145
pag.
153
Dermocosmetologia
della pelle scura
Stefano Veraldi
pag.
155
Pietro Cazzola
Impaginazione
Clementina Pasina
Registrazione
Tribunale di Milano n. 383
del 28/05/1998
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della Stampa n.10.000
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Editoriale
Antonino Di Pietro
Parole Nuove s.r.l. Brugherio (MI)
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ARCHIVIO ITALIANO
DI UROLOGIA E ANDROLOGIA
RIVISTA ITALIANA DI MEDICINA
DELL’ADOLESCENZA
JOURNAL OF PLASTIC DERMATOLOGY
Il trattamento mini-invasivo
delle “malattie prostatiche”
Alessandro Bertaccini pag.
INFORMED, CADUCEUM, IATROS, EUREKA
Trattamento del dolore
pelvico cronico nella donna
Alessandro Bertaccini pag.
157
159
Diffusione gratuita. Ai sensi della legge 675/96 è possibile, in qualsiasi momento,
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I presidi farmacologici nel dolore oncologico.
Emidio Cianciola, Giulia Monaco, Pina Capo, Ornella Taddeo, Gerardo Garofalo
Introduzione
In questo momento, in tutto il mondo,
circa 14 milioni di persone sono affette da
cancro. Poche sono le forme curabili.
Globalmente l’8% di tutte le cause di morte
dipende dal cancro. Nei paesi sviluppati,
comunque, la percentuale di morte dovuta a
tumore è più elevata: in Europa è stimata
i n t o rno al 23%. Annualmente vengono diagnosticati circa 10 milioni di nuovi casi di
cancro e 6 milioni di persone muoiono per
questo motivo.
Non tutti i pazienti con cancro soffrono di
dolore: infatti, questo sintomo è presente nel
30-40% di tutti casi, con o senza un trattamento appropriato. Dal punto di vista
umano e medico, per la maggior parte di
essi, l’unico approccio realistico, è la soppressione del dolore per migliorare la qualità
della vita residua. L’efficacia del trattamento
del dolore da cancro rimane uno tra i più
importanti e pressanti problemi medici mondiali: molti pazienti trascorrono le ultime
settimane, gli ultimi mesi della loro vita in
situazioni estremamente disagevoli di sofferenza e di invalidità.
Spesso il trattamento del dolore oncologico è
inadeguato o inesistente per vari motivi
quali:
l’ignoranza circa le cure capaci di sopprimere il dolore;
la deformazione culturale del medico
che considera il sintomo dolore come
ineluttabile;
i problemi legali che intralciano l’uso di
analgesici oppioidi.
U.O.C. Anestesia e Rianimazione P.O. Agropoli (SA)
Cos’è il dolore da cancro?
Il dolore da cancro può essere considerato come un fenomeno duplice: la perc e z i one della sensazione e la reazione emozionale
che da essa scaturisce. L’interpretazione e la
risposta che il malato di cancro ha in conseguenza dello stimolo doloroso varia con la
cultura, con la morale, con l’umore, con le
p recedenti esperienze dolorose e con l’aspettativa di guarigione.
La sofferenza dipende dal contesto sociale,
culturale, familiare e dal significato che viene
attribuito al dolore.
Per comprendere la complessità del dolore
oncologico è sufficiente conoscere la varietà
di fattori fisici e psichici, indicati nella
Figura 1, che ne sono all’origine e che hanno
fatto definire questo dolore come “dolore
totale”.
Le cause organiche del dolore oncologico possono essere dovute al coinvolgimento diretto
da parte della neoplasia, alle complicanze
della terapia antineoplastica, alle complicanze
della stessa terapia antalgica, alle alterazioni
biochimiche e fisiologiche legate alla neoplasia, a patologie dolorose non legate al cancro
o alla terapia ed a combinazione dei pre c edenti fattori.
Più specificamente le cause fisiche di dolore
nei pazienti oncologici possono dividersi in
quattro gruppi di cause (Tabella 1).
La strategia terapeutica
Prima di affrontare qualsiasi discorso
terapeutico è essenziale che il medico comprenda quattro punti importanti e che si
convinca della loro validità:
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Figura 1.
Debolezza
Effetti collaterali delle cure
Malattie non cancerose
Cancro
ORIGINE SOMATICA
Perdita del ruolo in famiglia
Perdita posizione sociale
Perdita del prestigio sul lavoro
DOLORE
RABBIA
Perdita dei guadagni DEPRESSIONE
TOTALE
Insonnia
Stanchezza
ANSIA
Alterazioni dell’aspetto
Paura del dolore
Paura della morte
Paura dell’ospedale
Paura del ricovero
Preoccupazioni per la famiglia
Problemi finanziari
Perdita di controllo del proprio corpo
Incertezza del futuro
a) che il dolore da cancro si può combattere efficacemente nella quasi totalità dei
casi;
b) che la terapia del dolore da cancro, specie iniziale, è facile da gestire;
c) che la terapia per il dolore da cancro non
sempre va prescritta o eseguita da superspecialisti in terapia antalgica;
d) che si può annullare agevolmente il dolore da cancro imparando ad usare appena 4 o 5 analgesici.
Difficoltà burocratiche
Fallimento delle cure
Mancanza di visite di amici
Irreperibilità dei medici
Ritardi diagnostici
Appena ci si trova di fronte al paziente che
soffre di dolore si deve avere bene in mente
una sequenza di obiettivi graduali da raggiungere, che sono:
aumentare le ore di sonno senza dolore;
alleviare il dolore a riposo;
alleviare il dolore in posizione eretta e
durante le attività.
I principi di una terapia del dolore da cancro
sono caratterizzati da:
Tabella 1. Cause fisiche di dolore nei pazienti oncologici.
Dovute al tessuto
neoplastico
Legate al tumore
Legate alla terapia
Non dipendenti dal
tumore o dalle terapie
Infiltrazione dei
tessuti ossei
Contratture muscolari
Dolore post-intervento
chirurgico
Artriti ed artrosi
Compressione e/o
infiltrazione
tessuti nervosi
Decubiti
Infiammazioni e/o
fibrosi
post-radioterapiche
Cefalea (muscolotensiva,
emicranica, psicogena)
Stitichezza
Mielopatia
post-radioterapica
Dolore miofasciale
Ulcerazione e/o
infezione
Candidosi
Neuropatia
post-radioterapica
Origine cardiovascolare
Ipertensione
endocranica
Linfedema
Nevralgia
posterpetica
Trombosi venosa
profonda
Embolia polmonare
Necrosi asettica dell’osso
Nevriti
Interessamento viscerale
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Pianificazione multidisciplinare:
1. Stretta collaborazione tra diverse figure
mediche specialistiche, medici di base e
personale infermieristico.
2. Proposta secondo l’OMS di Linee-Guida
sulla Terapia del Dolore da Cancro con i
principi generali.
3. ”Il trattamento farmacologico è il punto di riferimento nella gestione da dolore da cancro”.
Procedure secondo le Linee OMS:
I cinque principi per l’uso degli analgesici
nella terapia del dolore sono alla base del
trattamento del dolore:
Per bocca: semplice somministrazione;
Ad ore fisse: prevenire l’insorgenza del
dolore;
Secondo la scala OMS: semplice nella
sua attuazione e facile nella sua diffusione;
Individualizzata: dosaggi, tipo di farmaci, vie di somministrazione;
Attenzione al dettaglio: abitudini del
paziente da cancro.
Terapia farmacologica
L’elevazione della soglia di percezione
del dolore soprattutto mediante l’uso di farmaci, costituisce lo scopo principale del trattamento del dolore da cancro. La terapia con
farmaci resta la modalità principale per il
trattamento del dolore oncologico.
Si fa riferimento a farmaci poco costosi e dati in dosaggi relativamente piccoli ma
efficaci nella grande maggioranza dei casi.
Possono essere utilizzati molti farmaci diversi sia per modalità d’azione che per effetti
collaterali.
Gli oppioidi ed i FANS (Farmaci Antinfiammatori Non Steroidei) rappresentano i gruppi
di farmaci più importanti nell’intervento
terapeutico sul dolore da cancro.
Altri farmaci, comunque, come gli antidepressivi triciclici, possono anch’essi contribuire a garantire una buona analgesia in certi
tipi di dolore associati con il cancro o concorrere a migliorare altri sintomi ricorrenti.
Criteri generali
La somministrazione dei farmaci analgesici nel dolore da cancro deve seguire alcuni principi fondamentali. Essi devono essere
osservati metodicamente per poter ottenere
risultati terapeutici validi. Non bisogna
lasciare spazio all’improvvisazione ed all’inventiva individuale.
I principi-base sono i seguenti:
somministrare inizialmente una “loading
dose”, cioè una dose-carico elevata;
seguire lo schema farmacologico suggerito dall’OMS;
preferire la via orale o sublinguale;
impiegare dosi individualizzate; eliminare l’insonnia;
se necessario, prescrivere due analgesici
con diverso meccanismo d’azione;
scegliere il farmaco in base all’intensità
del dolore;
evitare somministrazione di placebo;
prevenire ed individuare gli effetti collaterali.
Ognuno di questi punti-chiave viene di
seguito analizzato.
Approccio sequenziale
Secondo le indicazioni dell’OMS,
ormai largamente accettate, il dolore oncologico deve essere affrontato mediante l’impiego sequenziale di tre categorie di farmaci
subentranti l’una all’altra, secondo una progressione a gradini.
FANS;
Oppioidi minori;
Oppioidi maggiori.
L’approccio sequenziale si attua nelle seguenti tre fasi:
1. Alla comparsa del dolore vanno somministrati i FANS che possono essere associati eventualmente e secondo i casi ai
cosiddetti “farmaci adiuvanti”.
2. Quando i FANS non sono più sufficienti
a controllare il dolore si introducono gli
oppioidi minori, che possono essere
associati agli stessi FANS e/o agli adiuvanti.
3. Quando, in una successiva fase, gli oppioidi minori non sono più sufficienti si
utilizzano gli oppioidi maggiori associati
o no ai FANS e/o agli adiuvanti.
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Quando un farmaco della classe iniziale o
intermedia, se impiegato correttamente, perde la sua efficacia, è obbligatorio ricorrere ad
un farmaco appartenente alla classe superiore nella scala antalgica a tre gradini dell’OMS
(Figura 2).
In ogni caso bisogna evitare di saltare un
gradino!
Figura 2.
Scala analgesica OMS “a tre gradini”.
La strategia analgesica “a tre gradini”:
Consente di controllare il dolore oncologico cronico in circa il 90% dei casi.
La terapia antidolorifica non va somministrata al bisogno ma ad orari fissi.
Durante eventuali attacchi di dolore
acuto è necessario utilizzare farmaci al
bisogno.
Quando il dolore non è adeguatamente
controllato il passaggio da un gradino
all’altro dovrebbe essere rapido.
Individuazione della dose
In generale una dose analgesica per
essere giudicata efficace deve permettere il
controllo del dolore per almeno 4 ore. In
base alla biodisponibilità, distribuzione,
metabolismo, eliminazione e alle variabili
organismo-dipendenti, il medico deve individuare la dose efficace. Per partire con i
FANS, ad esempio, la dose efficace può essere stabilita prescrivendo una dose superiore
a quella che si consiglia, normalmente, per il
trattamento dei dolori cronici benigni.
Bisogna tener presente che i FANS e gli
oppioidi minori (codeina) presentano il
cosiddetto “effetto tetto”.
Appena si è raggiunta una dose
limite ogni ulteriore aumento del dosaggio non aumenta l’effetto analgesico. Dopo
alcune modifiche della dose efficace di partenza è indispensabile, quindi, passare ad un
farmaco posto sul gradino
più alto, da solo o in associazione agli adiuvanti.
Il passaggio ad un farmaco
posto sullo stesso gradino,
anche se di struttura diversa,
non induce alcun beneficio
analgesico per il paziente,
ma comporta solo ritard o
nel controllo del dolore,
aumento del disagio del
paziente ed incremento della
sfiducia!
Orari fissi
Un altro punto-chiave
per la buona riuscita della
terapia del dolore da cancro
è quello di mirare non solo all’abolizione del
sintomo ma anche alla perdita del ricordo
del dolore.
L’analgesico non deve essere assunto “a
richiesta” ossia alla comparsa del dolore,
ma ad “orari fissi” in modo da ottenere
livelli ematici che consentano una costante analgesia.
Del resto questo è un postulato della farmacocinetica applicato a tutte le terapie e che il
medico attua quotidianamente: i farmaci
svolgono un’azione efficace e continua solo
se sono presenti nel sangue in concentrazioni adeguate nell’arco delle 24 ore.
È inutile ed illogico consigliare al paziente di
prendere l’analgesico solo quando il dolore è
insopportabile, resistendo fin quando è possibile. Non bisogna trattare il paziente oncologico, con pochi mesi o settimane di vita,
come se dovesse partecipare ad una gara di
stoicismo! Il risultato di uno schema terapeutico “ad intervalli regolari” permette un
miglior controllo del dolore, un risparmio di
farmaco e una minore incidenza di effetti
collaterali.
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Vie di somministrazione
Via orale o sub-linguale;
Via sottocutanea;
Via rettale;
Via transdermica;
Via transmucosale;
Via peridurale e subaracnoidea;
Via parenterale.
La via orale (o la sublinguale) deve essere
quella di elezione per l’indipendenza consentita al paziente che è autonomo nella
assunzione della terapia, non dovendo ricorrere ad altri.
Quando è possibile, la scelta della via di
somministrazione dovrebbe essere lasciata al
paziente stesso, senza preconcetti. La farmacocinetica e l’efficacia degli analgesici dati
per via orale differiscono poco da quelli dati
per via parenterale.
È sbagliato credere, inoltre, che per il controllo del dolore da cancro, le vie peridurale
e subaracnoidea siano le più efficaci!
Queste tecniche di somministrazioni midollari, appannaggio delle Unità di Terapia
A n t a l g i c a, sono indicate solo in alcune
situazioni particolari. Infatti, il medico di
base può trattare agevolmente gran parte dei
dolori oncologici ed affidare all’esperto di
terapia del dolore i pazienti complessi.
Bisogna tendere a prescrivere delle terapie
facilmente gestibili, eventualmente con
l’apporto dei familiari, se fosse necessario.
Associazioni farmacologiche
La prescrizione di un FANS e di un
oppioide è un associazione utile e giustificata dalla sinergia dei due farmaci:
1) inibizione periferica dei sistemi prostaglandinici per i FANS;
2) meccanismo centrale indotto da un legame con i recettori specifici per gli oppioidi, situati a diversi livelli del sistema nervoso.
La deprecabile e frequente prescrizione di
due o più farmaci analgesici dello stesso
gradino della scala analgesica (ad esempio
due diversi FANS) non aumenta l’analgesia, non ha giustificazioni farmacodinamiche e farmacocinetiche, potenzia la tossicità ed aumenta gli insuccessi.
Invece l’associazione di farmaci adiuvanti
dell’analgesia è spesso necessaria per poter
controllare alcuni tipi di dolore. Ad esempio
i dolori da lesione nervosa sono ben controllati dall’aggiunta di antidepressivi tipo l’amitriptilina, come quelli compressivi da espansione del tumore beneficiano dell’uso dei
corticosteroidi.
La terapia palliativa può comprendere, inoltre, l’aggiunta di farmaci per il controllo dei
n u m e rosi sintomi, spesso iatrogeni, che
intervengono durante il corso della malattia
e che sono causa di disagio e sofferenza:
emorragia gastrica, vomito, stipsi, mucositi
da radiazioni, insonnia, micosi, ecc.
Modalità di somministrazione
Gli orari di somministrazione dei farmaci devono essere facilmente appresi dal
paziente e dalla sua famiglia. Ove possibile,
bisogna scegliere le ore dei pasti, del risveglio o dell’andata a letto, che sono più facili
da memorizzare e da seguire. Bisogna evitare
le ore notturne che creano ulteriore disagio
al paziente ed ai familiari.
Non dare placebo
La causa del dolore neoplastico è sicuramente di origine somatica, anche se influenzata da componenti psichiche.
Somministrare placebo significa compiere
un atto deontologicamente scorretto, sprecare tempo e far perdere fiducia al paziente.
Prevenzione e cura degli effetti collaterali
È fondamentale l’indagine anamnestica
e l’osservazione attenta del paziente in maniera da riconoscere in tempo la comparsa degli
effetti collaterali da farmaci analgesici.
L’imponenza di alcuni sintomi iatrogeni può
inficiare la validità della terapia analgesica.
Bisogna tenere, quindi, bene in mente quelli
che sono gli effetti collaterali dei farmaci
analgesici che si prescrive anche per sensibilizzare il paziente ed i familiari a riconoscerli ed a comunicarli al medico, in tempo.
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I farmaci
L’analgesico “ideale” dovrebbe possedere le seguenti caratteristiche:
efficacia;
lunga durata d’azione;
rapida insorgenza dell’azione analgesica;
facilità di somministrazione;
maneggevolezza e ridotta quantità di
effetti collaterali;
buon rapporto costo/beneficio.
Anche se l’analgesico “ideale” che abbia solo
effetti terapeutici e nessun effetto collaterale
attualmente non esiste, fortunatamente in
commercio esistono diverse molecole che
hanno molte delle caratteristiche elencate
prima.
Il sollievo dal dolore mediante farmaci analgesici può essere conseguito intervenendo a
diversi livelli del sistema nocicettivo:
con gli analgesici ad azione periferica
preveniamo la sensibilizzazione dei
recettori del dolore mediante l’inibizione
della sintesi delle prostaglandine;
con gli analgesici ad azione centrale
determiniamo la scomparsa o la riduzione del dolore interferendo con i recettori
per gli oppioidi del SNC;
con gli psicofarmaci agiamo centralmente sull’esperienza dolore procurando un
“disinteresse” del paziente dal sintomo.
La scelta dell’analgesico deve essere fatta
tenendo presente la qualità e l’intensità del
dolore, lo stadio della malattia e lo stato psichico del paziente.
FA N S
I Farmaci Antinfiammatori Non Steroidei (FANS) rappresentano una serie eterogenea di composti. Erano classificati tradizionalmente con dizioni del tipo: antireumatici, antidolorifici-antifebbrili, antinevralgici.
Sono a torto denominati anche analgesici
“deboli o leggeri” Infatti, alcuni di essi, ad
esempio il ketorolac, hanno un effetto analgesico che si avvicina o è equivalente agli
oppiacei minori.
Il loro meccanismo d’azione è comune e l’origine dell’analgesia sarebbe dovuta a:
inibizione della sintesi delle prostaglandine;
iperpolarizzazione della membrana neuronale;
inibizione degli enzimi lisosomiali;
depressione dei livelli di sostanze ossidanti rilasciate nella formazione delle
prostaglandine.
Sembra, inoltre, che con alti dosaggi si abbia
addirittura un effetto antitumorale. Le prostaglandine pare, infatti, abbassino i poteri
immunitari, partecipano allo sviluppo di
metastasi ossee, producono ipercalcemia nei
tumori solidi, aumentano l’aggre g a z i o n e
delle piastrine e sono presenti in eccesso nei
tumori della mammella ed in quelli ossei.
Le azioni per le quali i FANS vengono sfruttati sono classicamente tre: antidolorifica,
antipiretica ed antiflogistica.
L’azione antidolorifica è prevalentemente a
localizzazione periferica ed esattamente a
livello dei nocicettori.
L’azione antipiretica consiste nell’inibizione
della biosintesi delle prostaglandine nel centro termoregolatore ipotalamico.
L’azione antiflogistica non è interamente
chiarita.
Le prostaglandine, oltre ad avere attività proflogogena, aumentere b b e ro l’azione dei
mediatori biologici dell’infiammazione come
istamina e leucotrieni. Benché siano impiegati usualmente nel dolore cronico benigno
di lieve e media intensità, i FANS sono estremamente utili nei dolori da cancro.
Particolarmente indicati nel controllo dei
dolori da compressione meccanica dei
muscoli, tendini, periostio, tessuti sottocutanei, tessuto osseo. Hanno ridotto effetto sul
dolore viscerale tranne che nella neoplasia
pancreatica. Infatti, la principale indicazione
è in quei dolori originati da imponente liberazione di prostaglandine: cioè quando sono
coinvolti tendini, fasce, periostio, metastasi
osteolitiche.
Nella Tabella 2 sono indicati i principali
FANS che possono essere impiegati nel dolore da cancro.
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recettori degli oppioidi localizzati in
alcune zone del SNC e nel midollo
Denominazione
Nome
Dose media in
spinale lungo le vie sensitive del dolocommerciale
mg/24 h
re. A tale livello, analogamente alle
endorfine (sorta di morfine prodotte
Acetilsalicilato
Flectadol
900 x 4
di lisina
normalmente dall’organismo), essi
Acido acetilsalicilico
Aspirina
1000 x 4
innescano meccanismi d’abolizione e
Acido mefenamico
Lysalgo
250 x 3
di modulazione delle sensazioni doloDiclofenac
Voltaren
50 x 3
rose, entrando, come chiavi, nella serDiflunisal
Dolobid
500 x 3
ratura del dolore e bloccandola. I difIbuprofene
Brufen
300 x 4
ferenti profili farmacologi dei singoli
Ketoprofene
Orudis
100 x 3
oppioidi (intensità d’azione, durata
Ketorolac
d’azione, effetti secondari) sono spieTora-Dol/Lixidol
30 x 4
trometamina
gabili appunto con l’esistenza di
Metamizolo
Novalgina
500 x 3
parecchie varietà di recettori e con la
Naprossene
Naprosyn
500 x 2
differente capacità di ogni farmaco
Nimesulide
Aulin
200 x 2
morfinosimile di interagire con i sinParacetamolo
Efferalgan
500 x 4
goli recettori.
Piroxicam
Feldene
20 x 1
Possiamo schematicamente dividere i
farmaci che agiscono sui recettori per
gli oppioidi in tre gruppi, in base
all’attività:
Principali effetti collaterali dei FANS
Sicuramente il medico di base utiliz1. agonisti puri (es. morfina);
zando questi farmaci quotidianamente, nei
2. agonisti-antagonisti (es. buprenorfina);
dolori cronici, conosce perfettamente la qua3. antagonisti puri (es. naloxone).
lità e la frequenza degli effetti collaterali.
Sono rappresentati da gastriti, disturbi della
Gli agonisti puri e gli agonisti-antagonisti,
coagulazione, insufficienza renale funziopur condividendo una potente attività analnale, granulocitopenia.
gesica non devono mai essere prescritti conL’assunzione dopo i pasti, con aggiunta di
temporaneamente in quanto, competendo
antiacidi o l’associazione di farmaci gastrocon lo stesso recettore, ridurrebbero l’effetto
protettori riduce la comparsa di disturbi
terapeutico
gastrici che sono i più frequenti e temuti.
Oltre alla nota e potente attività anti-doloriInterferendo con l’aggregazione piastrinica
fica gli oppioidi producono alcune altre azioessi dovrebbero essere somministrati con
ni ed effetti collaterali quali:
molta cautela nei pazienti oncologici con
azione tranquillante;
problemi di coagulazione o con un numero
depressione respiratoria;
ridotto di piastrine.
attenuazione dello stimolo della tosse;
miosi;
OP P I O D I
nausea e vomito (effetti centrali);
I derivati dell’oppio sono farmaci
ipertonia della muscolatura liscia (stipsi,
d’uso secolare e di sperimentata efficacia.
disturbi della minzione).
Tali sostanze sono definite anche analgesici
Gli oppioidi vengono utilizzati quando l’uso
oppioidi, analgesici maggiori, narcotici, mordei FANS non ha dato un effetto soddisfafinosimili. La morfina è il capostipite e rapcente. La regola di utilizzare sempre, comunpresenta il punto di riferimento nella valutaque, in prima battuta, gli analgesici minori, è
zione dell’attività analgesica degli altri suoi
assoluta.
congeneri. Essi rappresentano una tappa,
La scelta del farmaco deve tenere conto
quasi sempre obbligata, nella terapia del
soprattutto dell’intensità del dolore oltre che
dolore da cancro. La loro potente attività
dell’aspettativa di vita, considerando che
analgesica è dovuta all’interazione con i
Tabella 2. Elenco dei principali FANS impiegati.
Scripta M E D I C A
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l’uso dei narcotici non è necessariamente
legato ad una breve aspettativa di vita. Il
segreto per iniziare l’analgesia con gli oppioidi sta nel raggiungere una concentrazione
ematica efficace e di mantenere questo livello. Una volta raggiunto un grado di analgesia
soddisfacente, esso deve essere mantenuto
con somministrazioni regolari a tempi fissi.
Le controindicazioni all’uso dei farmaci
oppioidi sono l’insufficienza epatica grave,
l’insufficienza renale, l’insufficienza respiratoria e l’occlusione intestinale. I fenomeni
comuni che si verificano in corso di terapia
sono la tolleranza (nel dolore da cancro compare lentamente) e la dipendenza fisica.
La tolleranza è la necessità di una quantità
crescente di farmaco per ottenere un uguale
effetto analgesico. Tale è una reazione normale agli oppioidi ed è un fenomeno costante nella terapia cronica. Essa s’instaura non
solo nei confronti dell’analgesia ma fortunatamente anche nei confronti degli altri effetti
come la depressione respiratoria.
La dipendenza fisica è un’alterazione delle
condizioni fisiologiche caratterizzata da
comparsa di sintomi da astinenza da oppioidi quando si interrompe la somministrazione
cronica o si somministrano antagonisti dei
narcotici (es. naloxone). La morfina è lo
standard di riferimento per tutti gli analgesici stupefacenti (tabella 1, Legge 685).
M o rfina: pregiudizi comuni e miti da sfatare
L’Italia è uno dei paesi europei nel
quale si usa meno morfina a causa soprattutto dell’ignoranza circa le sue qualità terapeutiche e per il persistere di alcuni pregiudizi
infondati.
La morfina non comporta necessariamente depressione respiratoria;
La morfina non genera sempre una dipendenza psichica, specie se data per os;
La morfina non instaura una rapida ed
incontrollata tolleranza;
La somministrazione di morfina non
comporta fenomeni disforici;
La morfina non compromette la qualità
della vita.
Per la morfina, la via orale è quella raccomandata nel dolore da cancro, in quanto la
più vantaggiosa. Anche utilizzate, se vi sono
ostacoli all’impiego della via orale, sono la
via endovenosa e quella peridurale. La tolleranza e la dipendenza si manifestano costantemente dopo che il farmaco è somministrato per un periodo di alcune settimane o
mesi, ma questi eventi non devono condizionare le scelte terapeutiche e, comunque, non
alterano il successo della terapia.
Le forme farmaceutiche di morfina orale
disponibili sono due:
Morfina a rilascio immediato;
Morfina a rilascio prolungato.
Morfina a rilascio immediato
La morfina orale rappresenta l’analgesico di scelta nel dolore grave da cancro. Le
nuove formulazioni orali liquide, commercializzate dalla Molteni sono Oramorph® soluzione orale concentrata contenente 20
mg/ml di morfina solfato, disponibile in flaconi da 20 ml e 100 ml, provvisti rispettivamente di contagocce e siringa dosatrice e
Oramorph® sciroppo contenente 2 mg/ml di
morfina solfato. In virtù della rapidità d’azione (concentrazioni plasmatiche massime
entro la prima ora) e la breve durata d’azione (4 ore), la soluzione e lo sciroppo di
morfina consentono un aggiustamento
posologico rapido e l’individuazione della
dose giornaliera efficace nell’arco di 2-3
giorni. Le preparazioni orali liquide di morfina possono risultare particolarmente utili
anche per l’uso “al bisogno” nei pazienti che
sono già in trattamento con le compresse a
lento rilascio, nei pazienti che hanno difficoltà di deglutizione e nei pazienti terminali
che hanno bisogno di dosi elevate di morfina. La dose iniziale dipende dal trattamento
analgesico precedente. In genere, nei pazienti già trattati con un oppiaceo debole, la dose
è di 10 mg ogni 4 ore (pari a 0,5 ml o a 8
gocce della soluzione e 5 ml dello sciroppo)
prevedendo somministrazioni extra al bisogno. Dopo 24 ore, la dose giornaliera totale
va ridefinita in rapporto alle dosi supplementari richieste; per approssimazioni progressive si arriva agevolmente al raggiungimento del risultato analgesico desiderato.
Morfina a rilascio prolungato per os
Il trattamento orale può essere poi
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123
proseguito con i discoidi e le capsule a cessione controllata (MS Contin® e Skenan®) che
hanno un picco di concentrazione più lento
e una durata d’azione più prolungata (12
ore). Tale preparazione è capace di assicurare una concentrazione plasmatica quasi
costante di morfina. Il 40% della morfina
contenuta nel discoide si rende disponibile
nell’arco di un’ora dall’assunzione e l’80% in
circa 4 ore. Anche per questa formulazione
vale il discorso della marcata variabilità del
dosaggio necessario per ottenere analgesia,
da un paziente all’altro, legata alla risposta
individuale al farmaco.
I vantaggi possono essere schematizzati così:
è agevole da somministrare (ogni 12 ore);
elimina il disagio della dose notturna;
è bene accetta dal personale infermieristico;
il paziente la può assumere senza l’intervento di altre persone;
non presenta effetto-tetto per cui è possibile aumentare la posologia fin quando
c’è bisogno.
Attualmente, la morfina a lento rilascio per i
vantaggi offerti rispetto alle altre forme farmaceutiche sta divenendo uno standard di riferimento. Nonostante ciò, purtroppo, l’Italia è
uno dei Paesi europei dove si utilizza di meno
la morfina nel dolore da cancro. Si inizia con
un dosaggio di 10-20 mg ogni 12 ore e si
aumenta progressivamente fino a 200 mg ed
oltre al giorno. La somma totale dei milligrammi da somministrare può essere raggiunta facilmente associando i discoidi di vario
dosaggio in commercio (10, 30, 60, 100 mg).
Vie di somministrazione alternative
alla via orale
In alcune situazioni cliniche caratterizzate da vomito, disfagia severa, malassorbimento e confusione mentale, la via orale è
controindicata e devono essere considerate
vie di somministrazione alternative:
via sublinguale;
via sottocutanea;
via transdermica;
via endovenosa;
via rettale;
via spinale.
Oppioidi transdermici: fentanyl-TTS
Le Linee guida indicano il fentanyl
transdermico come una valida alternativa
alla morfina orale, in particolare nei soggetti
che non riescono ad assumere la morfina p e r
os e che hanno dolore stabilizzato.
Il fentanyl-TTS è meno flessibile della morfina in quanto:
ha una durata d’azione di tre giorni;
i suoi effetti analgesici non sono immediati, comparendo dopo 8-16 ore dall’applicazione del cerotto.
Il fentanyl-TTS (Durogesic®) è presente in
commercio con cerotti da 25, 50, 75, 100
mcg/h.
Attenzione alla fase di induzione:
se non era in atto alcuna terapia antalgica sono necessarie circa 24 ore per raggiungere lo steady state da parte del fentanyl; utile copertura con oppioidi muagonisti a rapida azione;
se era già in atto un trattamento con
oppioidi può accadere una fase di “scopertura analgesica” con una possibile fase
di astinenza; utile ridurre l’oppioide di
partenza fino al raggiungimento dello
steady state del fentanyl.
Fentanyl citrato
Formulazione esclusiva di fentanyl
citrato orale transmucosale (OTFC), permette un rapido onset analgesico simile alla
PCA ev consentendo al paziente di controllare il dolore episodico intenso in modo
maneggevole e non-invasivo.
Il fentanyl citrato (Actiq®) è utile nel trattamento dei picchi di dolore acuto in pazienti
già in terapia di mantenimento con un
oppioide per il dolore cronico da cancro. Per
picco di dolore acuto s’intende un’esacerbazione transitoria del dolore che si ha in
aggiunta al dolore persistente controllato.
L’OFTC è concepito per la somministrazione
oromucosale e come tale va messo in bocca,
appoggiato contro la guancia, e poi mosso
all’interno della bocca servendosi dell’apposito applicatore, per massimizzare l’esposizione mucosale al prodotto. Actiq® va tenuto
in bocca ma non masticato, in quanto l’assorbimento di fentanyl attraverso la mucosa
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della bocca avviene in modo rapido rispetto
Stipsi
all’assorbimento sistemico attraverso il tratto
È il sintomo cui va incontro la stragrangastrointestinale; dev’essere consumato nelde maggioranza dei pazienti in trattamento
l’arco di 15 minuti.
con morfina.
Il fentanyl transmucosale viene applicato a
La stitichezza oltre che ad un’azione diretta sui
livello della mucosa orale in quanto quest’ulrecettori della parete intestinale è spiegabile
tima è caratterizzata da:
anche in base ad altri fattori come:
grande superficie;
riduzione dell’introduzione di cibo e
temperatura uniforme;
bevande;
alta permeabilità;
immobilità prolungata;
molto vascolarizzata;
dolore da defecazione;
assorbimento elevato e rapido: dopo 5
aggravamento di una stipsi preesistente;
minuti il 62% del farmaco è già disciolto.
difficoltà ambientali (ricorso a familiari,
La dose iniziale di fentanyl citrato transmuospedale, ecc.);
cosale deve essere di 200 microgrammi, con
ulteriori incrementi secondo
Il controllo della stipsi deve
necessità, in base ai dosaggi
essere attuato adeguatadisponibili (200, 400, 600,
mente e con continuità
800, 1200 e 1600 mcg).
mediante l’assunzione
La dose ottimale si ottiene
di sostanze formanti
quando si off re al
massa (crusca, cereali,
paziente un’adeguata
ecc.), l’assunzione reanalgesia con effetti
golare di liquidi, con
indesiderati accetsupposte e clisterini di
tabili, usando una
glicerina o l’assunziosingola unità posone di lassativi quali
logica per ciascun
senna, bisacodile, latOFTC: somministrazione
episodio di picco di
tulosio. Gli unici paa livello della mucosa orale.
dolore acuto.
zienti esenti da queNel corso della ricerc a
st’effetto collaterale sodella dose ottimale, se entro 15 minuti dall’eno quelli affetti da steatorrea ed i colostomizsaurimento di una singola unità di Actiq® da
zati.
parte del paziente non si ottiene un’adeguata
analgesia, è possibile usare una seconda unità
Nausea
di Actiq® di pari concentrazione. Se per il tratÈ presente con discreta frequenza, ma
tamento di episodi consecutivi di dolore epidopo un uso prolungato compare tolleranza.
sodico intenso occorre più di una unità posoLa terapia antiemetica è efficace specie con
logica per ciascun episodio, considerare un
l’uso di 4 mg di ondansetron (Zofran®) 3 volte
aumento della dose facendo ricorso alla conal giorno, per via intramuscolare. In altern a t icentrazione immediatamente superiore dispova, si può ricorre re 10 mg di metoclopramide
nibile. Una volta stabilita la dose ottimale
(Plasil®) 3 volte al giorno o ad 1 mg di alope(ossia quando si riesce a trattare in maniera
ridolo (S e renase®) due volte al giorno, tenenefficace un episodio dolorifico con una singodo presente l’attività sedativa. Quando non è
la unità), mantenere i pazienti a questa dose e
forte è preferibile incoraggiare il paziente a
limitare il consumo di Actiq® ad un massimo
non usare antiemetici che solitamente possodi quattro unità al giorn o .
no accrescere la sonnolenza.
Effetti collaterali della morfina
La prevenzione ed il dominio degli
effetti collaterali da morfina è determinante
per il successo della terapia.
Sedazione e sonnolenza
Si verifica in seguito a somministrazioni di alte dosi o all’accumulo del farmaco. In
questo caso si può tentare di ridurre le dosi.
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In genere dopo alcuni giorni scompare .
Questi effetti possono essere dovuti anche al
“recupero” delle ore di sonno perdute dal
paziente, in precedenza, per il dolore.
Depressione respiratoria
È potenzialmente l’effetto collaterale
più grave ma per il quale si sviluppa rapidamente tolleranza.
In pratica il paziente dimentica di respirare
(“oblio respiratorio”) non ricevendo lo stimolo
disagevole dell’accumulo di anidride carbonica e dell’apnea. Basta incitarlo verbalmente per
riavviare la respirazione regolare. Ma, in genere, il dolore oncologico è tale da impedire che
tale effetto collaterale si verifichi e che sia
grave. La terapia dei casi gravi consiste nella
somministrazione di piccole dosi di un’antagonista, il naloxone (Narcan®), che sono rapidamente risolutive. La depressione respiratoria
da buprenorfina non risente dell’uso del
naloxone e può essere curata con un analettico respiratorio, il doxapram (Doxapril®).
Intossicazione acuta
È improbabile che un paziente in trattamento con oppioidi possa andare incontro
ad intossicazione acuta. La diagnosi è facile.
Infatti, i caratteristici segni dell’intossicazione acuta e da sovradosaggio da analgesici
oppioidi (overdose) sono:
depressione respiratoria;
bradicardia;
miosi puntiforme (detta “a capocchia di
spillo”);
coma.
I risultati della terapia con naloxone sono
immediati (pochi minuti).
A LT R I
OPPIOIDI
Tramadolo
Tra gli oppioidi minori si distingue il
tramadolo. È un analgesico ad azione centrale, sintetico, del gruppo dell’aminocicloesanolo, con proprietà agoniste sui recettori
degli oppioidi ed effetti sulla neurotrasmissione noradrenergica e serotoninergica.
Paragonato ad altri agonisti oppioidi (morfina,
petidina), esso mostra una minore incidenza
di depressione cardiorespiratoria e ridottissimo potenziale di dipendenza. Il tramadolo
(Contramal®, Tramal®) somministrato per via
orale, parenterale o rettale ha dimostrato di
possedere una buona efficacia analgesica sul
dolore neoplastico. La durata media dell’effetto analgesico del tramadolo è di circa 6
ore dopo ogni singola dose; l’onset time
dell’effetto analgesico è tra i 10 e i 20
minuti. Viene usato nel dolore neoplastico
per via ev, sc, im, rettale ed orale (in gocce o
nella forma sustained release) ad una dose di
100 mg/6 ore. È un farmaco quindi molto
maneggevole nel paziente neoplastico ed è
posizionato sul 2° gradino della scala OMS.
Può essere associato validamente ai FANS
anche in alternativa all’uso degli oppioidi
maggiori in quei casi dove questi ultimi sono
controindicati (ad esempio in pazienti con
insufficienza respiratoria). Pratica risulta la
somministrazione mediante pompa infusionale elastomerica che libera il paziente, per
molti giorni, dalla schiavitù delle somministrazioni ripetute. Tra gli effetti collaterali del
tramadolo ricordiamo: nausea, vomito, sudorazione, rush cutanei, tremori, cefalea, confusione, allucinazioni.
Il vomito si verifica nel 7% dei pazienti e che
viene trattato mediante l’aggiunta in terapia
di metoclopramide o di ondansetron.
Codeina
La codeina, alcaloide naturale dell’oppio è, dopo l’aspirina, l’analgesico più ampiamente usato al mondo. Ciò è legato al
fatto che tale farmaco è molto efficace per via
orale ed ha una bassa incidenza di dipendenza fisica anche nei pazienti che l’assumono per lungo periodo di tempo.
Essa rappresenta il secondo gradino della
scala analgesica dell’OMS.
È molto efficace per via orale.
Ha la più alta biodisponibilità per os tra
tutti gli oppioidi poiché i 2/3 della dose
assunta per bocca passa in forma attiva
nel sangue.
Nel dolore da cancro è somministrata per
os ad una dose di 30-60 mg/4-6 h.
Bassa incidenza di dipendenza fisica
anche nei pazienti che l’assumono per
lunghi periodi di tempo.
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È un prodotto galenico purtroppo non sempre
reperibile, come tale, nelle farmacie. Esiste
attualmente un’associazione di codeina e
paracetamolo (Coefferalgan®) da utilizzare
appunto quando i soli FANS non sono più efficaci. Questa associazione è motivata dalla
sinergia d’azione fra i due principi attivi.
Infatti, la giustificazione terapeutica di associare un analgesico non-oppioide (paracetamolo)
ad un analgesico oppioide (codeina) è di
aumentare l’efficacia analgesica agendo su due
siti di azione diversi ma complementari.
La posologia è di 500 mg di paracetamolo + 30
mg di codeina 4 volte al giorno.
Buprenorfina
La buprenorfina è un derivato semisintetico della tebaina. È circa 20-30 volte
più potente della morfina, a parità di milligrammi, e la durata media d’azione è di circa
6/8 ore. La buprenorfina si è rivelata utile in
diversi tipi di dolore oncologico; gli effetti
collaterali sono molto simili a quelli della
morfina, anche se l’euforia è meno frequente
ed i pazienti appaiono meno sedati che con
la morfina. L’interruzione brusca della buprenorfina in pazienti dipendenti causa una sindrome di astinenza di grado moderato, che è
certamente meno severa di quella che si
osserva dopo l’interruzione repentina della
morfina. È utilizzata in somministrazione
per via sublinguale alla dose di 0.2-0.4 mg
ogni 6-8 ore, con un’azione analgesica che si
realizza in 15-45 minuti o in fiale da 0.3 mg
per via ev. È disponibile il cerotto di buprenorfina a cessione lenta transcutanea
(Trantec®, Temgesic®) 35, 52,5, 70 mcg/h pari rispettivamente a 0,8 mg, 1,2 mg, 1,6 mg
nelle 24 ore).
Il cerotto di buprenorfina ha un inizio d’azione dopo 12-24 ore con una durata d’azione di 72 ore e raggiunge lo steady state dopo
3 cerotti.
Il cerotto di buprenorfina è indicato:
nel dolore oncologico da moderato a
severo, e nel dolore severo che non
risponde agli analgesici non-oppioidi;
può essere usato nei pazienti con insufficienza renale in quanto la principale via
di eliminazione è quella biliare.
Ossicodone
L’ossicodone cloridrato (OxyContin®) a
rilascio prolungato è un oppioide forte, derivato semisintetico della tebaina, con affinità
per i recettori mu, kappa e delta del cervello
e del midollo spinale.
L’effetto terapeutico è principalmente
analgesico, ansiolitico e sedativo.
Ha un rilascio bifasico controllato (iniziale nei primi 37 minuti ed il resto dopo
6 ore circa).
Assenza di “effetto tetto”.
Per os l’ossicodone è circa 7-9,5 volte più
potente della codeina e 2 volte più potente della morfina (10 mg di morfina orale
sono equivalenti a 5 mg di ossicodone).
Biodisponibilità più prevedibile della
morfina (12-65% morfina vs 60-87%
ossicodone).
È metabolizzato a livello epatico dal citocromo P 450 in ossimorfone privo di
effetto farmacologico.
La dose iniziale raccomandata di ossicodone è di 10 mg ogni 12 ore, che può
essere aumentata del 25-50% giornalmente.
Non producendo metaboliti attivi, a differenza della morfina, può essere un’alternativa in caso di insufficienza renale
da lieve a moderata e di insufficienza
epatica, ma il dosaggio dev’essere ridotto
da 1/3 ad 1/2 della dose abituale.
Di seguito (Tabella 3) vengono indicate le
principali posologie degli oppioidi utili nel
dolore da cancro.
FA R M A C I
A D I U VA N T I
Con questo termine è indicato un
gruppo eterogeneo di farmaci non analgesici,
diversi per struttura e meccanismo d’azione,
che vengono impiegati nel dolore da cancro.
Essi sono adoperati come co-analgesici in
determinati tipi di dolore, nel trattamento di
alcuni sintomi che frequentemente si presentano nei pazienti oncologici e nel controllo
della componente psico-affettiva e comportamentale frequentemente alterata nel paziente con dolore da cancro.
Scripta M E D I C A
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Tabella 3. Posologia degli oppioidi.
Farmaco
Specialità
Via
Dose media
Tramadolo
Codeina
Morfina a cessione
controllata
Morfina
Morfina
Morfina
Buprenorfina
Buprenorfina
Buprenorfina
Osicodone
Contramal
–
os, im, ev
os
100 mg/6h
30-60 mg/4-6h
MS-Contin - Skenan
os
20-200 mg/12h
–
–
–
Temgesic - Transtec
Temgesic - Transtec
Temgesic - Transtec
OxyContin
os
sc o im
ev continua
sl
im
ev
os
5-40 mg/4h
1/3-1/4 dosi per os
0,04-0,07 mg/kg/h
0,2-0,4 mg/6-8h
0,3-0,6 mg/6-8h
idem
Benzodiazepine
Le benzodiazepine sono chiamate
anche tranquillanti minori. Tra i quattro tipici effetti: miorilassante, anticonvulsivante,
sedativo ed ansiolitico è quest’ultimo quello
che è maggiormente sfruttato nel cancro.
L’abolizione dell’ansia porta, di conseguenza,
ad un maggior rilassamento che facilita il
sonno. L’insonnia presente in questi malati è
dovuta all’ansia, alla paura di morire durante il sonno, al dolore, alla dispnea ed ad altri
fattori. Così come il dolore induce l’ansia,
l’ansia può contribuire all’incremento di
livello di dolore. Si deve sempre tenere presente che le benzodiazepine, come ogni farmaco che deprime il SNC, può aumentare la
sedazione e la depressione respiratoria da
oppioidi. Esse possono essere utilizzate con
tranquillità nel trattamento del dolore oncologico, sia per la costanza dei risultati clinici,
ma anche perché dotate di grande maneggevolezza (ampio margine d’azione tra dose
terapeutica e dose tossica). Può essere somministrata una dose serale di 5-10 mg di diazepam per via orale. I comuni effetti collaterali delle benzodiazepine includono debolezza, cefalea, visione alterata, vertigini, nausea,
vomito e diarrea.
Antidepressivi triciclici
È questa un’altra categoria di farmaci
adoperati di frequente nel controllo del dolore da cancro. Infatti, poco meno di un terzo
dei pazienti con dolore oncologico soffre di
depressione concomitante.
Le tre azioni maggiori per le quali gli antidep ressivi triciclici possono essere sfruttati
sono:
elevazione dell’umore;
attività analgesica nelle neoplasie con
danno dei nervi;
sedazione.
L’amitriptilina viene data in dose unica serale in dosaggio variabile dai 10 ai 25 mg.
Questo dosaggio può essere aumentato gradualmente fino 50-75 mg. Gli effetti collaterali sono di tipo anticolinergico: bocca secca,
tachicardia, alterazione della visione, ritenzione urinaria, con una variabilità d’incidenza e gravità a seconda dei farmaci.
Anticonvulsivanti
I farmaci anticonvulsivanti come la
carbamazepina (Tegretol®), possono essere
particolarmente utili nel trattamento di certi
tipi di dolore correlati al danno dei nervi.
Con questo farmaco possono essere alleviati
o aboliti i dolori associati con invasione neoplastica dei nervi, con neuropatia, con alcune sindromi di dolore centrale o con le sindromi di dolore post-amputazione. La dose
iniziale di carbamazepina è di 100 mg al
giorno e proseguendo con incrementi fino ad
un massimo di 400 mg.
I più comuni effetti collaterali sono nausea,
vomito, vertigini e sonnolenza.
Scripta M E D I C A
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128
Corticosteroidi
Questi farmaci possono essere utilizzati nella cura del dolore da cancro per la
loro attività analgesica, antiinfiammatoria,
come stimolanti l’appetito e per migliorare il
tono dell’umore.
Essi sono particolarmente adoperati anche in
specifiche situazioni cliniche quali:
compressione del midollo spinale;
cefalea da incremento della pressione
intracranica;
per aumentare la distensione del fegato
nei tumori epatici;
oppure per il controllo di alcuni sintomi:
anoressia;
malessere;
sudorazione notturna.
Sono indicati 4 mg di desametazone 3 volte
al giorno o 10 mg di prednisolone 3 volte al
giorno, che vanno ridotti dopo una settimana, ad una dose di mantenimento. L’aumento
del peso corporeo ed il gonfiore da ritenzione idrica, specie del volto, possono giocare
un ruolo psicologico importante nel paziente defedato.
Tra i molteplici effetti secondari quelli da
tener presente sono la facilità di sviluppare
candidosi orofaringea (dolori alla deglutizione), l’insonnia frequente, il rischio di sanguinamento e di ulcerazioni gastriche, l’iperglicemia nei pazienti diabetici.
Inconveniente di rilievo è la controindicazione (non assoluta in questo tipo di pazienti)
all’uso contemporaneo dei FANS per il possibile aumento degli effetti collaterali.
Altre modalità terapeutiche
Un numero limitato di pazienti non
risponde alle terapie analgesiche di base
indicate in precedenza per cui si rende
necessario il ricorso a tecniche specialistiche
di tipo invasivo.
Anche se il medico di base non è interessato in prima persona a tali metodiche è
importante che egli conosca almeno sommariamente quali sono le principali.
Molto in voga negli anni precedenti le
tecniche neurolitiche midollari e le tecniche
neurochirurgiche per il controllo del dolore
neoplastico stanno avendo un calo d’interesse sia per le difficoltà organizzative, sia perchè non sempre completamente efficaci, sia
perchè irreversibili.
Tra le tecniche invasive, da anni si è
affermata, per la relativa faciltà di gestione
l’analgesia peridurale continua.
Essa consiste nel collocare nello spazio peridurale lombare o dorsale, un piccolo
catetere (del calibro di un ago da iniezione)
attraverso il quale si somministrano quotidianamente dosi opportune di anestetici
locali e/o di oppioidi, quali la morfina e la
buprenorfina.
I vantaggi di questa tecnica sono essenzialmente queste:
i farmaci vengono somministrati, in
quantità ridotte, direttamente sulle vie
del dolore;
si tratta di una tecnica reversibile;
è un procedimento discretamente semplice, pur se riservato allo specialista in
terapia antalgica.
Una migliore riuscita dell’analgesia peridurale continua è quando si attua il completo
impianto sottocutaneo del cateterino e del
suo accesso perforabile, che non è visibile,
ma avvertibile al tatto.
In pratica, il paziente riceve le dosi di farmaco mediante la puntura della cute sotto cui è
sistemato l’accesso del cateterino collegato
allo spazio peridurale.
L’impianto è eseguito da personale esperto ed
in ambiente ospedaliero, in breve tempo e
con minimo disagio per il paziente, non
necessitando di ricovero.
I rifornimenti quotidiani di anestetico locale di lunga durata come la ro p i v acaina (Naropina®) in aggiunta o meno ad
oppioidi sono facilmente gestibili da infermieri o anche da familiari adeguatamente
addestrati.
In alternativa è possibile l’infusione
continua di farmaco mediante l’impiego di
un sistema elastomerico monouso ed economico.
Scripta M E D I C A
Volume 11, n. 3, 2008
129
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1133
Dermatite allergica da contatto del volto
e cosmetici.
Alessia Provini, Ornella De Pità
Introduzione
Il desiderio dell’uomo di accrescere la
propria bellezza e migliorare il proprio aspetto
fisico, soprattutto del volto, è noto da tempi
lontanissimi, come vediamo dalle testimonianze lasciateci sin dagli egizi e dai romani.
Oggi nella società moderna tal richiesta è
molto forte, con la conseguenza che si producono continuamente nuovi cosmetici. Mentre
in passato l’utilizzo era pressoché esclusivo del
sesso femminile, oggi s’assiste ad un crescente
mercato destinato non solo agli uomini ma talvolta anche all’infanzia. Il risultato è che oggi
si verifica un aumento delle reazioni avverse
secondarie all’uso di cosmetici.
Secondo uno studio recente condotto nel
Regno Unito, il 23% delle donne e il
13,8% degli uomini, nel corso
di un anno, ha sperimentato
almeno una reazione avversa
a un cosmetico.
Fra tutte le reazioni avverse, le dermatiti allergiche
da contatto vere e proprie
rappresentano una minima
parte del problema, incidendo per meno del 10% dei
casi. Più spesso si tratta invece
di fenomeni irritativi. La dermatite allergica da contatto è il risultato
di una reazione immunologica mediata dai
linfociti T dopo una
fase precedente di sensibilizzazione. Dalla
fase iniziale acuta, se
non si interrompe
IDI, IRCCS, Roma
l’applicazione, si passa gradatamente a quella
subacuta con frequenti recidive, fino all’evoluzione verso la cronicizzazione.
Clinica
La dermatite allergica del volto secondaria all’utilizzo di un cosmetico si manifesta
clinicamente come una dermatite eczematosa, che può pre s e n t a re però degli aspetti particolari. Data l’anatomia di questa sede, spesso si hanno quadri floridi con prevalenza
della vescicolazione, dell’edema e dell’essudazione; in alcuni casi si assiste ad un’estensione alle aree vicine, come il collo e le ore cchie, e talvolta al contemporaneo interessamento di altre sedi, come ad
esempio le mani.
Possono aversi anche delle
manifestazioni indirette, come
una dermatite dell’are a
perioculare secondaria all’utilizzo di smalto per unghie; oppure delle reazioni
secondarie all’azione di
sostanze volatili non intenzionalmente applicate sul
volto (profumi, deodoranti,
vapori…).
Il quadro clinico dipende, oltre che
dalla sede, dal tipo di cosmetico, dalla
quantità e dal grado di ipersensibilità del
paziente.
Inoltre i cosmetici che permangono a diretto contatto
con la cute (leave-on) sono
quelli maggiormente responsabili di reazioni allergiche rispetto a quelli a
Scripta M E D I C A
Volume 11, n. 3, 2008
134
risciacquo. Il rischio aumenta se il cosmetico è
applicato su cute lesa o non perfettamente
integra.
Una dermatite allergica da contatto si sospetta secondaria all’utilizzo di un cosmetico se
insorge in stretta relazione temporale con
l’applicazione e se si escludono altre condizioni come ad esempio delle patologie concomitanti o l’uso di alcuni farmaci.
Inoltre alla sospensione dovrà seguire un
miglioramento clinico che non si avrà se il
prodotto continuerà ad essere applicato.
Allergeni
Le indagini allergologiche, ed in particolare i patch test permettono di individuare
gli allergeni coinvolti. Le principali cause di
dermatiti allergiche da contatto da cosmetico
sono rappresentate dai metalli, dai profumi e
dai conservanti.
Tra i metalli, il nichel è spesso in causa nell’insorgenza di una dermatite allergica da contatto. Nelle donne è la principale causa, con
una percentuale del 20-40% rispetto al 3-5%
degli uomini. L’ allergia da contatto al nichel
solitamente è causata dall’utilizzo di bigiotteria, capi di abbigliamento ed oggetti metallici
come gli orologi e gli occhiali. Il principale
evento sensibilizzante sembra essere la foratura delle orecchie per l’utilizzo di orecchini.
Infatti ogni donna con sensibilità al nichel ha
avuto una dermatite al lobo dell’orecchio per
aver utilizzato oggetti nichelati. Tracce di
nichel, oltre a quelle di altri metalli, possono
ritrovarsi anche nei cosmetici e in particolare
in quelli contenenti pigmenti come i pro d o t-
ti utilizzati per finalità decorative. I profumi
sono un insieme di sostanze odorose pre s e nti in numerosi prodotti sia per pro f u m a re che
per coprire eventuali odori sgradevoli e si
ritrovano comunemente nella composizione
dei cosmetici.
Le concentrazioni sono molto diverse e variano nelle differenti preparazioni; di solito è del
12-20% nei profumi propriamente detti, del
5-8% nell’acqua di toeletta, del 2-5% nell’acqua di colonia, dello 0,5-4% nei detergenti,
dell’1% nei prodotti per il make-up del volto
e nei l i p s t i c k, dello 0,5% in tutti gli altri
cosmetici. I profumi, oltre a trovarsi comunemente nei cosmetici e nei prodotti per l’igiene personale, si trovano anche nei prodotti
per la pulizia domestica, nelle bevande, nei
cibi, oltre che nei disinfettanti e nei medicamenti. Oggi vengono utilizzate dall’industria
migliaia di molecole profumate, più spesso in
combinazione tra loro, così che un profumo
da solo può contenere anche centinaia di
molecole differenti.
Per evidenziare un’allergia ai profumi viene
impiegato nei patch test il cosiddetto “profumi
m i x”, introdotto da L a r s e n alla fine degli anni
settanta, costituito da una miscela di 8 componenti. Questa miscela da sola è in grado di
identificare la maggior parte dei pazienti allergici ai profumi ma non può rappresentare
adeguatamente tutte le molecole presenti in
un cosmetico o ancora di più in un profumo
v e ro e proprio.
Scripta M E D I C A
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Per ovviare a questa situazione, Larsen di
recente ha suggerito di sostituirlo con l’aldeide
alfa-amil cinnamica, dotata di basso potere
sensibilizzante, con il Lyral.
Secondo l’Autore tale miscela dovrebbe essere
testata in associazione con una serie di sostanze naturali (jasmin assoluto, olio di ylangylang, narciso assoluto, olio di spearmint).
Infatti l’aumentato utilizzo di sostanze naturali ed estratti botanici presenti negli ultimi anni
nei cosmetici ha incrementato il rischio di sensibilizzazioni e co-reattività. Inoltre ad oggi
come indicatore di allergia ai profumi si utilizza ancora il balsamo del Perù, un estratto naturale di origine vegetale utilizzato da molti anni
nelle serie di patch test.
Dopo i metalli e i profumi, i conservanti,
anche noti come biocidi o pre s e rvanti, sono le
sostanze che più frequentemente determinano
una dermatite allergica da contatto. Si tratta di
un insieme di sostanze che, aggiunte ai cosmetici, ne prevengono il deterioramento e la contaminazione.
La maggior parte di essi possiede un’azione
antimicrobica e antimicotica ed alcuni sono
anche dotati di potere antiossidante.
Possono essere utilizzati singolarmente o in
combinazione tra di loro sfruttandone l’azione
sinergica; le concentrazioni in genere sono
variabili dallo 0,1 all’1%.
Dato il loro vasto impiego rappresentano oggi
un’importante causa di dermatite allergica da
contatto, ma la prevalenza delle sensibilizzazioni non è per tutti uguale.
Secondo alcuni Autori, alcuni conservanti
come l’Euxyl K400, il Kathon CG e la formaldeide hanno un alto potere sensibilizzante,
mentre altri (imidazolinilurea, Q u a t e rnium 15
e parabeni) possono essere considerati più
sicuri.
I diff e renti risultati presenti in letteratura circa
le sensibilizzazioni rispecchiano il differente
utilizzo che si fa di tali sostanze nei vari paesi.
L’Euxyl K 400 è un conservante introdotto nel
mercato europeo nella metà degli anni ottanta
ed è costituito da una miscela (1:4) di metildibromoglutaronitrile e enossietanolo.
È impiegato nei cosmetici in concentrazioni
variabili dallo 0,05% allo 0,2% nei cosmetici,
ma è utilizzato anche come preservante della
carta igienica e in alcuni prodotti industriali.
I primi casi di allergia furono segnalati in
Germania nel 1989 dopo l’utilizzo di alcune
lozioni per capelli e per massaggi. L’ allergene
in causa era il metildibromogluataronitrile.
In seguito furono segnalati altri casi anche
dopo l’utilizzo di creme contorno occhi,
make-up, creme barriera, detergenti e gel per
ultrasuoni.
Il paziente allergico all’Euxyl K 400 è spesso di
sesso femminile con una dermatite secondaria
all’utilizzo di cosmetici con lesioni al volto, in
particolare dell’area perioculare, al collo o alle
mani, oppure può essere un paziente con una
dermatite professionale delle mani come nei
parrucchieri e nei massaggiatori.
Negli ultimi anni la sensibilizzazione a questo
conservante è in forte crescita passando dallo
0,7% del 1991 al 3,5% del 2000, come evidenziato in alcune nazioni europee.
L’aumento segnalato procede parallelamente al
suo ampio utilizzo in sostituzione di altri pres e rvanti risultati più allergizzanti, come ad
esempio il Kathon CG. Questo è un conservante di vasto impiego, largamente utilizzato negli
ultimi 20 anni come conservante della parte
solubile dei cosmetici. È costituito da una
miscela di metilisotiazolinone e di metilcoro isotiazolinone. L’incremento del suo utilizzo è
legato all’elevato potere antimicrobico, anche a
basse concentrazioni, e al basso costo. Si trova
in molti cosmetici, quali creme, lozioni, detergenti, prodotti per capelli e antisolari, ma solo
nei prodotti a risciacquo. Dato l’elevato potere
sensibilizzante è stato progressivamente sostituito da altri conservanti e pertanto i tassi di
prevalenza si vanno riducendo.
Gli esteri dei parabeni sono conservanti molto
diffusi, con un’attività limitata però ai Gram+ e
ai miceti e con un basso potere sensibilizzante.
Sono responsabili di allergia da contatto in una
bassa percentuale di casi, e la maggior parte
dei casi di sensibilizzazione deriva dal loro
impiego nei farmaci ad uso topico applicati su
cute lesa. La frequenza delle reazioni allergiche ai parabeni, come emerge dalla letteratura, è sicuramente bassa, confermandoli tra i
più sicuri in uso.
La formaldeide è un allergene ubiquitario ad
alto potere sensibilizzante, impiegato dall’industria solo nei prodotti a risciacquo, date le
limitazioni delle normative europee. Le fonti
Scripta M E D I C A
Volume 11, n. 3, 2008
136
di sensibilizzazione possono essere di tre tipi:
sostanze conservate con formaldeide libera,
sostanze contenenti liberatori di formaldeide
(bronopol, Q u a t e rnium 15, imidazolinlurea,
diazolinilurea, dimetilol-dimetil-idantoina) e
resine formaldeidiche. Anche in questo caso
molte reazioni allergiche dipendono dall’applicazione di farmaci topici su cute lesa. Inoltre i
pazienti allergici ai conservanti spesso sono
allergici anche ad altri componenti dei cosmetici come i profumi e il nichel.
Trattamento
Il trattamento di un eczema allergico da
contatto del volto implica, prima di qualsiasi
altro provvedimento, l’interruzione del contatto con l’allergene responsabile. Nei casi acuti e
più gravi è utile il ricorso alla terapia cortisonica per via generale per facilitare la risoluzione della sintomatologia. Notevole importanza
riveste la terapia topica, che vede l’utilizzo
degli steroidi scegliendo di volta in volta la
classe, la formulazione e le modalità di applicazione. Nelle forme essudanti saranno indicati impacchi umidi, paste assorbenti e l’impiego
di creme magre, mentre le forme croniche
richiederanno formulazioni più grasse ed idratanti. In alcuni casi occorre contro l l a re un’eventuale impetiginizzazione secondaria all’utilizzo di antibiotici.
Come regola è sempre molto importante scegliere dei topici che non contengano nella
loro formulazione una o più sostanze re s p o nsabili dell’eczema stesso (per esempio un
c o n s e rvante).
Conclusioni
Nonostante le dermatiti allergiche del
volto rappresentino sola una piccola parte di
tutte le reazioni che possono derivare dall’uso
di un cosmetico, il crescente consumo fa sì che
queste debbano essere prontamente riconosciute e trattate dallo specialista.
Inoltre tali dermatiti possono risultare estremamente invalidanti per il paziente, perché
spesso danno luogo a reazioni clinicamente
molto intense e difficili da trattare. Inoltre
richiedono l’interruzione dell’applicazione del
cosmetico e la ricerca di prodotti alternativi,
situazione non sempre facilmente realizzabile.
Al fine di ridurre il rischio allergizzante di
alcuni cosmetici occorre una stretta collaborazione tra gli specialisti e l’industria. Gli scopi
principali sono la diminuzione della concentrazione delle frazioni allergiche, l’eliminazione delle sostanze a provata capacità sensibilizzante ed infine la ricerca costante di sostanze
sempre più sicure nel rispetto della gradevolezza del prodotto.
Letture consigliate
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Tratto da Omnia Medica 1/2007
Scripta M E D I C A
Volume 11, n. 3, 2008
1137
Patologie mammarie in età adolescenziale:
approccio diagnostico-terapeutico.
Erika Gubellini, Sara Brachi, Gloria Borsari, Vincenzo De Sanctis*
Introduzione
Le affezioni mammarie riscontrabili
nelle adolescenti comprendono un gruppo
eterogeneo di patologie; le più frequenti
sono secondarie a difetti di sviluppo della
ghiandola (1).
Al contrario di quanto accade nell’adulto,
poca attenzione viene usualmente riservata a
queste malattie durante l’adolescenza. In
considerazione di ciò, riportiamo una revisione delle patologie mammarie di più frequente osservazione nell’età adolescenziale.
Anomalie di forma, volume
e numero
deficitario sviluppo mammario, in quanto le
dimensioni delle mammelle variano notevolmente da soggetto a soggetto e dipendono
per lo più da fattori genetici (2, 3).
Una scarsa crescita mammaria è di maggiore
riscontro nelle ragazze alte e magre; in questi casi è possibile un’associazione con il prolasso della valvola mitrale, che quindi va
indagato (Figura 1).
L’ipoplasia mammaria può essere secondaria
ad anoressia nervosa, disfunzioni ovariche
primitive e secondarie, sindrome surrenogenitale, tumori androgeno-secernenti.
Una terapia radiante della parete toracica
durante l’infanzia (ad es. per emangioma) o
un trauma (ad es. un’estesa ustione) possono
causare uno scarso sviluppo della ghiandola.
Amastia ed atelia
L’assenza della ghiandola mammaria,
amastia, deriva dalla completa regressione
della cresta mammaria. È un’anomalia estremamente rara, solitamente unilaterale. Si
associa, in genere, ad altre malformazioni
della parete toracica, come accade per esempio nella sindrome di Poland (aplasia dei
muscoli pettorali, deformità toraciche, sindattilia, aplasia del nervo radiale ed amastia).
Con atelia si intende l’assenza di uno o di
entrambi i capezzoli; è anch’essa una condizione di rara osservazione (2).
Entrambe le anomalie richiedono correzione
chirurgica.
Ipoplasia mammaria
Non esiste una precisa definizione di
Scuola di Specializzazione in Pediatria
Università degli Studi di Ferrara
* U.O. di Pediatria ed Adolescentologia
Arcispedale S. Anna di Ferrara
Figura 1. Ipoplasia della ghiandola mammaria in
una adolescente di 17 anni con prolasso della
mitrale.
(V. De Sanctis, osservazione personale)
Scripta M E D I C A
Volume 11, n. 3, 2008
138
po mammario raggiunto è principalmente
legato a fattori socio-culturali.
Un intervento di chirurgia plastica può essere preso in considerazione nelle ragazze psicologicamente disturbate da tale condizione.
Atrofia mammaria
L’atrofia mammaria è di raro riscontro
nell’adolescente e nella maggior parte dei casi
è secondaria a severa perdita di peso, come si
verifica in caso di anoressia nervosa o di patologie croniche sistemiche (Figura 2).
Altre cause di atrofia mammaria includono
l’ipoestrogenismo e le sindromi virilizzanti
(2, 3). Anche la sclerodermia può portare ad
alterazioni mammarie di tipo atrofico.
La terapia consiste nel trattamento della
malattia di base.
Generalmente uno scarso volume mammario
non interferisce con la possibilità di allattamento. Il grado di accettazione dello svilup-
Asimmetria mammaria
Un’asimmetria mammaria è comune,
i n t e ressando circa il 25% delle ragazze
(Figura 3). Può essere fisiologica, per esempio durante lo sviluppo puberale (Figura 4),
oppure secondaria a ipoplasia o iperplasia
unilaterale. Va esclusa la presenza di una
massa tumorale interessante una delle due
mammelle, così come un storia di trauma o
segni di infezione in atto (4).
Figura 3. Asimmetria mammaria in una ragazza di
16 anni.
Figura 4. Asimmetria mammaria in una ragazza di
11 anni, in fase iniziale di maturazione puberale.
(V. De Sanctis, osservazione personale)
(V. De Sanctis, osservazione personale)
Figura 2. Atrofia mammaria in una ragazza di 15
anni con artrite reumatoide giovanile. La ragazza
era regolarmente mestruata.
(V. De Sanctis, osservazione personale)
Scripta M E D I C A
Volume 11, n. 3, 2008
139
Alterazioni della gabbia toracica (scoliosi di
grado severo, pectus excavatum) possono
causare una psedo-asimmetria.
L’intervento chirurgico viene considerato in
caso di importante e persistente asimmetria.
Macromastia
ed iperplasia mammaria giovanile
L’iperplasia mammaria giovanile è un
disturbo benigno, relativamente raro, caratterizzato da un rapido e massivo aumento del
volume mammario durante la pubertà. Può
essere mono o bilaterale. Nelle adolescenti
un’importante macromastia può causare
disturbi fisici, tra cui lombalgia e cifosi posturale, e soprattutto disagio psicologico (3).
L’eziologia dell’iperplasia mammaria giovanile è sconosciuta. Solitamente si presenta in
maniera sporadica, ma esistono anche casi
familiari.
I livelli di FSH, LH ed estradiolo sono generalmente nella norma. È stata ipotizzata come
causa scatenante un’aumentata sensibilità dei
tessuti mammari agli estrogeni circolanti.
L’esame istologico del tessuto bioptico ha
mostrato come la proliferazione cellulare
interessi sia lo stroma connettivale che le
strutture ghiandolari.
La diagnosi differenziale, nelle forme monolaterali, dovrà prendere in considerazione il
fibroadenoma gigante, il tumore filloide e le
malattie infiammatorie della mammella. I
tumori maligni come il linfoma, il sarcoma o
le metastasi sono invece estremamente rari
durante l’età adolescenziale.
La riduzione mammoplastica è il trattamento d’elezione. Va eseguita in tarda adolescenza così da permettere uno sviluppo mammario completo. In considerazione della tendenza alla recidiva, viene consigliato da alcuni Autori un trattamento farmacologico con
tamoxifene (un antagonista dei recettori
estrogenici) per circa 8-12 settimane dopo la
riduzione chirurgica (1).
Mammelle a tubero
La mammella a tubero è una variante
dello sviluppo mammario (1-4). In questi
casi l’impianto della mammella è ristretto in
senso verticale ed orizzontale (tipo 1) o solo
in senso orizzontale (tipo 2) ed il complesso
Figura 5. Mammella “a tubero” in una adolescente. Questa anomalie si associa a disvolumetria
mammaria.
(V. De Sanctis, osservazione personale)
areola-capezzolo è sporgente ed eccessivamente sviluppato (aspetto a “tubero”). Il tessuto mammario, ipoplasico, è erniato in sede
areolare (Figura 5).
L’intervento chirurgico è indicato in caso di
gravi disturbi psicologici conseguenti a tale
anomalia e va rinviato fino al completamento dello sviluppo mammario.
Polimastia e politelia
Mammelle sovrannumerarie (polimastia) e capezzoli sovrannumerari (politelia)non
sono di comune osservazione nella pratica
professionale. Si riscontrano lungo il decorso
delle primitive creste mammarie, tra l’ascella e
l’inguine, e sono, di solito, asintomatici (3).
L’eziologia di queste anomalie sembra risiedere in un fallimento della normale regressione della cresta mammaria, probabilmente
secondario ad una mancata espressione del
gene regolatore di questo processo.
Esiste un’associazione tra queste anomalie e
malformazioni del sistema cardiovascolare
ed urinario.
L’escissione chirurgica delle mammelle e dei
capezzoli accessori è indicata nelle pazienti
Scripta M E D I C A
Volume 11, n. 3, 2008
140
sintomatiche (dolore, secrezione dal capezzolo sovrannumerario o presenza di una
massa a livello del tessuto mammario ectopico) o per motivi estetici.
Inversione del capezzolo
L’ inversione del capezzolo è caratterizzata dalla localizzazione del capezzolo su un
piano inferiore rispetto a quello dell’areola.
Esistono diversi gradi di inversione del
capezzolo, che può apparire piatto o addirittura depresso.
Questa anomalia può essere congenita o
secondaria a ripetuti processi infiammatori
della mammella (1). È causata dalla fibrosi e
dalla retrazione dei dotti galattofori sottostanti il capezzolo. Può comportare problemi
sia estetici che fuzionali, tra cui l’impossibilità ad allattare.
In genere l’intervento chirurgico è controindicato perché difficilmente porta ad una correzione completa e perché causa, non infrequentemente, complicanze post-operatorie:
disturbi sensoriali del capezzolo, marcate
cicatrici a livello dell’areola e disfunzioni
mammarie.
la mammaria; nel 10-15% dei casi è multiplo
e bilaterale. In genere presenta una crescita
lenta, non superando i 2-3 cm di diametro
(Figura 6). Solo raramente si riscontrano
fibroadenomi giganti, esclusivi dell’adolescenza, che tendono ad accrescersi con maggior
rapidità fino a raggiungere dimensioni cospicue (10-12 cm) con conseguente deformità
ed asimmetria mammarie.
La causa specifica dell’insorgenza del fibroadenoma non è conosciuta. È’ stata ipotizzata
una sensibilità abnorme del tessuto mammario agli estrogeni circolanti in quanto durante la gravidanza il tumore va incontro a
modificazioni iperplastiche, mentre nel
periodo postmenopausale tende a regredire.
Istologicamente il fibroadenoma è una
neoformazione capsulata costituita da una
doppia componente ghiandolare e stromale
con fibrosi di vario grado.
La diagnosi di fibroadenoma è clinica e strumentale. L’esame d’elezione è l’ecografia che
mette in evidenza una lesione ipoecogena, di
aspetto ovalare, con asse maggiore parallelo
al piano cutaneo. In caso di dubbio diagnostico, legato alle caratteristiche del nodulo,
andrà effettuato l’esame citologico su agoaspirato.
Masse mammarie
In età adolescenziale le masse mammarie sono nella maggior parte dei casi di
natura benigna; l’approccio diagnostico può
dunque essere, al meno nelle fasi iniziali, di
tipo non invasivo. Una valutazione clinica
accurata associata ad indagine ecografia e in
alcuni casi ad esame citologico sono in genere sufficienti per un corretto inquadramento
della patologia.
Fibroadenoma
Il fibroadenoma è la patologia mammaria benigna più tipica dell’età adolescenziale
(1-4). Si presenta come una massa rotondeggiante, di consistenza duro-elastica, nettamente delimitata, liscia o polilobata, mobile
rispetto al tessuto mammario circostante.
È in genere non dolente o lievemente dolente soprattutto nel periodo pre-mestruale.
Il fibroadenoma insorge più frequentemente
nel quadrante supero-esterno della ghiando-
Figura 6. Asimmetria dello sviluppo della ghiandola mammaria in una adolescente di 11 anni con
fibroadenoma mammario destro.
(V. De Sanctis, osservazione personale)
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I fibroadenomi regrediscono spontaneamente nel 25% dei casi e non hanno tendenza a
degenerare in senso maligno. Per tali motivi
non è necessario asportare sistematicamente
tutti i fibroadenomi. L’intervento chirurgico è
indicato solo se persiste il dubbio diagnostico (diagnosi differenziale col tumore filloide)
o in caso di un fibroadenoma a rapido accrescimento e/o in presenza di dimensioni tali
(superiori a 3-4 cm) da determinare problemi psicologici ed estetici nella paziente.
Cisti
Dopo il fibroadenoma, le masse mammarie più comuni nelle adolescenti sono
rappresentate dalle cisti, che originano dalla
dilatazione dei dotti galattofori (1, 2).
Obiettivamente la cisti si presenta come una
lesione di consistenza teso-elastica, a superficie liscia, con margini definiti, mobile
rispetto ai piani sopra e sottostanti. In genere è singola e unilaterale.
Nella maggior parte dei casi le cisti mammarie sono asintomatiche; possono risultare
dolenti se di grande volume o se complicate
da processi flogistici.
L’indagine diagnostica d’elezione è l’ecografia,
che mostra un’area anecogena a contorn i
regolari con rinforzo di parete posteriore.
Solitamente le cisti tendono a regredire spontaneamente nell’arco di alcune settimane o mesi senza la necessità di alcuna terapia, se non
l’uso di analgesici in caso di dolore. La paziente va rassicurata sulla benignità della lesione.
La persistenza di una cisti sintomatica richiede l’esecuzione di un’agocentesi allo scopo di
detendere la massa. Qualora il liquido aspirato risultasse ematico vi è indicazione all’esame citologico del liquido stesso.
Cisti multiple e ricorrenti configurano il quadro della mastopatia fibrocistica.
Lipomi del seno
Si tratta di masse benigne generalmente di piccole dimensioni, soffici e lobulate.
Possono essere trattate con la semplice escissione chirurgica se di volume cospicuo.
Tumore filloide
Il tumore filloide è una rara neoplasia
mammaria a componente mista connettivale
ed epiteliale. Si presenta come una massa
unica non dolente, a superficie bozzoluta, di
consistenza disomogenea, a contorni non
sempre ben definiti, inizialmente mobile sui
piani sopra e sottostanti tanto da essere difficilmente differenziabile, nelle fasi iniziali, dal
fibroadenoma mammario.
Tende ad accrescersi rapidamente raggiungendo talora dimensioni cospicue.
Istologicamente è caratterizzato da noduli
stromali che aggettano nei lumi dei canalicoli conferendo alla lesione un aspetto fogliaceo (1, 4).
Nella maggioranza dei casi questo tumore ha
un comportamento benigno; tuttavia esistono forme borderline, a basso grado di malignità e francamente maligne con capacità
metastatizzante (cistosarcoma filloide).
Per la sua potenzialità maligna il tumore filloide va sempre asportato. L’escissione del
nodulo deve essere ampia e completa vista la
possibilità di recidiva.
Carcinoma mammario
È di rara osservazione in età adolescenziale (1).
I fattori di rischio sono rappresentati da
menarca precoce, familiarità positiva per
tumori mammari e pregressa terapia radiante al torace.
Il carcinoma mammario si manifesta sotto
forma di una massa unica, di elevata consistenza, non dolente, infiltrata e a margini
indistinti.
Il trattamento non differisce da quello utilizzato nella donna adulta.
Più comuni del tumore primitivo sono le lesioni maligne secondarie (metastasi di rabdomiosarcoma, linfoma, sarcoma di Ewing, neuroblastoma o leucemia acuta linfoblastica).
Patologie infiammatorie
e traumatiche
Mastiti ed ascessi mammari
Le mastiti in età adolescenziale sono
in genere secondarie a traumi, depilazione
della peluria areolare, infezioni cutanee della
regione mammaria.
Tra i patogeni responsabili il più comune è lo
Scripta M E D I C A
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Staphylococcus aure u s; altri batteri implicati
sono Escherichia Coli, Pseudomonas species,
Micrococcus pyogenes, streptococchi ed anaerobi. Clinicamente le mastiti si manifestano con
dolore, arrossamento ed edema cutaneo a cui
si associano generalmente segni sistemici (febbre, leucocitosi) (1, 2). Talvolta è presente una
secrezione purulenta dal capezzolo. La terapia
consiste nell’applicazione di impacchi caldi e
nella precoce istituzione di un’adeguata terapia antibiotica. L’ecografia è d’aiuto per escludere una raccolta ascessuale, il cui trattamento prevede il drenaggio chirurgico. Per attenuare l’infiammazione ed i disturbi soggettivi
locali può essere utile la somministrazione di
farmaci antinfiammatori non steroidei.
gravidanza, iperprolattinemia, assunzione di
farmaci (ad es. antidepressivi). In tutti i casi va
esclusa la presenza di una massa mammaria.
Nelle forme lievi-moderate la terapia si basa
sulla somministrazione di analgesici e sull’uso
di un reggiseno di supporto. Nelle forme
s e v e re sono stati utilizzati vari farmaci tra cui
il danazolo, il tamoxifene e la bromocriptina.
Poiché questi farmaci hanno effetti collaterali
a lungo termine, il loro uso deve essere limitato ad un breve periodo e riservato alle
pazienti con sintomatologia particolarmente
grave.
Traumi
Il trauma mammario nelle adolescenti
è abbastanza comune, soprattutto in seguito
ad attività sportiva. Si presenta come contusione o ematoma ed in genere si risolve senza
reliquati. A volte tuttavia si può verificare
steatonecrosi, che dà esito a trasformazioni
cistiche tardive e a fibrosi, con conseguente
retrazione del capezzolo o della cute nell’area
colpita (1, 2).
Galattorrea
La galattorrea consiste in una secrezione di liquido lattescente dal capezzolo, non
fisiologica in quanto al di fuori del periodo
dell’allattamento. È in genere bilaterale e si
manifesta spontaneamente o per spremitura
delle mammelle. Può essere idiopatica (nelle
prime fasi dello sviluppo puberale) oppure
secondaria a disordini endocrini (adenomi
ipofisari pro l a t t i n o - s e c e rnenti, ipotiroidismo, malattia di Cushing) o all’uso di farmaci (contraccettivi orali, antidepressivi triciclici, fenotiazine, cannabinoidi) (1-4, 6).
Raramente è causata da una stimolazione
locale del capezzolo o da un trauma della
parete toracica, che attraverso l’attivazione
dell’asse ipotalamo-ipofisario scatena l’iperproduzione di prolattina.
Per l’inquadramento diagnostico vanno
determinati innanzitutto i livelli ematici di
prolattina. Se viene riscontrata un’iperprolattinemia è indicata l’esecuzione di una RMN
con gadolinio per escludere la presenza di un
adenoma ipofisario.
Vanno inoltre indagate la funzionalità tiroidea e cortico-surrenalica.
Un’attenta anamnesi farmacologia può individuare un’eventuale eziologia iatrogena.
Il trattamento della galattorrea consiste in
primo luogo nella correzione della causa sottostante. Qualora ciò non sia possibile o non
si identifichi alcuna patologia responsabile
della galattorrea, è indicato l’uso di agonisti
dopaminergici.
Mastodinia
Un dolore mammario (m a s t o d i n i a), o
più frequentemente una sensazione di “t e n s i one mammaria”, viene riferito non di rado dopo
il menarca. La sintomatologia è in genere bilaterale e scarsamente localizzata; compare nella
fase luteale del ciclo e regredisce con l’inizio
del flusso mestruale (mastodinia ciclica).
La terapia si basa sulla somministrazione di
analgesici, ad esempio farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS), associata all’impiego di un reggiseno contenitivo. Nei casi
più gravi è indicato l’uso di estroprogestinici.
Nella maggior parte delle pazienti la mastodinia si risolve spontaneamente nell’arco di
mesi o anni (1-3).
A volte il dolore non è correlato al ciclo
mestruale (mastodinia non ciclica). In questi
casi può essere secondario a patologie della
parete toracica (muscoli, spazi intercostali,
giunzione condro-costale), uso di marijuana,
Secrezione del capezzolo
Scripta M E D I C A
Volume 11, n. 3, 2008
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L’intervento chirurgico per via transfenoidale
è necessario solo in caso di macroadenoma,
peraltro non frequente in età adolescenziale.
Altre secrezioni del capezzolo
Oltre alla galattorrea, le altre secrezioni mammarie non sono di frequente osservazione in età adolescenziale. In genere unilaterali, sono principalmente dovute ad infezioni o altre condizioni benigne (1-6).
Una secrezione purulenta è suggestiva di infezione; in questi casi va eseguita la coltura del
materiale secreto ed iniziata l’opportuna terapia antibiotica. L’ectasia duttale determina episodiche secrezioni areolari di colore brunastro.
Essa origina dall’ostruzione e conseguente
dilatazione di un dotto mammario. Gradi massivi di distensione portano alla formazione di
vere e proprie cisti in sede retroareolare (5, 6).
Obiettivamente l’ectasia duttale si presenta
come un nodulo palpabile nella regione subareolare; l’indagine ecografia mostra strutture
tubulari anecogene o dotti pieni di secreto.
Non si associano alterazioni endocrine (5).
Si tratta di un problema benigno, autolimitantesi che evolve verso la guarigione spontanea in alcune settimane. Raramente, i dotti
dilatati possono infettarsi con rischio di
complicanze ascessuali e necessità di escissione chirurgica. La diagnosi differenziale
dovrà essere posta con le forme neoplastiche
e con la mastopatia fibrocistica, condizioni
entrambe rare in età evolutiva.
Una secrezione ematica o siero - e m a t i c a
monoorifiziale può essere segno di papilloma
intraduttale, neoformazione benigna che tipicamente si sviluppa nei dotti galattofori maggiori della zona sottoareolare.
È caratterizzata istologicamente da una proliferazione delle cellule epiteliali duttali
intorno ad un asse connettivo-vascolare centrale. Di consistenza fragile, tende a sanguinare al minimo traumatismo.
Quando palpabile, appare come una tumefazione molle che in genere non supera il diametro di 1 cm (4).
Il gold-standard per la diagnosi è rappresentato dalla duttogalattografia, che evidenzia il
papilloma come un minus endoluminale di
aspetto moriforme.
Il papilloma intraduttale non ha la tendenza
alla trasformazione in senso maligno.
In presenza di un dubbio diagnostico, nei
casi di ricorrenza della secrezione ematica
dal capezzolo, a causa di una eccessiva ansia
da parte dei genitori o della ragazza viene
consigliato l’intervento chirurgico.
Conclusioni
Lo scopo di questo lavoro è stato quello di stimolare l’attenzione del Lettore su una
problematica medica abbastanza frequente
nella pratica professionale.
Le patologie mammarie dell’adolescente
sono prevalentemente dovute ad alterazioni
della forma e del volume della ghiandola o
sono secondarie a patologie benigne.
È esperienza comune che non sempre vengano adeguatamente inquadrate e valutate. In
considerazione di ciò abbiamo riportato l’esperienza personale ed i dati della letteratura
sull’argomento.
Desideriamo, inoltre, ricordare che l’adolescente vive con disagio queste anomalie o
patologie e, pertanto, necessita non solo di
un inquadramento diagnostico-terapeutico,
ma anche di un supporto psicologico da
parte dello specialista (pediatra-adolescentologo, psicologo).
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Scripta M E D I C A
Volume 11, n. 3, 2008
1145
Rottura prematura delle membrane a termine
(≥37 settimane) (PROM):
indurre il travaglio o attendere?
La risposta dell’evidence based medicine.
Pietro Cazzola
che le compongono. Da quel momento in poi
la distensione non è seguita da proliferazione
cellulare e le membrane di conseguenza si
La parete del sacco fetale (amniotico) è
assottigliano notevolmente.
costituita da tre membrane (amnion, chorion
Al momento del parto il polo inferiore delle
e decidua (Figura 1), la cui principale funmembrane, per effetto dell’appiattimento e
zione è quella di trattenere il liquido amniodella dilatazione del
collo dell’utero, si
Figura 1. Struttura istologica della parete del sacco amniotico.
stacca dalla decidua
parietale e forma la
cosiddetta “borsa delle
acque” (Figura 2).
Le membrane extraplacentari
Rottura
delle membrane
Nel travaglio fisiologico la rottura delle
membrane avviene
quando la dilatazione
cervicale è quasi comtico intorno all’embrione/feto. Con il
progredire della crescita embrio-fetale le
membrane vanno incontro a una loro distensione che, fino
circa alla metà della
gravidanza, si accompagna anche ad
un aumento del numero delle cellule
Specialista in Anatomia
e Istologia Patologica
e Tecniche di Laboratorio, Milano
Figura 2. Formazione della “borsa delle acque”.
Subito prima del travaglio
Prima fase del travaglio
Scripta M E D I C A
Volume 11, n. 3, 2008
146
pleta e in genere si realizza in corrispondenza dell’acme di una contrazione uterina.
In rapporto al momento in cui avviene la
rottura delle membrane rispetto all’insorgenza del travaglio e alla durata della gravidanza è possibile distinguere le seguenti
situazioni:
rottura delle membrane durante il travaglio a termine (37 settimane o più) [rupture of membranes (ROM); rottura tempestiva];
rottura delle membrane a termine (37
settimane o più) prima dell’inizio del
travaglio [premature o prelabor rupture of
membranes (PROM); rottura intempestiva prematura];
rottura delle membrane pretermine (2437 settimane) prima dell’inizio del travaglio [preterm premature rupture of membranes (PPROM)].
stimata essere l’8% (1).
La PROM è generalmente una condizione
benigna dal momento che il 79% delle
donne partorirà entro 12 ore e il 95% entro
24 ore (1).
Per queste donne la prognosi del decorso del
parto e del periodo peripartum rimane eccellente e l’amnioressi andrebbe considerata un
evento fisiologico, piuttosto che una situazione patologica (2).
Sfortunatamente il 5-10% delle donne con
PROM non entrerà in travaglio nelle successive 72 ore e il 2-5% non avrà ancora partorito dopo una settimana (2).
In questi casi aumenta significativamente il
rischio di complicanze materne e neonatali
durante il parto e nel periodo immediatamente successivo.
Le cause della PROM non sono del tutto
chiarite, ma sono state identificate alcune
condizioni in cui essa è più frequente: gravidanze multiple, polidramnios, fumo di sigaretta, alterate proprietà meccaniche delle
membrane, frequenti esplorazioni vaginali,
coito e infezioni (3, 4).
PROM (a termine)
Come precedentemente accennato, per
PROM a termine si intende la rottura delle
membrane, a partire dalla 37a settimana di
gestazione, prima che il parto sia iniziato.
L’ incidenza della PROM a termine è
Conseguenze della PROM
Le conseguenze della PROM possono
essere immediate, come il prolasso del funicolo, la compressione del cordone ombelicale e
Tabella 1. Principali outcomes materni e fetali considerati nella revisione Cochrane (16).
Outcomes materni
Outcomes fetali e neonatali
Mortalità materna
Taglio cesareo
Parto vaginale
Parto vaginale strumentale
Chorioamniosite
Endometrite
Febbre postpartum
Tempo di ospedalizzazione antenatale
Tempo di ospedalizzazione postnatale
Mortalità
Prolasso del cordone ombelicale
Età gestazionale alla nascita
Tempo tra la PROM e la nascita
Respiratory distress syndrome
Punteggio di Apgar <7 al 5°minuto
Peso alla nascita
Infezioni neonatali
Ricovero in unità di cura intensiva neonatale
Scripta M E D I C A
Volume 11, n. 3, 2008
147
il distacco placentare (condizioni che richiedono il taglio cesareo o il parto vaginale strumentale), o tardive, come le infezioni materne
(corioamniosite e endometrite) (5-7).
Quest’ultime, a loro volta, possono diffondersi al feto, incrementandone la mortalità, o
causare al neonato respiratory distress syndrome e paralisi cerebrale (1, 7-10).
Alcune osservazioni hanno evidenziato che
il rischio di infezioni materne e fetali aumenta con il trascorrere del tempo tra PROM e
nascita (10, 11), mentre altre non hanno
mostrato tale correlazione (4, 12).
PROM: strategie terapeutiche
Chi assiste una gestante con PROM si
trova di fronte alle seguente dilemma: attendere che il travaglio inizi spontaneamente o
indurre il parto?
Finora l’unico dato certo era rappresentato
dalla constatazione che la soddisfazione delle
donne è maggiore tanto è minore il tempo che
trascorre tra la PROM e la nascita (13).
La PROM rappresenta una possibile indicazione all’induzione del parto sia per l’American College of Obstetricians and Gynaecologists
sia per il Royal College of Obtetricians and
Gynaecologist (14, 15).
La prima organizzazione consiglia l’osservazione della paziente fino a 24-72 ore (da 1 a
3 giorni), mentre la seconda organizzazione
si limita ad affermare che non bisognerebbe
attendere più di 96 ore (4 giorni!) per intervenire (14, 15).
Come si può notare i limiti temporali prospettati sono molto ampi, non univoci, e perciò contrastanti con i principi della evidence
based medicine che si propone di trasferire
nella pratica clinica ciò che i risultati degli
studi meglio condotti hanno evidenziato. A
sopperire a queste lacune è recentemente
intervenuta una revisione Cochrane (16).
intervento entro le 24 ore) nelle gravide con
PROM alla 37a settimana.
Principali outcomes
Nella Tabella 1 sono indicati i principali outcomes materni, fetali e neonatali presi in
considerazione.
Studi presi in esame
Nella revisione sono stati inclusi 12 trial per
un totale di quasi 7.000 donne.
Metodi di induzione del parto
Ossitocina: 7 trial
Prostaglandine: 5 trial
Caulophyllum: 1 trial
Principali risultati materni
Taglio cesareo: nessuna differenza tra i
due gruppi (intervento immediato, nessun intervento) anche nell’ambito dei
sottogruppi (ossitocina, prostaglandine,
caulophyllum).
Parto vaginale e parto vaginale strumentale: nessuna differenza tra i due
gruppi.
Chorioamniosite: nel gruppo intervento
immediato riduzione del 26% del rischio
relativo globale.
Endometrite: nel gruppo intervento
immediato riduzione del 70% del rischio
relativo globale.
Tempo di ospedalizzazione antenatale:
riduzione sia nel gruppo con ossitocina,
sia nel gruppo con prostaglandine.
Tempo di ospedalizzazione postnatale:
riduzione sia nel gruppo con ossitocina,
sia nel gruppo con prostaglandine.
Principali risultati neonatali
Revisione Cochrane
Obiettivo
Verificare i risultati dell’induzione precoce
(entro le 24 ore) rispetto all’attesa (nessun
Infezioni neonatali: nessuna differenza
tra i due gruppi (intervento immediato,
nessun intervento) anche nell’ambito dei
sottogruppi (ossitocina, prostaglandine,
caulophyllum).
Scripta M E D I C A
Volume 11, n. 3, 2008
148
Ricovero nelle unità di cura intensiva
neonatale: nel gruppo intervento immediato riduzione del 27% del rischio relativo globale.
Conclusioni
Nelle donne con PROM alla 37a settimana di gestazione l’induzione al parto
entro le 24 ore dalla rottura riduce il rischio
di chorioamniosite ed endometrite, senza
aumentare l’incidenza di parti cesarei e di
parti vaginali strumentali.
L’induzione al parto entro le 24 ore dalla
PROM riduce l’incidenza dei ricoveri nelle
unità di cura neonatale.
Le donne (e i medici) dovrebbero essere adeguatamente informate di questi risultati per
compiere scelte più consapevoli.
A causa della possibilità di insuccesso dell’induzione, diversi fattori materni e fetali e
vari test di screening sono stati suggeriti al
fine di predire l’esito di tale intervento.
Le condizioni della cervice uterina all’inizio
dell’induzione, ed in particolare la dilatazione, rappresentano i più importanti fattori
predittivi e Bishop, che per primo nel 1964
descrisse la correlazione tra la presenza di
una cervice favorevole e il conseguente parto
per via vaginale, ha elaborato una scala a
punti che permette di prevedere se l’induzione può avere successo o meno (18)
(Tabella 2).
Una recente metanalisi di Crane (2006) ha
confermato che il punteggio di Bishop continua ad essere un valido fattore predittivo del
parto vaginale e che l’ultrasonografia transvaginale e il dosaggio della fibronectina
fetale non gli sono superiori (19).
Fattori di predizione
del successo dell’induzione
L’ induzione del travaglio è definita
come l’inizio artificiale delle contrazioni uterine, prima della loro insorgenza spontanea,
volte a determinare la progressiva dilatazione e scomparsa della cervice allo scopo di
promuovere il parto per via vaginale (17).
Induzione del travaglio
con prostaglandine
Nella Tabella 3 sono indicati i metodi utilizzati per ottenere la maturazione cervicale e
l’induzione del travaglio (20).
Le prostaglandine (PG) agiscono sul processo maturativo della cervice attraverso differenti meccanismi locali (21, 22):
Tabella 2. Punteggio di Bishop.
Parametro\ Punteggio
0
1
2
3
Posizione cervice
Consistenza cervice
Lunghezza cervice (cm)
Dilatazione cervice (cm)
Livello della testa fetale
Posteriore
Rigida
>3
<1
–3
Intermedia
Media
>2
1-2
–2
Anteriore
Soffice
>1
2-4
–1, 0
>0
>4
+1, +2
Il punteggio massimo possibile è 13.
Punteggio 0-3: altamente sfavorevole.
Punteggio 4-5: condizioni mediamente sfavorevoli.
Punteggio >5: condizioni favorevoli.
Scripta M E D I C A
Volume 11, n. 3, 2008
149
Tabella 3. Metodi per ottenere la maturazione cervicale e indurre il parto (20).
Maturazione cervicale non farmacologica
Maturazione cervicale farmacologica
Prodotti vegetali e animali, bagni caldi, clisteri
Stimolazione mammaria
Agopuntura, stimolazine nervosa transcutanea
Modalità meccaniche (cateteri)
Metodi chirurgici
Prostaglandine
Misoprostolo
Mifepristone
Relaxina
Ossitocina
modificano la sostanza fondamentale
extracellulare;
incrementano l’attività della collagenasi e
dell’elastasi;
aumentano i livelli dei glicosaminoglicani, del dermatan solfato e dell’acido ialuronico.
Nel miometrio, inoltre, le PG incrementano
le concentrazioni di Ca++ intracellulare, favorendo in tal modo le contrazioni (22).
La somministrazione vaginale di PG aumenta la probabilità di parto per via vaginale
entro le 24 ore, senza incrementare la necessità di tagli cesarei (23).
Per la somministrazione locale, la PGE2
(dinoprostone) è disponibile in due formula-
zioni: gel (Prepidil = 0,5 - 1 - 2 mg di dinoprostone) e dispositivo vaginale (Propess =
10 mg di dinoprostone, Figura 3).
La necessità di diverse modalità di somministrazione locale della PGE2 è nata dall’osservazione che con il gel la dose ottimale varia
individualmente e possono essere necessarie
applicazioni ripetute (24).
Un recente studio comparativo tra dinoprostone gel e dispositivo vaginale ha mostrato
una maggior efficacia di quest’ultimo nell’indurre la maturazione e il parto in donne a
termine con punteggio di Bishop < 4 (25).
Tra i vantaggi del dispositivo vaginale rispetto al gel occorre ricordare la sua possibile
rapida rimozione in caso di effetti collaterali
(26) e la minor necessità di ricorrere all’ossitocina per indurre il travaglio (27, 28).
Con il dispositivo intravaginale, il reservoir di
Figura 3. Schema di posizionamento e rimozione del dispositivo vaginale
per la somministrazione di dinoprostone.
Inserimento
Posizionamento
Rimozione
Scripta M E D I C A
Volume 11, n. 3, 2008
150
10 mg di dinoprostone mantiene
Figura 4. Relazione tra durata del trattamento
un rilascio di PGE2 controllato e
e quantità di prostaglandina rilasciata
in donne al termine della gravidanza,
costante (29): infatti studi in vivo
con membrane integre e con indice di Bishop ≤ 6.
condotti su donne a termine
(≥ 37 settimane di gestazione)
hanno evidenziato che a membrane integre è presente una correlazione lineare tra quantita di
PGE2 rilasciata e durata del trattamento (Figura 4) (26).
In caso di PROM la quantità di
PGE2 rilasciata è maggiore a
causa della variazione del pH
vaginale (PROM = 6 vs membrane integre = 4) e non è stato
possibile rilevare la correlazione
lineare prima descritta (26).
Tuttavia nel range di pH vaginale tra 6,5 e 7,5 la PGE2 si trova
principalmente in forma ionizbranes at term: the role of induction of labour. Fetal and
zata, condizione che ostacola il suo passagMaternal Medicine Rev 1998; 10:61-8.
gio nel circolo materno: ciò spiega perché in
caso di PROM la concentrazione di PGE2 e
5. Alexander JM, Cox SM. Clinical course of premature
rupture of the membranes. Semin Perinatol 1996;
dei suoi metaboliti nel plasma materno non
20(5):369-74.
differisca da quanto osservato in caso di
6. Kong AS, Bates SJ, Rizk B. Rupture of membranes befomembrane integre, con conseguente mancare the onset of spontaneous labour increases the likelihood
to incremento del rischio di iperstimolazioof instrumental delivery. Br J Anaesth 1992; 68(3):252-5.
ne del miometrio (26).
7. Merenstein GB, Weisman LE. Premature rupture of the
Da ultimo una nota tecnica rilevabile dai
membranes: neonatal consequences. Semin Perinatol
riassunti delle caratteristiche del prodotti a
1996; 20(5):375
base di dinoprostone: mentre il gel, in tutti i
8. Gonen R, Hannah ME, Milligan JE. Does prolonged presuoi dosaggi, è controindicato nella PROM
t e rm premature ru p t u re of the membranes predispose to ab(30), per il dispositivo vaginale è raccomanruptio placentae? Obstet Gynecol 1989; 74(3 Pt 1):347-50.
data cautela (29).
9. Robson MS, Turner MJ, Stronge JM, O'Herlihy C. Is
Per un uso corretto dei farmaci si raccomanamniotic fluid quantitation of value in the diagnosis and
da comunque un’attenta lettura dei rispettivi
conservative management of prelabour membrane rupture
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at term? Br J Obstet Gynaecol 1990; 97(4):324-8.
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Scripta M E D I C A
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ripening: a randomized comparison of Cervidil versus
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Obstet Gynecol Reprod Biol 2005; 119(2):189-93.
29. Riassunto delle caratteristiche del prodotto Propess.
30. Riassunto delle caratteristiche del prodotto Prepidil.
Scripta
Scripta MM EE DD II CC AA
Volume
Volume 11,
10, n.
n. 3,
1, 2008
2007
153
153
Il termine alta tecnologia compare per la prima volta, citato nel New York Times negli anni ’50, in riferimento allo
sviluppo delle ricerche sull’energia atomica in Europa.
Con “high tech” o “high technology” si indica la tecnologia più avanzata in un certo momento.
Il termine non appartiene agli oggetti, ma indica la continua evoluzione delle conoscenze di base nel tempo. Ecco
perché ISPLAD nel prossimo marzo 2009 organizzerà il 1° Convegno Internazionale: “High Technology in
Dermatology”.
È necessario confro n t a re e
aggiorn a re le proprie conoscenze su come la tecnologia, sia nel corpo teorico che nello sviluppo e produzione strumentale, abbia fatto progre d i re le conoscenze della
nostra disciplina, nella scienza ma anche, e
soprattutto, nella diagnostica e terapia.
Oltre ad essere una vetrina delle novità cosmetiche e strumentali, operative e diagnostiche,
l’incontro si propone di fornire al medico
approfondimenti con opinion leader internazionali, nel confronto e nella condivisione dei diff e renti know-how, da cui possano scaturire
nuove indicazioni e protocolli d’uso, per arricchire le conoscenze di coloro che utilizzano le
tecnologie nella pratica quotidiana.
Nello spirito dell’ISPLAD, che ha sempre cre d uto e si è sempre impegnata a forn i re con i suoi
Scientific office
Promoter Committee
corsi un aggiornamento attivo, che permetta
ISPLAD National Laser Department
Francesco Antonaccio
un’applicazione quotidiana di miglior livello.
Ivano Luppino
Francesco Bruno
Elisabetta Perosino
Maria Bucci
Ci auguriamo che questo incontro possa divenMarina Romagnoli
Ornella De Pità
tare negli anni un appuntamento costante,
Giuseppe Scarcella
Antonino Di Pietro
Giulio Ferranti
tutto dedicato all’innovazione teorica e pratica.
ISPLAD National Cosmetology Department
Ergife Palace Hotel
Rome, Italy
27-28-29 March 2009
Piera Fileccia
Antonino Di Pietro
Organizing Committee
Manuela Di Lella
Pasquale Frascione
Antonio Luci
Daniela Marciani
Steven Nisticò
Alda Malasoma
Elisabetta Perosino
Federico Ricciuti
Andrea Romani
Meeting information:
ISPLAD - International-Italian Society of Plastic-Aesthetic and Oncologic Dermatology
Titti Longobardo
Via Plinio, 1 - 20129 Milano
Tel. +39 02 20404227 - Fax + 39 02 29526964 - Cell. 320 6126835
[email protected] - www.isplad.org
Scripta
MEDICA
Volume 11, n. 3, 2008
155
Dermocosmetologia della pelle scura
Stefano Veraldi
Istituto di Scienze Dermatologiche, Università di Milano,
Fondazione I.R.C.C.S., Ospedale Maggiore Policlinico, Mangiagalli e Regina Elena
D
ifferenze anatomiche
tra pelle scura e chiara
Qualche anno fa è stato aperto, presso il nostro Istituto, un ambulatorio per la diagnosi e la terapia delle
malattie infettive, parassitarie e tropicali della cute. Questa iniziativa ci ha permesso, tra le tante opportunità, di visitare numerosi pazienti con pelle scura.
La pelle chiara e quella scura presentano una diversa anatomia.
Nell’epidermide della pelle scura si
riscontrano un film idro-lipidico di
superficie più ricco in acidi grassi, uno
strato corneo più compatto e spesso e
melanosomi presenti anche nei cheratinociti dello strato corneo; i melanosomi, inoltre, sono dispersi e di maggiori
dimensioni. Al contrario, non esistono
differenze tra pelle chiara e pelle scura
per quanto riguarda il numero, la distribuzione e la morfologia dei melanociti.
Il derma e il sottocute non presentano
differenze significative rispetto alla pelle
chiara. Le ghiandole sebacee e sudori-
pare sono, nella pelle scura, più diffuse,
più numerose, di maggiori dimensioni e
ipersecernenti. I peli sono meno diffusi
e presentano un fusto incurvato e spiraliforme, con una sezione di taglio
appiattita ed ellittica. Le unghie non
presentano differenze rispetto alla pelle
chiara. Considerata nel complesso, la
pelle scura si differenzia da quella chiara fondamentalmente per il colore ,
dovuto alla particolare anatomia dei
melanosomi.
Ruolo del dermatologo
Questa diversa anatomia presuppone una diversa fisiologia, che condiziona una diversa incidenza e/o presentazione clinica delle malattie con
e s p ressività cutanea. Si pensi, nel primo
caso, alla rosacea (meno frequente su
pelle scura) e alla vitiligine (più frequente su pelle scura); nel secondo, all’eritema: tutti i dermatologi sanno che su pelle
chiara l’eritema appare come un arrossamento, di colore variabile dal rosa al
rosso acceso, che scompare alla digitop ressione, ma non tutti i dermatologi
sanno che su pelle scura l’eritema appare
di colore grigiastro.
La diversa presentazione clinica delle
malattie su pelle scura necessita di una
sorta di revisione critica, da parte del
dermatologo, della metodologia di lettura delle malattie cutanee. Il dermatologo
si trova nuovamente a dover affrontare il
problema della morfologia delle lesioni
Scripta
MEDICA
Volume 11, n. 3, 2008
156
sulla pelle che già da tempo era abituato
a considerare come acquisite e definite.
Si avrà quindi un ritorno alla clinica
pura, intesa come osservazione e classificazione di quadri dermatologici noti, ma
con presentazioni cliniche nuove o atipiche: a questo fenomeno è stato dato il
nome di sindrome di Salgari 2. Inoltre, è
da ricord a re che le malattie che si osservano su pelle scura si osservano anche su
pelle chiara: non esistono quindi malattie cutanee specifiche della pelle scura.
Letture consigliate
Veraldi S, Leigheb G, Morrone A.
Atlas of dermatological diseases on dark skin
Basset A, Liautaud B, Ndiaye B. Dermatology of
black skin. Oxford Unìversity Press, Oxford,
1986
Un altro aspetto interessante emerso
negli ultimi anni è quello legato, per
u s a re un termine impegnativo, all’integrazione. Molto semplicemente, individui con pelle scura che nel recente passato si recavano dal dermatologo per una
malattia, oggi lo consultano spesso per
problematiche cosmetologiche. Il passaggio da una domanda “medica” a una
domanda “cosmetologica” non è altro
che una spia dell’integrazione di una cultura in un’altra.
Nella nostra esperienza, le più frequenti
richieste da parte di soggetti con pelle
scura riguardano la diagnosi e la terapia
dell’acne, delle follicoliti, delle alterazioni della pigmentazione (dalla vitiligine al
melasma), delle alterazioni della cicatrizzazione (cicatrici ipertrofiche e cheloidi)
e delle alopecie (spesso causate da traumatismi chimici, termici e meccanici).
Il dermatologo italiano si deve quindi
adeguare, in tempi brevi, con una nuova
cultura a una nuova realtà sociale.
Parish LC, Witkowski JA, Vassileva S. Color atlas
of cutaneous infections. Blackwell Science Inc.,
Boston, 1995
The Parthenon Publ. Group, New York, 2000
Rosen T. Clinical dermatology in black patients.
Pigreco, Bari, 1995
Morrone A, Mazzali M. Le stelle e la rana. La
salute dei migranti: diritti e ingiustizie. Franco
Angeli, Milano, 2000
Du Vivier A. Atlas of infections of the skín.
Gower Medical Pub., London, 1991
Harahap M. Dìagnosis and treatrnent of skin
ìnfections. Blackwell Science, Oxford, 1997
Morrone A, Mazzali M, Tumiati MC. La babele
ambulante Parole íntorno ai mondi che migrano.
Sensibili alle Foglie, Dogliani (Cuneo), 2000
Canìzares O, Harman RRM. Clinical tropical
dermatology, Blackwell Scientifìc Publications,
1992
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Medical and surgical. Mosby, Saint Louis, 1998
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dermatologia esotica e su pelle nera. Edizìoni
Medico Scientifiche, Pavia. 2001
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1994
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and venereology. Speinger-Verlag, Berlin, 1994
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Medicina transculturale e immigratì extracomunitari nell’Italia del 2000. Raffaello Cortina
Editore, Milano, 1995
Morrone A. L’altra faccia di Gaia. Salute,
migrazione e ambiente tra Nord e Sud del
Pianeta. Armando Editore, Roma, 1999
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immagini. Edizioni Grafiche Mazzucchelli,
Settimo Milanese (Milano), 1999
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MT, Papa A. Atlante di dermatologia in bianco e
nero. Edizioni Dermo, Napoli, 2006
Scripta
MEDICA
Volume 11 n. 3, 2008
Il trattamento mini-invasivo
delle “malattie prostatiche”
Alessandro Bertaccini
Introduzione
Clinica Urologica
Alma Mater Studiorum
Università degli Studi di Bologna
L’iperplasia prostatica benigna
(IPB), detta anche ingrossamento
benigno della ghiandola pro s t a t ica, interessa oltre il 70% degli
uomini di età compresa tra i 60 ed
i 70 anni ed il 90% di quelli di età
superiore agli 80 anni.
All’ingrossamento della ghiandola prostatica si associano spesso
disturbi urinari, cosiddetti LUTS
(lower urinary tract symptoms) ;
circa il 50% di tali pazienti richiede un trattamento medico e di
questi, la metà circa, un intervento
chirurgico disostruttivo. L’eziologia
dell’IPB risulta multifattoriale,
chiari fattori di rischio sono sconosciuti mentre potrebbero essere
coinvolti l’età avanzata, gli estro g eni e gli androgeni circolanti ed i
fattori di crescita locali. La sintomatologia tipica dell’IPB è rappresentata da disturbi ostruttivi (mitto
ipovalido, intermittente, gocciolamento post-minzionale, difficoltà
ad iniziare la minzione) ed irritativi (pollachiuria, nicturia, urgenza
minzionale, stranguria,).
Tale sintomatologia è alquanto
aspecifica e puo’ essere imputabile
anche ad altre malattie del basso
tratto urinario. Il trattamento comprende la terapia medica (alfa-litici, inibitori della 5 alfa reduttasi,
terapie con estratti naturali di serenoa repens, pygeum africanum, ecc.)
ed, in caso di mancata risposta o di
pro g ressione di malattia (peggioramento dei sintomi e/o ritenzione
acuta urinaria), la terapia chirurgica-endoscopica.
Nell’ambito dei trattamenti
chirurgici disponibili rivestono
particolare interesse le metodiche
mini-invasive che comprendono la
resezione prostatica transuretrale
(detta anche TURP), l’incisione
prostatica transuretrale (detta
anche TUIP), la vaporizzazione
prostatica transuretrale (TUVP), la
vapo-resezione laser, la foto-vaporizzazione laser, l’enucleazione
laser (HoLEP), l’ablazione prostatica transuretrale con radiofrequenza (detta anche TUNA), la termoterapia transuretrale a microonde
(detta anche TUMT) ed infine l’ablazione prostatica con ultrasuoni
(HIFU). Generalmente le indicazioni ai trattamenti mini-invasivi
dell’ipertrofia prostatica sono caratterizzate da volumi della ghiandola prostatica inferiori agli 70-80
cc. Fra queste tecniche, le più diffuse ed attualmente ancora il gold
standard di riferimento negli studi
clinici, sono la TURP e la TUIP.
Le complicanze più frequenti
comprendono possibili emorragie
post-operatorie, stenosi uretrali, la
sclerosi del collo vescicole, e l’eiaculazione retrograda; non vi sono
invece alterazioni a carico della
“potentia erigendi” .
Scripta
MEDICA
Volume 11 n. 3, 2008
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Le tecniche laser (attualmente
i più utilizzati sono i laser ad
Holmium ed al Tullium con tecniche di vaporesezione o tecniche
tipo laser-enucleazione) sono particolarmente indicate nei pazienti
ad alto rischio emorragico, e presentano il vantaggio di ridurre l’ospedalizzazione (che non supera
spesso le 24 ore !!!) ed il “discomfort” per il paziente (rimozione
precoce del catetere!).
La neoplasia prostatica (in genere
adenocarcinoma) è attualmente al
primo posto come incidenza fra i
tumori che affliggono i maschi
adulti nei paesi occidentali.
L’incidenza è notevolmente aumentata da fine anni 80’, quando è
stato introdotto il PSA nella diagnosi del carcinoma della prostata.
Il trattamento ottimale per la neoplasia prostatica confinata alla
ghiandola (stadio clinico T1, T2 )
in pazienti con una aspettativa di
vita di almeno 10 anni è rappresentato da un trattamento radicale
(chirurgia o radioterapia).
Per quanto riguarda la chirurgia
(prostatectomia radicale) si sono
recentemente messe a punto e diffuse delle tecniche mini-invasive
(laparoscopia e laparoscopia robotica) caratterizzate da una minore
invasività dovuta al fatto che
mediante piccole incisioni a livello
della parete addominale gli strumenti vengono portati direttamente
all’interno della cavità addominale
e dello scavo pelvico; mediante
un’apposita telecamera vengono
visualizzate con grande dettaglio ed
ingrandimento le strutture anatomiche coinvolte. Questo può consentire un maggior rispetto dell’anatomia chirurgica ed un minor
utilizzo di analgesici ed emoderivati nel decorso post operatorio, una
minore degenza post operatoria ed
un rapido ritorno alle normali attività quotidiane. Dati recenti sottolineano l’importanza di queste tecniche mini-invasive per un recupero
più precoce della continenza e dell’erezione (in caso di risparmio dei
nervi erigentes), ed al contempo, per
un’ottima radicalità oncologica.
Altre interessanti applicazioni mini-invasive da riserv a re solamente a
casi selezionati di neoplasia prostatica, riguardano gli ultrasuoni per
via transrettale (tecnica HIFU, che
sfrutta il danno termico indotto dagli ultrasuoni) e la crioterapia, tecnica che richiede il posizionamento
di aghi per via perineale con un rapido abbassamento delle temperature e quindi una necrosi tissutale
mirata. Entrambe queste tecniche
comunque richiedono anestesia ed
ospedalizzazione, con possibili effetti collaterali tra cui una frequente accentuazione della sintomatologia disurica post-trattamento.
Concludendo questo rapido excursus sulle tecniche mini-invasive nelle malattie della prostata,
sottolineo l’importanza delle selezione del paziente, dell’adeguata
informazione (tecniche alternative ed effetti collaterali!) e dell’esperienza del centro e dell’operatore nella tecnica proposta.
Scripta
ScriptaM EM DE ID CI AC A Volume
Volume
1111
n. n.
3, 3,
2008
2008
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Trattamento del dolore pelvico cronico nella donna
Alessandro Bertaccini
Clinica Urologica
Alma Mater Studiorum, Università degli Studi di Bologna
ntroduzione
I
Il dolore pelvico cronico è
definito come un dolore non ciclico che permane almeno 6 mesi e si
localizza a livello della pelvi o nella
porzione anteriore dell’addome ed
è sufficientemente severo da causare disturbi funzionali.
Nel Regno Unito interessa il
3.8% delle donne, mentre negli
USA il 15%. Nel 61% delle donne
che riferiscono questa sintomatologia non viene identificata alcuna
causa e nel 40% coesistono più fattori che possono essere coinvolti.
Non è ancora stata del tutto chiarita l’origine del dolore pelvico cronico nella donna anche se molto
spesso viene associato ad endometriosi, aderenze, sindrome del colon irritabile o cistite interstiziale.
La raccolta dell’anamnesi e l’esame obiettivo permettono di fare
un’ iniziale diagnosi differenziale,
di richiedere un approfondimento
diagnostico, di escludere neoplasie
e malattie sistemiche.
L’ International Pelvic Pain Society off re delle linee guida per la
gestione di queste pazienti. Infatti
l’anamnesi deve focalizzarsi sulle
caratteristiche del dolore, se si
associa al ciclo mestruale, all’attività sessuale (spesso resa difficoltosa dal dolore), alla minzione, alla
defecazione o ad un pregresso trattamento radiante. Inoltre è neces-
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sario indagare se alla comparsa
della sintomatologia è sopraggiunta un’inspiegabile perdita di peso,
ematochezia, perdite ematiche
irregolari peri e post menopausali
o post-coitali.
Pregresse infezioni pelviche o uso
di dispositivi intrauterini devono
far sospettare la presenza di aderenze. In ogni caso la mancanza di
un reperto diagnostico non può
escludere una patologia in atto.
L’esame obiettivo deve riguardare
la palpazione dell’addome eff e ttuando il segno di Carn e t t (pre m e ndo la zona del presunto dolore si
chiede alla paziente di piegare
entrambe le gambe) che se positivo è indicatore (trigger point) di
fibromialgia.
Quando il dolore pelvico è legato
ad un sospetto di cistite cronica,
all’esame obiettivo bisogna associare delle indagini di secondo
livello che confermino la diagnosi
ed escludano la possibilità di infezioni croniche o neoplasie dell’urotelio. Per questo scopo si effettua
la cistoscopia, l’esame citologico
urinario, l’ecografia reno-vescicale
e l’esame colturale delle urine con
ricerca anche del bacillo di Koch.
Per alleviare la sintomatologia di
dolore pelvico cronico esistono
solamente pochi trattamenti eff i c aci. Se viene confermata la diagnosi
di cistite cronica, oltre all’utilizzo
di antiinfiammtori somministrati
ciclicamente è possibile interv e n ire con alcuni integratori per stabilizzare il pH-vescicale e proteggere
la mucosa stessa.
In alcuni casi selezionati è possibile ottenere benefici da una idrodistensione vescicale in anestesia
generale.
Dai dati di letteratura emerge che
l’utilizzo di goserelina ed il trattamento chirurgico delle aderenze
possono alleviare la sintomatologia, ma nei casi in cui non è stata
individuata una causa specifica
viene raccomandato un approccio
terapeutico multidisciplinare.
Un solo studio in letteratura supporta il beneficio del sistema
intrauterino levonorgestrel nelle
pazienti dove il dolore pelvico cronico è causato da endometriosi,
anche se per non più di 6 mesi per
L’unico farmaco che sembra off r i re gli effetti collaterali. In questo condei reali benefici in queste pazienti testo il medico di medicina generaè il medrossiprogesterone aceta- le deve identificare le procedure
to che però non è consigliato nei diagnostiche più idonee ed indirizcasi di endometriosi, dismenorrea zare il paziente verso lo specialista
primitiva, malattie infiammatorie (urologo, ginecologo, gastro e n t eintestinali o sindrome del colon rologo, ecc) nell’ottica di un
irritabile.
approccio multidisciplinare. Infatti
queste donne vivono in uno stato
La gosere l i n a, un analogo di ansia e depressione cronica caudel GnRH, ha una maggiore dura- sate da questo disturbo, ed hanno
ta di azione rispetto al medro s s i- necessità di trovare continue rassiprogesterone ma ha un effetto sulla curazioni ed una terapia che possa
massa ossea riducendone la den- re n d e re meno invalidante possibisità. È per questo che coloro che le la loro vita compromessa da un
vengono trattate con goserelina de- continuo dolore alla pelvi.
vono essere periodicamente monitorate con la densitometria ossea.
Minori evidenze scientifiche supportano il trattamento con
analgesici orali, anche utilizzati
da alcuni esperti.
Gli anticoncezionali costituiscono la terapia più utilizzata
nel trattamento del dolore pelvico
cronico, nelle donne con dismenorrea.
La gabapentina da sola o
combinata con iniezioni di amitriptilina o tossina botulinica,
come la neuromodulazione e l’isterectomia potre b b e ro avere un
ruolo anche se al momento non
del tutto chiaro.
I dati sull’utilizzo della stimolazione percutanea del nervo tibiale,
della neurectomia presacrale o la
stimolazione del nervo sacrale non
sono supportati da studi randomizzati.