M. BONTEMPELLI Viaggio d`Europa Edizione: M. BONTEMPELLI

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M. BONTEMPELLI Viaggio d`Europa Edizione: M. BONTEMPELLI
M. BONTEMPELLI
Viaggio d’Europa
Edizione:
M. BONTEMPELLI, Racconti e romanzi, a cura di P. Masino, A. Mondadori editore Milano,
1961.
I. La figlia del Re compieva quattordici anni il giorno che insieme con i sacerdoti e altre dieci
vergini fu mandata al Libano in cerimonia a veder morire e rinascere l'Augello Fenice.
Il viaggio nei carri fu lento, su per i monti erbosi e deserti. Quando la comitiva raggiunse la
meta mancavano al tramonto appunto le due ore necessarie a preparare i ripari per la no tte. In
quel pellegrinaggio mistico era proibita ogni presenza di gente profana, i sacerdoti giovani
dovevano dunque fare da carrettieri e le vergini da cameriere. Furono accomodati i muli e i
cavalli dentro un bosco folto, e in una spianata poco piú su allestite le tre tende: una per la figlia
del Re e il Gran Sacerdote, la seconda per i dieci sacerdoti giovani, la terza per le altre dieci
vergini.
Disimpegnate con umiltà quelle mansioni, i sacerdoti chiamarono le fanciulle che si sbandavano
su per i greppi a cogliere fiori, perché era il principio dell'estate. Tutta la compagnia andò a
disporsi in una striscia libera che oltre le tende continuava il margine della spianata; di là si misero
a guardare in fondo al cielo, da sud ma un poco verso oriente.
Ancora qualche raggio del sole colorava le cime piú alte. L'ultimo passando sopra i loro capi parve
sostare, spingersi a saettare lo spazio; scomparve, e tutto il mondo fu spento. Ma in quel cielo
lontano, ove fissavano, il raggio aveva suscitato un punto, che fremé per un attimo di luce.
- L'Augello Fenice-Fenice-Fenice - gridarono i sacerdoti e le vergini, poi trattenevano il
respiro. Quel p unt o fatto súbito nero, s'andava addensando in mezzo al grigio dell'aria,
prendeva corpo, veniva avanti, era grande, aveva ali, ali spiegate come un’aquila che vola.
Volando s’avvicinava diritto, veloce, sempre altissimo. Poiché il volo seguiva il meridiano, tutti
insieme i sacerdoti e le vergini cominciarono a girare lentamente le teste per accompagnarne
il corso con gli occhi. Ma l'Augello Fenice, abbandonato il meridiano, prima disegnò una curva
grande sopra la catena dell’Antilibano che chiudeva l'orizzonte, poi mosse in leggiera discesa
verso il Libano.
- L'Augello Fenice-Fenice-Fenice... - ancora le fanciulle mormoravano, e súbito tacquero.
Si vedeva chiara tutta la forma dell'Augello: ora anche il collo e il capo col becco, anche la
coda e le zampe. Era più grande di un'aquila. Aveva un ciuffo lungo in mezzo alla testa.
Ai piedi della spianata s'apriva la valle. A sommo del declivio opposto, e un poco piú in
alto che la spianata di qua, sporgeva una rupe dal monte. Dietro essa il monte era tutto una
profumata foresta.
La religione insegnava come l'Augello Fenice ogni cinquecento anni al sentirsi morire vola a
quella rupe dall'Arabia, arrivando la sera e consumando la notte a costruirsi la pira, che la
mattina appresso i raggi del sole accenderanno. Era legge di devozione che quella sera lo
stuolo eletto dovesse ritirarsi nelle tende appena l'Augello aveva staccato e deposto il primo
ramo: nessuno doveva piú uscire all'aperto prima dell'alba.
L'Augello Fenice arrivò diritto alla rupe. Vi rimase fermo qualche istante come per prenderne
possesso. Le ombre delle cime gli giocavano intorno. Pareva un bronzo avviluppato, di bende
nere. Poi si scosse, guardò in giro, volò a un cedro; ne schiantò col becco un rametto, súbito
rivolò ad appoggiarlo sulla rupe.
Allora, come voleva la regola, compunti i sacerdoti e le vergini si ritirarono entro le tende.
Erano già spuntate molte stelle nel cielo senza luna.
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La figlia del Re si stese sul suo giaciglio. Il Gran Sacerdote sedé sulla sponda dell'altro, e
nell'ombra cominciò lentamente a parlare:
- Immagino - disse - quanta è in questa ora la tua commozione, Europa. Certamente né tu né le
tue compagne potrete questa notte prendere sonno. Solo ogni cinquecento anni, pensa, una
generazione ogni quindici, si ripete lo spettacolo divino che domani mattina noi contempleremo
con i nostri occhi. Noi, noi soli, ventidue Fenicii, in tutto il mondo. E tutto il mondo invidia il
nostro paese, il popolo fortunato cui 1'Augello Fenice ha dato il nome, e venendovi a morire e
rinascere ispira di mezzo millennio in mezzo millennio trovate intelligenti per far prosperare i
nostri commerci. I perfidi egiziani col pretesto che hanno anch'essi come noi una città
chiamata Eliopoli, cercano di far credere al mondo che l'Augello Fenice va da loro a farsi il rogo e
morire, da loro. Tu vedrai domani all'aurora quale è la verità. Anzi hai già cominciato a
vedere. Hai visto l'arrivo, appunto al tramonto del sole come sapevamo per tradizione sacra,
dalla parte dell'Arabia. Hai visto il greppo ove Lui s'è posato, ove domani col primo sole
brucerà. Quella rupe santa si chiama la Vidra. Quando piove, e quando grandina o d'inverno
cade la neve, e anche in mezzo ai piú spaventosi uragani, sempre la rupe rimane intatta, né
pioggia neve grandine o il vento o la polvere possono raggiungerla. Hai visto come Egli vi ha
deposto il primo ramo per la catasta. Ora per tutta la notte, al lume delle stelle, Lui continua e
compie il lavoro. Ascolta: se tendi l'orecchio con pietà vera puoi sentire, ecco, spiccare un rametto,
e ora il volo leggero, ecco, e lascia cadere il rametto sopra gli altri, non sentii...
Ma tacendo per meglio ascoltare, il Gran Sacerdote traverso la tenebra sentì che Europa con molta
innocenza russava.
Il Gran Sacerdote, che era vecchio e santo, non aveva bisogno di sonno. Sospirò, e si raccolse a
mormorare le preghiere notturne al dio Elio; cosí rimase molte ore, fino a che vide trapelare la
prima alba dalle fessure della tenda.
Quando il vecchio ed Europa uscirono all'aperto, le fanciulle come tante api corsero a stringersi
intorno a loro; e con gli altri sacerdoti, tutti insieme avendo girato dietro l'attendamento,
raggiunsero il margine verso la vallata, in faccia all'altro monte, da cui alta si sporge la santa Vidra.
La pira dell'Augello Fenice era pronta.
Copriva quasi tutta l'ampiezza della Vidra, in forma d'una catasta quadra intesta minutamente di
ramicelli teneri e foglie, soffice alla vista. Pareva un nido.
L'aria si faceva di minuto in minuto piú limpida, ogni cosa intorno era verde. Europa avvertí il
rumore d'un'acqua lontana cadente.
Uscí da un cespuglio di ginepro l'Augello Fenice. Teneva nel becco due coccole, con un
ultimo volo andò a lasciarle cadere sul nido. Poi scese a posarvisi, vi si abbandonò. I colori delle sue
piume erano smorti. La sua stanchezza era piena di nobiltà. Teneva le ali aperte a mezzo, con le
punte appoggiate alla catasta. Il gran ciuffo dal capo stava ripiegato giú come esausto.
I sacerdoti e le vergini si sporgevano per vedere l'Augello negli occhi ma lui teneva la testa volta
dall'altra parte, levata verso le cime piú alte d'oriente, aspettando il raggiare del sole che doveva
accendere la pira.
Passò un minuto.
E l'aria intera ebbe un tremito, il verde dei prati brillò. Dalle cime era sgorgato un rovescio
di luce sui monti. Da un punto d'oro, che era già il sole, un raggio venne a ferire il lembo della pira.
Un virgulto di mirto súbito s'accese, incendiò i rami vicini e le fronde intrecciate e le bacche. Ne
scaturiva un fumo candido che avvolse di spire tutto il nido prima di spandersi nell'aria. Allora l'aria si
caricò di profumi.
L'odore prezioso scendeva a riempire la valle, saliva al poggio dei contemplanti; le fanciulle lo
aspiravano forte e impallidivano, a qualcuna s'infossavano gli occhi per la delizia. I sacerdoti non
staccavano lo sguardo dal rogo di fiamme vermiglie, di fumi celesti: dentro vi correvano crepitii
rapidi, ne uscivano faville altissime al cielo.
Intanto il sole s'era levato perfetto di sopra dai monti e la valle n'era avvampata. I sacerdoti giovani si
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premevano le mani sul cuore. Il Gran Sacerdote guardava fisso alla santa Vidra e aveva gli occhi
pieni di lacrime, che cadevano in silenzio ai suoi piedi. Europa sentiva sempre piú acuto il canto
dell'acqua invisibile. Le pareva udirvi entro articolarsi strane parole, d'un linguaggio che non
conosceva, sillabe che non saprà mai ripetere. Non guardava più al rogo. Non riusciva ancora a
pensare all'Augello Fenice.
Poi lentamente i fumi diventavano bigi, sminuivano, si stracciavano prima di vanire. Un vento
fresco corse il monte, passò sul poggio a rinvigorire i sacerdoti e le vergini, varcò la vallata e
arrivava fino all'orlo della Vidra a raccogliere gli ultimi fiocchi di fumo e dissiparli.
Cosí traverso l'aria lucidissima apparve il rogo ridotto un monticello di cenere tenera. In mezzo a
questa alcune delicate ossa ancora sommessamente bruciavano; con un ultimo crepitio s'infransero, si
sfecero in polvere.
Ma in quella polvere nasceva un movimento, si vide uscirne una specie di grande bruco candido.
Dopo due o tre attorcimenti, tutt'a un tratto il bruco s'agitò, parve sforzarsi, si eresse, con
incredibile prontezza crebbe e si plasmò in una vivace forma; e súbito, da quella forma
spuntando penne di venti colori, senza dar tempo ai contemplanti di seguire i gradi della trasformazione
tanto era rapida ecco già lo videro compiuto e fresco, l'Augello Fenice, alacre e giovane,
scintillando in piedi sopra la cenere.
Dorate aveva le piume del collo, bianca la coda con qualche penna scarlatta, il corpo di linea ardita e
colore dello smeraldo.
Dal sommo della testa il ciuffo cilestrino scaturiva diritto come un getto di fontana.
Sollevò il petto in un gran respiro, poi sempre fermo sulle zampe alzò un poco le ali; sotto le
ali era tutto d'argento.
Finora aveva tenuto gli occhi socchiusi. Ora li spalancò. Splendevano immobili. Certo erano
fissi verso età lontane.
Certo lui non vedeva i contemplanti, non vedeva la valle né i monti. Non si capiva il colore di
quelle immense pupille.
Cominciò a rigirarsi lentamente, senza mutar luogo. A ognuno dei suoi moti il sole suscitava altri
colori tra le penne e le piume, le accendeva come se stesse già per bruciarlo tutto di nuovo. (Altri
cinquecento anni devi aspettare, Fenice.)
I sacerdoti erano estatici, le fanciulle si sentivano correre da una vaga impazienza. Europa senza
rendersene conto misurava le strane mosse dell'Augello al ritmo dell'acqua invisibile di roccia in
roccia.
Il Gran Sacerdote capí - e lo spiegò sottovoce alla figlia del Re, che guardava e non ascoltava - che
con quei movimenti l'Augello stava impastando di mirra la poca polvere rimasta delle ossa consunte:
si confermava dunque un'altra verità che la tradizione religiosa aveva insegnata. In breve l'Augello
ebbe davanti a sé un bianco batuffolo in forma d'uovo. Vi stese sopra dolcemente una zampa
come per prenderlo.
- Ora se ne va - disse piano il Gran Sacerdote (e la voce passò di bocca in bocca: - se ne va - se ne va - se
ne va...) - va a deporre il venerando avanzo nel tempio di Eliopoli - continuava il vecchio, e si gettò
in terra bocconi per reverenza, e gli altri sacerdoti con lui. Le fanciulle non sapendo che cosa si
deve fare si guardavano con occhi inquieti.
L'Augello Fenice non aveva ancora veduto nessuno dei suoi adoratori.
Ora teneva leggero un piede sul batuffolo. Europa si sentí battere il cuore e non sapeva perché.
L'Augello alzò le ali cominciando a scuoterle come per il volo; ma in quel momento il suo sguardo
uscí dalla fissità lontana in cui finora era stato immerso, entrò nella sfera del nostro spazio e del
nostro tempo, vide, certamente vide, il mondo circostante, la valle il monte il verde dei prati e degli
alberi l'aria; e dentro tutte queste cose aggirandosi venne a fissarsi diritto agli occhi d'Europa.
Europa trasalí, credé dare un grido ma la voce non uscí dall'anima esterrefatta; con gli occhi
spalancati ella guardava gli occhi della Fenice, che frattanto si fu per un tratto levata a volo, sollevando
anche con l'altro piede il fardello.
Alzò il capo e fece una ruota sopra la rupe per trovare la direzione: Europa d'avere smarrito il
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divino sguardo sentí uno sgomento. Già l’Augello si librava all'altezza della piú alta cima; volava
lento come per grande riguardo.
Europa desiderò perdutamente di vedere almeno per un attimo ancora quegli occhi. E la Fenice
al punto di varcare la montagna si voltò un'altra volta tra un nimbo di luce a guardare gli occhi
d'Europa: quello sguardo estremo, che durò un secondo, parve denso di una inafferrabile promessa.
Poi 1'Augello Fenice scomparve nella direzione di Eliopoli; la valle fu piena di profumo e di
malinconia.
Poche ore piú tardi, scendendo la strada nel carro delle fanciulle, il Gran Sacerdote cercava di
far loro intendere la grandezza di quanto avevano veduto. - Morire è sempre rinascere - egli
affermava. Le vergini dall'alto del carro guardavano le more mature sui cespugli lungo i margini,
avrebbero voluto scendere a coglierne ma non osavano chiederlo. Pensavano che la figlia del Re
certo avrebbe potuto. Ma Europa non guardava i cespugli.
Europa rivedeva lo sguardo della Fenice, risentiva il canto dell'acqua. L'ultimo sguardo della Fenice
era parso un annunzio, un accenno, quasi un'intesa di convegno. Si propose di stare attenta alla parole
del Gran Sacerdote, forse qualcuna di esse l'avrebbe illuminata. Il Gran Sacerdote andava ripetendo a fior di labbra: - Morire è sempre rinascere -. Ma Europa non sapeva con chiarezza che
cosa vuol dire morire. Invece gli domandò: - Quando è nato la prima volta 1'Augello Fenice? -.
Il Gran Sacerdote risponde: - L'Augello Fenice è sempre esistito, perché è eterno -. Ma Europa,
non sapendo che cosa è la morte, non sa neppure che cosa è la eternità. Allora tentava un'altra via,
domandando: - Ma quello che abbiamo visto dopo, è il medesimo che abbiamo visto bruciare,
o è uno nuovo? - Il Gran Sacerdote arrossì, poi imbarazzato rispondeva: - Tutto quello che non
sappiamo spiegare nelle tre dimensioni in cui vive l'uomo, qualche volta diventa súbito chiaro
se gli concedi una quarta dimensione -. Europa non disse che non capiva, e non insisté. Il Gran
Sacerdote aveva arrossito perché quella domanda, che la figlia del Re aveva fatta per grande
candore, era una questione che da molto tempo divideva aspramente i teologi, ed egli nella
bontà del suo cuore ne soffriva. Prima di notte i carri rientrarono nella città.
II. La città stava quasi tutta arrampicata sopra un colle, stretta tra le propaggini del Libano e il
Mediterraneo. Il punto piú alto ne era la porta d'Oriente, ove cominciavano le strade dei monti;
di là scoscendeva verso la porta d'Occidente, volta al mare. Ma il mare non si raggiungeva se
non dopo valicato un dirupo e sceso un sentiero tortuoso che sboccava in un gran prato. Era
questo il solo spazio aperto e piano di tutto il paese. Per i tre lati da terra il prato era cinto di
ontani e cipressi, l'erba vi cresceva bassa e folta rotta qua e là da cespugli d'oleandri e qualche
ulivo d'argento. Sentieri lo correvano, lo incorniciava un ruscello con i margini fioriti di
margherite. L'erba arrivava quasi fino all'orlo del mare, striscia di ghiaia continuamente lavata
dalle piccole spume.
Ogni giorno all'ora piú calda vi scendevano fanciulle a meriggiare. Le loro tuniche avevano i
colori dei fiori che sbocciavano un po' dappertutto tra le erbe. Qualcuna dormiva al margine del
prato sotto gli alberi piú folti. Qualcuna cantava.
Il giorno dopo quello del pellegrinaggio alla Vidra, vi arrivò anche Europa. Il sole
viaggiando in arco dal monte al mare aveva da un'ora passato il centro del cielo. Europa portava in mano un cestello di giunco pieno di rose e giacinti. Voleva mescolarvi un poco di verde
odoroso e appena scesa nel prato cominciò a cogliere pianticelle di menta selvaggia. Parecchie
delle fanciulle le corsero incontro, ma non credo ve ne fosse nessuna delle dieci che ieri sono
state alla Vidra. Non la interrogarono, né Europa parlò dello strano pelle grinaggio.
L'ultima parte del suo ritorno era stata pesante. La sera innanzi aveva stentato ad
addormentarsi, che non le era mai accaduto. Le prime ore del sonno furono agitate, ma infine
era nata nel suo limbo una quiete che la faceva scivolare dolcemente alla plaga dei sogni docili.
Svegliandosi aveva cercato disperatamente di afferrare per un lembo l'ultimo sogno, che
fuggiva; a lei restava tra le dita il lembo solo, e anch'esso súbito spersa ogni forma e sostanza s'è
sfatto. Ma la quiete è finita: Europa ora s'è accorta che que sto ch'ella cercava afferrare e non c'è
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piú, non era sogno creato, era il ricordo d'una cosa reale; e non già ricordo lontano; vicinissimo
anzi secondo la comune misura del tempo, eppure le sembra d'una vita remota. Europa con lo
svegliarsi ha smarrito l'impressione, favolosa del giorno innanzi; ricorda la scena, i movimenti
d'ogni cosa, ma non piú l'anima fonda del miracolo: non sa piú rivedere in fantasia, come certo lo
ha riveduto nel sonno, lo sguardo estremo della Fenice.
Per qualche ora, prima di levarsi, aveva sofferto atrocemente di questo. Avrebbe dato tutta
la propria vita, e la vita dei suoi genitori del suo paese del mondo intero, per ritrovare un
momento lo smarrito tesoro, poter evocare nella imma ginazione quello sguardo. Poi si vestí e
non ci pensò piú; il movimento della casa e le parole della gente han finito con dissipare del tutto la
luce della favola di ieri. Scendendo al gran prato, la cura di comporre bene di fiori ed erbe il cestello la occupava tutta, e la sua anima era leggera come una nuvola.
Quando il cestello fu perfetto e tutto armonia, Europa s'andò a sedere ai piedi d'un cipresso, col
viso al mare.
Il mare era teso, ora anche le spume impigrivano sopra la ghiaia che dormiva al gran sole. Non
si vedeva in tutto il giro dell'orizzonte una barca, la fronte del mare era libera e con miriadi di
piccole punte di luce rispondeva allo scintillare dell'aria.
A Europa, appoggiata con la schiena al tronco, ogni tanto s'abbassavano le palpebre, la testa
crollava; ma quando stava per assopirsi, ora il ronzio d'uno sciame di mosche ora l'assalto d'una
vespa o il tocco d'un insetto sul collo le impedivano di addormentarsi davvero. Aveva avuto
finalmente un poco di requie e la luce marina diventava nel suo vaporoso immaginare un lievito
di suoni che l'aveano spinta a volo verso un cielo animato di figure misteriose, e queste già le
parlavano da quell'alto con gonfie voci quando tutt'a un tratto sognò che un gigante in corsa la
afferrava di colpo per un piede; sobbalzando sentí sùbito grida allegre, spalancati gli occhi vide
che una palla era cosí arrivata a colpirle la caviglia, e da lontano correre due fanciulle per
riprenderla: già tutta sveglia saltò in piedi e contenta afferrò lei la palla e a gran forza la lanciò.
La palla traversò a volo sopra il prato quanto era lungo.
- Brava! - molte voci gridarono. Mentre le prime lanciatrici si voltavano a corsa pazza per
raggiungere la palla, una terza compagna si precipitava dalla parte d'Europa: cominciò una
partita vivacissima cui dapprima le altre intorno facevano da pubblico poi di mano in mano secondo
l'occasione tutte presero parte viva; parevano frecce, la palla qualche momento scompariva nella
luce, il prato era diventato un immenso concerto di grida e salti e risa altissime fino alla faccia del
sole.
Poco piú tardi il sole, che nel suo viaggio pomposo ama guardare un po' dappertutto,
discendendo il cielo poté scorgere le nostre fanciulle quale addossata a un ulivo quale stesa supina
lungo il ruscello, o affondate nell'erba ove s'erano abbandonate felici e stanche. Accanto a
Europa in un angolo stava il prezioso cestello con i fiori ancora goccianti dell'acqua che ella vi aveva
spruzzata.
Poiché il sole calava verso l'orizzonte del mare, qualche piccola nuvola era salita di là per essere la
prima a farsi colorare quando sarà il tramonto. Un vento leggero sorse dalla parte del mare e
andò a increspare l'erba per tutta l'ampiezza del prato.
Poi s'udí rumore grosso di sonagli e le fanciulle alzarono il capo e guardarono.
Dal sentiero che scoscende sul prato saltò prima un ragazzo poi una dopo l'altra con cautela, le
sue bestie, quattro grandi tori.
Le fanciulle non ebbero paura perché il bifolco era loro buon amico e già molte volte aveva
condotto nel prato le bestie, ghiotte di quell'erba profumata che ricresceva a maraviglia.
Alcune ragazze corsero per vederli pascolare. Due erano fulvi, uno grigio, uno nero screziato di
bianco. Masticavano con dignità. Ogni tanto uno dei tori s'allontanava di qualche passo,
guardava un momento l'aria intorno, poi riabbassava il vasto muso ad affondarlo tra il verde.
Ora ognuno dei quattro s'era scelto una sua zona nella gran mensa.
Una ragazza disse al bifolco: - Non vai a fare omaggio alla figlia del Re?
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Lui guardò, poi con calma si mosse.
Ma Europa già s'era levata e col suo cestello in mano veniva curiosa alla loro volta. Quando fu ad
alcuni passi da lei, il bifolco le fece una bella riverenza.
- Buon giorno bovaretto - disse allegra Europa: - da quando la tua mandria è cresciuta?
Il bifolco la guardò stordito poi disse: - Perché cresciuta?
- Le altre volte avevi quattro tori.
- Sí. Cosí.
- Quanto sei sciocco, non hai ancora imparato a contare.
Europa camminava verso le bestie, che ora pascolando s'erano ritrovate quasi in gruppo; il bifolco
la seguiva a testa bassa confuso.
Arrivarono ai tori.
- Vedi che sono cinque.
Il ragazzo alzò la testa, guardò, rimase a bocca aperta. Dopo un poco parlò:
- Prima non c'era.
- Sarà sceso ora, giù dal sentiero.
- No no, non può essere, io li conosco tutti i tori. Non c'è nessun toro cosí.
Infatti era diverso dagli altri quattro; un poco piú piccolo, bianco come il latte, e nel contegno,
nello sguardo, aveva qualche cosa di strano come la sua apparizione.
Le fanciulle stavano intorno e si divertivano al turbamento del bifolco.
- Via - gli dicevano - non star a pensare, il suo padrone verrà a cercarlo e tu glie lo renderai.
- No no, non ha padrone, non può. Europa si mise a ridere.
- Guarda che non mangia - disse il bifolco, e tremava.
Infatti il toro bianco non brucava come gli altri, che ora
seguendo l'erba di nuovo s'erano sparsi, e non guardavano l'intruso. Il toro bianco guardava
Europa. Era nitido, la giogaia gli scendeva come un drappo quasi a terra, la coda terminava in un
gran ci ciuffo. Le corna piccole lisce disegnavano due falci di luna perfette. Gli occhi movevano
tondi nelle orbite con un nobile languore. Il suo pelo era seta viva.
- Mi piace - disse Europa - quando sappiamo chi è il padrone, me lo faccio comperare.
Ma il ragazzo non s'era calmato. L'arrivo di quel toro era per lui cosa troppo contraria alla
regola. Lo fissava senza piú poter dire una parola e la sua faccia era bianca come il pelo del
toro.
Questo pareva avesse capito la lode di Europa.
Alzò il collo e tese il muso con lo sguardo al cielo poi mandò un muggito melodioso che
volava sul prato, raggiunse i monti, vi risonò, affievolendo tremò a lungo a mezz'aria.
Tutti rimasero muti fino che l'ultima eco si spense.
Allora fu come un sospiro delle foglie, dell'erba, dell'acqua.
I quattro tori grandi guardavano con diffidenza, scotevano la pelle come punti dall'estro,
rinculando s'accostarono verso l'uscita del prato. Anche il piccolo bifolco soffriva: raggiunte le
sue bestie stava pronto alla fuga.
Le fanciulle gridarono:
- Ancora, toro, muggi ancora.
Una piú estrosa gli disse:
- Torello, canta - e insieme tentò di mettergli una mano sul collo.- Il torello si ritrasse. Fece due
passi, e andò a inginocchiarsi davanti a Europa.
- Guarda, fa come i cavalli ammaestrati.
- Ha riconosciuto che sei la figlia del Re.
Europa fu molto intimidita dall'atto del toro. Lo guardava tra le corna, senza muoversi
sorrideva e forse impallidiva. Lui, sempre stando a quel modo con le zampe anteriori piegate a
terra, con molti cenni del capo da sotto in su la guardava come invitandola a qualche cosa.
- Carezzalo tu, Europa, vuole te; vedi, fa come un cane.
Allora Europa per una ispirazione giocosa infilò il manico del suo canestro sul corno sinistro del
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torello.
Il toro, che in quel momento stava scotendo il collo, prima si fermò, poi riprese la mossa
molto piú lento con grande attenzione per non guastare i fiori d'Europa.
Le compagne mormorarono di ammirazione. Europa si risolse e senz'altro si chinò a fare una
lunga carezza sul collo morbido del toro, che immobile socchiudeva gli occhi.
Ora il respiro gli s'era fatto frequente, come ansimasse per non sapere esprimere il proprio
pensiero. Anche il suo sguardo pregava.
- Che cosa vorrà?
- Che cosa vuoi, torello? - domandò Europa.
Cosí parlando, ancora stava chinata e gli teneva una mano sul collo. Il toro molto pianamente
spostandosi venne a fare una leggerissima pressione contro il fianco d'Europa, che quasi senza
avvedersene si trovò seduta sul suo dorso. Allora lui dolce dolce ridrizzò le zampe e si rimise
in piedi con Europa in groppa posta di fianco come sopra una cavalcatura.
Questa volta le fanciulle batterono le mani allo spettacolo.
- Lo avevo detto, che è ammaestrato.
Il toro voltò indietro la testa a guardare Europa come per rassicurarla. Ma lei non aveva paura
né piú alcuna timidezza. Rideva, e si cercò la posa più comoda. Sentí che l'animale cominciava
adagio a camminare, con le due mani afferrò le due piccole corna; al sinistro sempre pendeva il
cestello. Lui camminava grave e tutt'intorno il coro delle compagne li seguiva schiamazzando.
Europa ebbe un'idea; gridò: - Un momento - e intanto con le mani tirava le corna come
fossero briglie. L'animale si fermò. Europa disse alle ragazze: - C'è posto, salite anche voi, due o tre
ci stiamo, poi lo facciamo correre.
- Sí - sí - io - io...
Ma l'idea d'Europa non era piaciuta al toro. Ogni volta che una gli veniva a ridosso, lui con
uno scrollo discreto le impediva di salire.
- Vuole te sola.
Ora il toro affrettò un poco l'andare poi si mise al piccolo trotto. Europa assecondava con
tutto il corpo quel ritmo. Era ebbra. Fecero cosí quasi intero il giro del prato. Il toro si fermò in faccia
al mare, quasi alla riva. Pareva s'interessasse al cielo che all'orizzonte cominciava a incendiarsi.
- Che cosa guardi, toro?
Lui fece altri due o tre passi. Europa si voltò alle amiche:
- Guardate, gli piace tenere i piedi nell'acqua.
Da lontano il bifolco, che fino a quel punto era stato in silenzio imbronciato, si mise a
gridare, movendo le braccia verso la montagna:
- State attente, la cima alta è piena di nuvole, a momenti fa temporale, io devo portar via i
miei di corsa.
Le ragazze rabbrividirono a un soffio freddo che corse il prato, andarono a stringersi agli
alberi dall'altra parte e chia mavano Europa. L'aria s'era fatta di colore del piombo.
- Aspetta - gridò Europa al bifolco - porta via anche questo - e tirava le corna al toro, che
pareva inchiodato.
- No - urlò il ragazzo, e corse al sentiero spingendo a furia i suoi quattro che spaventati
s'urtavano e muggivano forte.
Europa si moveva per scivolare giú, ma s'accorse che l'acqua del mare era già alta fino al
ventre del toro.
III. Europa per l’improvviso spavento uscì in un grande urlo, mentre il toro s’inoltrva nell'acqua.
Tenendosi disperatamente alle corna, ella di nuovo strillò e si voltò a guardare verso la terra per
chiamare le compagne. Ma non vide piú le compagne né il prato né la terra, perché un turbine
nero
aveva
avvolto
ogni
cosa.
Il toro nuotava diritto verso il largo ed Europa urlò una volta ancora stringendosi sempre piú sulla
sua groppa e cercava di alzare le gambe per non bagnarle; poi gli strilli cominciarono a uscirle
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rotti, gridi umili, imploranti affannata, gemeva e chiamava « mamma », tossiva e perdeva il fiato;
sobbalzava e ricadeva sul dorso di quello, che nuotava avanti rapido senza voltarsi una volta allo
strazio di lei. Il pianto era diventato uno spasimo di gemiti. Tremava e batteva i denti. La luce sul
mare era livida, non faceva né notte né giorno. Un nuovo urto di singhiozzi le ruppe il petto;
mandò fuori un ultimo gemito soffocato e s'abbatté svenuta con la piccola testa addosso al cranio
del
toro.
Quando riprese i sensi stentò a riconoscersi. La paura in lei aveva ceduto a un imbambolamento
di tutto lo Spirito. Alzò il capo e si guardò in giro, perché anche il mondo intorno era cambiato.
Erano in alto mare e il toro sempre nuotava uguale e rapidissimo. Per un momento Europa credé
si fosse levata la luna; ma luna non era, c'era uno sparso alone fulgido sulla plaga d'acqua
intorno al toro che nuotava, tutto l'altro mare era ancora nero. Il cielo invece cominciava a
sgomberarsi, già apparivano lembi di costellazioni piovendo lume traverso la discesa dell'aria fino al
mare.
Europa ora si rialzò del tutto e si ritrovò come era fin da terra, seduta di fianco sul dorso
dell'animale. Di nuovo guardò, con una strana calma stupefatta, il mondo bianco e nero che la
avviluppava. Un dolore acuto alle palme la avvertí che stava ancora stretta con le mani alle
corna del toro. Le aprí con prudenza, provò a toglierle e scostare le braccia: si sentiva salda. Strofinò
una palma contro l'altra per riammorbidirle. Il procedere del toro era tanto uguale che lei senza
paura, solo appoggiandosi un poco con le due mani sul suo collo, poté spostarsi dal fianco sinistro
al fianco destro di lui. Era indolenzita. Da quante ore si trova li sopra? È accaduto prima assai del
tramonto, e ora dev'essere il colmo della notte. Europa non era mai stata alzata cosí tardi. Oh che
cosa staranno facendo in questo momento alla reggia? Certo non dormono. Certo han messo in
mare tutte le navi, ma il toro va molto piú in fretta.
Il cielo era sgombro e la luce delle stelle bagnava tutto lo spazio. L'occhio d'Europa cominciò a
distinguere volumi piú scuri, una gran mole che ora passa lontano alla sua destra è certo l'isola Cipro
ove il re Agenore è stato una volta col naviglio nuovo e in casa se n'è molto parlato.
Mentre fissava quella massa a un tratto vide staccarsene un coro di ombre bianche, veli volanti a fiore
dell'acqua, e arrivare leggerissime a pochi passi da lei che con un piccolo grido alzò le mani quasi a
difesa; ma quelle con una voluta languida súbito scomparvero assorbite dalla superficie del mare.
Europa stava incerta se davvero le aveva vedute, e già un altro stormo di larve candide dall'isola
scivolava fino quasi ai suoi piedi e dileguarono. Poi un terzo, e fu l'ultimo; quando questo arrivò e si
dissolse l'isola Cipro era passata e stava diventando piccolissima alla vista nel buio dell'orizzonte. Che cos'erano, toro? - domandò Europa; ma si spaventò della propria voce nel gran silenzio del
mondo.
Come non avessero atteso altro che 1'esempio di lei per violare quel silenzio, un gorgoglio forte nacque
sotto la pelle del mare e un altro e un altro e un altro ancora, tutti quattro in giro lì intorno, fino che
emersero quattro groppe nere; e due a destra due a sinistra, ma trattenendosi a qualche distanza, si
misero ad accompagnare la navigazione del toro quasi a corteo; Europa mandò un grido di spavento
quando all’estremo di quelle groppe scaturirono tuti insieme nello stesso istante quattro getti altissimi
d’acqua e ricadevano giù come fiori. Il toro non badava a nulla e continuava a navigare senza segno di
stanchezza. Era nato un venticello e di tratto in tratto scoteva gli steli d'acqua di quelle mobili
fontane, arrivavano in viso a Europa gli spruzzi. E le richiamarono d'improvviso come tante volte
i giorni scorsi era andata sulla riva del suo mare dove sono le rocce e l'onda vi si frange, per sentire
gli spruzzi a quel modo arrivarle sulla faccia. Al ricordo della felicità la invase uno sgomento
dell'ignoto verso cui era trascinata, si immaginò in presenza d'un abisso strano in cui forse dovrà
precipitare; e piú che di paura, di nostalgia d'incertezza e di solitudine si sentí desolare: buttandosi col capo
tra le mani sul collo del toro cominciò a piangere perdutamente.
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Non singhiozzava, piangeva piano; come d'un pianto che avesse in destino durare sino ai
confini del tempo; pianto senza scosse copioso che piovendo dagli occhi bagnava le mani
d'Europa, passando tra le dita scendeva a inondare rapidamente la pelle del toro. Dapprima
Europa pensava, pensava col pianto; pensò tutte le belle cose perdute: rivedeva nella luce delle
lacrime la madre, il padre Re, la nutrice, Cadmo fratello, le compagne, la palla, il prato, il bel
canestro che chi sa da quanto è caduto nel mare cattivo che lo porta via.
Poi Europa non pensa piú ma piange ancora. Piangeva per riposare. Invece agli uomini e agli
dei il pianto della donna pare sempre dolore.
Mentre continuava questo suo pianto vuoto, Europa sentí un vago movimento nel collo del
toro. La prima volta non lo avvertì bene e continuava a piangere. Ma il movimento si ripeté
piú netto. Europa, dimenticando che piangeva, vi fece attenzione. E la terza volta credé capire che
il toro avesse voglia di volgere il collo e non potesse perché lei vi pesava sopra. Allora si rialzò.
Infatti il toro, rallentata un momento la corsa, girò tutto il muso verso Europa a guardarla.
Nella tenebra i suoi occhi apparvero accesi come i pianeti.
Europa pensò per un attimo che il toro stesse per parlare. Ma súbito rise di questa
immaginazione. Vedendola ridere il toro parve contento, tornò a guardare davanti a sé e riprese
la sua tranquilla velocità. E come già nel prato, alzando un poco il muso mandò un muggito
sommesso che volò via sul mare. Europa per la soavità del suono novamente si reclinò su lui,
che riprese a muggire in note modulate, a ritmo di nenia, sopra il bordone dei quattro getti
d'acqua che corteggiavano il viaggio. Nel cadere di quell'acqua tutta la superficie del mare
stormiva. Ai muggiti allo scroscio al fruscío, sotto le indulgenti stelle Europa placidamente
s'addormentò.
Si svegliò in mezzo alla luce del giorno, riposata come se avesse dormito nel suo letto alla
reggia. Il sole le scaldava la schiena, l'aria brillava. Le fontane nuotanti erano scomparse, non c'era
niente sul mare altro che azzurro.
Europa sorrise. Intorno al toro, che era la sua nave, l'acqua era limpidissima. Europa vi si
specchiò; cosí continuando a mirarsi, con le mani si ravviò le chiome; spruzzò le tempie, cercó
di stirare il lembo sgualcito della tunica. Di nuovo sorrise, alla propria immagine. Di là da
essa, nello spessore diafano dell'acqua, vide passare un piccolo sciame di pesci frettolosi.
Ora Europa, inclinata verso la nuca del toro con le mani appoggiate alla radice delle piccole corna,
cominciò a parlargli:
- Toro, bel toro, buon giorno a te, e a me chi sa quando mai qualcuno dirà ancora buon
giorno, toro cattivo che m'hai portata via; ma perché, ma che vuoi, ma chi sei, toro bianco? mi hai
cercata, o m'hai trovata per caso: lo sapevi tu chi ero io, sapevi dov'ero, sapevi che c'ero al
mondo? da dove sei venuto nel mio prato, che cosa farai di me? tu vai avanti diritto ma io lo
vedo che ascolti le mie parole, si sente da certi movimenti della tua pelle qui; e so pure un'altra
cosa, so che anche mi capisci, e allora voglio tu sappia ch'io ero tanto contenta, avevo tutto
quello che desideravo, la mia famiglia è la piú grande di tutta la Fenicia, le mie compagne
sono le ragazze piú belle, in tutto il mondo non c'è un sole piú splendido di quello che ogni
mattina nasce per noi da dietro il Libano; ma la cosa ancora piú bella è giocare a palla sul prato,
o con le mani o col tamburello, e imparare i balli per le feste di Elio e poi ballarli con i fiori in
testa tenendosi tutte in tondo per mano; è bello mangiare il frutto del cedro e la focaccia di
frumento, è bello anche nuotare e questo è inutile che lo dica proprio a te, ma la cosa che dà piú
gusto è discorrere: io quando comincio a parlare non finirei mai, e pare strano a mio fratello
Cadmo che invece è sempre zitto e tutto il giorno sta a fare e sfare certi segni in terra e sui muri
e un po' dappertutto perché dice che inventerà un modo di parlare anche con uno lontano
mandandogli tanti di quei segni; nessuno di noi in casa ha capito ma ci diverte molto vederlo
sempre cercare questa cosa, chi sa perché: ma io qui non avrò mai modo di discorrere se tutto
è vuoto e nessuno mi risponde, e come faccio a giocare: dopo parlare e giocare la cosa che più mi
piace è dormire e qui addosso a te ho visto che si dorme molto bene, ma uno non può dormire
giorno e notte, ti pare: e il peggio è, caro toro, che sta bene io sono disperata d'avere perduto
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tutte le belle cose che ti ho dette, i genitori le compagne il fratello il prato la palla il cedro e
nuotare e ballare e discorrere e i fiori in testa, ma intanto se tu ora tornassi indietro e mi
rimettessi sul prato oppure arrivasse la nave di mio padre e mi riportasse a casa, io già non sarei
piú felice come allora, sarebbe oramai tutta un'altra cosa, e anche ballando e giocando penserei
dentro: « quando potrò fare una altra passeggiata lunga nel mare sopra un toro o qualche cosa di
questo genere?» e poi rimarrei sempre con la curiosità grossa di questa faccenda, che anche se
non mi spaventa più come ieri, devi riconoscere, caro toro, è tutt'altro che chiara; tu certo non
sei un toro qualunque, i tori soliti non nuotano cosí in fretta e per tanto tempo; anzi può
darsi che tu non sia affatto un toro; sei forse un delfino per nuotare a questo modo? o forse una
lucciola, che stanotte ti facevi lume intorno? o forse qualche altro animale e fai il toro per
divertirti; poi ci sono altre cose che mi danno da pensare: per esempio io ho sempre tanta fame e
ora in tutto questo tempo non ho avuto mai né fame né sete, ho avuto solamente sonno, che m'è
venuto da quei bei muggiti che facevi piano questa notte e pareva quando ero piccola e la
nutrice canterellava per addormentarmi... oh ma come mai quando ti ho detto tutte le cose
belle che avevo, mi sono dimenticata la mia nutrice: vedi che mi fai fare? vedi, toro, bel toro,
che in tutto questo c'è qualche cosa di stranissimo; io te l'ho già detto, so che mi capisci, e allora
perché non trovi la maniera di darmi una risposta, mi senti? santo cielo, una risposta, e farmi
capire, farmi capire...
Cosí insistendo aveva riafferrato le corna del toro e le scoteva con impazienza.
Il toro durante le parole di Europa aveva continuato a nuotare in fretta, forse ancora piú in
fretta di prima, ma si vedeva che stava attento, e ogni tanto dava certi buffi scrolli con la testa
come fanno qualche volta i cavalli. A quell'ultimo fuoco di fila parve rimanere un momento
perplesso, poi alzò nettamente la testa e senza fermarsi tenne diretto immobile il muso verso
un punto dell'orizzonte con tanta insistenza, che Europa capí la sua intenzione. Fissò anche lei
verso quel punto, aguzzando lo sguardo, fino che scorse qualche cosa di nero laggiú profilarsi,
una forma di monte sorgere dalle acque.
- Ho capito - disse con allegrezza - dobbiamo approdare a quella terra.
Il toro muggí soddisfatto, ficcò un attimo il muso in mare per rinfrescarsi, e riprese
vigorosamente l'andare.
Seguí una lunga calma, nella quale Europa si sentiva vuota d'ogni pensiero e d'ogni voglia.
Guardava in qua e in là distratta. Tese un braccio e immerse una mano nell'acqua, poi l'altra. Si
chinò a guardare se ancora si vedevano correre i pesci.
Ma l'acqua in quella plaga era deserta: per la straordinaria limpidezza lei poté scorgere nitidissimi
il fondo, sabbia, strisce di sassolini bianchi, poi qualche roccia con frastagliate incrostazioni. Piú
oltre l'acqua si faceva cosí fonda che l'occhio non poteva passarla tutta. Era una massa sorda, una
luce ferma, che gravava in giú, inospite e sterile. Europa sentì un brivido nelle spalle. Rimpiangeva
le presenze misteriose della notte. Guardò dietro sé; il sole la ferí negli occhi, lei li abbassò. E si
mise a ridere scorgendo la ricca coda del toro in ufficio di timone adagiarsi per tutta la sua
lunghezza sullo specchio dell'acqua. Il ciuffo che la terminava era formicolante di gocciole che
rifrangevano i raggi del sole in sette colori.
Europa si rivolse per congratularsi col toro dello splendore della sua coda. Ma rimase impietrata
di stupefazione, vedendo che quella terra, che poco innanzi lei aveva a stento intravista lontana,
s'era súbito fatta vicinissima e grande, e già il toro la raggiungeva ed emergendo dall'acqua
fermava i quattro piedi sulla nuova spiaggia.
IV. Il toro si fermò. Europa gridò - Evviva! – levando alte le braccia e battendo le mani, poi
scivolò a terra, si scosse, s'aggiustò addosso la tunica, si ricompose. Carezzò leggermente il muso
al toro dicendogli: - -Sei staio molto bravo - e guardò intorno il paese.
Era una piccola rada e non somigliava affatto alle spiagge fenicie. Muraglioni di montagne
bianche la chiudevano intorno come una valletta. Alle cime l'occhio arrivava per panorami di
terrazze, dalle piú basse scendevano lunghe spalliere di rose in fiore. Sciami d'api volavano di
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terrazza in terrazza. Ma da quel bianco dei monti pioveva uno spirito severo.
Il toro dopo essersi bene scrollato mosse tre o quattro passi verso il fondo della rada. Europa
lo seguiva, ma vide lungo il piede della parete rocciosa saltellare un ruscello; vi corse e chinandosi
all'acqua bevve, si sciacquò il volto e le mani. Si rialzò e stillante tornò di corsa al toro, che aveva
fatto qualche altro passo. Gli additò una piccola plaga d'erbe e gli disse: - Non ti ho mai visto
mangiare, torello -. Il toro per compiacenza abbassò il muso e mangiò un poco di quell'erba.
Raggiunto in breve il limite della valletta, girando intorno alla roccia Europa vide che di là
partiva una strada: un tratto procedeva diritta poi una sùbita curva ne nascondeva la continuazione. Insieme udí grida dall'alto miste con suono di rame percosso, come aveva sentito
una volta due anni prima in una piazza di Sidone ov'era arrivata una frotta di coribanti dalla
Frigia, ma i Fenicii li avevano cacciati via.
Guardò in su e le parve vedere molte teste gridando affacciarsi ai ciglioni piú alti dall'una e
dall'altra parte della strada, e il romore dei metalli cresceva. Si volse con paura al toro, che alzò la
testa e mandò un muggito corrucciato. Allora súbito da tutte le cime a destra e a sinistra si
precipitarono giú nebbie nere che nascosero i monti e le terrazze facendo due spesse cortine ai due
lati della strada la quale parve cosí tutta scavata entro il muto nebbione. Il toro s'accostò a Europa e
s'inginocchiò al suo fianco come nel prato quando se l'è fatta salire in groppa, ma Europa disse:
- Preferisco camminare.
Per la strada protetti dalla nebbia s'avviarono, una a fianco dell'altro. Dopo un poco la
strada piegava e cominciava a salire, proseguiva per brevi rettilinei e sinuose svolte, sempre
condotta dalle due pareti di tenebra alte a destra e a sinistra fino al cielo, che lassú appariva
luminosissimo.
Lungo il cammino Europa avrebbe avuto una gran voglia di parlare e soprattutto fare al toro
tante domande, ma con la certezza di non avere risposta non c'era gusto. L'avrebbe divertita
guardare il paese, ma quella strana protezione atmosferica impedendo ogni veduta toglieva
tutto il diletto della passeggiata. La strada continuava a salire. Sempre comminando Europa
appoggiò una mano sul collo del toro, ma s'accorse che lui stava ruminando piano, questo
le dava un leggero fastidio; dopo qualche passo la tolse. Dove andiamo? S'annoiava e ora
ricordava con rimpianto il viaggio in mare, specialmente la notte, con le stelle, e le fontane,
e quel chiarore sull'acqua intorno a loro. Quando racconterò alle compagne queste cose
nessuna vorrà credermi, e a me ora paiono tanto naturali. La disturbava alquanto sentirsi
tranquilla in mezzo a una così straordinaria avventura. Dove andiamo? Ricordava senza piú
un fremito gli spaventi provati, a cominciare da quello grosso quel giorno nel prato. Qui
tutt'a un tratto il suo pensiero urtò contro la improvvisa percezione della cosa piú
sorprendente di tutte: la cosa veramente prodigiosa è questa, sí, che « quel giorno » sia
solamente ieri, davvero ieri: la straordinaria avventura non dura nemmeno da un giorno intero;
lei al prato è scesa ieri dopo mezzogiorno, e ora certo è ancora mattina. Ieri? non è possibile; ma
allora, da ieri a oggi è come da oggi a domani, che cos'altro mi sarà accaduto a quest'ora
domani? Della súbita impotenza a sentire in sé la misura del tempo la colse un cosí cupo terrore
che di nuovo mise la mano sulla groppa del toro e ve la premeva, come a cercare un sostegno. Il
contatto la calmò. Il toro non ruminava piú. Lui con quella poca erba ha fatto colazione, ma
Europa comincia ad aver fame. Dove andiamo? Europa domandò al toro: - Ne avremo ancora
per un pezzo?
Il toro le rispose con un corto muggito. - Chi sa che cosa hai voluto dirmi, bel toro -. Da una
parte e dall'altra le nebbie si scostarono, s'alzarono e sciolsero nell'aria.
Europa si trovò al la rgo, cioè a un ripiano in fondo al quale cominciava una vasta scalinata. Era
ripida e altissima, di forse due o trecento gradini, e molto larga. Da una parte e dall'altra del
ripiano e della gradinata si svolgevano folte distese di pini, come se la gradinata fosse stata aperta
in una pineta arrampicata su un monte: la scala saliva diritta dal piede alla vetta. Della pineta dalle
due parti non si vedeva la fine. Al sommo appariva un portico con un colonnato, come vi
cominciasse un gran pala zzo.
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Europa capí che quel portico era la loro meta ma la scala deve essere molto faticosa, e il
toro da che parte sarebbe passato? Così domandando tra sé abbassò lo sguardo dalla vetta, e
tutt'a un tratto s'accorge - ma come non lo aveva visto prima? - che qui nel ripiano, quasi al
suo fianco, c'è una grande . tavola di marmo verde e sulla tavola piatti pieni di frutta. Manda
un bramito di gioia e di fame. - Grazie, bel toro - grida gettandosi verso la tavola. V'erano
frutta di tutte le stagioni; ciliege colore del corallo, grappoli d'uva bionda, panieri di fichi
con la gocciola, pesche che parevano guance di velluto, e vasi colmi di miele e coppe d'un vino
che aveva il colore e il profumo di quelle rose delle terrazze. Europa mangiò pazzamente un
po' dappertutto dentro quel1'abbondanza, bevve il vino rosato, s'asciugò la bocca con i
pampini; quando poté riprendere fiato si volse al toro ripetendo: - Grazie, bel toro,
m'accorgo che morivo di fame.
Il toro era stato a guardarla abbastanza tranquillo. Come la vide sazia cominciò a dare
qualche segno d'impazienza, vibrazioni rapide della pelle, fremiti della coda, menomi scalpitii. Che cos'hai, bel toro? - domandò Europa. Lei si sentiva felice e non aveva nessuna fretta di fare
nuove scoperte. Il toro alla domanda si chetò, le si accostò inginocchiandosi. Questa volta Europa
accettò l'invito: - Sí, torello, vediamo dove mi porti- Appena il toro si fu rialzato con Europa in
groppa, i pini ai lati del ripiano mossero le ombrelle e le inchinarono salutando. Per tutta la
foresta si sparse un festoso fremito di fronde e vagava nell'aria odore di resina. Europa accolse
festosamente il saluto; ora sapeva stare in equilibrio benissimo in groppa al suo toro, agitò in alto le
braccia e le mani per rispondere alle riverenze della natura.
- Da che parte passiamo?
Europa non avrebbe mai immaginato che un toro possa andare su per una scala ripida, invece
il toro s'accostò ai gradini e súbito con disinvoltura cominciò a salirli. Andava rapidissimo come li
sorvolasse. Europa era fuori di sé d'ammirazione. Dalle due parti i pini continuavano a fare
cerimonie. Il toro chi sa perché aveva fretta, invece Europa si divertiva e avrebbe voluto che quella
salita non finisse piú. Gli afferrava le corna e le tirava dicendo :
- Andiamo piú adagio, per piacere, toro. Il toro a malincuore rallentò. Ma un dolce vento cominciò a entrare a lei tra i capelli poi
scendeva per il collo e arrivato alla schiena si mise a spingere come per aiutare la salita, Europa
faceva da vela. Gli ultimi trenta gradini il toro li passò quasi senza toccarli. Traversò di volo
l'atrio del palazzo; per una porta che stava spalancata e sùbito dietro loro si richiuse, entrò in una
galleria con le pareti dipinte e il suolo coperto di tappeti grandi e soffici. Ivi pianamente il toro
fece scivolare giú la fanciulla.
- Dove siamo, toro? è casa tua?
Europa si mise a camminare lungo una parete alzando lo sguardo ai dipinti ma senza molta
attenzione. Il toro andò a mettersi in un angolo, ch'era in ombra, e di là guardava Europa.
Europa passò all'altra parete. V'era aperta una finestra, ella vi si affacciò.
- Perché comincia a oscurare la campagna io credevo che fosse ancora mattina.
Il toro dall'angolo emise un brontolio. Tacque. Vi fu un silenzio intenso. Poi il toro faceva
con le labbra certi moti: Europa in quell'ombra a mala pena poteva scorgerli ma capí che lui si
sforzava a qualche azione cui non riusciva, oppure stava per compierla poi pentito si tratteneva.
Era molto perplessa di quell'imbarazzo del toro. Tutt'a un tratto in una subita ispirazione gli
disse:
- Toro, perché non parli? è strano che tu non parli. Allora il toro, dall'ombra parlò.
Il toro disse:
- Non volevo spaventarti.
Europa ebbe un brivido ma lo represse e si ricompose: - Bravo, ora potremo discorrere.
Vedrai come sarà piú bello.
Il toro taceva.
- Oh - protestò Europa - ora che possiamo parlare tutti e due, non abbiamo piú niente da
dire? Il toro mormorò: - Europa...
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- Bravissimo, sai già il mio nome. - Europa era contenta. Il toro ripeté:
- Europa...
Pronunciava pianamente, con una voce un po' soffocata, che pareva fatta di quell'ombra in cui
s'era immerso.
Europa andò a sedere sopra un mucchio di cuscini:
- Coraggio, toro. Io capisco: forse tu puoi parlare ma non sei abituato alla conversazione. Ti
aiuto io. Dunque prima di tutto dimmi dove siamo.
- Siamo nell'isola di Creta, dove sono nato, la mia patria.
- Oh non avrei mai pensato che un toro ha la sua patria.
- Ma io, Europa, non sono un toro.
- Te lo avevo detto io, ricordi? nell'acqua. Ti ho domandato se eri un delfino che fa il toro
oppure una lucciola.
- No, Europa, non sono né un delfino né una lucciola, non sono un animale.
- Sei un uomo? peccato.
- Perché? Ma in verità non sono neppure un uomo.
- O allora?
- Vedi, Europa, non ti intimidire; io ora, qui davanti a
te, tornerò come sono.
- Ci tieni?
- Tu, dovresti tenerci.
- A me piaci cosí, da toro. Si va tanto bene sull'acqua. E su per la scalinata.
- Ma io soffro a continuare a stare in questo modo.
- Se ti fa male, allora non voglio. Perché soffri?
- Perché voglio essere come te, Europa.
Europa batté le mani:
- Che bellezza: una compagna. Giocheremo a palla, ce l'hai un tamburello? Ma poi torni un
po' toro?
- No no, non sono nemmeno una donna.
Europa si maravigliò molto:
- E che diavolo sei?
- Sono un dio.
- Un dio?
- Non ti spaventare, Europa. Bada, non aver paura. Sono Giove.
Europa scoppiò a ridere.
Rideva buttata traversa sui cuscini senza potere frenarsi. Mordeva i cuscini, si stringeva la faccia
tra le mani, scivolava rotolava si premeva a bocca in giú contro i tappeti, senza riuscir a
chiudere quel diluvio che sgorgava da tutte le piú ricche radici della sua innocenza.
Quando poté fermarsi, tutta la stanza era allagata dal riso d'Europa.
Il toro era rimasto malissimo. Europa s'asciugò le lacrime e guardò verso lui. Provò un
immenso dispiacere a vederlo umiliato a quel modo, un gran rimorso. Avrebbe tanto voluto
consolarlo, ma che fare? Gli andò vicina, lo carezzò sul collo, poi gli prese piano con tutte le
due le mani il muso, e gli disse:
- Va bene, fatti vedere come sei tu vero.
Il toro mormorò :
- Grazie, Europa. Non avrai paura?
- No.
La galleria era quasi buia. Ma Europa chiuse gli occhi. Tolse le mani dal muso del toro, si scostò
di due passi. Aspettò. Le parve avvertire un fruscio, una vibrazione nell'aria, una tensione in
tutta l'atmosfera. Aspettò ancora un momento. Poi sentì che ogni cosa s'era placata, fermò il
tremore che aveva dentro, di colpo si fece coraggio e aprí gli occhi.
C'era molta luce, e in mezzo alla luce, Giove alto e. lieto, in una clamide cand ida.
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Europa dette un altro passo indietro, per gran timidezza divampò in volto poi si fece
pallidissima.
Giove le sorrise dicendo: - Europa...
La voce di Giove squillava e s'allargava intorno, volava via per la finestra nel cielo.
Europa avrebbe voluto trovarsi lontana, essere a casa, o nel prato sul mare.
- Perché non mi parli piú, Europa? Stai troppo lontana. Vieni. Prima mi mettevi la mano sul
collo.
Europa mormorò:
- Ma era un altro collo, toro.
- Oh non dirmi piú toro.
- È vero, perdona.
Giove perdonò. S'accostò a lei, la prese leggermente per un gomito e la guidava quasi
sorreggendola. Percorsero la lunghezza della galleria, una porta si schiuse. Dalla soglia videro una
camera tenera, che le Ore avevano addobbata a festoni a zzurri intorno al talamo di pellicce
di belva e coltrici di piuma.
V. La prima persona nuova che Europa vide dal momento del ratto in poi, fu Clori, la mattina
dopo l'avvento al talamo di Giove.
Quella mattina Europa, che la notte s'era addormentata di smarrimento e stanchezza, si
svegliò con molto travaglio; trovandosi col capo sopra la spalla di Giove ebbe un attimo di
sgomento, stentava a riprendere la memoria delle cose che le erano accadute prima del sonno. Ora
per un poco rimugina, a conclusione del suo meditare malinconico confronta questo risveglio con
quello di ieri: quanto è stato piú bello trovarsi con la testa appoggiata sul collo del toro in mezzo al
mare.
Giove dormiva molto cordialmente, respirava con perfezione.
Europa si scostò piano, scivolò via voltandosi per paura che lui si svegliasse, entrò nella stanza
accanto; ivi Clori stava pronta al servizio di Giove e della sua ospite, aiutò Europa a entrare nel
bagno e cominciò a discorrere per tenerle compagnia:
- Io sono la piú giovane delle Ore, sto qui già da diciannove stagioni - raccontava tra tante altre
cose - e certo, divina Europa (perché c'è l'ordine di dare súbito questo titolo) certo è stato un
bell'onore per me essere messa stabile, insieme con mia sorella Eunomia, qui nella casa di Creta, il
piú bello dei palazzi del signore, quello del paese dove è nato e la Capra gli ha dato il latte e i
Coribanti lo hanno allevato; ma come servizio era piú divertente quando con tutte le altre Ore si
lavorava per il Sole, la mattina aprivamo le porte del Cielo e da tutta la terra gli animali e le
piante ci guardavano. Qualche volta avevamo i balli con le Grazie, e con Ebe e Armonia che
volevano sempre fare le prime parti; una primavera c'è venuta, ma proprio a ballare in mezzo a
noi, Venere Afrodite in persona, e le nove Muse cantavano in coro e Febo Apolline era invitato e
stava a sentire e ci guardava, me poi m'ha chia mata da parte. Qui ora il signore arriva
raramente, donne e ragazze preferisce pigliarle e lasciarle dove le trova, tu gli devi essere
piaciuta molto se per stare con te ti ha portata fin qua; penso che abbia l'intenzione di tenerti
per un po' di tempo...
- No - gridò Europa d'impeto; ma súbito spaventate l'una e l'altra tacquero e guardarono con
sospetto verso l'uscio. In quel silenzio le raggiunse il respiro di Giove addormentato.
- Sai - riprese Clori a mezza voce - non ti devi sconcertare, a molte di noi questa cosa non piace, e
a certune addirittura fa orrore; ma piace tanto agli uomini, che noi donne ne possiamo ricavare
molte altre soddisfazioni.
- Io stavo bene a casa mia - mormorò Europa - se tu vedessi come è bello in Fenicia.
- Sei davvero una ragazzina - le rispose Clori guardandola con indulgenza.
Intanto Europa era uscita dall'acqua e Clori la asciugava, la spargeva di profumi, la pettinava,
le indossava una tunica nuova, sempre parlando; e qualche volta parlava anche Europa,
raccontò il viaggio per mare sul toro, descriveva il prato dei giuochi e quel pomeriggio del
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ratto, che fu solamente ierlaltro.
Quando fu pronta, le due donne si guardarono.
- E ora che cosa facciamo? - domanda Europa.
- Aspettiamo - risponde Clori accennando del capo verso la stanza del talamo.
Europa s'oscurò in volto. Domandò ancora:
- Intanto, non possiamo andare a passeggio?
- No.
Europa si prese una mano con l'altra e si fermò a guardare in terra.
Clori vedendola tanto rassegnata e bambina sentí nel cuore una gran compassione. Avrebbe
voluto distrarla in qualche modo. Pensò un momento, esitò, finalmente le propose:
- Vuoi che ti dica il tuo avvenire? Io so indovinare bene, ho imparato da Idotea la figlia di
Proteo, pensa.
- Sí sí - gridò Europa illuminandosi tutta - cosí mi dici quando torno a casa -. (Ma insieme
presa da un pensiero dubbioso brontolava: - Che cosa dirà il re Agenore?)
- Bada - avvertì Clori abbassando la voce - al signore non piace che si legga l'avvenire.
Compí rapidamente i suoi preparativi ed Europa la guardava attenta. In Fenicia nessuno
poteva farsi dir l'avvenire prima d'aver compiuto vent'anni. Ma oggi Europa si sente carica di
tempo, e la Fenicia è lontana.
Il sistema divinatorio di Clori era semplice. C'era una finestra alta, lei ne accostò tutti i
cortinaggi lasciando entrare nella stanza solo una striscia di luce. Riempí a mezzo d'acqua una
bacinella e la consegnò a Europa che la reggesse con le due mani in modo da farvi cadere quei
raggi. Il sole batteva nel tremolio dell'acqua e andava a riflettersi sulla parete dipingendovi un
fluido scompiglio d'arabeschi di luce continuamente fuggevoli.
Clori cominciò a fissare gli occhi in quei segni e tutta vi si assorbiva. Europa teneva con
diligenza il bacino e intanto guardava atterrita trasformarsi il volto di Clori nello sforzo e nel
rapimento, passare per una serie d'espressioni prima rapide poi sempre piú lente, fin che si fissò:
s'era smarrito in quel volto ogni sintomo d'età, ogni colore del creato, tanto era immerso
nell'aura dell'eternità da cui si vede ogni cosa passata e futura.
Europa aspettò qualche minuto, che le parve lunghissimo, in una sensazione ambigua
d'imminenza, scivolamento, conclusivo irrimediabile; la bacinella un poco le tremava tra le
mani. Poi quel volto di Clori, che lei mirava, si fece ancora piú lontano e senza rimuovere lo
sguardo dalla parete cominciò a dire parole. Clori parlava a Europa, ma certo non a questa che è al
suo fianco e lei non lo sa neppure, a un'altra Europa che ella vede in quella sfera lontana:
- Non tornerai mai piú alla tua casa, Europa...
Europa sentí uno schianto, la bacinella e i riflessi sulla parete s'agitarono con strani balzi,
a stento si quetarono.
-...nel tuo grembo, Europa, già è vivo e si muove un germe, Minos prole di Giove, e qui in
Creta lo maturerai e lo metterai alla luce, e un giorno sarà dannato al tormento e al delitto di
giudicare gli uomini...
Europa da questo punto non sentí piú niente.
Un mescolamento era nato improvviso nel suo spirito, la trascinava rapidamente indietro, le
arruffò nella memoria frammenti vicini e lontani, la sconvolgeva annunziando l'incombere di
qualche cosa e ancora lei non può afferrare che cosa sarà; non sentiva piú le parole e nemmeno
la voce di Clori, immobile nell'ombra spalancava gli occhi.
- ...dalla sacra Asia ove è nata la sapienza umana, traverso il Mediterraneo centro assoluto della
storia, sei venuta senza saperlo, Europa, per dare il tuo nome al continente profano, dove la storia
per millenni si torcerà nella tempesta prima di avere imparato quel verbo, dove lo spirito per
governare la vita dovrà farsi materia e potenza e dolore…
No, Europa dopo i primi avvertimenti non ha più sentito una parola della profezia. L'annunzio
della sua maternità non l'ha scossa abbastanza, ma la condanna « non tornerai mai piú alla tua casa »
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l'aveva colpita come fa il fulmine. Lei si domanda con angoscia « perché? che cosa ho fatto io? »
e non sapendo ancora darsi una risposta, come i fulminati resta senza più moto né voce. Ma
tutt'a un tratto in quella gelata immobilità una nuova folgorazione la scosse, mentre Clori
continuava a parlare.
La ferí prima negli occhi il volo d'un luminoso colore, il quale súbito divenne immagine esatta e
ricordo, ricordo fulgido, travolgente immaginare, e insieme con essi un rimorso acuto, disperata
vergogna d'avere troppo dimenticato il dono piú maraviglioso che la sorte ha fatto alla sua vita.
Tutto l'animo al ricordo e al rimorso le tremava, le sue fibre piú secrete divamparono, mentre le
membra ancora stentavano a srigidirsi.
Frattanto Clori aveva terminato, non parlava piú, stava tornando dalla regione piú difficile del
tempo.
Quando fu arrivata di qua, scòrse Europa, che appena cominciava a riprendere un poco di calore.
Le domandò :
- Che cosa ti ho detto? io non posso mai ricordarmene.
Europa non rispose, avrebbe voluto trattenere la allucina zione lacerante e benefica che le sfuggiva.
Non s'accorse che Clori intanto era stata presa da una súbita inquietudine e diceva:
- Dammi, presto, riponiamo ogni cosa.
Mentre ella strappava dalle mani di Europa la bacinella, già apparve sulla soglia Giove. La stanza
s'illuminò perché lui dal suo corpo spargeva lume intorno, come la notte quando fu toro.
Ora la visione a Europa era sparita, ma capiva che le tornerà presto e senti in sé nata una nuova
forza imperterrita. Clori tremava di paura ma Giove sorrise con indulgenza, poi ammoní :
- È sciocco credere di poter vedere il futuro. Quale futuro? Il futuro non esiste, perché lo faccio io,
di volta in volta, senza pensarci prima. Buon giorno, Europa. Clori, ho fame.
Europa si fece avanti e lo investí ;
- Può un dio avere fame?
Giove la guardò esterrefatto.
Pensò, poi rispose:
- Certamente, se io ho fame.
- Ti ho veduto ruminare. Dobbiamo credere che un dio possa ruminare?
- Un dio può fare tutto, è dio appunto perché può fare tutto.
- No - ribatte impavida Europa - io dico che un dio è dio appunto perché non può fare certe cose,
per esempio proprio ruminare, abbaiare, fare ombra, avere paura, dir bugie, tutte cose che uomini o
animali possono fare. Tu hai mai detto bugie?
- Che c'entra?
Giove era molto imbarazzato. Gli era venuto detto « che c'entra? » ma capiva di dover dare una
risposta migliore. Per il dispetto di non trovarla, rise un momento. Infine le disse stizzito :
- Non avrei mai immaginato che tu fossi una saccente. Quanto mi piacevi di piú prima.
- Anche tu, bel toro.
Giove credette d'aver trovato, esclamò:
- Vedi vedi, se io non fossi dio, come avrei potuto cambiarmi per un po' di tempo in toro?
- Non potrebbe invece essere un toro che s'e cambia to per un po' di tempo in Giove?
Questa volta Giove stava davvero per andare in collera. Gridò :
- Basta. Io voglio divertirmi.
Fece due o tre passi per la stanza, poi calmato raddolcí la voce soggiungendo:
- Senti, se tu torni dolce com'eri ieri, io in compenso per farti piacere torno toro per un poco.
Vuoi?
Europa pallida risponde:
- Non capisci, che anche se noi tornassimo come eravamo ieri, è l'oggi che non può tornare a
essere ieri- E allora il tornare nostro è inutile. Inutile.
Scoteva il capo sospirando.
A Giove le donne sospirose non sono mai piaciute. Europa vide nel volto di lui tedio e
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impaccio. Con un sorriso carezzevole gli disse:
- Perdonami, Giove. E prima ti avevo fatto una domanda, non hai risposto. Mi permetti di
fartene un'altra? l'ultima.
- Se davvero è l'ultima, sia pure. Sentiamo.
Ma Europa non sorrideva piú. S'allontanò da lui d'un passo, alzò la fronte. Il suo volto si fece
intento e bianchissimo, domandando:
- Se tu morissi, saresti capace di rinascere?
A quell'uscita Giove ebbe uno scatto di paura:
- Che idee son queste? - gridò - non permetto che si parli di morte.
Girò due o tre volte per la stanza come un leone ferito. S'accostò alla finestra, che Clori
aveva spalancata. Giove dalla finestra guardò il cielo e la terra, allora la sua fronte si spianò. Si
voltò a Europa con indifferenza poi girò di nuovo la faccia verso il cielo.
Sulla volta luminosa correvano poche nuvole piccole. Giove ne fissò una, che si fermò. Tese un
braccio verso la nuvoletta che s’era fermata, subito ne scaturirono due fulmini che giù traverso
l’aria a mano a mano nella discesa dilatandosi in lame lunghe arrivarono fino a Giove, si curvarono
attorno a lui come una culla rovente, lo sollevarono, lo portarono via seminando l’aria di faville al
passaggio, raggiunsero il cielo e lasciandolo tutto incendiato vi scomparvero.
VI. Sento che la mia vita è al termine, e ne sono tanto contenta, Fenice. Tre giorni fa giocavo sul
prato e certo non sapevo che cosa è la morte, e nemmeno la vita; se me l’avessero spiegato non
avrei capito, non avrei creduto, avrei detto no no. Eppure io ti avevo già vista, Fenice, e forse per
un attimo avevo immaginato il senso di queste cose ma súbito me n'ero dimenticata;
dimenticata, sí, Fenice, tu non puoi crederlo, dimenticato il tuo miracolo, e di averti avuta
davanti agli occhi, i tuoi occhi diritti ai mie i: tutto questo avevo lasciato sfuggire da me,
ecco la mia colpa orribile, per questo sono stata punita e per questo ora ho tanta gioia; perché
ho anche imparato che quando si è stati colpevoli la maggior gioia che uno può avere è ricevere
la sua punizione. Io ti avevo tradita, Fenice.
Cosí Europa in fondo al suo letto mormorava e pregava, e non già mentalmente, ma a fior di
labbra, tra sorrisi e sguardi devoti e teneri, come se la Fenice fosse davanti a lei presente.
S'interruppe parendole sentire un passo, temé che arrivasse Clori.
Voleva bene a Clori, ma ora che sapeva di morire e ne era contenta non desiderava altro che
continuare a scavare entro sé fino in fondo, e capir chiaro quello che si deve pensare; perché
lei che l'altro giorno ancora ignorava la morte, ora sa anche che questo è il vero e felice
morire.
La mattina del giorno avanti, dopo la fuga allegra di Giove ella aveva avuto con Clori un
colloquio importante. Vedendola tanto bambina e disperata Clori prima aveva creduto che
soffrisse per l'abbandono di lui, poi súbito s'accorse che non era questo, vide (pur senza
cogliere il sentimento più serio) che Europa aveva un gran terrore dei lunghi mesi da passare
prima che il frutto del piacere di Giove fosse maturo per venire alla luce. L'aveva dunque fatta
coricare, era corsa a consultare la sorella e tutta contenta era tornata al letto d'Europa a
riferirle, con una difficile spiegazione, la risposta: - Sí, Europa, ho parlato con Eunomia e dice
anche lei che si può fare. Noi Ore abbiamo il governo di tutto il correre del tempo secondo
certi ritmi: ore, stagioni, annate, lustri, secoli; purché i ritmi rimangano regolari, possiamo
qualche volta accelérare la misura dei tempi elementari d'ogni ciclo. Non importa se non
capisci: pensa che quando son nati Apollo e Diana la gravidanza di Latona a Delo l'abbiamo
fatta durare in tutto nove giorni. Abbiamo abbreviato la misura del tempo nella guerra tra i
Centauri e i Lapiti e per questo s'è potuto credere che è stata una rissa d'ubriachi a convito: la
storia qualche volta s'aggiusta con questi sistemi. Oh un'altra gravidanza compromettente,
nientemeno di Giunone (non ti posso dire con chi) siamo riuscite a farla durare la nona parte d'un
giorno del sole. Dunque ti possiamo ben aiutare riguardo a questo Minos che deve nascere da
te. Ora verrà Eunomia e con la imposizione delle mani ti farà dormire fino a notte alta, e
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quando il tuo frutto sarà maturo, cioè appunto entro la prossima notte, Eunomia stessa, che ha
studiato queste cose con Ilitia, provvederà a tutto, ti sveglierai già madre senza neppur avere
sofferto. Ma questo tuo sonno di diciotto ore sarà pesante, senza l'ombra d'un sogno.
Cosí aveva detto Clori a Europa, che s'era affidata in pieno alla promessa. Risvegliata all'alba
era leggera e debolissima, davvero come vuotata. Non aveva sentito niente né sognato, pure
avvertí dietro sé quelle ore d'incoscienza (dense d'un fatto strano e forse mostruoso,
vertiginosa corsa entro il buio mistero della generazione) le vide come un volume di tenebra che
spingeva indietro tutta l'altra sua vita, la recideva dalle poche ore che le rimangono da
respirare. Allora sùbito sentì l'urgenza d'essere sola per riafferrare la visione, quella visione che
già alle prime parole della profezia di Clori la aveva sconvolta. Sentiva anche un'immensa
voglia di sole, respirare tanta aria, perciò dopo quel risveglio s'era fatta portare, col suo lettino,
su una terrazza a sommo del palazzo.
Di là non si vedeva il mare ma se ne udiva il respiro, se ne riconosceva l'azzurro riflesso nello
specchio del cielo.
Il passo, che Europa aveva sentito, s'allontanò. Europa rimise la testa sul guanciale e il sorriso
tornò nei suoi occhi:
- Fenice, ho capito che ci sono in tutto due cose: ci sei tu, e c'è il resto del mondo. Il resto del
mondo può essere tutto bello, per esempio quando si gioca sul prato; oppure può avere
qualche cosa di bello misto con qualche cosa di spaventoso, come quando andavo per il mare
addosso al toro; o può essere tutto brutto come è stata la notte fino a ieri mattina quando mi
sono svegliata tanto triste sopra la spalla di quello che credeva d'essere un dio. Ma in faccia a
questo mondo cosí mescolato ci sei tu, e in te non c'è niente che non sia perfetto sempre, e
quando sei stanca ti dai fuoco e súbito rinasci giovane e gli occhi di nuovo ti brillano. Il tuo
sguardo è come bere un vino forte che brucia l'anima dentro e lei vorrebbe uscire e arrivare in
alto. Che cosa mi avevi promesso quand o m'hai guardata allora, Fenice?
Socchiudendo gli occhi, in una nuvola dell'aurora vedeva disegnarsi la Fenice scintillando. Il
turchino rosato d'un lembo del cielo era il colore di quelle pupille che al varco del Libano s'erano
voltate a salutarla.
- Fenice, tu che porti via da me tutto il male, liberami, se è male, da una cosa ancora. Io non so se è
una colpa grossa anche questa. Porta via da me, Fenice, un certo rimpianto che un poco dentro mi
rode e forse non lo dovrei avere, sai quale? vieni piú vicina che io possa dirtelo piano. Io
non avevo detto niente e ho lasciato fare ma in me c'è un'ombra di rimpianto per quel peso
vivo che avevo dentro e me ne hanno liberata e l'han tenuto loro, e quasi mi pare che amerei
ora averlo qui vicino alla mia carne sul petto: dimmi dimmi, Fenice, se anche questo è male.
Mentre due lacrime le spuntavano, e il mattino del mare e del cielo vi si rifrangeva, Europa
languidamente s'addormentò.
E dormendo ebbe un sogno.
Sognò la Fenice, che fino a quel punto non era stata che una immaginazione, la sognò netta e
viva che arrivava, e in piedi in faccia a lei in fondo al lettino le diceva:
- Ho preparato la pira per te, Europa. L'ho messa insieme ramo per ramo nella valle di
Eliopoli, in una radura in mezzo ai cedri: di mirra e pino e nardo e amomo e issopo e cipresso,
incenso mortella e cortecce di larice e qualche frasca d'alloro; anche piccole erbe odorose che di
notte sono andata a cogliere nel tuo prato sul mare, Europa, timo basilico menta e tante tante
bacche di ginepro: quando brucerai, il profumo scenderà fino a Tiro e a Sidone, andrà a
salutare il Re e la Regina e Cadmo e la nutrice e tutte le compagne, e pure il tuo piccolo bovaro
che aveva tanto spavento del toro bianco, Europa.
Allora Europa sognava d'essere al vertice della beatitudine, e che voleva parlare e la commozione
le impediva la voce, a vedersi la Fenice davanti viva come quella mattina alla santa Vidra, anzi lí
sul suo letto venuta da lontano per lei. Ma sognava che la Fenice ha capito ugualmente quello
che Europa voleva dire, e che le risponde:
- Ora súbito, Europa, appena sarai morta ti porterò laggiú, ti metterò sulla pira che è pronta,
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e come allora tu hai visto me, cosí rimarrò io questa volta a vederti consumare.
- Ma allora - ora Europa nel sogno riesce a metter fuori la voce - allora forse io pure come te
dopo bruciata potrò rinascere:
- Certo - risponde nel sogno la Fenice - chi è nato una volta non potrà piú, mai più, morire per
sempre.
Qui Europa si ricordò in un attimo del Gran Sacerdote sul carro. Ma le sorge un altro
dubbio, e sogna di domandare:
- Allora, Fenice, tutti tutti rinasceranno?
La Fenice risponde: - Molti voi conoscete e parlate con loro e gli toccate una mano e li credete
vivi, che invece non sono mai nati. Lo sforzo difficile d'ogni vita è essere davvero vita e non
una apparenza che non contiene niente. - E come si fa a riconoscerli? - Sono quelli (risponde la
Fenice) che hanno continua la paura di morire e appena gli si nomina la morte saltano come se
li avesse morsi un serpente.
A questo Europa ricordò súbito lo scatto di quel Giove che si credeva un dio, e le venne da
ridere. Cosí chiaramente ridendo si svegliò. E vide davanti a sé, in piedi in fondo al letto
come la stava sognando, la Fenice. Si levò sui gomiti in un grande ardore a guardarla negli
occhi, che non erano piú brillanti come alla Vidra, ma familiari. In questo punto le arrivò
anche lontano lontano il canto di quell'acqua invisibile di roccia in roccia sul Libano.
Senza suggezione Europa sorrise alla Fenice, e in quel sorriso e tra quel canto ricadde dolce e
morí; il sorriso le rimase diffuso sul volto come una luce accesa di dentro.
Cosí sorridente la Fenice prese Europa piano a mezza la persona, la sollevò senza fatica perché
tutti i pensieri che lei ha fatti nelle ultime ore l'han liberata da ogni sostanza pesante, stretta
al petto la portò su in mezzo alla luce prima di orientarsi e scegliere la rotta.
(Ma per riportare Europa alla sua terra, la Fenice non ha ripreso la direzione d'Oriente donde
era venuta. Un mistero, che è più in alto di ogni comprensione, le indicò il cammino destinato e
necessario.)
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