Suona il piffero | spettacolo di teatro nomade (Scena III)

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Suona il piffero | spettacolo di teatro nomade (Scena III)
La formula magica |
Meggiolaro – racconto
Mauro
Chi l’avrebbe detto che sarebbe andata a finire così? pensava
forse tra sé e sé, per quanto potesse veramente pensare in
quello stato. Meda e Viganò, Paroliti e Rinaldini e quasi
tutti gli altri in qualche modo si erano riciclati. C’è chi
con la liquidazione aveva aperto un centro fitness, chi si era
messo a fare l’insegnante a contratto in qualche università
privata per somari ricchi. In tanti avevano anticipato di un
paio di anni la pensione e si erano ritirati su una delle
cinquantamila colline dell’Appennino o in riva al lago o al
mare. Ma lui aveva 36 anni e non sapeva da che parte
ricominciare. Nel dubbio spendeva tutto in tramezzini e caffè
corretti, cordiali e aperitivi, prosecchini e digestivi,
genzianelle e rosoli, amari, acquaviti e camparini e in
questo, il Bar Lenotti era un porto sicuro, nascosto alla
vista del mondo giudicante, piantato ormai “dal 1890”
all’angolo tra via del Martirio e vicolo Santa Valeria, nel
centro pulsante della metropoli della finanza, dove l’Italia
era
Italietta, la Borsa era una borsetta e i bancari, banchieri,
analisti,
correntisti, trader, broker, consulenti, revisori, sindaci,
notai,
avvocati e commercialisti si conoscevano tutti, uno per uno e
di tutti sapevano vita, morte, miracoli ma soprattutto
piccolezze, sconcezze, rigurgiti, corna e cambiali e tutto il
peggio che la natura umana nella sua debolezza intrinseca sa
dare al mondo. Un tempo ai tavoli del Lenotti sedevano poeti
del calibro di Borlotti e Bavaglini, premi Nobel per la
Fisica, artisti ed equilibristi, giornalisti come il
pluripremiato Mondelli, il temuto Del Brusco “dalla penna
tagliente” e si dice che ci fossero passati anche Ernest
Hemingway ed Allen Ginsberg e ci avesse dormito – non si sa
dove di preciso né quando – nientemeno che Giuseppe Garibaldi.
Ma erano altri tempi. Nel 2005 l’allora settantottenne
Evaristo Lenotti, ultimo rappresentante della terza
generazione di una stirpe di osti e locandieri, aveva alzato
le braccia e venduto licenza e avviamento ai cinesi per
“250.000 euro in contanti”, si mormorava nell’ambiente. In
pochi mesi la sala biliardo fu evacuata e diventò una specie
di magazzino conto terzi dove iniziò a passare di tutto e la
storica “saletta dei poeti” fu subito riempita di macchinette
di videopoker a cui, giorno dopo giorno, si aggrapparono file
di disperati di tutte le razze, i sessi, le età e i colori.
In quel covo di diseredati Frigerio si trovava perlomeno a suo
agio. Nessuno gli chiedeva chi fosse o cosa fosse stato né
cosa se ne facesse ora del suo prestigioso CFA, quel titolo da
analista finanziario che gli era costato almeno 50 finesettimana a casa a studiare e la bellezza di due fidanzate
che, nel frattempo, l’avevano mandato a quel paese. «Costi più
che ripagati», rispondeva ai bei tempi a chi glielo chiedesse.
«Un aumento secco del 25% della retribuzione lorda da su-bito!», diceva alzando il tono della voce e scandendo le sillabe
davanti ai vecchi amici dell’oratorio quando si ritrovavano
per le “cene del campetto”. Ora non rispondeva neanche più
agli inviti. Chi glielo spiegava a quelli che era finita, che
ora era lui il principe degli sfigati? Da quando la Nadir
Società per Azioni di Gestione del Risparmio era stata
comprata dagli americani il mondo gli era crollato addosso. E
pensare che l’acquirente, Two Beta Investments Llc., fino a
due anni prima non la conosceva nessuno, se non un gruppetto
di nerd scacciafighe con le lenti spesse e il pizzetto a
capretta che potrebbero scassarti la minchia per ore parlando
di codici di programmazione. Appena perfezionato il contratto
di acquisizione, Frigerio, Meda, Viganò e tutti gli altri
analisti e analiste del terzo piano della palazzina Adriatica,
piccolo monumento al neorazionalismo degli anni ’50, erano
stati invitati a mettere i loro effetti personali in un
piccolo scatolone, gentilmente offerto dai nuovi proprietari,
e a togliere il disturbo. Erano rimasti solo i due
commerciali, amiconi dalle narici d’oro e i denti affilati.
Del resto qualcuno i fondi e le gestioni patrimoniali doveva
pure continuare a venderli. Ma gli ordini di acquisto e
vendita dei titoli, l’analisi dei dati di bilancio, il price
to book value, l’impairment, la p/e ratio, la divinazione
delle curve flattening e steepening, dei cigni neri e delle
tempeste perfette, delle posizioni long e short in tutte le
loro possibili combinazioni erano funzioni che poteva
agevolmente svolgere una singola macchina, istruita a dovere.
Un supercomputer, capace non solo di interpretare i dati,
confrontandoli con una serie sterminata di casi simili ma
anche di anticipare gli eventi con un margine di errore
trascurabile. «L’idea al centro di tutto è che si possa
rappresentare la realtà usando una funzione matematica che
l’algoritmo ancora non conosce ma può intuire dopo aver
processato un certo numero di dati» scriveva la Two Beta sul
proprio sito internet, che Frigerio non smetteva di
perlustrare in lungo e in largo in cerca di risposte. Machine
learning: macchine che imparano a fare cose che prima facevano
gli umani e grazie alla capacità di digerire miliardi di dati
alla fine le riescono a fare anche meglio. Gregor Szymborski e
Robert Stielike, i due fondatori e direttori esecutivi della
Two Beta erano diventati miliardari così, grazie a una
funzione matematica prodigiosa, ormai conosciuta nel mondo
finanziario internazionale come “la formula magica”: una serie
di sgorbietti neri su un foglio di calcolo che i due, ora
trentenni, avevano iniziato a mettere insieme quando ancora
non gli cresceva barba a sufficienza per coprire le gote
devastate dall’acne. Negli ultimi anni avevano rilevato decine
di società di gestione in tutto il mondo a prezzi stracciati,
mandato a casa centinaia di analisti e broker e sgomberato
uffici su uffici che erano stati prontamente affittati o
venduti ad altre ditte. I computer liberati erano stati
regalati alle scuole con un atto di magnanimità debitamente
pubblicizzato all’interno del bilancio di sostenibilità della
Beta con la formula finance for education.
Alla fine serviva una sola macchina che usava un’estensione di
memoria virtuale pressoché inesauribile nella grande nuvola
informatica che avvolge l’universo. Luca Frigerio detestava la
Two Beta e odiava Szymborski e Stielike di un odio mortale. Si
sentiva solo, abbandonato da tutti. Aveva anche cercato di
mettere in mezzo gli odiati sindacati. Ma che ne sapevano loro
di intelligenza artificiale? Ormai erano buoni solo a
ingrassare le pensioni di chi ce l’aveva già fatta.
O a
nascondersi, come Frigerio, dal pensiero e dalla vita, in un
posto ancora al riparo dal mondo, dai broker e dalle holding,
dai supercomputer e dalla formula magica, ma certo non dai
cinesi che lo avevano rilevato: il glorioso Bar Lenotti.
Fotografie scelte digitando ‘Merkel Robot’ su Google immagini.
Calabria e Piccadilly | un
racconto di Franco Buffoni
Se Dario Fo, con il suo grammelot, porta alle estreme
conseguenze la riflessione sulla traduzione come sintesi
fonemica, il caso di Imma produce un risultato simile come
sintesi ontologica.
Imma nasce a Roma all’inizio degli anni settanta, figlia di
una coppia di immigrati calabresi, portinai (o come si dice a
Roma: portieri) in un grande stabile (a Roma si dice palazzo)
d’una zona alto borghese. Sprovvisti d’istruzione ma molto
volonterosi, i genitori di Imma sanno conquistarsi la stima
anche degli inquilini inglesi del terzo piano, una coppia
senza figli, lui direttore e lei insegnante nella scuola
inglese distante poche centinaia di metri.
Imma a tre anni si trova così iscritta a quella scuola,
dapprima imparando alla materna canzoncine e buone maniere,
poi come allieva della primaria, quindi delle medie e del
liceo fino alla maturità, che supera brillantemente. E sempre
frequentando anche la casa dei genitori inglesi “adottivi”.
Mentre ogni estate trascorre tre mesi in Calabria a Cirò da
nonna Immacolata e va al mare con gli zii.
Conobbi Imma quando si iscrisse al primo anno di università.
Mi si rivolse subito nel suo inglese perfetto,
dall’intonazione leggermente ironica (che mesi dopo ebbi modo
di riconoscere – identica – nella madre “adottiva”). Imma –
due grandi occhi neri ardenti, capelli fluenti corvini e
intercalari lievemente cockney nei momenti di pausa – era
talmente più “avanti” rispetto ai compagni di corso che subito
le affidai delle mansioni organizzative relative ai seminari.
Per qualche settimana non me ne resi conto: tutto cambiò la
mattina in cui entrai in aula prima del previsto. Imma era
seduta sulla cattedra a gambe divaricate e stava impartendo
ordini sguaiati in… italiano? No, non era italiano quel
miscuglio di calabro-romanesco che usciva dalla bocca di quel
tomboy… persino le sue labbra assumevano un disegno che non le
conoscevo. Come si accorse di me, si ricompose, le labbra
ridivennero quiete, l’inglese riprese il sopravvento e
l’intonazione tornò ad essere quella consueta, leggermente
ironica… Io restai impietrito. Dai colleghi poi seppi delle
difficoltà di Imma in storia e letteratura italiana, e degli
sforzi tremendi che doveva compiere per pronunciare la seconda
lingua straniera, il tedesco.
Passarono i semestri: Imma si era molto affezionata a me, e io
cercavo ogni occasione per farla parlare… in italiano.
Correggendole pronuncia e intonazione e dandole da leggere
romanzi italiani ben scritti, e poi chiedendole di
riassumerli, sia per iscritto sia oralmente. All’inizio fu un
vero disastro, ma Imma era (ed è) molto tenace e piano piano
imparò a cavarsela. Si laureò e poi si legò sentimentalmente e
andò a vivere con un’insegnante inglese della mitica scuola in
cui si era formata, e dove anche lei era stata assunta.
Una sera le due giovani signore mi invitarono a cena. Menù
vegano molto british, intonazione sobriamente ironica e
controllatissima in entrambe. “E in Calabria ci andate?”. “E i
tuoi genitori come hanno preso la vostra unione?”. Risposte
evasive, molto eleganti, leggermente prive di contenuto…
Il giorno dopo Imma mi telefona, ha bisogno di parlarmi. Viene
a casa mia. E finalmente si sfoga. Da donna intelligente quale
è, Imma si rende perfettamente conto dello stato di scissione
in cui vive. “Sugli stessi argomenti”, mi confessa, “io PENSO
in modo diverso a seconda che ne parli in italiano o in
inglese”.
“Non è una questione di traduzione o di lingua. Ma della
mentalità al cui interno mi sono formata”.
“Se avessi frequentato il liceo italiano, probabilmente sarei
riuscita ad amalgamare i due…”, si blocca, mi guarda con le
lacrime agli occhi, “i due cast of mind, quello dei miei
genitori e di nonna Immacolata da una parte (per me l’italiano
è quello) e quello inglese dall’altro. Così vivo con Jane e
con lei mi nutro vegana, insegno a scuola e andiamo in
Inghilterra dai suoi… Ma quando torno a Roma o addirittura in
Calabria, dopo due giorni a morseddhu e sagne chine, non
riuscirei mai a dire in italiano we’re a lesbian couple, e
Jane torna ad essere soltanto la mia amica”.
Da Il racconto dello sguardo acceso, Marcos Y Marcos, 2016.
Suona il piffero | spettacolo
di teatro nomade (Scena III)
– di Gunter Spiegelmann e
Federico Burattini
La carovana risale fra i vicoli, procede con l’andamento di
una comitiva confusa, divisa in gruppetti scomposti. La
Pifferaia è in testa al corteo. Al suo fianco c’è il custode.
Dietro, Alberto Andreina e Lori, che di tanto in tanto
gesticolano per indicare la strada verso l’appuntamento. I
musicisti continuano ininterrottamente a suonare.
Procedendo così, arrivano alla Scalinata del mattino, che si
apre dinnanzi a loro, un gradino e poi un l’altro e sulla cima
della salita, case bianche e rosate. È Andreina ad avvicinarsi
alla Pifferaia e a prenderla per un braccio. I musicisti
smettono di suonare e la musica si interrompe.
ANDREINA Ecco, siamo arrivati. C’è un uomo che vive qua, che
abita proprio in questo tratto di scalinata. Cammina su e giù,
percorre i gradini avanti e indietro, non si ferma mai, non si
allontana mai da qua, o almeno non l’hanno mai visto in altri
luoghi. Sale, scende, si siede sui gradini e guarda i passanti
abbacchiato. Oppure lo puoi trovare in piedi, che attacca
bottone con tutti. Di giorno è malinconico. Le parole gli
vengono lente alla bocca. Siede ai margini degli scalini.
Certe volte sta acquattato dietro ai cespugli…
ALBERTO (il pugile) Eh già, di giorno lui è piantato a terra e
guarda tutti imbambolato. Lo conosco anche io, ma chi non lo
conosce? È di sera, quando le ombre si allungano, e poi ancor
più di notte, che lui diventa tutto arzillo, scattante. Di
notte sta sempre in piedi, gli viene una di quelle parlantine…
LORI (La chiromante) Sì, sì, di notte torna in pace col mondo,
è aperto, spensierato, quasi ruggente. Pare che c’ha un
fuocherello che gli brucia dentro: te lo raccomando… Sembra
mezzo imbriaco, ha quell’estro lì, di chi è impregnato di
vino…
ALBERTO Però quando ti ci fermi a parlare, lui lo senti che è
sobrio, altroché. Anzi… è lucidissimo. Non è scomposto, non
sbaglia una virgola a dirla tutta. Anzi, quando parla fa di
ogni frase un piccolo mondo a sé, tira fuori immagini una
dietro l’altra, è un fiotto continuo, sembra che nella sua
mente ci sia una grande opera che si va costruendo, un pezzo
dopo l’altro. (La voce esce dalla bocca di Alberto in un
sibilo. Le sue parole sembrano impastate, i fonemi gli
fischiano fra i denti sbeccati, o tra i fori di quelli
mancanti. Alberto ha il labbro inferiore e anche quello
superiore conciati per le feste da brutte cicatrici, storte,
zigzaganti. Tutta la sua bocca di pugile è sformata come una
zampogna). Di notte lui non si ferma proprio un attimo, balla
quasi e sembra un diavolo. Uno di quegli sprevengoli, che
passano la loro vita a fare scherzi nei boschi. C’hai
presente?
PIFFERAIA E chi sarebbero, ora, questi sprevengoli? (Ride,
sghignazza in modo tale che anche lei sembra un folletto)
LORI Gli sprevengoli sono creature che vivono nel bosco,
gnomi, mostricciattoli, o come vuoi chiamarli. Passano la vita
dietro i tronchi degli alberi, a fare scherzi ai passanti.
NACONIANI:
– Ah cojo’. C’ave fato camina’ fino a qui pe’ senti’ le
sciapate degli sprevengoli?! E nananana
– Ma ve ande’ a fadantelculo voi, e quest’altro imbriagò che
vive qua, ’nte la grepia, fra j scalini, che quandu te
discore, nun ce se capisce ’na mazza…
– E andé a fadiga’, tutti quanti…
IL CUSTODE (Senza scomporsi, rivolto alla Pifferaia con tono
affabile, paterno) Gli sprevengoli, ammesso che esistano, ma
c’è chi dice di averli visti davvero nel fitto del fogliame,
vivono lontano da qua, e forse anche lontano dal tempo. Dal
tempo come la maggior parte della gente lo intente… (E rivolto
al trio) Raccontate, senza divagare, di questo uomo che va su
e giù per le scale, notte e giorno. Io lo conosco bene, ché di
notte mi ci fermo a parlare. Ma di giorno non lo disturbo,
perché mi sembra immerso nelle sue fantasticherie, e non è di
quelli che vogliono essere disturbati…
ALBERTO: E di giorno è pallido, sembra sepolto sotto le sue
occhiaie, sembra. Sembra schiacciato da un’incudine infinita,
che gli è caduta in testa dal cielo.
LORI: E di notte, invece, ha una luce addosso. Come se avesse
bevuto argento vivo. Lo vedi da lontano, la sua pelle irraggia
chiarore, sembra un satellite, sembra il neon lampeggiante di
qualche locale! (Scoppia a ridere da sola)
PIFFERAIA Ma ha un nome questo uomo di cui mi parlate? Chi è?
State andando avanti ormai da un pezzo, e io non ho capito di
chi parlate.
BEBO Si chiama l’Operaio!!!
Al suono del suo nome, tutti i Naconiani scoppiano a ridere.
Ecco che fra lo scroscio delle risate, l’Operaio entra in
scena. Si manifesta sbucando da dietro un cespuglio e scende,
ciondolando, le scale. Si notano subito i suoi gesti attoniti,
di chi pensa perennemente ad altro eppure deve essere presente
ai suoi prossimi. Si capisce che il mondo attorno gli pesa
come un’incombenza, come una pratica da smaltire di
malavoglia. Ma il suo vestiario è del tutto incongruente ai
suoi modi trasognati e tristi. Calza, fin sopra le
sopracciglia, un berretto di lana attillato. Il busto, goffo e
curvo, è fasciato da un piumino bianco fiammante. Pantaloni
extra slim gli stringono le gambette, ha il cavallo calato e
dal suo posteriore occhieggiano abbondantemente dei box neri.
Il suo abbigliamento aderisce a un codice modaiolo di massa.
Al suo apparire, i Naconiani si coagulano compatti in un
angolo della
piazza, ammutoliti. Proprio quelli che hanno
bocca e mento imbrattati di nero di seppia sembrano i più
intimoriti dalla diurna apparizione del loro concittadino.
OPERAIO (il suo eloquio è ben modulato, scandisce ogni parola
e ogni frase con la sicurezza di chi è allenato a parlare a
braccio, davanti a ogni tipo di platea, anche mezzora, senza
deferenza o fretta di concludere i propri concetti. Eppure le
immagini che evoca sono invero sconclusionate, vagamente
oniriche. Sembrerebbero, alle orecchie degli assennati, prive
di un reale messaggio). Potessi tornare indietro, non farei
tutti quegli errori. Non giocherei col tempo, non aspetterei
che le cose si compiano da sole, confidando nelle mie idee e
nella realtà esterna. Ora che ho cambiato così tanti
calendari, e che da allora è successo ben poco, mi trovo
rinchiuso in un piccolo spazio, che è diventato la mia patria.
In questo limbo dove l’entrata e l’uscita si sono fatte
lontane e nascoste, io ho perso anche il ricordo della loro
esistenza.
PIFFERAIA Dunque, sei tu l’Operaio? Mi hanno detto che volevi
conoscermi…
ALBERTO Sì, è lui, è lui che, mentre tutti e tre
bighellonavamo qui sotto, è spuntato da dietro un cespuglio e
con un gesto ci ha chiamati a sé e ci ha chiesto di portarti
da lui…
PIFFERAIA E perché? (rivolta all’Operaio)
OPERAIO Perché qua nella città vecchia le voci corrono. Tutti
già dicono che sei strana. Che racconti di naufragi in mezzo
al mare, di isole e di sirene, e di accoppiamenti fra le onde
del mare. Ti confidi anche con gli sconosciuti, con chi hai
incontrato per la prima volta. Questo lo fanno solo i
disperati, i più incendiati di tutti. Io li conosco, ai
Naconiani: non sono persone a cui viene facile confidare i
loro segreti. Ti guardano e ti compatiscono e poi quando ti
volti, scoppiano a ridere e lo fanno con un tempismo perfetto,
affinché si riesca a carpire con le proprie orecchie l’ultimo
eco delle loro risate, proprio mentre stai per girare l’angolo
e, un altro passo ancora, non li sentiresti più…
PIFFERAIA Oh, per me è naturale parlare con tutti. La mia casa
e le mie stanze sono popolate di strane creature mascherate, a
volte di fantasmi…
che volete farci? Ma non è questo il
punto: io sono arrivata qua per adempiere a una specie di
missione, per liberare la città da un’antica pestilenza…
OPERAIO Ecco, i fantasmi, anche le stanze del mio palazzo ne
sono popolate, sai? Mi tornano a trovare ad ogni passo che
faccio; nella luce del giorno, che non tollero più, mi
guardano affacciati dalle loro finestre.
PIFFERAIA Per questo sei così pallido? Mi hanno detto che tu
di notte parli con tutti, che anzi riesci a richiamare a te le
persone, ad intrattenerle coi tuoi discorsi, persino ad
incantarle. Insomma accendi negli altri la curiosità.
OPERAIO Sì, di notte si spegne tutto, allora io torno a
sognare. Ma il mio lavoro si svolge di giorno. Di notte
domando, racconto, ascolto gli altri, mi mescolo ai ricordi,
agli scherzi di chi si affaccia su questi scalini, e le ore
scorrono veloci prima che torni la luce. Poi nella luce io
vivo e lavoro: è lì, sotto al sole, che io sono intrappolato
nel mettere le cose in fila, una dietro l’altra, identiche.
NACONIANO (Si alza la voce di un Naconiano, mescolato alla
folta nutria) Oohhhhh, oh imbriagò….. ma che cazzo stai a di’,
ma se nun hai mai fadigato in vita tua, ma vattafadantelculo,
va!!! (E giù risate)
CUSTODE (Si gira, adirato, verso i Naconiani) Voi vi ricordate
solo ciò che è brutto e sgradevole, tutto il resto preferite
dimenticarlo, lo buttate via dopo averlo consumato. Avete la
memoria corta, pronta a svaporare nel rancore che vi affumica
il cuore e la testa. Non ricordate nulla di quest’uomo, eppure
egli è attaccato alla vostra pelle, come lo sono i peli della
barba alla mia faccia. (Il custode si passa la mano sulle
guance, grattandosi con le dita uncinate).
NACONIANI (Restano a guardare il custode imbambolati, stupiti,
esterrefatti. Qualcuno si stringe nelle spalle, altri fanno
piccoli bronci sarcastici. Un paio di loro, imbrattati di nero
di seppia, esplodono in risate pastose di raucedine e poi
urlano) Ahahah, è deje ’na sigaretta a ’sto scemo! Sci, oh, è
arivato el profeta de sto pezzo de budello. Ohhhhh, oh scemo.
Il Custode non batte ciglio, poi si gira e in un inchino
teatrale mostra ai Naconiani le natiche. I Naconiani si
tacciono, coi loro volti sospesi fra il sarcasmo e la
confusione.
CUSTODE Il passato mi sta attaccato al corpo, è un arto
mummificato che mi penzola dietro come una coda. Lo guardo e
ha tutte le fattezze dell’incubo. Già, perché gli incubi, i
sogni, se ne stanno confinati dietro gli occhi mentre
dormiamo. Non valicano quella frontiera. E quando solleviamo
le palpebre, nel dormiveglia, escono, se ne vanno via, poi
come vapore si attaccano alle cose, agli oggetti che piano
piano riconosciamo intorno a noi, sgusciando dal sonno. Ma il
mio incubo non svapora, quando sollevo le palpebre non si
appiccica al presente della vita. Il mio incubo continua a
vivere di vita propria anche nel giorno.
PIFFERAIA I tuoi fantasmi sono i fantasmi di tutti, che credi?
Anche io ho paura dei miei, mi vengono a trovare spesso di
notte, quando resto sola nella mia casa di Atene, e penso a
quello che è stato e che non tornerà, e vorrei girare le
lancette del tempo all’indietro. Certe volte però, mentre
ballo, mi pare possibile farlo, mi pare possibile correre a
ritroso nel tempo, tornare, anche solo per un attimo, dove
sono già stata…
OPERAIO Io sono condannato a stare fermo tutto il giorno, vedo
apparire davanti a me cose che non riesco a toccare. Seduto su
questi scalini, non posso che rincorrere il mondo con le dita.
Tutto mi passa davanti, mi arriva in forma già elaborata e io
devo solo riversarlo altrove. Quando nessuno mi vede, con le
dita tambureggio sulle mie ginocchia come pigiassi i bottoni
di una tastiera. Davanti a me vedo uno schermo immenso, grande
come il cielo, e io batto sulle mie ginocchia, con le dita,
aspettando che appaia quello che ho perso.
PIFFERAIA Cosa hai perso? Vuoi parlare con me, anche se ancora
non è notte?
OPERAIO Parlo del lavoro, è quello ciò che ho perso, che non
riesco più a tenere stretto fra le mie mani. Mi sfugge via, è
lontano, è oltre una lastra di vetro… è sotto una superficie
trasparente, che non è nemmeno più acqua… non lo afferro e se
non lo afferro, non tengo in mano più nulla. Negli anni ho
finito pure per smarrire il mio corpo, ho perso la possibilità
di amare gli umani…
PIFFERAIA Cioè? Spiegati meglio
NACONIANI (La massa dei Naconiani è annoiata. Siedono per
terra, sbuffano. Se ne stanno chiusi in piccoli cerchi e non
comunicano fra loro. Nessuno presta più attenzione alle parole
dell’operaio. Solo in pochi fra loro, oltre Bebo e Gaia, sono
rimasti in piedi e ascoltano quel che l’Operaio ha da dire.
Qualcuno grida) E tira via, oh sarnagioto, che ce semi rotti i
cojoini… parli parli parli ma nun sei bono a fate capi’… Dici
solo un sacco de cazate, anche se te piace de parla guzo…
guarda che nialtri nun ce cojoni, sa’…
OPERAIO (si aggiusta la sua berretta in testa, e inizia a
raccontare, prima prima piano, mangiandosi le parole. Poi via
via che si addentra nei suoi ricordi, la voce gli si fa meno
singhiozzante, più sicura) Tutto era diverso. Allora eravamo
un popolo e io ne facevo parte. Passavamo le giornate stretti
alle banchine del porto; iniziavamo all’alba, incurvavamo
lamine di ferro, le plasmavano tra fontane di scintille che
colavano attorno a noi. I padroni stavano a guardarci, coi
vestiti inamidati, i volti annoiati e i capelli impomatati. Le
loro navi nel porto crescevano a dismisura, salivano un pezzo
dopo l’altro, le loro spigolature si curvavano in sogni che
attendevano di solcare la liquidità dei mari. Loro, i padroni,
ci guardavano con occhi severi e pretendevano una velocità
crescente nelle nostre azioni lavorative. Noi strisciavamo
come topi nel ventre delle grandi imbarcazioni, d’estate
l’acciaio si faceva arroventato, d’inverno ci inghiottiva nel
buio e nell’umido salato fra giunture, saldature, passaggi che
plasmavamo coi nostri attrezzi. Era proprio lì dentro, nel
buio, che ognuno di noi sognava in cuor suo. Sognava di
conquistare tesori lontani, toccarli, mangiarli. Credevamo che
quel mondo fosse semplicemente oltre l’orizzonte, oltre il
mare che non se la smetteva mai di sbattere con le sue onde
sulla pietra delle banchine. Io venivo da un quartiere sulla
collina sopra il porto che oggi non esiste più, lo hanno
ridotto in polvere le bombe. Ma allora era un intestino di
vicoli, di stradine che si attorcigliavano. C’era mia moglie,
sempre in piedi sull’uscio della porta, col suo corpo tozzo
occupava già tutto il vicolo, aveva gambe gonfie di elefante
sotto la gonna ruvida. E quando arrivava la sera e poi la
notte il buio era totale e dentro si sentivano solo i vagiti
dei bambini, o il rantolare di qualche ubriaco, o scoppi di
risate rauche. Io nella mia stanza dormivo in un materasso
buttato per terra e fuori dalla finestra si allungavano vicoli
e vicoli. Tetti e porte e pareti e passi della gente e donne
con la pelle scurita dal lavoro e dal carbone per scaldare le
case mi sfilavano davanti nei sogni e me li ritrovavo innanzi
anche la mattina, mentre scendevo a valle verso il porto, una
scalinata dopo l’altra, uno spigolo dopo l’altro, mentre
andavo a costruire le navi. E così ogni giorno, identico
all’altro. Poi una mattina ci dissero, i padroni, che dovevamo
fare la nave più grande di tutti. Era arrivata una commessa,
da non si sa dove, forse dall’America. E allora iniziammo a
costruirla, con la solita foga, anzi forse ancora di più,
perché mentre la vedevamo formarsi sotto le nostre mani, ci
appariva più grande di tutte, sembrava una creatura pronta ad
accogliere ognuno di noi, che nasceva dalla forza sapiente
delle nostre braccia. Volevamo che avesse un ventre bombato e
accogliente, e allora stavamo curvi per ore a levigarne
l’acciaio, senza badare alle scintille che ci bruciavano la
barba e le ciglia. Fu così che, mentre sotto le mani la nave
si faceva sempre più presente e potente, iniziammo a pensare
che quella era la nave che ci avrebbe portato verso il tesoro,
oltre la linea del mare.
CUSTODE (scoppia a ridere, battendosi le mani sulle ginocchia.
Scuote la testa e ride, d’una risata sguaiata) Ahahahahah
quante volte l’ho sentita questa: la nave con cui andare via,
qua sognano tutti di andare via, lo ripetono tutti, dalla
mattina alla sera. È come se a dirlo e a ripeterlo, a
cantarselo e a salmodiarselo, ognuno raccogliesse le forze per
restare ben piantato al suo posto, in questa città.
I Naconiani intanto si sono fatti attenti alle parole
dell’Operaio, stanno tutti ritti in piedi e lo guardano con un
interesse vivo e nuovo. Anzi, alle parole del Custode,
esplodono in una serie d’improperi.
NACONIANI E sta un po’ zito, rompi cojoni, che questa de la
nave io ce la so.
– Scì sci, l’ho sentita anche io questa de la nave bela e
grosa che nun finiva mai, ’n do ce lavoravane tutti. Sci sci,
me la ricorderò!
– Mi padre quand’erimi fioli, me portava a vedela.
– Ma che cazo stai a di’? Non senti che questo sta a parla’ de
’na roba sucesa n’bel po’ de ani fa.
– Boh, a me me pare ieri, de sta nave…
– Faceva sta be’ ’n’ bel po’. Era bela, ce consumavi j ochi a
rimiralla.
– Se incastunava ’n’ tei colori la natura, che pareva ’na
meravijia.
– C’ha lavorato pure qualcuno de la famija mia, cel ricordami
tuti quanti..
CUSTODE (rivolto alla Pifferaia) Li senti, vero? Quando
ricordano, si sentono di nuovo partecipi. Superano le
divisioni, quel loro incallito frazionarsi per piccoli gruppi
e gruppetti. Il ricordo, quello condiviso, quello collettivo,
è la formula magica che li tiene insieme. Deragliano
all’indietro, verso mondi privi di logica. Si emozionano e si
compattano e tornano ad essere tutt’uno col mondo.
LA PIFFERAIA non dice nulla, ma ascolta e guarda i Naconiani,
che ora stanno tutti ad osservare l’Operaio con occhi grandi
come la luna.
L’OPERAIO (riprende il suo racconto) Sì, insomma, voi, noi,
coi vostri padri, coi vostri zii, con quelli che c’erano e che
ancora ricordo per nome, noi tutti decidemmo di prenderci
quella grande nave, per arrivare dall’altra parte del mare,
verso l’Oriente. Perché eravamo in tanti a dire ormai che
dall’altra parte del mare qualcosa era cambiato, che i tesori
che cercavamo lì avevano preso forma. E così in una mattina di
lavoro, sulle banchine, dinnanzi al mare, decidemmo che quella
stessa nave su cui eravamo curvi a lavorare doveva essere la
nostra. Era carne della nostra carne, ci era sempre
appartenuta, tutta intera, nella materia che la formava, nel
suo profilo slanciato e gigantesco. Non so chi fu il primo a
dirlo, a pronunciare queste parole, ma tutti decidemmo che
prenderla e lanciarla verso le onde era un’azione iscritta nel
vero ordine delle cose, in quello stesso ordine che di là dal
mare gli uomini dagli occhi affusolati stavano portando alla
luce per i loro fratelli. Perché nel funzionamento degli
ingranaggi della nostra mente, nell’implacabile azionarsi di
leve incardinate nella nostra materia, la nave sarebbe venuta
semplicemente a noi, doveva penetrare in noi come noi
entravamo nelle sue viscere per darle forma. Fu così che una
notte di festa, dopo che avevamo cantato e dato fondo a
qualche botte di vino, scendemmo dai nostri vicoli
attorcigliati e impregnati di odori, entrammo nel porto,
trascinammo con noi la guardia che voleva fermarci, che non
voleva partecipare alla nostra rinascita, e la buttammo fra le
onde nere e gelide. Poi entrammo tutti nella nave. Volevamo
partire, subito, verso l’Oriente, appena il sole fosse sorto
all’alba, anche se sapevamo che la nave non era ancora finita.
Era incompleta, mancavano pezzi, catramature, bulloni,
rifiniture. Sapevamo che aveva buchi e in qualche zona
assomigliava ancora a un corpo che va formandosi nel ventre
materno, e ha arti ancora germinali, incompleti. Ma non
volevamo ascoltare, non c’era più tempo di attendere, di tempo
ce ne eravamo già dati un’eternità, ed era così bella e forte
la creatura su cui camminavamo, dentro cui facevamo festa, che
amplificava fra le sue volute le nostre urla di gioia. Ci
dicevamo che ormai tutto era fatto, tutto era pronto, con un
piccolo sforzo il giorno dopo, terminata la festa, l’avremmo
finita, avremmo completato le ultime saldature, finito di
armarla e di stringerne gli ultimi bulloni. E poi l’avremmo
fatta partire, sospinta nelle acque spumose. Nel mattino, con
la luce che fora l’orizzonte, saremmo riusciti a prendere il
largo. Così ci ripetevamo mentre ci addormentammo, stanchi,
sfiniti, con in bocca il sapore dell’amore, della pelle, delle
gole dissetate dal vino. Non aveva ancora un nome la nostra
nave, ma la chiamammo Notte, perché nella notte era diventata
veramente nostra.
Il nostro sonno sembrò durare pochi istanti, il tempo di
battere le palpebre e la notte svanì. La luce si espanse nel
cielo riportando in superficie la visione degli oggetti e dei
colori del mare, e della città coi suoi tetti attorno a noi.
Al risveglio Notte era ancora lì, imponente nel suo sogno
metallico. Qualcuno si affacciò dal ponte. Fu un attimo, e
iniziarono le urla, le imprecazioni e le bestemmie nell’alba,
che svegliarono gli ultimi di noi immersi nel dolce sonno.
C’era l’esercito schierato attorno allo scafo di Notte, con
tutte le divise e i fucili spianati, e i militari ci
guardavano increduli eppure severi ed erano pronti a sparare,
ad ucciderci. Allora io stesso mi alzai in piedi, la testa mi
pesava, non riuscivo a guardarmi le punte delle scarpe che mi
veniva da sprofondare per terra, ma urlai con tutta la
disperazione che avevo in gola. Dissi che era ora di partire,
ordinai di sciogliere gli ormeggi e di mettere Notte in mare,
di varala. L’esercito si stringeva a noi, le truppe si
serravano attorno allo scafo, i militari ci guardavano con
occhi di chi ormai sta prendendo le misure per ucciderti.
Iniziammo a far scivolare Notte sulle assi sopra cui era
posata in secca. Lo facemmo segando ogni laccio che la teneva
inchiodata a terra, e la nave iniziò a scivolare verso
l’acqua, sfondò il cordone schierato dei militari, Notte entrò
dentro le onde con un grande fragore di acque che esplodono
sotto il suo peso. La città era alle nostre spalle oramai, coi
suoi tetti affastellati, i suoi comignoli che si scioglievano
nella luce dell’alba, la sagoma rugosa del suo volto dove
avevamo lasciato le nostre esistenze. Mentre Notte
beccheggiava e rollava per bilanciare la sua stazza nella
massa dell’acqua, e mentre i militari e i comandanti, che
urlavano come belve, erano sempre più piccoli alle nostre
spalle, sulle banchine, per un attimo ci tendemmo tutti verso
l’Oriente, verso quel mondo dove gli slavi dalle fronti larghe
e gli occhi affusolati di gatto stavano costruendo nuovi
orizzonti. Sentimmo il vento oltre le nuvole baciarci il
volto, fu un soffio, un piccolo istante, poi ci sentimmo
risucchiati sul fondo. Fra le giunture di metallo non ancora
saldate penetrava l’acqua col suo sibilo isterico. Stavamo
partendo senza che il nostro scafo fosse pronto ad affrontare
la liquidità dei mari, e così Notte inizio ad affondare, una
spanna dopo l’altra, ad una velocità inesorabile, senza che
avessimo tempo di scuoterci, anche se poi noi non volevamo
davvero scuoterci dai nostri desideri, dai nostri sogni.
L’orizzonte si chiudeva in un cerchio sempre più stretto che
ci si strinse attorno alla gola fino a penetrarci nei polmoni.
Fu così che morimmo tutti, tutti quanti, proprio tutti,
ingoiati dal mare.
I Naconiani scoppiano a
contorcono in singhiozzi.
sofferenza. Le urla e le
seppia lungo il mento e sul
piangere. Ululano di dolore, si
I loro visi si pietrificano dalla
lacrime fanno colare il nero di
collo.
NACONIANI Ieso, ieso, cusa m’arcordo, è morti pure i parenti
mia, là n’tel mare
– E pure queli de la famija mia, semi andati giù tuti, erimi i
parenti de mama mia…
– Fatigami tutti là ’nte ’l porto. C’è cascata ’nte la testa
’na sasata, per quela cazata
– ’Nte la famija mia c’è un bugo d’orfani. Chi duveva alungà
da magna’ e da beve ai noni miei, quan’erane piculini, è
andato giù in fondo e c’è rmasto a fase spapolà da le onde
– Dopo qu’la facenda ce semi rtrovati de note, da soli,
fracidi a guardà il mare, che s’era fato sempre più grigio e
c’ha magnati a tuti quanti.
– Semi rimasti tuti quanti spersi.
OPERAIO Anche io quel giorno sono morto, sono scivolato in un
liquame melmoso dove è marcita la mia vecchia forma di uomo
venuto su fra i vicoli e le faville dell’acciaio. Sono stato
mangiato dai pesci. Incapace di amare, livellato sul fondale.
Ora esisto solo di giorno, inseguendo forme di lavoro che non
riesco a comprendere più. Ogni notte torno a vivere nell’ombra
di quell’ebrezza che provai proprio quella notte, prima di
affondare. Ma la notte è solo un sogno. Il giorno mi scorre
davanti e io non lo posso afferrare, io come tutti gli altri
che vivono nel mio stesso baluginare, nello stesso sfarfallio
di luci al neon che mi vibrano davanti agli occhi.
Poi l’Operaio si alza e si va ad inabissare nel cespuglio ai
margini della scalinata. Il corteo si rimette in movimento,
mentre i pianti e gli ululati dei Naconiani non si placano.
“Viandanza” di Luigi Nacci,
educazione sentimentale per
camminanti | Fabio Orecchini
PROLOGO
lì dove hanno origine le domande
Ti ricordi quando ci siamo incontrati? Era pieno giorno, era
uno sterrato poco fuori città, ci siamo incrociati senza dire
nulla, senza salutarci, tu lasciavi la città, io vi tornavo.
Avevi il passo incerto di chi si appresta a lasciare ogni
cosa, il passo della paura. Non ti voltavi indietro perché, se
lo avessi fatto, la terra si sarebbe aperta sotto i tuoi
piedi, saresti caduto, la terra si sarebbe richiusa. Non
ricordi? Era piena notte, era piena pioggia, e tu camminavi su
e giù per quella strada poco illuminata, ti lasciavi bagnare,
eri tutto raccolto in te, nelle tue spalle, le mani nelle
tasche e il volto tirato, la pioggia ti batteva con insistenza
e tu la lasciavi battere, camminavi come se non ci fosse
alternativa al camminare, come se riuscissi a ricordare di
nuovo, ma ricordare che cosa poi, con il sorriso di chi sta
riportando a sé suoni lontani, vite che si pensavano perdute e
che ad un tratto si salvano. Avevi il passo della nostalgia,
vero?
E mi ricordo anche di quella mattina, c’era ancora la nebbia
che preserva i profili delle cose, non c’era nessuno in piazza
a parte te, sulla panchina più defilata, in attesa di una
partenza. Sei poi partito? Sei riuscito ad uscire incolume da
quella sosta? Dalle soste non sempre si esce, a volte vi si
rimane prigionieri, e dopo un certo tempo si sparisce. Ci sono
molti modi di essere immobili, a seconda che il viaggio che si
sta per intraprendere sia lungo o breve, che si sia diretti a
est o ovest, o che sia un viaggio da cui si pensa di non fare
ritorno. Tu eri immobile con la postura di chi non sa dove sia
diretto e per quanto tempo, ma è consapevole di dover partire
da solo. Quanta risolutezza c’era in te? Quanto terrore?
Quanta speranza? Mi ricordo anche della sera in cui ti vidi
chinato su una fontana, intento a bere come se non avessi
bevuto per giorni, con il tuo zaino buttato a terra, segno che
te l’eri tolto frettolosamente, che il desiderio di bere aveva
trionfato. Quanto avevi camminato? E quanto era buona
quell’acqua? Era appagamento, o era anche pienezza, qualcosa
che si avvicina alla rotondità della gioia?
Tu hai camminato. Hai accettato il rischio. Hai lasciato alle
spalle quella che chiamavi casa, hai preso commiato dagli
amici, o forse è stato solo un cenno di saluto, e
repentinamente hai sentito di essere entrato nel viaggio.
Entrandoci, il tuo corpo è mutato, o ha iniziato a mutare, che
in fondo è la stessa cosa. Quando Darwin tornò da uno dei suoi
viaggi, la prima cosa che notò suo padre è che la sua testa
aveva un’altra forma. Probabilmente la testa aveva iniziato la
mutazione dopo che egli si era separato da suo padre, o ancora
prima, nel momento in cui aveva iniziato a preparare i
bagagli. Ma accade solo alla testa? O è una metamorfosi che
investe anche le braccia, il naso, le gambe, il modo in cui
ridi, stringi la mano, in cui apri la mano, la agiti per dire
arrivederci a quelli che sono venuti alla banchina del treno?
Nel viaggio tutto cambia, e nel cammino, che è il viaggio
all’ennesima potenza, tutto cambia all’ennesima potenza. Con
te, cambiano all’ennesima potenza i tuoi sentimenti e le tue
sensazioni. Si potenziano e si rimescolano, al punto che
distinguere l’uno dall’altra risulta difficilissimo. Era
disperazione, quella che provavi scendendo da quel monte,
nella bufera, o era eccitazione?
Non esiste, e lo sai, perché lo hai provato, il cammino della
gioia o il cammino del dolore o il cammino della malinconia,
dell’apoteosi o della disperazione, dell’agonia, della
leggerezza. Nel cammino c’è tutto. Ma è pur vero che in ogni
situazione della vita un sentimento prevale sugli altri. Ecco,
questo libro tratterà di quei sentimenti, quelle immagini,
quei rumori di fondo che si fanno prevalenti durante il
cammino. Sullo sfondo troverai i paesaggi che incastonano le
strade verso Santiago de Compostela e verso Roma. Se ne
sarebbero potute scegliere altre, meno conosciute, più
originali? Meno conosciute sì, più originali no. Larga parte
delle strade che percorriamo oggi in Europa, infatti, o sono
romane o appartenenti al sistema viario che, dal Medioevo,
unisce Santiago a Gerusalemme passando per Roma. Basta la
toponomastica a confermarcelo. Si può essere originali
dimenticandosi delle proprie origini? Sono vie che, se
sappiamo ascoltare, ci parlano, ci raccontano quello che siamo
stati e come potremmo essere. Sono parte integrante del nostro
immaginario occidentale. La famosa affermazione di Goethe, «la
coscienza europea è nata pellegrinando», non è una boutade o
una frase di poco conto. Quando l’Europa l’abbiamo solcata con
i piedi, in un tempo in cui imperversavano le guerre e le
frontiere erano invalicabili, siamo stati probabilmente più
europei rispetto a questi anni in cui la visitiamo con le
macchine, con gli aerei e con i treni ad alta velocità.
Sono vie che ci interrogano e che si fanno interrogare. Perché
mettersi in cammino? Che cosa cerco? Che cosa mi aspetto di
trovare? Perché il cammino e non qualsiasi altra cosa? Questi
e altri punti interrogativi ti resteranno tra le mani, e le
mani ti scotteranno, li scaraventerai al suolo per non
ustionarti, ma prima o poi attecchiranno come semi, e con la
buona stagione piante rigogliose si svilupperanno verso il
cielo, saranno alberi monumentali, con un’aspettativa di vita
molto più lunga della tua. Ti capiterà, un giorno, andando per
i campi, di incappare in un bosco di cui le mappe non danno
conto. Ci saranno sequoie laddove non potrebbero esserci, o
querce, o pini, alberi molto alti ai cui piedi, nelle ore
centrali del giorno, ti siederai per godere dell’ombra. Allora
le domande di cui credevi di esserti sbarazzato squarceranno
la corteccia dall’interno, inizieranno a colarti addosso, come
filamenti di resina. Prenderai la borraccia, ti butterai
l’acqua in testa, farai di tutto per toglierti quella sostanza
vischiosa di dosso. Ma la resina non se ne andrà.
——————Viandanza. Il cammino come educazione sentimentale, Luigi
Nacci, Editore Laterza, 2016
– Il blog dell’autore (con il calendario delle
presentazioni):
– La pagina facebook del libro
– Scheda editoriale
L’amico di Mauro | Estratto
dal romanzo in stesura di
Giuseppe Merico
UNA SPIEGAZIONE
Il romanzo si compone di tre momenti diversi che si alternano
tra loro, la storia si svolge in Puglia negli anni ottanta tra
la provincia di Brindisi e quella di Lecce, un primo momento
vede un ragazzo di tredici anni di nome Pietro Manni che una
mattina assiste al tentato suicidio del suo miglior amico che
si chiama Mauro Nitti, il quale decide di lanciarsi dalla
finestra della scuola per poi finire in coma, a seguito
dell’evento Pietro presenta disturbi psicologici, per questi è
seguito da un terapeuta che lui chiama Cappotto, soffre anche
di crisi epilettiche. Il secondo momento ci mostra l’amicizia
tra il fratello più piccolo di Mauro Nitti, Darietto e un
vecchio camionista che si chiama Bill Dal Monte, il vecchio è
alle dipendenze di un malvivente del posto, l’Ingegnere, il
quale gli chiede di aiutarlo a nascondere e sorvegliare in una
masseria della zona un narcotrafficante che opera nel milanese
che si fa chiamare Teschio. A seguito della richiesta, Bill
Dal Monte chiede consiglio alla vecchia Lù, un’anziana donna
che ha il dono di prevedere gli eventi. Nel terzo momento c’è
il legame tra Pietro Manni e Mauro Nitti, i due trascorrono le
giornate in una fabbrica di pomodori dismessa, ma si accorgono
di non essere i soli a frequentare il posto, qualcuno sa di
loro, qualcuno li spia.
DUE PARTI
Questo estratto è diviso in due parti, presentate qui come
sono nel romanzo, una di seguito all’altra, nella prima gli
eventi si svolgono al presente, Pietro Manni si trova in
ospedale a seguito di una forte crisi epilettica, il suo amico
Mauro Nitti è ricoverato nello stesso ospedale in stato
comatoso. La seconda ci parla dal passato, Darietto, il
fratello di Mauro si trova in casa di Bill Dal Monte assieme
al nano per sottoporsi a un’indicazione che Bill Dal Monte ha
ricevuto dalla vecchia Lù, un’anziana donna che ha il dono di
prevedere gli eventi. Nel terzo momento c’è il legame tra
Pietro Manni e Mauro Nitti, i due trascorrono le giornate in
una fabbrica di pomodori dismessa, ma si accorgono di non
essere i soli a frequentare il posto, qualcuno sa di loro,
qualcuno li spia.
Durante la visita del mattino il dottore, che fa Isceri di
cognome, come la mamma, anche se non è un suo parente, un uomo
basso e grasso dell’età di papà, con una grossa voglia più
chiara della pelle della sua faccia che gli parte dal collo e
gli finisce sotto l’orecchio destro mi ha detto, “stai quasi
per essere liberato da Guantanamo,” si è guardato intorno per
raccogliere il consenso dei suoi assistenti e ha continuato,
“puoi andartene in giro liberamente e cercare qualche bella
paziente della tua età.” I suoi assistenti hanno sorriso,
anch’io ho sorriso. Ho pensato che sarei tornato a far visita
a Mauro Nitti. Eppure quando me lo avevano chiesto loro, mia
madre, mio padre e anche Clara mi era venuto più che naturale
rispondere di no, che non sarei tornato lassù, all’ultimo
piano dell’ospedale, nel reparto speciale dai vetri offuscati,
dai muri verdi, dove Mauro dorme sul materasso ad aria, con le
ossa rotte, con il tubo nel naso, con la pelle bianca come
carta, attaccato alle macchine, dove è rimasto sospeso nel
salto, nell’aria del mattino estivo e azzurro che si è
lacerata, offesa, che è rimasta immedicata, senza che io lo
guardassi, svegliandomi la notte durante un sonno agitato
dalle grida delle mie compagne di classe nella testa, la
finestra della classe rimasta aperta. Tutto andrà per il
meglio, domani o dopodomani mi manderanno a casa, il mio
compagno di stanza, Carmine Esposito è uscito questa mattina,
mi ha regalato un libro sul Napoli Calcio, non so che farmene.
Mi prenderanno con la macchina e ci trasferiremo nella casa
del paese di mare, le lunghe passeggiate sulla riva al mattino
presto quando sulla spiaggia ci sono solo i vecchi o le madri
con i bambini piccoli faranno bene a mia madre, l’aiuteranno a
stemperarsi, anche con Clara non va molto bene, non si
parlano, per via di Lorenzo Centonze, mi ha detto mio padre
che l’altra sera c’è stata l’ennesima discussione, alla fine
mia sorella ha telefonato a Lorenzo e gli ha detto di venire a
casa, quando è arrivato non è entrato, mia madre è rimasta
dietro la finestra a guardarli che parlavano nel buio, quando
lui l’ha chiamata e le ha detto di togliersi da lì che forse
stava esagerando, lei non si è girata a guardarlo e nemmeno
gli ha risposto.
Due suore vestite di bianco camminano una di fianco all’altra,
la luce forte che entra dai finestroni che stanno a lato del
lungo corridoio le rende immateriali, le sospende a qualche
centimetro dal pavimento, come se mi venissero incontro senza
muovere i piedi, scivolando silenziose, in questo corridoio
dell’ospedale un po’ in discesa non c’è nessun altro, quando i
miei occhi incrociano i loro mi sento trafitto, faccio un
colpo di tosse per buttare fuori qualsiasi cosa abbia
percepito in quello sguardo, una volta che sono passate le
sento ridere di me, di quello che sto per fare. Un portantino
con uno stupido e piccolo berretto sottile e bianco calcato
sulla testa spinge a fatica una carrozzina sulla quale è
seduta una donna enorme con una faccia che trabocca, a
traboccare non è solo la sua faccia ma anche i fianchi che
sono incastrati ai lati della sedia e impediscono alle grosse
ruote di muoversi liberamente, tra le labbra del portantino
c’è una sigaretta spenta, mezza fumata, con la testa nera, gli
occhi della donna somigliano a quelli di un pesce spiaggiato,
nel suo naso sono infilati due tubicini di plastica
trasparente che la collegano a una piccola bombola
dell’ossigeno appesa a un bracciolo della sedia, una volta che
sono passati sento che la donna enorme pronuncia il mio nome,
Pietro, con una voce bassa e soffocata, mi volto, il
portantino continua a spingere come se nulla fosse, li guardo
allontanarsi, non è vero mi dico, mi sono sbagliato, mi volto,
continuo a camminare, il corridoio è finito, oltre la porta a
vetri c’è l’atrio del Pronto Soccorso, da lì viene un brusio
di voci che si fanno sempre più insistenti man mano che mi
avvicino, quando poggio la mano sulla grossa maniglia di ferro
che ha la forma di una croce, e sto per aprirla, sento la voce
del portantino che echeggia nel corridoio, i due ormai sono
lontani, lu figghiu de lu dottore, il figlio del dottore,
urla, ce l’ha con me, sono io, qualcosa mi abbandona, sudo
freddo, la porta è aperta, le persone sedute sulle panche di
legno dell’atrio hanno occhi che mi guardano dentro, è un
attimo, inizio a correre, in pigiama, con le ciabatte ai
piedi, fuori c’è un autoambulanza ferma, parcheggiata sulla
salita del Pronto Soccorso, due infermieri sono seduti sul
muretto, al sole, fumano, si sono tolti gli zoccoli, i loro
piedi hanno alluci carnosi, calmati, mi ripeto, calmati.
Una volta, in un pomeriggio d’estate come questo un amico che
adesso non vive più al paese, Giambattista si chiamava, mi
aveva chiuso per gioco in una cisterna vuota, all’inizio ci
ero stato, gli dicevo che mi sembrava di essere in un
sommergibile, la mia voce rimbombava contro le pareti
metalliche, mi fidavo di lui e il buio in cui ero sprofondato
non mi faceva paura, Giambattista rimaneva in contatto con me
parlandomi dall’esterno del cassone, era un sommergibile che
si immergeva negli abissi più neri, da fuori lui mi diceva a
quale profondità ero arrivato, mi descriveva i mostri marini
che incontravo. Era un gioco. Poi d’improvviso aveva smesso di
parlarmi, lo chiamai più volte, non rispondeva, cominciai ad
avere paura, la mia voce mi rimbalzava contro nel buio e
quando cominciai a battere contro le pareti del cassone anche
i colpi presero a rimbalzare da tutte le parti, arrampicato
sugli scalini assestavo pugni contro lo sportello chiuso,
Giambattista non rispondeva, avrei potuto starmene fermo e
aspettare, era uno scherzo, in fondo lo sapevo, voleva vedere
la mia reazione, ma invece di giocare ad aspettare in silenzio
il momento in cui avrebbe aperto lo sportello la paura si era
impossessata di me e i colpi e la mia voce avevano innescato
un meccanismo che la alimentava. Alla fine quando sentii che
faceva ruotare il maniglione avevo le lacrime agli occhi, mi
tremavano le gambe e le mani.
Io sono la cassa di risonanza della mia paura, cammino sotto
l’ombra dei pini, in questa parte del giardino dell’ospedale i
pazienti non ci sono, non ci sono i visitatori, ci sono le
macchine parcheggiate e qualche addetto al trasporto dei
rifiuti ospedalieri con la tuta la grigia che fa il suo
lavoro. E’ un tentativo, non so se ci sarà qualcuno dentro, se
lo posso fare oggi, non me ne accorgo ma quando mi fermo
dietro la camera mortuaria scopro di aver camminato nel
brecciolino, come un sonnambulo, le pantofole sono piene di
polvere, ho il cazzo dritto. La giornata è calda, sono venuto
qui, non ho paura di avere un’altra crisi epilettica, sto
prendendo i farmaci, Mauro Nitti mi sta aspettando, inizierò
appena posso, mio padre ha infilato le sue dita telescopiche
nel corpo di qualcuno, ha uno sguardo così concentrato da
sopra la mascherina che gli copre la bocca e il naso, ma forse
mi sbaglio, forse ride di qualcosa che ha appena detto un suo
collega, mentre operano, mia madre è tornata a casa serena, ha
finito con l’ospedale, oggi andava all’incontro del circolo di
lettura, Clara è al canile, i cani hanno bisogno di bere, i
cani soffrono il caldo, c’è da pulire bene il pavimento,
passare lo straccio, con il caldo gli odori si fanno intensi,
prendersi cura dei cani malati, uno di loro sta morendo, non
ho più visto il padre di Mauro Nitti, ho paura di incontrarlo.
La superficie del muro della camera mortuaria è gialla, porosa
e crepata, la navigo con le dita, calpestando le piante
infestanti che le crescono addossate, hanno i gambi tozzi e
l’aspetto di armature medioevali, c’è un odore acre, salato,
con punte acidule, viene da un recinto di legno tirato su a
qualche metro dalla camera mortuaria, tra i pini, dentro c’è
lo scheletro di un letto, i pali delle flebo, dei materassi
infilati in buste di plastica nere, ci sono dei sacchi
voluminosi, neri anche loro, chiusi, ci sono due comodini
rotti, smontati, delle lastre buttate lì, fascicoli contenenti
carta che fuoriesce, su tutto un materiale denso e grigio come
una colata di cemento. Guardo quello che posso, mando dentro
ai polmoni, sono solo, domani vado a casa, questa è una pausa,
mentre cammino mi tocco sotto, rimando il momento in cui
vengo, ho voglia di sborrare sul muro della camera mortuaria,
sulla porta di legno, sarei entrato dentro, ma la porta è
chiusa, un vetro della porta è rotto, il sole picchia, le
lucertole si rincorrono sui muri, non mi era mai successo, che
mi sentissi chiamare, che sentissi delle voci, devo dirlo al
Cappotto, è venuto a trovarmi, il secondo giorno che ero
dentro, è stato papà a telefonargli, sarebbe potuto non
venire, non era nei suoi compiti, lui è venuto, mi ha fatto
piacere, mi ha portato il fumetto de L’eternauta, quando vengo
mi ritrovo a sbattere con tutta la schiena contro la porta di
legno della camera mortuaria, contro il vetro, oltre il muro
dell’ospedale il sole è alto, mi accieca, in questo buio che
ho cercato tutti i fantasmi vengono a raccolta.
Il corpo di Darietto era coperto di cenere dalla testa ai
piedi, anche i capelli, era stata la vecchia Lù a dirgli di
farlo e Bill Dal Monte lo aveva fatto, con la cenere della
stufa, con quella che era rimasta del fuoco del giorno prima,
a Darietto non importava, si era tolto i vestiti e aveva
lasciato che le mani di Bill e del nano lo tingessero di
grigio, rideva, anche il nano rideva, il pisello del ragazzino
era esposto all’aria, non se lo copriva nemmeno, ci giocava
anzi facendo finta di pisciare addosso ai due. Il gatto
dormiva standosene acciambellato sulla poltrona, il vetro
della finestra della cucina di Bill teneva un dialogo serrato
con il vento che fuori soffiava forte, a ogni spinta faceva
seguito un tremito. Quando ebbero finito il nano non stava più
nella pelle, aveva preso a muovere le mani a casaccio e a
strabuzzare gli occhi, sembrava volesse dire qualcosa ma le
parole non gli uscivano, Bill Dal Monte se ne era accorto, per
questo si era allontanato da Darietto ed era andato ad aprire
la porta di casa, tenendola ferma con un piede, una serie di
folate fecero rabbrividire Darietto mentre il nano era già
scomparso nella stanza da letto di Bill, sentirono i suoi
versi simili a grugniti, ma non mancavano fischi e bestemmie,
sentirono che armeggiava con il letto di Bill sollevandolo dal
pavimento tre o quattro volte, con il comodino, apriva e
chiudeva l’anta dell’armadio, tra un po’ non ce l’avrebbe
fatta più, Bill lo sapeva e aspettava sulla porta tenendola
aperta, Darietto chiese a Bill se poteva andare in bagno a
lavarsi, lui gli rispose che ci sarebbe andato dopo che
avevano finito con il nano, sulla poltrona il gatto non c’era
più, era andato a nascondersi chissà dove. Il vetro della
finestra della cucina sembrava sul punto di rompersi
trovandosi in mezzo a due opposte correnti d’aria, quella che
continuava a spingere da fuori e l’altra che era il risultato
del giro che l’aria una volta entrata faceva nella cucina. Ci
fu un momento di silenzio, i rumori nella stanza da letto di
Bill erano cessati, Darietto e Bill si guardarono con gli
occhi appuntiti, con le orecchie tese, pronte, Darietto si era
stretto nelle braccia e stava in piedi un po’ ingobbito tutto
coperto di cenere. D’improvviso sentirono un urlo, ma non era
un urlo umano, era il gatto che emise un miagolio nervoso, lo
sentirono soffiare come se stesse per attaccare o volesse
difendersi, “sta arrivando,” disse Bill, poi ci fu un altro
urlo, questa volta umano, era il nano, “mannaggia li muerti
mei!” che malediva i suoi morti. Darietto se lo vide correre
incontro, nudo, corto e tozzo, con la bocca storta, i capelli
tutti all’aria e due occhi spiritati, fece per ripararsi con
le mani, ma all’ultimo momento il nano sterzò e prese la via
per la porta di casa, “fuci! Fuci!”, corri, corri! Gli gridò
dietro Bill Dal Monte, ridendo e seguendolo con lo sguardo,
prima di richiudere la porta. L’ultima cosa che vide furono le
chiappe pelose del culo del nano che lo assecondavano nella
corsa, sembrava uno scimpanzé.
Darietto non riusciva a crederci, si era infilato sotto la
doccia e aveva aperto l’acqua calda, la cenere veniva via
facilmente, stava canticchiando la sigla di Capitan Harlock
quando Bill Dal Monte gli comandò di fare presto perché lui
doveva andare. Ancora una volta come sempre era accaduto negli
ultimi dieci giorni. Darietto si fidava ciecamente del vecchio
ma lo conosceva abbastanza bene da sapere che questa volta non
gliela stava raccontando giusta, no proprio. Non riusciva a
credere che non stesse succedendo niente. Come quella volta
quando l’Ingegnere lo mise a fare il guardiano delle giostre
di un paese vicino, Bill Dal Monte non aveva detto niente a
nessuno, per paura che la bande dei ragazzi, sia quella dei
più grandi che quella dei più piccoli gli mandassero all’aria
il lavoro. Darietto e gli altri lo vennero a sapere soltanto
l’ultimo giorno quando ormai le giostre le stavano smontando e
il divertimento era finito. Darietto ancora glielo rinfacciava
al vecchio Bill. Si tirò fuori dalla vasca e si asciugò
velocemente con un asciugamano. Di là il nano era tornato a
riprendersi i vestiti, adesso stava meglio, gli era passata,
lo sentiva parlare con Bill con quel suo modo che gli
ricordava qualcuno che non riuscisse a liberarsi di una tosse
stizzosa, sempre in dialetto, e sempre alternando un tono
molto alto a un altro con il quale dovevi avvicinarti per
sentire quello che diceva, sembrava che prima gli uscissero
dalla bocca delle pietre molto grosse e che poi queste
lasciassero il posto a sassolini via via più piccoli fino a
quando quello che sputava fuori era una specie di pietrisco
sottile simile a sabbia. Doveva seguirlo, sapere dove andava,
senza essere visto, senza che Bill se ne accorgesse. Quando
uscì dal bagno il nano gli fece le feste saltandogli incontro,
accarezzandolo con le mani grosse e chiamandolo piccinnu miu,
piccolo mio. Il vento si era ritirato e la finestra della
cucina aveva smesso di tremare, il gatto si era sistemato
sotto la stufa accesa, teneva gli occhi chiusi ma le orecchie
erano dritte e si muovevano da sole, segno che ancora si
doveva riprendere dallo spavento. La radio era accesa e
sintonizzata sul canale che il vecchio ascoltava sempre, una
stazione di Brindisi che trasmetteva il liscio. Darietto si
guardò in giro ma Bill Dal Monte non c’era e quando chiese al
nano dove fosse andato lui gli rispose facendo un cenno con la
testa come a voler dire no e muovendo le braccine su e giù con
le grosse mani spalancate come se non potesse dirglielo, andò
avanti così per un po’ mentre Darietto guardava fuori dalla
finestra per vedere se la macchina di Bill fosse ancora
parcheggiata sulla strada fuori dal cortile. La macchina
c’era. Qualcosa nella testa del ragazzino si mosse, sentì come
uno scatto che lo portò a prevedere la prossima mossa, la sua
e quella del vecchio. S’infilò il giubbotto, salutò il nano e
uscì da casa di Bill. Sarebbe potuta andare il male, il suo
piano avrebbe potuto rivelarsi un buco nell’acqua, ma non gli
costava niente, era domenica, non c’era scuola, suo padre e
suo fratello Mauro sapevano che sarebbe rimasto a fare
compagnia al vecchio per tutto il giorno. Di tempo ne aveva.
La macchina di Bill, una vecchia Fiat 131 Supermirafiori stava
parcheggiata appena fuori il cortile, il bagagliaio era rotto,
il vecchio non lo aveva mai riparato, lo teneva chiuso con una
corda elastica per evitare che si aprisse, doveva solo
infilarcisi dentro e aspettare che lui tornasse. Aspettò lì
per mezz’ora e proprio quando stava per capitolare e
tornarsene a casa sentì lo sportello aprirsi e chiudersi e la
macchina avviarsi.
LISA WRIGHT