Fela Kuti - Sound and Music

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Fela Kuti - Sound and Music
MUSICA IN VINILE
Fela Kuti
Fela Kuti nasce il 15 ottobre 1938 ad Abeokuta, Nigeria, da una famiglia dell’aristocrazia yoruba. All’attivo del nonno, il Reverendo JJ
Ransome-Kuti, ventidue 78 giri pubblicati nei tardi anni Venti. Il padre (anch’esso pastore protestante) Israel Oludotun è un eccellente
pianista e il preside di una scuola che conterà fra i suoi allievi il premio Nobel Wole Soyinka. Fervente nazionalista, sarà fra le figure di
spicco della campagna per l’indipendenza dal giogo britannico e con
lui la moglie Funmilayo, straordinaria figura di femminista, fondatrice della Nigerian Women’s Union. Pur’ella innamorata della musica e
tuttavia è per studiare medicina che i due spediscono a Londra nel
1958 il figlio prediletto. Non hanno fatto i conti con uno spirito già ribelle che, piuttosto che per le aule di anatomia, opta per quelle del
Trinity College, dove si applica a tromba e composizione avendo fra i
compagni di corso e gli amici più intimi Ginger Baker. Nella Londra
non ancora messa a soqquadro dall’esplosione beat e dal suo fall-out
psichedelico, pazza per il jazz e il blues, il giovanotto si fa un nome
suonando per club con la tecnica approssimativa che lo caratterizzerà
sempre (virtuoso non sarà mai, in nessun senso) e un feeling che tanto più piace quanto più è ammantato di esotismo.
Nel 1961 fonda i Koola Lubitos. Quando due anni dopo torna in patria i ragazzi lo seguono e si conquistano una solida
fama con una miscela di jazz e highlife, sensuale danza del posto in tempo medio. Nel 1966 arriva a Lagos, dalla Sierra
Leone, tal Geraldo Pino e suscita immane scalpore declinando soul-funk devoto a James Brown. Per il nostro uomo è
un’epifania che lo induce a inserire il nuovo verbo in testi già esuberanti. Per due anni ci lavora su e a fine rifinitura la
creatura è battezzata afrobeat. Nulla per lui, per la musica africana,
per il pop globale sarà più lo stesso.
Circuiti che chiudendosi innescano incendi: nel luglio 1969 troviamo
Fela Ransome-Kuti e i suoi, che si chiamano ora Nigeria 70 (presto saranno Africa e poi Afrika 70; quindi Egypt 80), a Los Angeles. Mentre
Miles Davis, un’influenza importante sul Nostro, sta studiando a fondo James Brown e il Godfather Of Soul è dal suo canto in pieno trip
africano, Fela Kuti riporta il funk a casa in mesi tumultuosi che lo vedono prendere contatto con le Black Panthers e, di conseguenza, radicalizzarsi politicamente. Il soggiorno americano non avrà insomma
come sola eredità il gruzzoletto di titoli che vedranno la luce in
Nigeria l’anno dopo, sotto forma di 45 giri. Gli anni ’70 di Fela - a breve Anikulapo: “colui che tiene la morte nella borsa” - Kuti sono scanditi musicalmente da un profluvio di 33 giri pazzesco, decine, di qualità costantemente alta e con una tendenza all’uniformità che miracolosamente non annoia mai. Al contrario: dà dipendenza. Nel pezzo tipico si parte con un groove in tempo medio o medio-alto stabilito dalla batteria elastica e possente di Tony Allen sul quale Fela entra con il
sax e/o il piano elettrico, mentre intorno i fiati fustigano e danzano.
Tunde Williams prende un assolo alla tromba. La voce di Fela convoca il coro (di norma femminile) a un gioco di chiamata e risposta. Si va
avanti per dieci-quindici-venti-trenta ipnotici minuti.
Non è solo l’urgenza creativa e la singolare usanza di non eseguire
più dal vivo un pezzo una volta che lo si è immortalato su nastro a determinare questa produzione smisurata. Fatto è che Fela Kuti è sempre più popolare e ne approfitta per denunciare la corruzione della
classe politica del suo paese e l’arroganza antidemocratica dei militari,
e tali denunce hanno l’effetto di incrementarne ulteriormente la popolarità. Ogni disco diviene così cronaca e invettiva. Nel 1976 fa innalzare barriere elettrificate attorno al complesso di edifici in cui vive con
familiari e musicisti e proclama la zona indipendente con il nome di
Repubblica di Kalakuta. L’anno dopo l’esercito vi fa irruzione. Le case vengono devastate, gli uomini pestati a sangue,
le donne violentate, Funmilayo è fatta volare da una finestra e ne morirà. Non per la prima né per l’ultima volta, Fela
Kuti è incarcerato. Ma nel 1979 la dittatura militare cade e il nostro eroe celebra la democrazia ritrovata fondando il
Movement Of The People e annunciando l’intenzione di candidarsi alla presidenza. Glielo impediranno e ogni scusa
tornerà buona per rimetterlo in gabbia. Possesso di marijuana, importazione di valuta… Quest’ultima accusa gli costa
nel 1985 una condanna a cinque anni ma tale e tanta è l’indignazione suscitata internazionalmente dal caso che ne
sconterà meno di due. Tornerà però altre volte in galera, con le imputazioni più inverosimili. Eppure, e a dispetto, di
ciò gli anni Ottanta saranno costellati di altri dischi fantastici e tour in Europa che ne fanno una star, con spettacoli che
vanno avanti per ore e vedono musicisti e cantanti sul palco a decine. Ma la goccia sgretola la pietra e le prigioni nigeriane sono umide assi. Il brusco stop alle uscite discografiche nei Novanta e il diradarsi delle visite all’estero è indice di
una salute che va deteriorandosi. Fela Anikulapo Ransome-Kuti ci lascia il 2 agosto 1997. Il giorno dei funerali, un milione di persone scende in strada a Lagos, paralizzandola, per dargli l’estremo saluto. Nel pantheon degli eroi terzomondisti Fela prende posto accanto a Bob Marley e una consapevolezza è da subito diffusa: mai più uno come lui.
Knitting Factory ha appena pubblicato un box contenente le ristampe di sei degli LP più significativi (a sceglierli ha
provveduto ?uest Love dei Roots) del Nostro: sono “Fear Not For Man”, “Sorrow Tears And Blood”, “Beasts Of No
Nation”, “Expensive Shit”, “Everything Scatter” e “Teacher Don’t Teach Me Nonsense”. Dovrebbe costarvi intorno al
centinaio di euro e, per la cura con cui è stato realizzato (su vinile è di gran lunga il Fela Kuti meglio suonante di sempre), li merita tutti. “Set 1”, c’è scritto sopra, ed è la seconda bella notizia.
Eddy Cilìa
100
AUDIOREVIEW n. 320 marzo 2011
Classica
S. PROKOFIEV M. RAVEL Piano Concertos (DG/Sound & Music)
Brillante e titanica esecuzione di Martha Argerich, in una delle incisioni (1967) che decretarono una
volta per tutte il suo successo mondiale. Il Terzo Concerto di Prokofiev e quello di Ravel sono eseguiti
con una Filarmonica di Berlino dallo smalto raffinato ma dai toni brillanti imposti da un Claudio
Abbado energico e vitale, campione della musica del Novecento. Entrambi i grandi artisti si affacciano
giovani e forti nella foto di copertina di questo LP. Molto tempo è passato, ma fa piacere constatare come oltre quarant’anni dopo entrambi siano ancora sulla scena, e che il contributo da loro offerto al
mondo musicale sia più vivo e forte che mai.
Lo scorso anno in queste pagine avevano presentato un’altra prestigiosa ristampa di una storica incisione Deutsche Grammophon con la Argerich. Si trattava del suo album di esordio, un recital pianistico
con un programma da far tremare i polsi. Tra le altre cose comprendeva una lettura avvincente della
micidiale “Toccata” op.11 di Prokofiev. Proprio il compositore russo è rimasto centrale nel repertorio
della pianista argentina, tecnicamente dotata ma anche sensibilissima nel rendere le sfumature più nascoste dietro la brillante e virtuosistica presentazione esteriore. In tal senso proprio il Terzo di Prokofiev è uno dei suoi
brani di elezione, pagina avvincente che tornerà ad affrontare spesso nel corso della carriera. Questa con Abbado è una
delle letture che ancora oggi possiamo considerare di riferimento, per l’affiatamento mostrato tra i due musicisti e per la
profonda analisi testuale del brano. Di pari livello la prova con il Concerto di Ravel, una lezione di grande stile che la qualità della registrazione e l’accurata ristampa restituiscono con il più nobile smalto.
Marco Cicogna
Rock
JOHN & BEVERLEY MARTYN Stormbringer! (4 Men With Beards)
Benché appena ventenne il John Martyn che nel gennaio 1969 incontra, a un concerto di Jackson C.
Frank, la cantautrice Beverley Kutner ha già alle spalle due acclamati 33 giri, “London Conversation” e
“The Tumbler”, da qualche parte fra Davey Graham e Bert Jansch da un lato, il Nick Drake che a brevissimo sarà dall’altro, in mezzo Donovan. Lei dal suo canto vanta una partecipazione al “Monterey
International Pop Festival” ed è al lavoro con Joe Boyd su un primo LP. Scoccano scintille. Presto si
sposeranno e per intanto alla Warner, che ha sotto contratto Beverley negli Stati Uniti, piace l’idea di
Boyd che i due incidano assieme. La coppia vola oltre Atlantico e si stabilisce in una Woodstock pronta
a entrare nella storia del rock per i motivi che sapete ma che fino a quel punto è giusto il rifugio preferito di una certa élite musicale: ci vive Dylan con la Band, ci trascorre i fine settimana Hendrix, nella casa
a fianco a quella dei Martyn. Atmosfera creativa, belle e rilassate vibrazioni. Nasce così un disco che
poco ha a che spartire con il titolo minaccioso e una copertina di romanticismo plumbeo e lo chiarisce
subito una “Go Out And Get Her” dalle parti di The Band e in anticipo sui Little Feat. È un album soffice e incantato (più
che altrove in una squisita “The Ocean”), con archi a tratti un po’ invadenti ma nel complesso scarno per quanto è sofisticato e si punti per averne un esempio l’aggraziata danza di “Tomorrow Time”. John e Beverley bisseranno con “The Road
To Ruin”. I modesti riscontri commerciali indurranno quindi la seconda a un ritiro domestico, mentre il coniuge proseguiva il cammino verso capolavori chiamati “Solid Air” e Inside Out”.
Eddy Cilìa
Blues
HOUND DOG TAYLOR And The HouseRockers (Alligator)
“I Ramones del blues”: così una volta Robert Christgau definì Theodore Roosevelt Taylor e i suoi fidi
HouseRockers, etichetta suggestiva e per questo rimasta attaccata ma che non tiene conto di una primogenitura in base alla quale casomai si sarebbero dovuti chiamare, i finti fratellini newyorkesi, “gli
HouseRockers del punk”. Si aggiunga, a precisare ulteriormente i contorni di uno stile grezzo, fumigante
e frenetico, che i Cramps prenderanno da loro non solo l’idea dell’inusuale formazione a tre, con due chitarre insieme alla batteria, ma il medesimo spirito selvaggio. In questi tre sferraglianti quarti d’ora affrontati quasi sempre a passo di carica Taylor e soci - l’altro chitarrista, Brewer Phillips; il batterista Ted
Harvey - suonano come la bar band definitiva, fra dondolanti ipnosi e forsennati stomp, un po’ prima di
John Belushi, un po’ oltre i paletti sistemati da Jimmy Reed ed Elmore James. Per Hound Dog Taylor, che
morirà di cancro quattro anni dopo, nel 1975, era il primo 33 giri, pubblicato alla non verde età di cinquantasei anni. Era anche il primo articolo di un catalogo che diverrà con il tempo eccezionale, quello
della chicagoana Alligator, che il giovane boss Bruce Iglauer fondava proprio per potere dare alle stampe
questo LP, sciaguratamente rifiutato dalla Delmark e ora rimesso in circolazione con il marchio e sul supporto originali.
Eddy Cilìa
Jazz
DUKE ELLINGTON & HIS ORCHESTRA Such Sweet Thunder (Pure Pleasure/Sound & Music)
Ma chi l’ha detto che il concept album lo hanno inventato gli Who? A inizio 1957, nel pieno della sua
più fulgida stagione orchestrale e reduce da una trionfale partecipazione a un festival shakespeariano
in Canada cui era stato invitato non si sa bene perché, il Duca decideva di farsi ispirare dal Bardo di
Stratford-upon-Avon per una serie di composizioni organizzate in forma di suite che, in stretta collaborazione con il fido Billy Strayhorn, scriveva e arrangiava a passo di carica. L’obiettivo di riuscire a
presentarle in uno spettacolo “a tema” alla newyorkese Town Hall la sera del 28 aprile era quasi centrato. Non arrivava a completare giusto l’ultimo brano, “Circle Of Fourths”, che non veniva allora eseguito in concerto ma era comunque pronto quando si trattava di eternare, su nastro e vinile, un’opera
che prende il titolo da una frase che si sente nella prima scena del quarto atto del “Sogno di una notte
di mezza estate”. In un catalogo smisurato, è insieme uno degli articoli più singolari e più quintessenzialmente ellingtoniani, forte di musicisti immensi e di momenti di una bellezza epifanica, come l’attacco di solo piano a tempo di valzer di “Lady Mac”, o la performance al trombone di Quentin Jackson
in “Sonnet For Sister Kate”.
Eddy Cilìa
AUDIOREVIEW n. 320 marzo 2011
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