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LA VERGOGNA
ovvero
avrei voluto sprofondare!
FULVIA CECCARELLI
Psicologa e Psicoterapeuta
www.fulviaceccarelli.it
Il sentimento della vergogna è strettamente legato all'immagine di sé, quindi non tanto a ciò che si
fa o si è fatto, quanto piuttosto a ciò che si è. Tanto per intenderci, è in gioco l'identità personale.
Qualcuno sostiene che la vergogna oggi sia un sentimento in via di estinzione, visto il debordare del
bisogno di apparire, da un lato, e la mancanza di senso del pudore a protezione della propria
intimità, dall'altro. I reality sembrerebbero testimoniare proprio questo. In realtà, oggi più che mai
la vergogna è chiamata in causa, perché la cifra dei nostri tempi è che si possa essere visti e
apprezzati solo esibendo un'immagine perfetta. Che deve fare bella mostra di sé, al pari di qualsiasi
altra merce. È dunque impensabile, oltre che intollerabile, che possa presentare crepe o sbavature.
Etimologicamente il termine vergogna deriva dal latino vereor gognam, cioè temo la gogna, temo di
essere messo alla berlina. Il suo corrispettivo inglese, shame, di radice indoeuropea, kam, significa
invece nascondere. Nella vergogna infatti esistono entrambi gli aspetti, che rappresentano l'uno la
causa e l'altro l'effetto. Si teme il giudizio altrui e dunque ci si vuole nascondere.
La vergogna è un'emozione pervasiva che inonda la nostra identità, davanti alla quale rimaniamo
smarriti, perché ci sentiamo smascherati. Caduto il velo a protezione di quei lati del nostro sé che
riteniamo impresentabili, ci sentiamo esposti allo sguardo altrui, implacabile e giudicante. Di qui, il
desiderio insopprimibile di sparire, cosa che il nostro corpo abilmente drammatizza. Infatti quasi
tutta la gestualità della vergogna tende al nascondimento. Assumiamo una posizione ripiegata. Ci
copriamo la bocca con le mani. Abbassiamo gli occhi e il viso, che sono le parti in cui si cristallizza
la nostra identità. Talvolta indossiamo anche l'inespressività marmorea della Medusa, per evitare
l'incontro e il confronto umiliante con gli altri.
C'è poi un aspetto tanto paradossale quanto impertinente nella vergogna, che ci tinge le guance di
un rosso squillante nel preciso istante in cui vorremmo essere invisibili.
Quando la vergogna irrompe, la nostra immagine sociale è spazzata via dallo sguardo sprezzante
dell'altro: possiamo dire addio all'anonimato, perché la macchia di colore rosso che imporpora le
nostre guance si impone prepotentemente. Se prima eravamo persone senza volto, ora il nostro volto
viene posto sotto un riflettore. La drammaticità della vergogna è proprio questa: nel momento in cui
vorremmo perderci nella nebbia dell'anonimato, tutti ci notano. Noi stessi ci notiamo, forse per la
prima volta. Arrossiamo proprio perché ci troviamo soli di fronte a noi stessi, di fronte alla nostra
intimità più vera. Feriti dalla disillusione che ci procura la nostra immagine. Ciò che
improvvisamente realizziamo è la forte discrepanza tra ciò che abbiamo sempre desiderato essere e
ciò che siamo in realtà. Questa spiacevole consapevolezza è tuttavia un passaggio obbligato, seppur
doloroso, per una maggiore conoscenza di sé. E non una sconfitta, una debolezza o la fine di un
successo, come spesso viene vissuta.
L'immagine difettosa che si è fissata in noi, nella quale tendiamo ad identificarci, è lo scrigno della
nostra identità più vera. Il suo svelamento avviene in un contesto relazionale giocato su due livelli,
in un continuo gioco di specchi: la relazione intrapsichica tra sé e sé, di cui sopra, e quella
interpersonale tra sé e l'altro. In questo secondo caso, la vergogna è spesso accompagnata da una
sotterranea competizione, in cui l'altro diventa la proiezione del nostro sé ideale, perché rappresenta
tutto ciò che non siamo o non siamo riusciti ad essere. E da l'avvio al ciclo vergogna – rabbia: ci
vergogniamo, ci ritiriamo in noi stessi covando un forte risentimento verso l'altro. Questo genera in
noi un forte senso di colpa, con conseguente aumento della vergogna. E il ciclo ricomincia.
Occuparsi di vergogna, significa dunque occuparsi di benessere relazionale. Se in una relazione
interpersonale proviamo vergogna, significa che quella relazione non è sana, perché manca di
reciprocità. Non si è instaurata tra due soggetti, ma tra un soggetto ed un oggetto, per cui è
fortemente asimmetrica. Chi riveste il ruolo di soggetto, è percepito come sprezzante e giudicante.
Mentre chi riveste il ruolo di oggetto, con cui chi si vergogna si sta identificando, si sente messo
sotto la lente d'ingrandimento e giudicato irrimediabilmente difettoso, insignificante e ridicolo.
Riflettere sulla vergogna, ci porta anche ad interrogarci su come guardiamo l'altro: come oggetto del
nostro sguardo, che si esaurisce in ciò che vediamo di lui o anche come soggetto altro da noi, con
una sua propria autonomia e un alone di mistero per sé e per gli altri? Riacquistare la responsabilità
del proprio sguardo, permette di non replicare lo sguardo paralizzante della Medusa, e mettere
invece il proprio sguardo nello sguardo altrui.
Il passaggio successivo è la trasformazione della vergogna in pudore, sentimento associato alla
dialettica vicinanza-distanza, che contempera l'esigenza di separatezza e distinzione dall'altro con il
bisogno di attaccamento e di legame profondo.
La vergogna non è innata, è un sentimento sociale. Complesso. Richiede infatti un certo livello di
coscienza, un'immagine di sé già esistente e un insieme di regole sociali con cui quell'immagine è in
relazione.
Nella tradizione cristiana è un'emozione morale, associata al senso del peccato. Penso ai cosiddetti
“mostri”, sbattuti in prima pagina mentre tentano di coprirsi il volto con le mani. O alle adultere,
che un tempo dovevano esibire sul petto la lettera scarlatta, O ai criminali cui si imponeva la
marchiatura indelebile del viso. Ai condannati alla gogna, costretti con il volto rivolto verso l'alto.
Sono cambiati i tempi e le modalità di esprimere lo stigma sociale. Ma il timore della riprovazione
pubblica resta.
Un tempo si pensava che la vergogna fosse un sentimento negativo, contenente un germe di
tossicità, perché l'umiliazione e la rassegnazione che spesso l'accompagnano possono generare
violenza etero o auto diretta. Oggi invece è stata rivalutata. Le si riconosce una notevole
potenzialità per la sua natura composita, fatta anche di affetti positivi. Affetti che hanno a che
vedere con la modestia, la riservatezza, il senso del pudore, la consapevolezza di sé. Che ne fanno
un regolatore dei rapporti sociali.
Di cosa ci si vergogna? Di tutto ciò che porta ad una valutazione negativa di noi, che sporca la
nostra immagine sociale. Ci si vergogna di un gesto inconsulto; di certe malattie come tumori,
alcolismo, pazzia, demenza; di parenti o amici scomodi, rispetto ai quali ci sentiamo chiamati in
causa perché nostri; di certi comportamenti sessuali, della sterilità, della perdita del lavoro, perché
ci sentiamo giudicati incapaci; di certi difetti fisici reali o presunti che siamo costretti a mostrare
pubblicamente; di fare cose in pubblico come parlare o cantare; della povertà, che è vissuta come
indegnità.
La vergogna, però, acquista un peso diverso a seconda del contesto culturale. Grosso modo esistono
due tipi di cultura: quella della della colpa e quella della vergogna. La prima, tipicamente
occidentale, è individualistica, fa leva sulla responsabilità personale, sull'autonomia. La seconda,
tipicamente orientale, è invece basata sul senso dell'onore, sull'appartenenza al gruppo e sul rispetto
delle sue norme. In essa viene approvato il suicidio, aborrito in occidente, per non disonorare il
gruppo e sfuggire alla vergogna.
Come si supera la vergogna? Impedendole di inondare l'identità e cioè tenendo ben separate
l'immagine globale di sé dall'eventuale azione riprovevole commessa. Trasformandola in colpa, che
è molto più riparabile. Attraverso la confessione, il riconoscimento della propria responsabilità,
scontando una pena adeguata. Condividendola. Accettando il proprio sé difettoso ovvero ovvero
venendo a patti con i propri limiti. Permettendosi di esibire in pubblico un'immagine con qualche
sbavatura, senza essere sopraffatti dal terrore del giudizio altrui, poiché noi per primi abbiamo
imparato ad accoglierci. Ricalibrando i criteri di valutazione personali, senza inseguire modelli
troppo elevati o troppo inflessibili del sé. Trasformando le relazioni da asimmetriche in
simmetriche, ovvero tra due soggetti autonomi e misteriosi. Vivendola come un passaggio evolutivo
per un'autentica conoscenza di sé.
Bibliografia
Vergogna e immagine di sé di Cinzia Sabbatini Peverieri, 2000
La vergogna di Luciano Manicardi, 2009
La vergogna di Luigi Anolli Ed. il Mulino, 2000
L'ospite inquietante di Umberto Galimberti, Feltrinelli editore, 2007
Marzo 2014