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Luigi Fontanella
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'IL SOGNO' DI GIACOMO LEOPARDI
Così, tra sognare e fantasticare, andrai consumando la vita; non con
altra utilità che di consumarla; che questo è l'unico frutto che al
mondo se ne può avere, e Γ unico intento che voi vi dovete proporre
ogni mattina in sullo svegliarvi.
(G. Leopardi, "Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare")
Io so ben che non vale
beltà né giovanezza incontro a morte.
(Leopardi, "Per una donna inferma di malattia lunga e mortale")
Allo studioso che si accinga a esaminare "Il sogno," Canto leopardiano
non eccessivamente esplorato dalla critica, ο spesso liquidato
genericamente come tentativo giovanile, potrebbe tornare utile,
preliminarmente, andarsi a leggere un saggio poco noto di Giacomo,
pubblicato la prima volta nel 1971 ("La Stampa," 2 dicembre di
quell'anno). Il saggio in questione, intitolato "Dissertazione sopra i
sogni," risale al biennio 1811-1812. Il 1812 è l'anno in cui Monaldo
permette l'accesso pubblico alla propria biblioteca. È l'anno nel quale
Giacomo compone gli Epigrammi e la tragedia Pompeo in Egitto. Ed è
anche l'anno in cui egli sostiene con i fratelli il pubblico esame,
presentando tesi di Teologia, Ontologia, Morale, Psicologia, Fisica e
Scienze naturali: gli argomenti delle sue Dissertazioni filosofiche, scritte
— non parrà inutile ricordarlo — da un ragazzo che ha poco più di
tredici anni, ovvero da un adolescente che si è appena imbarcato in quel
settenio "di studio matto e disperatissimo" (come scriverà nell'arcinota
lettera del 2 marzo 1818 al Giordani), che lo segnerà fisicamente e
psicologicamente per tutta la vita.
Vale la pena riassumere qualche tratto
saliente
di
questa
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"dissertazione," erudita, forse perfino un po' oziosa, ma, ciò non di
meno, qua e là anche piuttosto precoce, specialmente se messa in
relazione alle teorie oniriche che cominceranno a svilupparsi su base
prettamente scientifica solo tre quarti di secolo dopo, con qualche
anticipazione, da parte del Leopardi, perfino sorprendente. Il termine
"dissertazione" sta, tra l'altro, subito a indicarne il carattere prepositivistico e la "prospettiva razionalistica" (Damiani 1988), che
qualche anno dopo (1815) Giacomo riprenderà, in chiave storica, nel
"Saggio sopra gli errori popolari degli antichi" (capo quinto intitolato
"Dei sogni").
Partendo dalla constatazione che l'anima umana (più avanti
denominata anche "mente") è immateriale in quanto la sostanza di cui
si nutre, cioè i pensieri, è libera e "connaturale all'umana mente" ("gli
umani pensieri si determinano a loro agio senza alcuna intrinseca forza
che li costringa, ο li obblighi" (Leopardi I, 673), l'autore passa a
esaminare le cause e le proprietà dei sogni, che alimentano la nostra
immaginazione nel tempo del sonno. Il quale arriva dopo che la nostra
attenzione "si minora appoco appoco in modo che quando l'uomo è in
procinto di addormentarsi l'anima percepisce appena languidamente gli
oggetti delle proprie sensazioni finché le sue operazioni restano
totalmente sospese." Leopardi è interessato, in particolare — in questo
rivelando una sorprendente precocità rispetto alle teorie freudiane sugli
stati ipnagogici, cui com'è noto di li a poco i surrealisti attribuiranno
fondamentale importanza per la personale produzione artistica e poetica,
prescindente da qualsiasi proccupazione morale ο estetica — alla fase
nella quale c'è il graduale ritorno dell'esercizio delle proprie facoltà,
ossia in quel tempo, com'egli sottolinea, in cui l'uomo "forma quelle
confuse idee" preludenti, appunto, agli stati ipnagogici, ovvero quegli
stati in cui si formano immagini visive ο frammenti di frasi e perfino
singole parole ancora un po' confuse. È da questo stato, come vedremo
più avanti, che nasce "Il sogno."
Sulla scia di un trattato scritto da Ludovico Antonio Muratori, Della
forza della fantasia (1745), Leopardi riprende diligentemente la
suggestiva teoria degli "spiriti del sangue" che agiscono sulla nostra
Fantasia quando questa è in stato di riposo: "Gli spiriti del sangue
circolanti per le cellette del cerebro commuovono allora i fantasmi
confìtti ne' varj strati, e piegature di esso cerebro, onde vengono a
formarsi varie scene regolate, ma per lo più sregolate, e senza
connessione veruna." Così il Muratori. E Leopardi aggiunge:
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Gli spiriti del sangue, ed il fluido nerveo dovendo per l'avvincinarsi
dell'uomo alla vigilia scuotersi, e circolare, i medesimi sogliono
determinarsi ad eccitare nel celabro quelle sensazioni, che in esso
eccitarono nel tempo della vigilia piuttosto, che a produrne delle
nuove. Egli è infatti ben raro che si percepiscano nel sonno delle Idee
che non abbiano alcuna correlazione coi pensieri avuti nel tempo della
vigilia e se sembrano talvolta esser le prime affatto indipendenti dagli
ultimi ciò potrà forse avvenire per la confusa unione di più idee
concepite nel tempo della vigilia che non possono discernersi ad una
ad una (Felici I, 673).
Nel sogno l'anima umana non ha il libero esercizio della propria
ragione, "e per conseguenza essa non conosce la puerilità ο l'assurdità
de' suoi pensieri." Nell'attività onirica, in altre parole, cadono i principi
di valore e di "responsabilità": non ci sono sogni che possono giudicarsi
"puerili" ο sogni che possano ritenersi "assurdi," essendo, il soggetto
sognante, del tutto sganciato da convenzioni sociali, interessi economici
e da preoccupazioni morali ο estetiche ο religiose, quali solitamente
accompagnano la vita diurna, la vita-di-relazione coi suoi simili.
Quest'ultimo è un punto importante, perché in esso inconsapevolmente
Leopardi prefigura, sia pure a uno stato embrionale, il moderno dibattito
sul sogno e sulla sua utilizzazione in chiave creativa.
L'autonomia del sogno è rivendicata "anche" sulla base della sua
apparente "mostruosità": le immagini potrebbero perfino non essere
"consentanee alle idee concepite nel tempo della veglia," proprio per la
libera con-fusione con cui si attaccano (s'intrecciano) a pensieri e
immagini dell'esperienza vissuta prima del sogno. Ma questo, secondo
Giacomo, può accadere assai raramente.
Infine, Leopardi torna di nuovo a sottolineare la condizione di
demi-sommeil in cui le immagini-cose ci appaiono ancora in una facies
labile e frammentaria, ma estremamente feconda e suggestiva. È uno
stato d'incerta durata nel quale il soggetto non è ancora in grado di
distinguere ciò ch'è reale e ciò ch'è fantastico:
[...] riacquistando la mente collo svanir del sonno le proprie facoltà
viene per mezzo di queste ad avvedersi delle impressioni, che fanno
gli oggetti esterni negli organi sensorj, ma per la confusione che regna
ancora tra le sue idee ella non sa distinguerle perfettamente da quelle,
che occupano la sua immaginazione.
È esattamente da quest'ultima considerazione teorica che nascerà
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lo spunto iniziale, allucinatorio, ο più esattamente, ipnagogico, di un
Canto come "Il sogno." Di "vision hypnagogique; d'un rêve à demi
éveillé" ha recentemente parlato anche un leopardista come George
Barthouil (Barthouil 1996, 55).
Sull'attività onirica come fonte di piacere ο di desiderio ο di
nostalgia Leopardi si soffermerà più volte nel corso del suo opus. Per
quanto riguarda più strettamente l'argomento del Canto leopardiano non
posso fare a meno, inoltre, di ricordare l'operetta morale "Dialogo di
Torquato Tasso e del suo genio familiare," composta nel luglio del
1824. Ne ricordo brevemente l'assunto e il suo centro concettuale che
risiede nella consapevolezza che il piacere è un desiderio ο un ricordo,
non un fatto. È sempre ο passato ο futuro, e non mai presente. Ma
accanto a questo motivo il "Dialogo" svolge quello della noia, della
solitudine e dell'amore. La prima soffoca l'animo e ha come unico
rimedio il sogno, l'oppio ο il dolore e, subordinatamente, la varietà delle
occupazioni e dei sentimenti. La seconda "fa quasi l'ufficio della
gioventù" e rimette in moto l'immaginazione. Il terzo (l'amore), anche
se arriva solo in sogno, sa donare al mortale un intenso, autentico
brivido di gioia, specialmente se esso avviene all'alba, "in sullo
svegliarvi." Dirà a un certo punto il genio familiare:
Via, questa notte in sogno io te la condurrò davanti; bella come la
gioventù; e cortese in modo, che tu prenderai cuore di favellarle
molto più franco e spedito che non ti venne fatto mai per l'addietro:
anzi all'ultimo le stringerai la mano; ed alla guardandoti fiso, ti
metterà nell'animo una dolcezza tale, che tu ne sarai sopraffatto; e per
tutto domani qualunque volta ti sovverrà di questo sogno, ti sentirai
balzare il cuore dalla tenerezza (Felici I, 529).
È, sia detto per inciso, esattamente quanto avverrà nel Canto "Il sogno."
Alle rimostranze del Tasso, riluttante ad accontentarsi di un "sogno in
cambio del vero," il genio replicherà: "Sappi che dal vero al sognato,
non corre altra differenza, se non che questo può qualche volta essere
molto più bello e più dolce, che quello non può mai." È in buona parte
lo stesso concetto che Leopardi aveva espresso nove anni prima nel
Capo quinto del "Saggio sopra gli errori popolari degli antichi." Si tratta
del "capo" intitolato "Dei sogni" a cui ho fatto cenno all'inizio: un
capitolo, va sottolineato, nel quale Leopardi appare assai meno critico
e saccente — rispetto agli altri capitoli — sugli "errori" comuni degli
antichi, dato l'indubbio (ancorché ingannevole) potere di suggestione
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che quelle credenze sui sogni, portatori comunque di illusioni e di
poesia, potevano esercitare sul suo animo.
Del resto sul "popolo de' sogni," su "quelle immagini perplesse e
indeterminate" come fonti d'inganno ma anche di piacere, Leopardi si
sofferma fin dalla prima operetta (Storia del genere umano).
***
È venuto il momento di passare a un'analisi serrata di questo Canto.
Altri riferimenti sull'onirismo potranno essere opportunamente
recuperati nel corso della sua lettura.
Pubblicato la prima volta il 13 agosto 1825 in Notizie teatrali
bibliografiche e urbane, ossia il Caffè di Petronio, periodico bolognese
diretto da Pietro Brighenti, col titolo Il sogno. Elegia (inedita), il Canto
fu poi inserito in Nr26 e in B26 col sottotitolo "Idillio IV," e infine in
F e in Ν senza sottotitolo.
Mancando una testimonianza precisa e diretta dello stesso Leopardi,
la critica ha ritenuto far cadere la datazione del "Sogno" fra il 1819 e
il 1821, soprattutto a causa di un'annotazione leopardiana scritta in
occasione della morte della nonna, avvenuta nel 1820. L'abbozzo,
rinvenuto nelle carte napoletane, che poi la critica ha sempre collegato
a "Il sogno," fu pubblicato la prima volta nell'edizione commentata dei
"Canti," a cura di Francesco Moroncini (Palermo-Milano: Sandron,
1917). Francesco Flora, nel recuperare quest'appunto, nel primo volume
leopardiano di Tutte le opere, intitolato Le poesie e le prose (Milano:
Mondadori, 1940), gli diede il titolo Del fìngere poetando un sogno.
Vale la pena riportarlo per intero, dato il suo carattere semiclandestino.
Se tu devi poetando fingere un sogno, dove tu ο altri veda un defunto
amato, massime poco dopo la sua morte, fa che il sognante si sforzi
di mostrargli il dolore che ha provato per la sua disgrazia. Così
accade vegliando, che ci tormenta il desiderio di far conoscere
all'oggetto amato il nostro dolore; la disperazione di non poterlo; e
lo spasimo di non averglielo mostrato abbastanza in vita. Così accade
sognando, che quell'oggetto ci par vivo bensì, ma come in uno stato
violento; e noi lo consideriamo come sventuratissimo, degno
dell'ultima compassione e oppresso da una somma sventura cioè la
morte; ma noi non lo comprendiamo bene allora, perché non
sappiamo accordare la sua morte con la sua presenza. Ma gli parliamo
piangendo, con dolore, e la sua vista e il suo colloquio c'intenerisce
e impietosisce, come di persona che soffra, e non sappiamo, se non
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confusamente, che cosa (Felici I, 460-1).
L'appunto porta la data autografa del 3 dicembre 1820. I riferimenti a
"Il sogno" sono evidenti anche se non proprio specificamente diretti al
personaggio femminile rievocato nel Canto. La data dell'idillio può
dunque, plausibilmente, collocarsi ο poco prima ο poco dopo il
dicembre del 1820, più probabilmente dopo, magari fino ad arrivare
all'estate-autunno del '21, come ha acutamente argomentato Ugo Dotti
sulla scorta di convincenti considerazioni e "un indizio abbastanza
probante" relativo a un progetto leopardiano, rinvenibile in Disegni
letterari, VII (Dotti 1998, 62). Una piccola curiosità: il Flora dà, sulla
scorta dell'incipit dell'appunto leopardiano, il titolo Del fìngere
poetando un sogno, laddove più appropriato sarebbe stato dire Del
poetare fìngendo un sogno, perché a me pare che Giacomo voglia dire
proprio questo: cioè scrivere una poesia attraverso la finzione di un
sogno.
Luigi Blasucci ci ricorda che il titolo di questo Canto fu usato
originariamente come intertitolo per uno dei Frammenti, esattamente il
XXXV, scritto nel 1819 e pubblicato primamente in NR26 col titolo
"Lo spavento notturno," sostituente il titolo "Il sogno," cancellato a
mano nell'autografo stesso e spostato successivamente all'idillio in
questione. Il nuovo titolo dato al "Frammento" viene mantenuto in B26,
ma viene espunto in F. Ritorna in N, per diventare definitivamente il
XXXVII in tutte le edizioni successive a quella napoletana del 1835
(Blasucci 1989, 154).
Trascrivo ora nella sua interezza "Il sogno" in modo che il lettore
potrà agevolmente seguirne lo sviluppo in sincronia con la mia lettura.
1 Era il mattino, e tra le chiuse imposte
2 Per lo balcone insinuava il sole
3 Nella mia cieca stanza il primo albore;
4 Quando in sul tempo che più leve il sonno
5 E più soave le pupille adombra,
6 Stettemi allato e riguardommi in viso
7 Il simulacro di colei che amore
8 Prima insegnommi, e po lasciommi in pianto.
9 Morta non mi parea, ma trista, e quale
10 Degl'infelici è la sembianza. Al capo
11 Appressommi la destra, e sospirando
12 Vivi, mi disse, e ricordanza alcuna
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Serbi di noi? Donde, risposi, e come
Vieni, ο cara beltà? Quanto, deh quanto
Di te mi dolse e duoli né mi credea
Che risaper tu lo dovessi; e questo
Facea più sconsolato il dolor mio.
Ma sei tu per lasciarmi un'altra volta?
Io n'ho gran tema. Or dimmi, e che t'avvenne?
Se tu quella di prima? E che ti strugge
Internamente? Obblivione ingombra
I tuoi pensieri, e gli avviluppa il sonno,
Disse colei. Son morta, e mi vedesti
L'ultima volta, or son più lune. Immensa
Doglia m'oppresse a queste voci il petto.
Ella segui: nel fior degli anni estinta,
Quand'è il viver più dolce, e pria che il core
Certo si renda com'è tutta indarno
L'umana speme. A desiar colei
Che d'ogni affanno il tragge, ha poco andare
L'egro mortal; ma sconsolata arriva
La morte ai giovanetti, e duro è il fato
Di quella speme che sotterra è spenta.
Vano è saper quel che natura asconde
Agl'inesperti della vita, e molto
All'immatura sapienza il cieco
Dolor prevale. Oh sfortunata, oh cara,
Taci, taci, diss'io, che tu mi schianti
Con questi detti il cor. Dunque sei morta,
Ο mia diletta, ed io son vivo, ed era
Pur fisso in ciel che quei sudori estremi
Cotesta cara e tenerella salma
Provar dovesse, a me restasse intera
Questa misera spoglia? Oh quante volte
In ripensar che più non vivi, e mai
Non avverrà ch'io ti ritrovi al mondo,
Creder nol posso. Ahi ahi, che cosa è questa
Che morte s'addimanda? Oggi per prova
Intenderlo potessi, e il capo inerme
Agli atroci del fato odii sottrarre.
Giovane son, ma si consuma e perde
La giovanezza mia come vecchiezza;
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53 La qual pavento, e pur m'è lunge assai.
54 Ma poco da vecchiezza si discorda
55 Il fior dell'età mia. Nascemmo al pianto,
56 Disse, ambedue; felicità non rise
57 Al viver nostro; e dilettossi il cielo
58 De' nostri affanni. Or se di pianto il ciglio,
59 Soggiunsi, e di pallor velato il viso
60 Per la tua dipartita, e se d'angoscia
61 Porto gravido il cor; dimmi: d'amore
62 Favilla alcuna, ο di pietà, giammai
63 Verso il misero amante il cor t'assalse
64 Mentre vivesti? Io disperando allora
65 E sperando traea le notti e i giorni;
66 Oggi nel vano dubitar si stanca
67 La mente mia. Che se una volta sola
68 Dolor ti strinse di mia negra vita,
69 Nol mel celar, ti prego, e mi soccorra
70 La rimembranza or che il futuro è tolto
71 Ai nostri giorni. E quella: ti conforta,
72 Ο sventurato. Io di pietade avara
73 Non ti fui mentre vissi, ed or non sono
74 Che fui misera anch'io. Non far querela
75 Di questa infelicissima fanciulla.
76 Per le sventure nostre, e per l'amore
77 Che mi strugge, esclamai; per lo diletto
78 Nome di giovanezza e la perduta
79 Speme dei nostri dì, concedi, ο cara,
80 Che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto
81 Soave e tristo, la porgeva. Or mentre
82 Di baci la ricopro, e d'affannosa
83 Dolcezza palpitando all'anelante
84 Seno la stringo, di sudore il volto
85 Ferveva e il petto, nelle fauci stava
86 La voce, al guardo traballava il giorno.
87 Quando colei teneramente affissi
88 Gli occhi negli occhi miei, già scordi, ο caro,
89 Disse, che di beltà son fatta ignuda?
90 E tu d'amore, ο sfortunato, indarno
91 Ti scaldi e fremi. Or finalmente addio.
92 Nostre misere menti e nostre salme
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93 Son disgiunte in eterno. A me non vivi
94 E mai più non vivrai: già ruppe il fato
95 La fé che mi giurasti. Allor d'angoscia
96 Gridar volendo, e spasimando, e pregne
97 Di sconsolato pianto le pupille,
98 Dal sonno mi disciolsi. Ella negli occhi
99 Pur mi restava, e nell'incerto raggio
100 Del sol vederla io mi credeva ancora.
Il Canto — lo si vede subito — è composto essenzialmente da un dialogo
fra una donna che appare in sogno al poeta e il poeta stesso. La
conversazione viene intercalata da alcuni brevi momenti di riflessione
ο di descrizione (tre in tutto), più una sorta di preludio teso a fornire la
"scena" nella quale si svolgerà il dialogo fra i due. Cinque volte parlerà
la donna, quattro il poeta; quindi, complessivamente, il Canto si articola
strutturalmente in dodici segmenti, più uno introduttivo ο preparatorio.
Nel preludio Leopardi chiarisce subito che egli ha avuto il sogno
nelle primissime ore del mattino ("primo albore"). È un particolare
importante, perché subito dopo Leopardi sottolinea il fatto che esso fa
il suo ingresso proprio "quando in sul tempo che [è] più leve il sonno."
Giacomo ha in mente, evidentemente, la tradizione onirologica da lui
già trattata in "Dei sogni," capo quinto del "Saggio sopra gli errori
popolari degli antichi," segnatamente laddove sulla scia di Acrone,
antico scoliaste di Orazio, viene data particolare importanza ai sogni
"veduti dopo mezzanotte ο verso il mattino," perché allora "l'animo più
libero, mentre lo stomaco è sgombro dalle pituite, è disposto a vedere
sogni veritieri" (Leopardi I 1997, 884).
Altro particolare importante è il fatto che la luce di questo "primo
albore" non invada la stanza, ma filtri (Leopardi usa il verbo
"insinuarsi") "tra le chiuse imposte / Per lo balcone" (quest'ultimo,
toponimo squisitamente leopardiano): una luce "obliqua," parziale,
impedita; una luce, insomma, che non potendosi diffondere
completamente dalla sua sorgente contribuisce a creare, insieme con
l'oscurità che essa corrompe, uno stato d'incertezza e di indistinzione;
uno stato indefinito dal quale non possono che scaturire "idee
indefinite." È uno stato che egli stesso risottolineerà di lì a poco
(settembre 1821), ossia a pochi mesi della composizione del "Sogno"
nello Zibaldone [1745]:
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Da quella parte della mia teoria del piacere dove si mostra come degli
oggetti veduti per metà, ο con certi impedimenti ecc. ci destino idee
indefinite, si spiega perché piaccia la luce del sole ο della luna,
veduta in luogo dov'essi non si vedano e non si scopra la sorgente
della luce; un luogo solamente in parte illuminato da essa luce; il
riflesso di detta luce, e vari effetti materiali che ne derivano; il
penetrare di detta luce in luoghi dov'ella divenga incerta e impedita,
e non bene si distingua, come attraverso un canneto, in una selva, per
li balconi socchiusi ecc. ecc. (Il corsivo è di Leopardi).
Una situazione, un'ora, che, un secolo dopo, un pittore metafisico come
De Chirico avrebbe definito enigmatica, di forte suggestione ottica e
psicologica, estremamente feconda per l'imaginaire dell'artista (De
Chirico 1971, 133).
Accanto a questi due motivi prettamente riguardanti la dinamica
onirica legata alla trattazione teorica e letteraria che Leopardi ben
conosceva, da Artemidoro a Macrobio, a Niceforo, ecc., per proseguire
con la poesia di Teocrito, Mosco — proprio nei primi versi del "Sogno"
Leopardi ha presente il II idillio del poeta siracusano da lui tradotto
(Santagata 1994, 95; ma il riferimento è presente già nello StraccaliAntognoni 1939, 42) — Orazio, Ovidio, Tibullo, ecc., c'è quello,
personale, della propria biografia, che la critica non ha mancato di
rilevare. Mi riferisco a un passo tratto dai "Ricordi d'infanzia e di
adolescenza," relativo a un episodio del maggio 1819 nel quale
s'imbatte nel "bel viso" di Teresa Brini, sua coetanea, per la quale
Giacomo provò un immediato turbamento e un'attrazione amorosa così
intensa che — scriverà subito dopo — "mi avrebbe proprio eroificato e
fatto capace di tutto e anche di uccidermi." Nel ricordo della Brini
compaiono alcuni dettagli gestuali e comportamentali, che Leopardi
riferisce a un sogno avuto la notte seguente l'incontro con la ragazza;
dettagli che il poeta trasferirà poi nell'idillio: alludo, in particolare, alla
concitazione del dialogo, la richiesta del baciare la mano, e il
sussultante risvegliarsi dal sogno ma con ancora nella mente e negli
occhi il viso della fanciulla desiderata: una dinamica "fìsica" che
ritornerà puntualmente nel "Sogno." È forse anche per questo che uno
studioso attento, come il Marti, a conclusione di un suo agguerrito
excursus leopardiano, ha potuto affermare che in questo Canto "il sogno
vivo ed erotico della Brini s'è fuso col sogno malinconico, deluso e
addolorato della Fattorini, giacente anch'essa come pura potenzialità
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poetica e memoria psicologica [...]. Il 'nascemmo al pianto' della
Fattorini tempera l'ardore vivace ('con un bel fazzoletto in testa vestita
di rosso') della Brini nell'intimità dell'incontro sognato" (Marti 1978,
37).
Che la donna apparsa in sogno a Leopardi sia da identificare
incontestabilmente con Teresa Fattorini mi pare fuor di dubbio per
almeno due motivi: il primo perché è la donna stessa a dichiarare che
è morta da vari mesi ("mi vedesti / L'ultima volta, or son più lune," vv.
23-24), informazione decisiva, chè la morte di Teresa risale al 30
settembre 1818. Se la data di composizione del "Sogno" — come ho
cercato di dimostrare all'inizio — risale plausibilmente al 1821, non ci
sono dubbi che il lasso di tempo che intercorre fra i due eventi è
ragionevolmente quantificabile in "più lune," ο "gran tempo," come
appariva nella prima edizione del Canto. Il secondo motivo risiede nella
descrizione che nel "Sogno" viene fatta della "infelicissima fanciulla,"
ricalcante esattamente quella di "A Silvia." Più avanti, fra l'altro,
vedremo che nel "Sogno" vengono anticipati stilemi che ritorneranno
puntualmente in "A Silvia." Né, ovviamente, "il simulacro" può
identificarsi con la Geltrude Cassi Lazzari, cugina di Monaldo (che al
tempo in cui Leopardi scriveva "Il Sogno" era ancora ben viva; morirà
nel 1853), benché quel "colei che amore / Prima insegnommi, e poi
lasciommi in pianto" (vv. 7-8) potrebbe — ma solo velatamente — farlo
supporre, stando a quanto Giacomo ci ha lasciato scritto nel Diario del
primo amore. Dunque, sulla natura avverbiale di quel "prima" (v. 8) non
dovrebbero esserci dubbi. Se mai, fra il ricordo reale e doloroso della
Fattorini, quello fisico ma irrelato della Brini (irrelato perché tra l'altro
la Brini non morirà che nel 1882), e quello adolescenziale per la Cassi
(improponibile perché scaturito soltanto grazie alla duttilità
squisitamente poetica di quel "prima"), potrebbe inserirsi quello di
Serafina Basvecchi (Mestica 1901), celebrata nella Canzone "Per una
donna inferma di malattia lunga e mortale" (marzo-aprile 1819), ma, di
nuovo, su un piano puramente speculare, in quanto in questa Canzone
non ci sono precisi riferimenti amorosi per questa donna inferma, ma
solo quelli, importanti ma indeterminati, della fisica "beltà" e della
innocente "giovanezza" che nulla valgono di fronte alla "implacanda
sorte" della morte.
È anche vero, una volta identifica l'intera geografia onomastica che
sta dietro al "Sogno," che poi, dal punto di vista prettamente poetico,
come già a suo tempo scrisse il Russo, risultano
'Il sogno'
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superflue come curiosità aneddotiche le ricerche dei biografi, che
vogliono identificare questa ο quella donna leopardiana. Lo spunto
della realtà è sempre minimo ed è rapidamente sorpassato, e tutto è
un fingersi nel pensiero. Anche la donna del "Sogno" più che
allusione a una vicenda biografica, è il perpetuo idoleggiamento della
giovinezza acerbamente spenta (Russo III 1954, 65).
Il che è verissimo, ma anche generico, e a mio parere non rende
giustizia ai tanti, troppi particolari concreti e circostanziali che
emergono dal dialogo fra Giacomo e questa donna per far sì che
quest'ultima sia da considerarsi soltanto come semplice "idoleggiamento
della giovinezza acerbamente spenta." A tale proposito anche le
indubbie rispondenze petrarchesche (Rime, CCCLIX e "Trionfo della
morte," II) relative ai vv. 8-16, messe in evidenza dalla critica (vi hanno
insistito, tra gli altri, il Flora (1948, 194), il Fubini (1964, 124), e,
moderatamente, Dotti (1998, 61-63), sono diluite nella versificazione
leopardiana, tanto che c'è chi, in anni più recenti, le ha addirittura
rifiutate (Rigoni 1987,949). Più probanti (e diretti) i rimandi allo stesso
Leopardi: abbiamo visto quelli riguardanti lo Zibaldone e le varie altre
prose e poesie leopardiane. A queste ultime, anche su un piano stilistico,
vanno inoltre aggiunti, per completare il quadro di riporto a monte del
"Sogno," i riferimenti alla linea idillica moschiano/tassiana rinvenibili
nella Telesilla (1819): "che 'Il sogno' prosegue in forme mature [...] con
accentuate sfumature elegiache che, nelle forme elocutive, ricorre
ampiamente alle ripetizioni acustiche e lessicali" (Santagata 1994,94-5),
e quelli, su un piano prettamente elegiaco, al "Coro dei morti"
nell'operetta morale Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie
(Rigoni 1987, 949), estensibili anche a luoghi delle "Ricordanze,"
"Passero solitario," "A Silvia," "Consalvo" (ancora Rigoni), e quelli,
infine, a "Amore e morte" (in particolare: Dell'Aquila 1995, 55; e
Ceragioli 1979, 307; quest'ultima, per quanto riguarda la morte,
rovesciandone il ruolo, in quanto nel "Sogno" essa tronca ogni speranza
d'amore e di giovinezza, mentre in "Amore e morte" "risana" e "ogni
gran male annulla").
Torniamo ora al momento in cui nella "cieca stanza" (nella Vita
solitaria troveremo un "chiusa stanza") appare di colpo "il simulacro"
della donna. Uso di proposito la locuzione "di colpo" in quanto
l'apparizione della donna non è mediata da nessuna progressione
dinamico-circostanziale. In quel nudo e diretto "stettemi a lato"
Leopardi quintessenzia d'un subito la figura della giovane in tutta la sua
Luigi Fontanella
270
assoluta astanza e flagranza. Mi rendo conto che sto usando una
terminologia relativa alla critica d'arte. Ma il "quadro" iniziale che
appare agli occhi del lettore del "Sogno," è proprio tale, e tale rimarrà,
inalterato, per tutta la durata del Canto. La sua fruizione è prima di tutto
visuale, con alcuni dettagli e scorci precisi (il letto su cui Giacomo sta
dormendo, la donna seduta al suo fianco, la sua mano che s'appressa al
capo del giovane, la luce che filtra "tra le chiuse imposte"): un quadro
di un realismo vermeeriano straordinario nel quale i giochi di luce e
ombra contribuiscono a dargli quel carattere chiuso, prezioso, intimo,
magico, esclusivo. Il ricorso a Vermeer è meno peregrino di quanto
possa sembrare. Suo ambiente d'elezione è l'interno, creato secondo
regole di geometrica purezza; penso poi al soggetto ricorrente dei suoi
quadri; la donna fermata in un attimo immutabile e misterioso, mentre
su tutto domina la luce, a volte diffusa e profonda, altre con pénombre
pulviscolali tale da diventare sostanza stessa delle cose.
La fruizione visiva della donna da parte del giovane sognante ο in
dormiveglia è sconvolgente quanto immediata. È un particolare di forte
suggestione e carica evocativa che non è mai stato messo abbastanza in
rilievo dalla critica, ma che a me pare costituisca uno dei momenti di
maggiore incantamento di questo idillio. Quel nudo, efficacissimo
"stettemi a lato" fra l'altro rafforza lo stato ipnagogico cui ho accennato
all'inizio. Insomma, l'ombra della giovane non ha una progressione di
avvicinamento, non "si annuncia," ma è; agli occhi del lettore e a quelli
di Giacomo essa è già astante e il giovane la coglie in tutta la sua
conturbante flagranza.
Va poi sottolineato un altro aspetto, per certi versi un po'
paradossale e contraddittorio, che però costituisce un ulteriore motivo
di fascino seduttorio: la donna che appare a Giacomo è morta, e il
rapportarsi amoroso quanto impossibile del giovane verso di lei consiste
proprio nel "paradosso" che esso viene agito e perseguito da un essere
vivo verso un essere morto; e tuttavia, in tutta la sua durata, in
particolare nella prima parte, la confabulazione assumerà i connotati
reali di una vera e propria conversazione svolta tra due esseri viventi,
con quella dialettica tipica del dialogo d'amore: ora pausata, ora
concitata, ora premurosa, ecc., fino a culminare nella febbrile richiesta
di un bacio che, negato per necessità dalla donna, riporterà Giacomo al
risveglio dal suo stato allucinatorio.
Lo struggente rincorrersi delle domande e delle risposte, in un
dialogo subito improntato a una sua fisicità, è del resto confermato dalla
'Il sogno'
271
reazione di sorpresa effettiva e di curiosità tutta umana con cui,
all'esordio interrogativo, ex abrupto, della donna, Giacomo replica: "[...]
come vieni, ο cara beltà?" Beltà è il termine che il giovane usa
primamente per denominare la donna, un termine sulla cui natura prima
fisica, poi come immagine ideale e "vaga," non ci possono essere dubbi,
anche perché è stilema che Leopardi userà qualche anno dopo quasi
nello stesso modo in "Alla sua donna" (settembre 1823). Che a "beltà,"
nella tassiana accezione di "donna bella" (Gabrielli 1989,475), bisogna
dare un valore prima di tutto fisico e non ideale (o non solo ideale), è
confermato dal fatto che al dormiente la donna appare seduta sulla
sponda del suo letto e con la mano destra che si avvicina con
naturalezza al suo capo: una fruizione, pertanto, da parte del giovane,
che nella sua flagranza (insistito su questo termine) non può che essere
prima di tutto sensoriale. E la domanda esordiale della giovane ("Vivi,
mi disse, e ricordanza alcuna / Serbi di noi?") contiene non solamente
una sorta di ragionamento a monte (come a dire: "sicché tu vivi," "tu
dunque vivi, e conservi ancora il ricordo di noi due?"), ma una
schiettezza tale che Giacomo non può non recepire (e ad essa
controbbattere) nello stesso modo, usando, appunto, per la donna,
l'espressione "cara beltà." Voglio dire, insomma, che nel "Sogno" viene
fin dall'inizio ribadita quella "fisicità che articola il rapporto dialogico"
(Negri 1987, 96), che a me pare costituire uno dei tratti più fecondi e
marcanti di questo intero tête-à-tête, che dobbiamo immaginare tutto
svolto nel chiuso di una stanza e nello spazio assai ristretto che va dalla
donna seduta sul letto al giovane su di esso coricato. Infine, ma non alla
fine, la natura prima di tutto fisica del Beltà (v. 14), viene ulteriormente
confermata negli ultimi versi del Canto (vv. 88-9), allorché la donna, in
quanto puro simulacro, non potrà accettare (recepire nella sua natura
fisica) i baci con cui fremente, ma inutilmente, il giovane "ricopre" la
sua mano; la donna gli dirà: "[...] già scordi, ο caro, che di beltà son
fatta ignuda?", come dire, in altre parole: già dimentichi che "sono
ormai priva del mio del bel corpo?" (Sanguineti 1977, 110).
È in questo spazio intimo e ristretto che si svolge l'intenso,
concentratissimo dialogo, con un crescendo, da parte di Giacomo, sùbito
significato dall'incalzare delle sue numerose domande: ben quattro in
poco più di tre versi (vv. 18-20), senza nemmeno voler prendere in
considerazione la prima (v. 14), doppia, un po'ingenua, ma assai tenera,
tesa a conoscere il luogo e in quale modo la donna è giunta fino a lui.
Sono domande letteralmente palpitanti che gli fanno quasi
Luigi Fontanella
272
"dimenticare" (dato anche — ripeto — l'obiettivo "appressamento" della
donna) il fatto che lei sia defunta; una "palpitazione" che trascende i
limiti naturali di vita / morte. Alla "oblivione," e soprattutto alla
concitazione del giovane, fa da contrappunto la "razionalità" e la
staticità della donna, chiusa nella sua oltranza. E tuttavia l'occasione
del sogno, che forse a questo punto saremmo tentati di definire meglio
come rêverie, ovvero una "fantasticheria" (Ugniewska 1988, 75), sulla
lunghezza d'onda del "Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio
familiare" cui prima ho fatto riferimento, serve anche per mettere a
fuoco la relazione di interscambiabilità fra dimensione reale,
rappresentata dal giovane dormiente, e quella irreale del simulacro della
donna che gli appare di fronte, in un continuum magicamente sospeso
da cui scaturisce irresistibilmente quel delicato alone di fantastico nel
quale si articola tale relazione. È in parte quanto ha rilevato in una
pagina assai penetrante Claudio Colaiacomo analizzando "Il sogno"
(Colaiacomo 1995, in Asor Rosa, Vol. III, 395):
L'essenza è una forma poetica di presenza, e viceversa la presenza,
l'Io, è un riflesso dell'altro. La complementarietà contradditoria di
tale relazione è adombrata verso il centro del componimento [...]. L'Io
non può credere che la donna non viva più e, non per nulla, si
domanda cosa sia la morte, dal momento che la stessa morte,
l'assenza, il disgiungersi definitivo dalla persona amata sono, al
tempo stesso, la forma del perpetuo ritornare di lei.
È significativo che dopo la sfilza concitata di domande e, per
contro, la pacata, icastica risposta della donna, subentri, strutturalmente,
il primo dei momenti riflessivi ("Immensa / Doglia m'oppresse a queste
voci il petto" vv. 24-25). È un ritorno alla brusca realtà, e alla
consapevolezza da parte del soggetto della morte della donna, che
sembra preparare il terreno alle sue amare considerazioni (vv. 26-37).
La triste presa di coscienza del poeta è sottolineata da quell'Immensa,
parola che "così isolata dal suo sostantivo, grandeggia, e ha quasi il
valore di un predicativo" (De Robertis 1978, 188).
La donna riporta Giacomo alla realtà e il dirgli "mi vedesti /
L'ultima volta, or son più lune" non solo è per noi preziosa indicazione
sull'identità del personaggio evocato, ma ribadisce il fatto che adesso
il giovane non sta veramente vedendo la donna (l'ha vista l'ultima volta
mesi prima), ma sta avendo di lei (cioè di Teresa/Silvia: potremmo a
questo punto ben dirlo) solo una visione, ridimensionando, pertanto, la
'Il sogno'
273
pura illusione (oblivione) che gli aveva fino a quel momento ottenebrato
la mente.
Nelle due lunghe allocuzioni successive, rispettivamente della
giovane (vv. 21-37) e del giovane (vv. 37-55) i rimandi lessematici al
Canto "A Silvia" sono, del resto, frequenti, a cominciare da quel "nel
fior degli anni estinta" (v. "A Silvia," v. 43), per proseguire con
"l'umana speme" (in "A Silvia," v. 59), fino a culminare in quel
"tenerella" del v. 42, che in "A Silvia" sarà, per strano gioco del destino
scrittorio, ricollocato esattamente al v. 42, anche se qui l'aggettivo verrà
usato "con maggiore leggerezza" (Russo 1954, 653).
Nell'eloquio teso, amaro, ma anche contenuto, della donna (il suo
simulacro ha il "potere" di vedere oltre, e vedere da oltre, la dimensione
vivente umana), il giovane, che in lei si rispecchia, confermerà a se
stesso che la morte è crudele quanto indifferenziante.
Siamo arrivati ai versi ispirativi principali dell'intero Canto, su cui
occorrerà soffermarsi un momento.
La morte è violenta, inconsulta, quando essa colpisce i giovani, i
quali vengono cacciati sotto terra, portandosi con sé tutte le speranze
con le quali hanno nutrito la propria giovinezza. La morte precoce viene
cosi vista come un destino spietato ("duro è il fato") quanto
intollerabile, che è "come dire feroce" (De Robertis, 189). Siamo al
culmine della riflessione centrale, disperante, che sta alla base di tutta
la speculazione
leopardiana dal '20 in poi, ovvero quella della
"Giovanezza" negata, sconosciuta, se non nel desiderio, e, al contempo,
quella della Speranza che nei giovani è coltivata invano se la Morte
arriva intempestiva a cancellarla.
La Morte dunque, concluderà apoditticamente la donna, è
messaggera crudele, epperciò sconsolata: nessun conforto può lenirla.
Dirà acutamente il De Robertis: "È più forte. Tanto più forte! Tale cioè
che nessuna sapienza libresca può consolare" (De Robertis, 190). Viene
in mente il cupo monologo iniziale del Faust goethiano, al quale a nulla
è valso "studiare filosofia, giure, medicina e, purtroppo, anche teologia,"
discipline che non gli hanno procurato gioia, amore e vero sapere; tutta
la dottrina da lui imparata non è (stata) in grado di fargli capire il
mistero della vita e della morte:
[...] Potessi conoscere l'intima forza che tien congiunto il mondo,
discernere le energie e gli elementi, e smetterla di baloccarmi con le
parole. Oh se stanotte per l'ultima volta tu vedessi la mia pena, ο
plenilunio, che tante volte mi trovasti qui vegliando in sulla
Luigi Fontanella
274
mezzanotte, quando, ο malinconico amico, mi apparivi raggiando
sulle mie carte e sui libri! (Goethe 1965, 17).
E Leopardi appunterà, in una sorta di ideale controcanto, in due luoghi
dello Zibaldone, rispettivamente il 2 agosto 1821 e il 29 giugno 1822
(dunque scritti proprio a ridosso di questo Canto):
[...] E crede pienamente a' poemi e romanzi, benché sappia che sono
falsi, cioè se ne lascia persuadere che il mondo sia fatto e vada in
quel modo, e crede di trovarlo così. Di maniera che le storie che
dovrebbero fare per lui le veci dell'esperienza, e così pure
gl'insegnamenti filosofici ecc. gli restano inutili, non già per
capriccio, né ostinazione, né piccolezza d'ingegno, ma per opera
universale e invincibile della natura (Zibaldone, 1437).
Il giovane istruito da' libri ο dagli uomini e dai discorsi prima della
propria esperienza, non solo si lusinga [...] che il mondo e la vita per
esso debbano esser composte d'eccezioni di regola, cioè la vita di
felicità e di piaceri, il mondo di virtù, di sentimenti, d'entusiasmo; ma
più veramente egli si persuade [...] che quel che gli è detto e
predicato, cioè l'infelicità, le disgrazie della vita [...], il disprezzo
delle passioni grandi, e de' sentimenti vivi, nobili, teneri ecc. sieno
tutte eccezioni, e casi, e la regola sia tutto l'opposto [...] (Zibaldone,
2524).
Senonché, mentre nel Faust la tragica consapevolezza del Nulla e della
Morte, che nessuna sapienza libresca e umana può consolare, è recepita
da un uomo adulto, un "dottore" giunto ormai alle soglie della
vecchiezza, qui, nell'idillio leopardiano, quella tragedia è ancora più
acuta perché a esserne colpita è una giovinetta, ossia una persona che
ancora non ha una propria cultura, un'esperienza umana concreta (e che
nessuna sapienza può in qualche modo alleviare). E pertanto nei
giovani, morti prematuramente, prevale il dolore atroce per la propria
sventura, non illuminato ancora dalla coscienza della universale
infelicità e dalla naturale limitatezza delle nostre possibilità. Dirà su
questo punto assiale del Canto, con illuminata chiarezza, il Fubini: "La
conoscenza puramente intellettuale che un giovane può avere della
vanità di ogni speranza non riesce ad aver ragione della sua
disperazione" (Fubini, cito dal Felici I 1997, 95).
Strutturalmente, i due lunghi interventi, rispettivamente del
'Il sogno'
275
"simulacro" (di 16 versi) teso a informare e disilludere Giacomo sul
vero, e quello dell'Io (di 19 versi) teso a recepire la disillusione e di
conseguenza a interrogarsi ragionandoci sopra ("che cosa è questa / Che
morte s'addimanda?"), si distendono strategicamente nella parte centrale
del Canto costituendone, per così dire, l'ossatura portante. A leggerli di
seguito sembrano le riflessioni di un'unica persona, sdoppiata in due,
tanto che alla fine del discorso dell'Io c'è una perfetta simbiosi di
vedute e di autoriflessioni che accomunano da un lato "il fior degli anni
estinto" della ragazza, e dall'altro l'inutile "giovanezza" del suo
interlocutore, la quale "si consuma e perde come vecchiezza": i due
stadi esistenziali differiscono ben poco e "la rima al mezzo avvicina
tristamente le parole" (De Robertis, 191).
Ben più commossa e partecipe è ora la reazione di Giacomo
rispetto a quella precedente, all'inizio del Canto, che segnava ancora
una fase di umana, trepidante curiosità. La donna ha toccato con mano
il cuore del problema, il nucleo irreversibile cui il destino l'ha ridotta;
il giovane l'ha recepito appieno facendolo suo e vedendone
specularmente una coincidenza totale col suo destino. I tre versi posti
esattamente al centro del Canto ("Giovane son, ma si consuma e perde
ecc."), non solo sono "i versi più belli di tutto il componimento" (Russo,
653), ma sintetizzano la sua Weltanschauung in un filo psicologico
doppio.
Quasi tutta la critica leopardiana, su questo punto preciso del Canto,
ha ricordato alcuni scritti di Giacomo stesi, significativamente, nello
stesso arco di tempo in cui si colloca la composizione del "Sogno," che
non starò qui a ripetere. Mi sia concesso, però, di estrapolare almeno
due brevi frammenti che meglio ο più di altri veramente sembrano
commentare questa raggiunta, amarissima presa di coscienza del
Leopardi all'altezza del 1820-1821, ovvero all'epoca della sua più acuta
prostrazione.
[...] Sono moralmente vecchio, anzi decrepito, perché fino al
sentimento e l'entusiasmo, che era il compagno e l'alimento della mia
vita, è dileguato per me in un modo che mi raccapriccia. È tempo di
morire. È tempo di cedere alla fortuna (Lettera a Pietro Brighenti del
21 aprile 1820).
Un passo che si riallaccia a un altro, ben noto, contenuto in un'altra
lettera scritta undici mesi dopo.
Luigi Fontanella
276
La fortuna ha condannato la mia vita a mancare di gioventù; poiché
dalla fanciullezza io sono passato alla vecchiezza di salto, anzi alla
decrepitezza sì del corpo, come dell'animo [...]. E la mia vita
esteriore ed interiore è tale, che sognandola solamente,
agghiaccerebbe gli uomini di paura (Lettera a Giulio Perticari del 30
marzo 1821).
È lo stesso tono e lo stesso contenuto che si ritrovano in un'altra lettera,
anch'essa ben nota, indirizzata ad Angelo Mai nel medesimo giorno.
La presa di coscienza del risolutivo destino che ha colpito
Teresa/Silvia comincia proprio da quel "Dunque sei morta," che
riecheggia il precedente "Or s'ella è morta" di "Per una donna inferma,"
ma mentre lì c'era ancora uno stacco descrittivo significato dall'uso
della terza persona, qui nel "Sogno" Leopardi è passato a un diretto e
drammatico tu ("taci, taci ecc."); un momento fra l'altro che rafforza
l'intimità confidenziale dei due interlocutori, dialoganti in una distanza
spaziale assai ravvicinata.
Si capisce poi (e strutturalmente mi sembra aspetto assai
significativo) perché dopo i due lunghi, singoli interventi (singoli ma,
come abbiamo visto, specularmente intrecciati per la simbiosi affettiva
che li connota) che segnano la fase assiale del Canto, si passi al "noi"
("nascemmo al pianto"), visto come condivisione di una dolorosa
condizione, che pur non rifiuta il sarcasmo ("dilettossi il cielo /
De'nostri affanni"). Trascorsa la fase distintiva delle due posizioni
eloquiali, Giacomo cerca conforto di fronte a un "futuro tolto" a
entrambi, e cerca la conferma di un amore, sia pure irrelato, non più
terrenamente perseguibile, e tuttavia ancora vibrante nella rimembranza
che esso può riverberare proiettandolo nel presente. Il colloquio onirico
diventa, in questo frangente, l'unico tramite che possa permettere una
sua "realizzazione," meglio, una sua attualizzazione nel presente. Il
sogno "permette al disperato amante di sapere di essere stato corrisposto
e dunque di avere, nell'assenza, quanto mai avrebbe potuto avere nella
presenza" (Gioanola 1995, 451). È uno stato d'animo squisitamente
petrarchesco che quasi tutta la critica non ha mancato di rilevare
riportandolo a quel secondo capitolo del "Trionfo della morte." La
rimembranza è davvero l'ultima àncora che lega il giovane alla vita, in
quanto ad essa è congiunto qualcosa che fu vivo. Ritornano qui
lucidissime e opportune alcune annotazioni dello Zibaldone (86-87). Ma
a quella "favilla d'amore," riproposta dal colloquio onirico, la ragazza
'Il sogno'
277
non può, ormai, che opporre una dolce pietà, che come un ponte
fantastico — l'unico possibile — unisce le due anime sventurate. Infelice
il fato del giovane; "infelicissima" la sorte della fanciulla, un tempo
"festosa." Annoterà De Sanctis, con parole accorate, limpide, e tuttora
assai pertinenti: "È una fanciulla infelicissima perché tolta alla vita,
quando amava ancora la vita. Ora è fuori di ogni illusione; pure,
lamenta che la morte l'abbia tolta alle sue illusioni e abbia abbreviata
la sua felicità. [...] Così il fatto particolare di una morte immatura
acquista significato universale, l'elegia s'alza a tragedia" (De Sanctis
1983,102). E alla tragedia s'aggiunge, da parte del giovane, l'angoscia
("Allor d'angoscia / Gridar volendo"), derivante dalla consapevolezza
che non soltanto Teresa non c'è (sta recependo solo la sua "larva"), ma
che non c'è più: non c'è più un suo presente, e l'avvenire è sentito
come perdita irreparabile ("a me non vivi / E mai più non vivrai").
Vengono in mente alcune toccanti riflessioni di Jean-Jacques Rousseau,
opportunatamente riconducibili all'esperienza amorosa e alla poetica
leopardiana: "[...] I suoi sguardi incantevoli, che mi parevano pieni
d'amore, poiché me ne ispiravano: di questo si nutrivano le mie idee e
ne fantasticavo deliziosamente [...]. Per me la previsione ha sempre
sciupato il godimento. Ho visto il futuro solo perdendoci [...]"
(Rousseau I 1955, 76). Sono parole distillate, di grande tenerezza e
pessimismo. Su questo punto preciso un fine studioso, collaboratore di
Jung, scriverà: "Qui è chiaramente espressa l'essenza della visione
pessimistica del mondo, cioè la visione del 'futuro' come perdita ο
perdere: perdita della possibilità di godere. [...] E questa perdita non ha
per i melanconici i caratteri della previsione, ma dell'evidenza"
(Binswanger 1971, 1977, 48; corsivi del Binswanger).
E propriamente all'evidenza viene ricondotto il giovane attraverso
le finali parole della donna. La quale, in quel guardare "teneramente"
nei suoi occhi febbrili, concederà comunque di "porgere" la propria
mano perché venga ricoperta di baci palpitanti, non importa inutilmente
se questo è l'ultimo, impossibile desiderio del suo amante. È un
momento di profonda pietà amorosa e di apparente "debolezza," un
momento che, con un bel salto in avanti nel tempo, un grande scrittore
di questo secolo, Milan Kundera, avrebbe definito di compassione, da
intendersi come "co-sentimento," se facciamo derivare la parola non
dalla radice "sofferenza" (passio), bensì dal sostantivo "sentimento." In
questo caso compassione si bagna di una luce diversa che le dà un
senso più ampio: avere compassione (co-sentimento) significa vivere
Luigi Fontanella
278
insieme a qualcuno la sua disgrazia, ma anche provare insieme a lui
qualsiasi altro sentimento: gioia, angoscia, felicità, dolore. Questa
compassione (in ceco: soucit; in polacco: wspól-czucie', in tedesco: Mitgefühl; in svedese: med-känsla) designa quindi la capacità massima di
immaginazione affettiva, "l'arte della telepatia delle emozioni. Nella
gerarchia dei sentimenti è il sentimento supremo" (Kundera 1985, 28).
In quel gesto del "porgere" la propria mano, Teresa concede la sua
compassione a Giacomo e sembra dimenticare per un istante la sua
natura fantasmatica. Ma sarà solo per un istante, ché subito si affretterà
a cancellare questo struggente co-sentimento, visto che esso è possibile,
quando possibile, solo fra esseri viventi ("già scordi, ο caro, / Disse, che
di beltà son fatta ignuda?"). In quel gesto viene anticipata la glaciale
figurazione di quella stessa mano con la quale Silvia, nel Canto
omonimo, anni dopo, con planetaria malinconia, gli indicherà il vero
("una tomba ignuda"), e, ancora più tardi, e senz'altro in maniera
enfatica e infelice, la figurazione ritornerà parzialmente nel Consalvo
(vv. 28, 57-8, 83). In questo la donna si comporterà non diversamente
dai Morti interrogati nel "Dialogo di Federico Ruysch"; "gli atti e le
parole della fanciulla morta in questo 'Sogno' non sono sostanzialmente
difformi da quel concetto," cosi Luigi Russo, via G. A. Levi (Russo,
654).
Infine, il virgiliano congedo della donna ("Or finalmente addio"),
calco esatto della traduzione leopardiana (Eneide II, 789), e il
concomitante "risveglio" del giovane: un risveglio ambiguo,
nell'"incerto raggio" che, con il perdurante effetto allucinatorio e
"scotomatico" (Barthouil 1996,60), riconduce la chiusa del Canto, come
in un'ideale cintura circolare, al suo inizio. L'effetto poetico è di grande
forza evocativa, e lo si deve in gran parte proprio all'aggettivo incerto,
cui viene affidato "il compito di ricreare, alla fine del componimento,
quella preziosa suggestione d'indefinito entro cui esso si era iniziato"
(Fubini, in Dotti 1998, 312).
***
È tempo di tirare qualche riflessione conclusiva.
Va prima di tutto ricordato e risottolineato che la stesura del
"Sogno" cade in un periodo estremamente difficile per Leopardi. Ne fa
fede l'intenso epistolario. Non mi sembra necessario aggiungere altri
esempi probanti, oltre quelli già evidenziati nel corso della mia lettura
del Canto. Sono anni, questi che vanno dal '19 al '21, nei quali la
'Il sogno'
279
critica leopardiana ha sempre segnalato la sua cosiddetta conversione
filosofica che segue di pochi anni quella "letteraria," avvenuta fra il '15
e il ' 16, da Giacomo stesso denominata come passaggio "dall'erudizione
al bello." Se nella prima Leopardi approfondisce profittevolmente di
letture che vanno da Omero a Dante, passando per tutti i maggiori
classici (con un intenso lavorìo traduttorio, ben sostenuto dalla sua
erudizione filologica), e nel contempo, prendendo le distanze dalla
letteratura settecentesca prima tanto magnificata, nella seconda, con il
passaggio "dal bello al vero," Giacomo, ancorché giovanissimo (ha poco
più di vent'anni), s'imbarcherà in un viaggio orrendo senza ritorno.
Circondato dalla mediocrità di un ambiente domestico e paesano,
ipocrita e codino il primo, asfittico e arretrato il secondo, non ha altra
alternativa fra la noia planetaria che l'annienta e gli "istudi micidiali"
(lettera al padre scritta a fine luglio 1819, in occasione del suo disperato
tentativo di fuga; Russo, 895), che ormai hanno già minato alla base il
suo fragile fisico (è proprio di questo periodo, inoltre, l'atroce infermità
agli occhi).
In questa "ostinata, nera, orrenda, barbara malinconia" nascerà un
Canto come "Il sogno," nel quale proiezione fantastica e (già) precoce
rimembranza sono i segni perimetrali del cuore entro cui poter trovare
uno sbocco, sia pure illusorio, alla propria solitudine, alla
"miserabilissima vita," alla "strana immaginazione" (ancora dalla lettera
al padre, 895).
Coglie nel segno un fine leopardista quando afferma che a mettere
in discussione l'idillio è talvolta proprio il ricordo ("Il sogno," "Le
ricordanze"), "come ideologica e consapevole interpretazione di uno
stato non più ripetibile" (Dolfi 1973,44). Effettivamente, i poli dai quali
drammaticamente la rimembranza non riesce a staccarsi né dal presente
né dal futuro, agiscono, in un Canto come "Il sogno," quali spie
temporali nel cui interno la momentanea gioia del rammentare
leopardiano deve fare puntualmente i conti con la sua limitatezza e la
sua natura effimera. Da qui la constatazione che "nessuna immagine
della natura può pensarsi distinta dalla rimembranza come disperato
ricordo di un mondo di impossibile approdo; la sofferenza non è il
ricordo, ma nella coscienza leopardiana che ne fa un 'mito' non più
raggiungibile" (Dolfi, 44, corsivo mio).
Del resto la "rimembranza," se escludiamo la sua presenza nel
Primo amore, appare "per la prima volta nel rapporto con la donna"
proprio nel "Sogno" (Bonifazi 1991, 158), e vi appare in maniera
Luigi Fontanella
280
letteralmente drammatica, in quanto alla prima fase di trepidazione di
fronte alla fulminea agnizione onirica della giovinetta — nella quale
amore e ricordo d'amore si fondono nel tutt'uno di quel ritornato,
delicatissimo sussulto amoroso — subentra la graduale consapevolezza
della volatile apparenza del "simulacro." Il pathos del Canto è davvero
"tutto raccolto nell'apparenza e nel destino di sparizione della stessa
apparenza" (Prete 1998, 88). E — ancora Prete — una metafisica
dell'apparenza, una volta disvelata, espone non il suo splendore, ma il
suo patto con l'inesistenza. Anche qui la vita, come accadrà nel Coro
dei morti, trasparirà nella sua vuota lontananza, nel brivido della
negazione.
È esattamente questa negazione fatale della vita, da parte di una
natura che per contro dovrebbe esaltarne l'esistenza, ad avvilire l'io
poetico del "Sogno." Nell'idillio in questione non è la mancanza
dell'amante a suscitare rimpianti e crudele amarezza, ma è proprio la
consapevolezza del suo non-ritorno, ovvero della sua sottrazione
definitiva e violenta.
Il 10 dicembre del 1821, proprio a ridosso del "Sogno," Leopardi
annoterà nello Zibaldone:
Ogni uomo sensibile prova un sentimento di dolore, ο una
commozione, un senso di malinconia, fissandosi col pensiero in una
cosa che sia finita per sempre, massime s'ella è stata al tempo suo,
e familiare a lui. Dico di qualunque cosa soggetta a finire, come la
vita ο la compagnia della persona la più indifferente per lui, la
gioventù della medesima; un'usanza, un metodo di vita, ecc. Fuorché
se questa cosa per sempre finita, non è appunto un dolore, una
sventura [...] Solamente della noia non possiamo dolerci mai che sia
finita. La cagione di questi sentimenti, è quell'infinito che contiene in
se stesso l'idea di una cosa terminata, cioè al di là di cui non ν'è più
nulla; di una cosa terminata per sempre, e che non tornerà mai più
(Zibaldone, 2242-2243).
Da qui il senso di struggente nostalgia, da intendersi nel suo intenso,
polisemico etimo, che pervade soffusamente "Il sogno." La nostalghia
leopardiana diventa allora non soltanto dolore per ciò ch'è stato e ora
non c'è più, ma un sentimento fortissimo d'angoscia della fuga del
tempo e la malattia del fatale enigma della vita. Nell'annotazione su
riportata, Leopardi non lamenta una persona particolare ο un oggetto
specifico che a un certo punto viene a mancare, ma qualunque cosa
'Il sogno'
281
soggetta a finire, e che non tornerà mai più. Il senso di "indeterminato"
coincide con quello di "interminato" in chi assiste alla terminazione (alla
sottrazione) di chi e di ciò che ci sta(va) vicino. È da questa ottica che
nasce, in termini filosofici, la nichilistica contraddizione dell'essere
leopardiano, come ha ben messo in rilievo recentemente Emanuele
Severino in un suo denso volume sul pensiero del poeta recanatese.
Il nichilismo della contraddizione e cioè del male, dell'infelicità, della
sofferenza, non può liberarsi dalla contraddizione dell'essere. Come
risultato dell'annientamento, il nulla non è semplice e puro nulla, ma
è essere che è divenuto nulla, ossia è essere che è nulla, identità
d'essere e nulla (Severino 1997, 466).
***
È tempo di sottolineare adesso, anche sulla scorta di queste ultime
riflessioni, l'incontrovertibile, straordinaria maturità — sia sul piano
espressivo sia su quello tematico — del "Sogno," che solo in anni
recenti ha trovato un maggiore e più convinto interesse da parte della
critica (Marti, Rigoni, Dell'Aquila, Negri), rispetto al passato in cui
furono espresse riserve ο critiche negative (Binni, Russo, De Robertis;
salvo poi — questi ultimi due — a "rivalutare" il Canto nelle chiose a
pie' di pagina, alcune delle quali di notevole intuizione e valore critico).
Va ribadito, inoltre, che "Il sogno" non è un componimento "giovanile"
nel senso che debba essere ritenuto un mero esercizio, come pure è stato
scritto. Anche "L'infinito" e "La sera del di di festa," due vertici
assoluti della lirica leopardiana, sono allora da considerarsi "giovanili,"
in quanto scritti nello stesso arco di tempo del "Sogno," insieme ad altri
componimenti ugualmente significativi come "Il passero solitario" e
"Alla luna." Accanto a questi Canti a me pare che "Il sogno" non
presenti affatto uno scarto qualitativo minore, né, decisamente, "un tono
troppo blando e dolciastro" (Binni).
Restano infine due altre importanti osservazioni da fare sul
particolare carattere strutturale di questo idillio.
La prima risiede nella situazione descritta nel Canto, tutta chiusa in
un "quadro" immobile e inalterato all'interno del quale, tuttavia, c'è una
forte mobilità e concitazione dialogica. Questi due elementi, l'uno di
natura visuale, l'altro di natura fonica, mi sembrano costituire i perni
attorno a cui ruota la pregnanza del Canto e al contempo la sua sottile
fascinazione, quella che in parte — più accentuata nella dimensione
Luigi Fontanella
282
mnestica — ritornerà in "A Silvia." Quest'ultimo è sì Canto parecchio
posteriore e più maturo ma, come abbiamo visto, tematicamente e
stilisticamente assai legato al "Sogno," e più rilevata diventerà quella
che un critico ha felicemente definito la "libido vocativa," a mio avviso
già perfettamente in nuce nel "Sogno" (Agosti 1972, 39-43; cito dal
recente volume curato da Novella Bellucci 1988, 149).
L'elemento visuale risiede naturalmente nella visione e
concomitante agnizione del simulacro, che trascina con sé l'aspetto
enantiosemico (Lepschy 1988, 185), ovvero di un soggetto linguistico
polisemico (in questo caso il soggetto è la "visione" che da un lato
rappresenta realisticamente Silvia/Teresa, dall'altro il suo aspetto
illusorio evocato nello/dallo stato ipnagogico in cui si trova il sognante).
Una dinamica della visione per necessità contrastiva tra quanto
effettivamente recepibile con la vista e quanto c'è di invisibile (nel
senso di non recepibile in quanto "spettro" ο larva), insomma, fra reale
e immaginario, fra tangibile e intangibile, fra distinguibile e
indistinguibile; tutte condizioni derivabili da quello stato di demisommeil che ha nutrito tanta letteratura moderna. Ho citato prima
l'esempio testuale di De Chirico, ma a questo punto si potrebbero
portare esempi letterari ben più celebri e probanti: da certi interni di
scintillante seduzione e di forte suggestione visiva di A rebours di
Huysmans, alle indimenticabili pagine iniziali della Recherche, quando
Proust scopre la magica intimità delle cose che lo circondano, allorché
vengono colte sulla soglia tra sonno e veglia, quando esse, cioè, si
caricano di significati multipli che vanno e vengono fra passato e
presente, tra un'esistenza anteriore e un'altra che la nostra capacità
immaginativa e sensoriale è in grado di materializzare nella nostra
psiche. Ο si potrebbe fare l'esempio, di pochi anni precedente l'iniziale
stesura del primo capitolo della Recherche proustiana, di Visione, primo
abbozzo narrativo di Thomas Mann nel quale il soggetto scrivente si
abbandona a una propria rêverie, "sfumante nell'oscurità," vagamente
erotica, e un certo punto compare una fanciulla che in passato aveva
amato l'io narrante, gettandolo ora, grazie a questa visione, nella più
profonda commozione. Tutto sommato una situazione, abbastanza vicina
a quella descritta nel "Sogno," con, in aggiunta, il particolare inquietante
della mano della giovinetta sulla quale "pulsa la vita, lentamente,
violentamente palpita la passione" (Mann 1978, 22). E la tela dei
rimandi, tutta articolata nello stesso torno di anni, che vanno dall'ultimo
scorcio dell'Ottocento ai primi anni del Novecento, potrebbe continuare
'Il sogno'
283
fino ad arrivare alla conturbante Gradiva di Jensen via Freud (1906).
Ma, volendo restare in contesto italiano, come non ricordare almeno
due noti componimenti pascoliani: La tessitrice e Il bacio del morto?
Nel primo, facente parte dei Canti di Castelvecchio, il poeta si siede su
una "panchetta" e accanto a lui immagina di ritrovarvi una fanciulla di
cui fu innamorato, ma che mori prematuramente a vent'anni. Anche qui,
come nel "Sogno," alle domande insistenti del poeta l'infelicissima
ragazza risponderà: "Mio dolce amore, / non t'hanno detto? Non lo sai
tu? / Io non son viva che nel tuo cuore." Nell'altra poesia (Il bacio del
morto) compare ugualmente la scenografia del "Sogno," e non è
improbabile che Pascoli dovette tenere ben presente l'idillio leopardiano
se nella sua poesia compaiono alcuni stilemi tratti da quel Canto. La
situazione interna è quasi analoga: alle prime luci dell'alba il poeta si
sveglia con i tremiti dolorosi provocati da un mesto e lugubre sogno,
che gli ha perfino lasciato "un solco sul labbro, che duole": allusione —
contenuta già nel titolo della poesia — rinviante a "una credenza
popolare: il trovarsi al risveglio una vescicola sul labbro è segno che si
è stati baciati da un morto" (Baldacci 1982, quinta edizione, 142). Il
poeta interroga ansiosamente (sette domande in appena quattro versi)
questa larva che è venuta a trovarlo, con quel "donde vieni"? ch'è calco
esatto del "Sogno." Infine la consapevolezza che il simulacro è "certo
di quelli che amai, / Ma forse non so che sei morta [...]."
Anche qui, come nel "Sogno," il poeta rimane nell'esitazione del
mistero visuale (cui certo contribuisce anche la luce digradante che filtra
dalle imposte), ma anche nel piacere indistinto, dolce, malinconico e
perdurante che una tale visione gli ha destato. Su questo punto mi sia
permessa un'ulteriore annotazione leopardiana, assai pertinente, scritta,
tra l'altro, il 20 settembre 1821, anno in cui molto presumibilmente,
come abbiamo visto, è da collocare la stesura del "Sogno."
È piacevolissima e sentimentalissima la stessa luce veduta nelle città,
dov'ella è frastagliata dalle ombre, dove lo scuro contrasta in molti
luoghi col chiaro, dove la luce in molte parti degrada appoco appoco,
come sui tetti, dove alcuni luoghi riposti nascondono la vista
dell'astro luminoso ecc. ecc. A questo piacere contribuisce la varietà,
l'incertezza, il non vedere tutto, e il potersi perciò spaziare
coll'immaginazione, riguardo a ciò che non si vede (Zibaldone, 1745).
Dove colpisce la geniale precocità della speculazione leopardiana,
perfino in anticipo su alcune moderne teorie del vedere; penso in
Luigi Fontanella
284
particolare a tutte quelle svariate e distinte classi di fenomeni
classificate sotto la denominazione di "visione non cosciente" su cui
Aldous Huxley ha scritto pagine assai penetranti, anche sulla base della
sua personale infermità visiva (Huxley 1989,112-16; traduzione italiana
di Giulio Gnoli).
Su questo luogo preciso della speculazione leopardiana, e proprio
relativa al passo dello Zibaldone su riportato, è intervenuto recentemente
uno studioso di estetica, affermando che quando Leopardi sottolinea
quel "potersi spaziare coll'immaginazione riguardo a ciò che non si
vede," egli "introduce a una noesi dell'immaginazione, a un sapere
dell'immagine che si propone costitutivamente di rendere visibile
l'invisibile: di dare forma e immagine a ciò che è senza forma e senza
immagine" (Rella 1997, 72). Una considerazione, quest'ultima,
perfettamente applicabile alla dinamica svolta nel "Sogno."
Alla dimensione visiva/visionaria di questo Canto va poi di forza
aggiunta quella fonica/auditiva, tutta giocata nel serrato dialogo dei due
interlocutori, fino a culminare, paradossalmente, per forza esaustiva, alla
sconvolgente afonia conclusiva ("[...] di sudore il volto / Ferveva e il
petto, nelle fauci stava / La voce"), potentissimo e poeticissimo calco
virgiliano, rilevato dalla critica fin dal Carducci e dallo StraccaliAntognoni, ma sulla cui ampiezza di riferimenti classici ha poi
riccamente discettato un fine latinista, e non soltanto latinista (La Penna
1991, 272-3). La voce dunque è davvero destinata, come ci ricorda la
Ceragioli (1982, 173), a restare un veicolo formidabile della memoria,
ed è quello che maggiormente caratterizza il personaggio femminile: dal
"Primo amore" al "Sogno," da "A Silvia" alle "Ricordanze."
Non mi resta, infine, che insistere sul carattere chiuso,
assolutamente intimo di questo Canto. Ne ho già accennato qua e là nel
corso del saggio. Ci devo ritornare a chiusura della mia analisi. Questo
carattere chiuso (l'intero dialogo si svolge in una stanza in penombra)
dà al "Sogno" un contrassegno di unicità all'interno di tutto il
canzoniere leopardiano. Non c'è altro Canto, mi sembra, in cui si ripeta
la stessa dinamica e la stessa "logistica." È vero che la dimensione
onirica è già presente nel Frammento XXXVII ["Odi Melisso"],
altrimenti denominato "Lo spavento notturno." Ma lì il sogno viene
raccontato esternamente, nel senso che un personaggio (Alceta) descrive
un sogno da lui avuto a un altro personaggio (Melisso), e, in ogni caso,
si tratta di qualcosa che è al di fuori dei due dialoganti (la luna caduta
su di un prato); diversamente da quanto accade nel "Sogno" i cui
'Il sogno'
285
"oggetto" trattato dai due dialoganti è rappresentato dal loro stesso
sentimento e dal toccante ricordo del medesimo. Certo, nel corso
dell'intero opus poetico (non sto considerando le prose delle Operette
dove ovviamente il dialogo è massicciamente presente) ci saranno altri
momenti di dialogo e, soprattutto, di soliloquio ("Aspasia," "Consalvo,"
ecc.), ma a me sembra che questo carattere d'intimità amorosa e
raccolta, interamente circoscritta nel chiuso e breve spazio in cui
s'intreccia il sommesso dialogo dei due amanti, dia al "Sogno" davvero
un suggello di unicità. In questa "cieca stanza" vertiginosamente si
condensa, come non mai, sentimento della memoria e sentimento del
tempo di cui il sogno si fa veicolo portante. Con un colpo d'ala davvero
straordinario Leopardi anticipa una sua poetica della rêverie e quel
"complesso indissolubile" che intercorre tra immaginazione e memoria
(Bachelard 1972, 109) su cui tanto insisteranno non pochi poeti nella
prima metà di questo secolo: da Rilke a Pessoa, a Pasternak, a Ungaretti
fino a Breton che lo teorizzerà in uno scritto magistrale del '35 (ora in
Breton 1976, 570-93).
Con "Il sogno" Leopardi scavalca la dicotomia di "vita" e "morte"
in un loro ideale congiungimento autre che permette al sognatore un
altrimenti impossibile unione con la donna amata, e a lui violentemente
sottratta da un intollerabile destino. Una tematica che ritornerà in vari
altri Canti successivi, ma con modalità differenziate da questo idillio
che vive davvero di quel "brivido autenticamente romantico con cui vita
e morte sono sospese e quasi assimilate alla dolorosa magia del sogno"
(Rigoni-Damiani 1987, 950). Un'esperienza unica che s'irradia
spettralmente nella penombra e nel silenzio di una stanza cieca, e che
Leopardi, "poeta dei silenzi del mondo" (Della Terza 1979, 194) sarà
in grado di far uscire fuori, attraverso la sua poesia, e portarcerla intatta
e vibrante fino a noi, in tutta la sua vertigine sovratemporale.
LUIGI FONTANELLA
The State University of New York,
Stony Brook, New York
OPERE CITATE
Questa rassegna contiene, in odine alfabetico, sia le fonti bibliografiche relative
ai riferimenti critici posti in parentesi nel corso del mio saggio, sia altre
Luigi Fontanella
286
pubblicazioni consultate per "Il sogno." Le citazioni leopardiane sono tratte
dall'edizione integrale diretta da Lucio Felici, in due volumi, rispettivamente
intitolati Tutte le poesie e tutte le prose, Zibaldone (Roma: Newton Compton,
1997). Per le varie edizioni dei Canti ho usato nel saggio le abbreviazioni e le
sigle oggi convenzionalmente adottate dalla critica e riproposte dal Felici, e
cioè: Nr26 ("Nuovo Ricoglitore" di Milano, n. 12, gennaio 1826); B26 (Versi
I del conte GIACOMO LEOPARDI / Bologna 1826 / dalla Stamperia delle
Muse); F (Canti / del conte GIACOMO LEOPARDI / Firenze / presso
Guglielmo Piatti / 1831); Ν (Canti / di / GIACOMO LEOPARDI / Edizione
corretta, accresciuta, / e sola approvata dall'autore / Napoli / Presso Saverio
Starita / Strada Quercia n. 14 / 1835).
Colgo l'occasione per ringraziare Emilio Giordano per i preziosi materiali
bibliografici messimi a disposizione. A lui è dedicato questo mio saggio. Mi è
grato, inoltre, ricordare Dante Della Terza che per primo lesse il mio
manoscritto e gli sono riconoscente per le sue osservazioni critiche.
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