Vengo da lontano, molto lontano. Mi chiamo Ljuba. Uso del
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Vengo da lontano, molto lontano. Mi chiamo Ljuba. Uso del
L’utilizzazione del test-retest di Rorschach per la valutazione degli indicatori di cambiamento in psicoterapia. Riflessioni sull’uso del Rorschach in ambito transculturale. Daniela Morano QUANDO E PERCHE’? Utilizzo del re-test per effettuare una valutazione delle modificazioni dell’assetto intrapsichico in fase intermedia o finale di una psicoterapia sia dell’adulto che dell’adolescente. Con l’adulto si utilizza in fase intermedia quando si verifica una situazione di stallo grave, di transfert negativo non solubile o di grave dubbio diagnostico . Con l’adolescente si utilizza anche con lo scopo di far sperimentare al ragazzo il senso della propria crescita attraverso una restituzione comparata dei due protocolli. Si può fare ad un minimo di sei mesi di distanza. COSA VALUTARE ? ANALISI DELLA MOBILITA’ DIFENSIVA L’assetto e le modifiche dell’equilibrio delle forze interne tra espressione pulsionale e difese. I movimenti pulsionali ostacolati/rimossi/repressi/arcaici/ trovano nuove e più evolute vie di espressione grazie all’ammorbidirsi delle difese ? Valutare la della stabilità del nuovo assetto. Nuovi mondi sono possibili ? Come sono disposte le truppe difensive ? L’espressione dei movimenti pulsionali inquieta il soggetto e lo porta a degli arrets/retours difensivi ? ( es. l’accesso all’identificazione secondaria, quindi sessuata, obbliga il soggetto a delle difese narcisistiche ? ) Vivere in tempo di pace permette nuovi investimenti ? Per esempio l’apparire di nuove difese narcisistiche trofiche permette nuovi investimenti su di sé?L’’accesso alla dimensione della dipendenza sana apre a nuove modalità di relazione oggettuale? ( osservare modifiche TRI, Fc, versus aumento K e C di buona qualità sia in senso espansivo che riduttivo) . Valutare se la movimentazione delle formule va in senso vitale ed ego-sintonico ANALISI DELLE RAPPRESENTAZIONI DEL SE E DELL’OGGETTO Dall’ominide arcaico all’homo sapiens, dal mondo dei mostri e delle grandi madri agli amori del desiderio genitale. Asse narcisistico Analizzare soprattutto delle tav. I e V e di tutte le risposte portatrici di rappresentazione di sé sia H(H) che A(A) . Evoluzione da (A) ad A da (H) ad H Valutare la qualità formale, proiettiva ed identificatoria esaminando la tenuta dell’identità e la progressione dell’identificazione secondaria. Asse oggettuale Analizzare le K e le kan apprezzando la qualità nuova delle relazioni Dal magma indistinto fusione/confusione, al pendolo dell’identificazione proiettiva. Dall’identificazione proiettiva alla pulizia della scissione Dall’adesività anti abbandonica al ritiro trofico nel carapace narcisistico. Dal carapace narcisistico alla dipendenza possibile Dall’ambivalenza nevrotica al godimento dell’altro. EVOLUZIONE dell’ANGOSCIA Dal panico catastrofico ed emorragico all’utile angoscia Analizzare tempi di latenza, rifiuti, choc, verbalizzazioni nel loro rapporto con la qualità successiva delle risposte., cioè con la loro ricchezza/povertà e con la loro qualità formale. Valutare se l’angoscia è panica e distrugge il pensiero ( es. tav. con C rosso– disorganizzazione del pensiero, oppure, tav Vi choc fallico per rievocazione trauma – disorganizzazione tavole successive ), oppure è un ‘angoscia segnale che mobilita processi difensivi leggeri ( es. tav VI risposta vaga e verbalizzazione ansiosa seguita da ritorno del rimosso con R fallica in D o G adeguato) EVOLUZIONE DEL PENSIERO e della MENTALIZZAZIONE Dalle immagini agglutinate, sfuocate, indistinte, asessuate, basiche, afone, ai percetti nitidi, personalizzati, storicizzati ed altamente simbolici. Analizzare le formule semplici ed allargate della forma Analizzare la qualità degli Fc, cioè dell’unione tra rappresentazioni ed affetti. Analizzare la personalizzazione dei percetti, da semplici ban a R più ricche Somministrazione Rorschach a non madre lingua “Quando io uso una parola , disse Humpty Dumpty, con un certo sdegno, “ quella significa ciò che io voglio che significhi, né più né meno” “La questione è – disse Alice – “ se lei può costringere le parole a significare così tante cose diverse” “La questione è –replicò Humpty Dumpty – chi è che comanda. Ecco tutto.” Cap. VI “ Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò “ L.Carrol Riflessioni generali Non parlare la propria lingua in terra straniera è la prima e più importante forma di migrazione che può provocare desideri/ angosce diverse in funzione del proprio assetto psicologico e delle condizioni di vita . Dal desiderio di escludere la lingua dell’altro e rimanere segregati nella propria al desiderio di confrontare le due lingue ( periodo della traduzione da una lingua ad un’altra ) , al conoscere quella dell’altro per comunicare ed acquisire potere - pensare nell’altra lingua - fino al rinnego della propria madre lingua per bisogno di assimilazione totale – dimenticare la propria lingua . Quindi dalle angosce paranoidi versus l’integrazione dell’angoscia come motore dello sviluppo . SomministrAzione e creazione di una lingua e di un linguaggio condivisibili La consegna va modificata:alla consegna abituale va aggiunto “…. potrà usare di volta in volta la/le lingue che meglio crede per esprimersi e troveremo insieme il modo per capirci” ( creazione di una lingua comune ) Situazione testistica con non madre lingua può configurarsi come un eccesso di potere (potere diagnostico+potere linguistico) Imperialismo linguistico versus democrazia linguistica Il passaggio è dato dall’intenzione comunicativa che può aumentare/diminuire la disponibilità proiettiva da una parte e dalla disponibilità/curiosità dell’esaminatore a trovare una mediazione linguistico-culturale Nel passaggio bisogna favorire l’espressione attraverso possibili stadi di fusioni ,salti, rotture ,traduzioni linguistiche, Usando metafore musicali, bisogna favorire, se necessario l’apparire di mash up, remix, grammelot e neologismi bi/trilinguistici.. L’assioma è che più il Ror è multilinguistico più è originale e fedele alle intenzioni proiettivo-comunicative dell’esaminato. L’esaminatore dovrà essere ben consapevole del proprio contro-transfert linguistico ( lingua madre, fonetica gradita/sgradita della lingua dell’altro , proprio rapporto con le lingue straniere) Inchiesta L’inchiesta deve vertere sui contenuti culturali associati alle risposte per la creazione di un linguaggio comune ed anche sui doppi sensi delle parole nella lingua dell’esaminato. In caso di animali è fondamentale chiedere che sesso abbiano nella lingua di origine e se lingua asex chiedere di immaginarlo e di riferirne eventuali significati metaforici e culturali associati. L’indagine deve essere contestualizzata per qualsiasi risposta senza MAI dare nessuna risposta per scontata a rischio di proiettare sulle risposte dell’esaminato la propria attribuzione culturale. L’inchiesta serve per creare UN’AREA TRANSIZIONALE creata insieme da esaminatore/esaminato insieme. La disponibilità dell’esaminato ad accedere a questo lavoro transazionale è indicatore predittivo della disponibilità all’alleanza terapeutica. Analisi della bibliografia e questioni di metodo Dr Doriana Dipaola In una prospettiva psicoanalitica si effettua una valutazione diagnostica al fine di comprendere in modo accurato ed esauriente la persona e poter conseguentemente utilizzare tale comprensione per prendere decisioni opportune sul trattamento e pianificare interventi propri ed efficaci. In linea generale il Rorschach è stato scarsamente utilizzato nella ricerca sulle psicoterapie, nonostante il crescente interesse in quest’ambito. Il Rorschach, specialmente all’interno del disegno test-retest, è stato usato raramente. In particolare, i ricercatori si sono preoccupati dell’effetto prodotto dal fatto di conoscere già il test. Diversi studi hanno invece mostrato che il Rorschach è un test sensibile ai cambiamenti: in particolare mi sembra utile puntare l’attenzione su alcuni studi che hanno utilizzato il Rorschach nella valutazione dei cambiamenti associati ad un trattamento psicoterapico. A partire dagli anni cinquanta l’indagine più esaustiva sugli effetti della psicoterapia a lungo termine e della psicoanalisi è rappresentata dallo Psychoterapy Research Project della Menninger Fondation (Kernberg e collaboratori, 1972; Appelbaum,1977): per più di venti anni tali ricercatori hanno utilizzato diverse misure diagnostiche e batterie di test al fine di valutare i cambiamenti intrapsichici legati ad un trattamento a lungo termine. Le variabili indagate in questi studi erano l’affettività, l’organizzazione del pensiero, la forza dell’io, i paradigmi transferali, i conflitti nevrotici nucleari, la qualità delle relazioni interpersonali, i pattern difensivi e la concezione di sé. In linea generale tali studi hanno messo in luce come i dati testistici risultino maggiormente validi dei dati non testitici nel predire l’esito del trattamento, confermando l’efficacia del Rorschach come strumento sensibile al cambiamento. Vi cito alcuni esempi: Weiner ed Exner (1991) hanno raccolto per diversi anni protocolli di gruppi di pazienti che hanno usufruito di una psicoterapia in ambito ambulatoriale: attraverso la tecnica del test- retest, sono state estrapolate delle variabili tratte dal Sistema Comprensivo (difficoltà di modulare lo stress, modulazione degli affetti, uso adattivo dell’ideazione, capacità di esaminare se stessi, disagio nelle relazioni interpersonali etc.) utilizzate per valutare il progresso del trattamento ed il suo esito. I dati emersi hanno rivelato come i gruppi, giudicati secondo le variabili esplorate al Rorschach, hanno tratto beneficio dell’esperienza di trattamento psicoterapico. In uno studio gemello, Exner, Andronikof-Sanglade (1992) hanno utilizzato una ricerca sperimentale per valutare gli effetti di una terapia a breve termine. Diamond e collaboratori (1990) hanno valutato gli esiti del cambiamento nella rappresentazione di Sé e dell’oggetto in pazienti adolescenti e giovani adulti che hanno usufruito di un trattamento ospedaliero a lungo termine di orientamento psicoanalitico. Il Rorschach è stato somministrato all’atto dell’ammissione al percorso di cura e alle dimissioni per valutare il passaggio in tali pazienti da relazioni simbiotiche a relazioni maggiormente differenziate (utilizzando la scala di separazioneindividuazione di Coonerty del 1986). Uno studio più esaustivo su pazienti che hanno svolto un trattamento ospedaliero intensivo a lungo termine è quello di Blatt (1988): il campione consisteva di un gruppo di novanta adolescenti e giovani adulti gravementi disturbati (18-29 anni) ospedalizzati in comunità terapeutica, in cui avevano la possibilità di usufruire di una psicoterapia psicoanalitica a quattro sedute alla settimana. II Rorschach sono stati raccolti in momenti differenti del trattamento e sono stati correlati ai dati registrati sul decorso del trattamento e alle osservazioni cliniche: dopo le prime sei settimane di degenza e dopo un anno di trattamento; inoltre sono stati analizzati secondo un certo numero di fattori tra cui il numero di forme umane differenziate articolate e ed integre, i disturbi del pensiero, l’estensione della fantasia adattiva o regressiva etc. L’intero campione ha mostrato un aumento del comportamento sociale ed una risoluzione dei sintomi, dati ricavati dall’osservazioni cliniche con un significativo declino dei disturbi del pensiero al Rorschach (diminuzione della tendenza alla contaminazione e alla confabulazione). L’efficacia del Rorschach per la valutazione degli aspetti strutturali, ampiamente dimostrata, si affianca alla considerazione circa il possibile utilizzo del test nella valutazione degli effetti della psicoterapia sul paziente, in quanto strumento considerevolmente più sensibile ai cambiamenti di quanto comunemente ammesso. Nel contempo gli studi esposti dimostrano come il Rorschach , usato da solo o all’interno di una batteria di test, sia uno strumento sensibile ai cambiamenti correlati al trattamento ed è da considerarsi una misura valida di questi cambiamenti. Per ciò che concerne l’utilizzo del test di Rorschach in ambito transculturale bisogna tenere conto di molti fattori che possono determinare degli errori nella valutazione (Moro, 2010). Ad esempio disconoscere o negare la distanza e la differenza culturale tra paziente e terapeuta può comportare degli errori di valutazione diagnostica: uno dei rischi è quello di poter attribuire un significato psicopatologico ad elementi ricollegabili all’appartenenza culturale come ad esempio la mimica, l’espressione degli affetti, il contatto, etc. Anche la questione della lingua è un elemento importante. Idealmente la valutazione diagnostica deve permettere al clinico, come al paziente, di usare la propria lingua comportando la necessità della collaborazione di un’interprete, soprattutto nei casi in cui non vi è una buona padronanza linguistica. Spesso i migranti desiderano esprimersi nella lingua del paese ospitante, in questo caso l’interprete potrà intervenire solo in caso di bisogno, lasciando al paziente la possibilità di cimentarsi e di richiedere in caso di necessità il giusto supporto per potersi esprimere. Discorso diverso è quello dell’utilizzo del test all’interno di una psicoterapia in cui il paziente ha una buona padronanza linguistica: in questo caso l’interprete non è necessario perché l’interprete potrebbe essere considerato un intruso nella coppia paziente-terapeuta. Il lavoro terapeutico favorisce infatti l’emergere di un linguaggio all’interno della coppia paziente-terapeuta che favorisce la co-costruzione di simboli e significati utili per la lettura e la valutazione del test. La Moro (2010) inoltre sostiene che gli psicologi non possono ricorrere a nessun test proiettivo (e di livello) che sia completamente culture-free. Nel suo lavoro espone in modo efficace gli interrogativi sulla validità delle prove proiettive in ambito transculturale che riguardano principalmente la modalità di somministrazione, le norme di valutazione adoperate e la modalità di interpretazione (Studio di Vercruysse e Chome, 2002). L’Autrice ne riconosce però l’utilità nella comprensione del paziente, nella possibilità di cogliere indicazioni circa la partecipazione alla mentalità collettiva relativa alla società di accoglienza ed informazioni circa i processi identificatori che vengono minati dai fenomeni migratori. Nel contempo pone l’accento sulla necessità di comprendere ed anticipare le difficoltà specifiche della somministrazione di un test in una situazione transculturale e di riconoscere i bias presenti negli strumenti valutazione occidentali: risulta quindi necessario un utilizzo del test proiettivo, consapevole, in cui si valutano ed integrano le influenze culturali ed in cui “lo stesso test” può divenire “un oggetto mediatore” della relazione. La finalità dell’utilizzo del test non sarà dunque la ricerca di un’obbiettività ingannevole o impossibile, ma la comprensione del paziente utile a pianificazione e a monitorare l’intervento psicoterapico. Nell’ultimo periodo l’attenzione sulla psicologia transculturale apre l’interesse su test che prendono in considerazione le differenze culturali. In tal senso mi sembra utile citare il TEMAS (tell-me-astory), un test proiettivo, nato negli anni 80 in America ma recentemente pubblicato da Giunti OS in Italia, standardizzato a livello multiculturale ed ideato per essere utilizzato da bambini ed adolescenti di diversi gruppi etnici. Bibliografia essenziale sul test di Rorschach e sulla diagnosi multiculturale Anzieu D., Chabert C. (1967), I metodi proiettivi, SEI, Torino. Cattaneo M. L., Dal Verme S., Donne e madri nella migrazione. Prospettive transculturali e di genere, Unicopli, Milano, 2005. Chabert C.(1983), Il Rorschach nella clinica adulta, Ulrico Hoepli Editore, Milano, 1988. Chabert C.(1987), Psicopatologia e Rorschach, Cortina Raffaello, Milano, 1993. Devereux G. (1967), De l'angoisse à la methode dans le sciences du comportement, Flammarion, Paris, 1980. Fantini F., Bevilacqua P., TEMAS. A new projective/narrative test for multicultural assessment, L'autre, Cliniques, Cultures et Sociétés, 8(3),2007,397-403. Lerner P.M.(1998), Editore,Milano,2000. Il Rorschach. Una Lettura psicoanalitica. Raffaello Cortina Moro M.R., Baubet T.(2009), Psicopatologia transculturale. Dall'infanzia all'età adulta. Koinè, Roma, 2010. Moro M.R., De la Noe Q. Mouchenik Y., Baubet T. (a cura di), Manuale di psichiatria transculturale. Ed. Franco Angeli, Milano, 2009. Rausch De Traubenberg N. (1999), La pratica del Rorschach, UTET, Torino, (2002). Vercruysse N., Chome C., Situation projective et rencontre interculturelle, Cahier de psychologie Clinique, 18, 2002, 171-188. Riferimenti bibliografici sulla tecnica test-test Abraham, P.P., Lepisto, B.L., Lewis, M.G., Schultz, L. & Finkelberg, S. (1994). An outcome study: changes in Rorschach variables of adolescents in residential treatment. Journal of Personality Assessment 62,33, 505-514. Appelbaum S. (1975), Psychoterapy before and after, Menninger Foundation,Topeka. Appelbaum S. (1977), The anatomy of change, Plenum, New York. Blatt S., Ford R. Berman W. et al., (1988), The assessmentof change during the intensive treatment of borderline and schizophrenic young adult, Psychoanal. Psychol., 5, 127-158. Exner J. Andronikof-Sanglade A. (1992), Rorschach changes following brief and short-term terapy. J. Pers. Assess.,59, 59-71, Diamond D., kaslow N. et al. (1990), Change in separation-individuation and intersubjectivity in long-term treatment, Psychoanal. Psychol., 7, 363-398. Frank, G. (1993). Use of the Rorschach to predict whether a person would benefit from psychotherapy. Psychol. Rep. 73(3),1155-1163. Gerstle, R.M. et Al. (1988). Rorschach predictors of therapeutic outcome for inpatient treatment of children: a proactive study. J. Clin. Psychol. 44(2),277-280. Malerba, L. (2004). La valutazione del cambiamento nella psicoterapia psicoanalitica di gruppo con adolescenti. InterConoscenza – Rivista di Psicologia, Psicoterapia e Scienze Cognitive, 2(3),218-237. Slapak, S. et Al. (2002). Group psychotherapy: assessment of psychic change in children between six and eight years old. Regular Poster. Society for Psychotherapy Research International Conference 2002. Santa Barbara, California, June 23-27, 2002. Weiner, I.B. & Exner, J.E. (1991). Rorschach changes in long-term and short-term psychotherapy. Journal of Personality Assessment, 56,33, 453-465. Elementi di storia della paziente Dr Nives Pasqualini Liuba nasce in Romania nel 1969, in un piccolo paese rurale. La Romania faceva parte dell’URSS. Brava negli studi, vuole diventare infermiera, ma durante l’ultimo anno di scuola ha una relazione con un ragazzo di poco più grande, e rimane incinta. Si sposa a 18 anni (1987) , e va a vivere con la famiglia del marito il quale parte subito dopo per il servizio militare (al tempo durava due anni). Dopo pochi anni divorzia (1991 circa – ha 22 anni), la madre si rifiuta di riaccoglierla. Va allora nella cittadina più vicina, portando con sé la figlia, e trova lavoro. Fatica molto a gestire i tempi del lavoro e della bimba. Dopo un altro breve periodo porta la figlia dalla suocera. Convive con altre ragazze, e inizia a bere. A causa dell’alcool perde il lavoro, ne intraprende e lascia diversi altri. Cerca con ostinazione nuove relazioni affettive, che spesso si traducono in rapporti brevissimi, caratterizzati dalla sopraffazione, con uomini che si approfittano della sua condizione di fragilità. Si sente umiliata dalla madre che la rimprovera di non trovare nessuno “che se la prenda”. Nell’ultimo lavoro che trova prima di arrivare in Italia, perde completamente il controllo di sé: beve moltissimo, accumula debiti consistenti, non riesce a pagarli. Viene minacciata e spaventata, le viene preso il passaporto dal datore di lavoro, trattenuto come garanzia sul suo debito. Inizia ad avere delle manifestazioni deliranti a carattere paranoideo: le sembra che delle persone la seguano, la spiino, sparlino di lei, sente delle voci dietro i muri. Ha paura di qualsiasi cosa, soprattutto di essere picchiata, rapita, violentata. Cammina rasente i muri e cerca sempre di essere accompagnata da qualcuno. Continua a bere. I suoi timori si basano anche su dati di realtà: in quel periodo (primi anni 90) in seguito alla disgregazione dell’URSS, l’illegalità era manifesta, c’erano elementi di malavita infiltrati in tutti gli ambienti, con comportamenti brutalmente violenti: rapimenti, sequestri di persone, ricatti, risse, furti. Quando le viene proposto di andare a lavorare all’estero, la sente come l’unica salvezza possibile. E’ assolutamente convinta che la mafia la stia cercando per farle pagare le sue colpe e riscuotere i suoi debiti. Beve per farsi coraggio e si reca all’appuntamento. Scopre solo durante il tragitto verso l’Italia quale sarà il lavoro. Non ha documenti, è lontana dal suo paese, è costretta a rimanere. Arriva in Italia nel 1995 (ha 26 anni), viene indotta a prostituirsi. Dopo qualche tempo inizia una relazione con uno dei protettori che nel frattempo si sono succeduti. Manda dei soldi in Romania per la figlia (che vive con i nonni paterni ed ha 8 anni), ed è convinta dal protettore che parte dei suoi guadagni vengano conservati per sposarsi con lei e fare arrivare qui la bambina. Continua a bere molto anche per superare la paura e la vergogna di prostituirsi. Dopo qualche tempo scopre che il compagno ha sperperato tutti i soldi. Ha una crisi acuta, tenta il suicidio tagliandosi le vene, viene portata in Pronto Soccorso. Si auto dimette il giorno successivo. Qualche mese dopo la relazione finisce, il protettore va via, lasciandola sola con altri due connazionali. E’ molto spaventata, non li conosce, comincia a barricarsi dentro casa, comincia a sentire di nuovo delle voci che la minacciano, tenta ancora il suicidio. Seguita dal nostro servizio attraverso un progetto rivolto alle donne straniere irregolari, viene messa in contatto con un’istituzione che può accoglierla togliendola dalla strada. Liuba acconsente ad una disintossicazione ospedaliera, e successivamente entra nell’ambiente protetto. Siamo nel 1999, ha 30 anni. Impara velocemente l’italiano, viene fatta frequentare corsi per l’avviamento al lavoro, trova lavoro in una casa di riposo. Regolarizza la sua posizione, trova una casa, prepara la documentazione per portare in Italia la figlia, che ha all’epoca 13 anni. Torna in Romania per riprenderla dopo anni che non la vede. E’ terrorizzata dal rientro nel suo paese, teme di essere riconosciuta, si sente in grave pericolo. Torna in Italia, iscrive la figlia a scuola, tutto pare avviato per il meglio. Liuba però sta peggio: si sente male, ha delle crisi di ansia frequenti, è convinta di stare per impazzire. Ha paura dei coltelli: teme di usarli contro sua figlia, o contro di sé quando sta molto male. Ha paura delle finestre aperte: teme che la figlia le scappi, o che lei stessa possa buttarsi di sotto. Piange sempre, ha una serie di comportamenti ossessivi che le rallentano in modo pesante la vita: controlla per delle mezzore che il gas sia chiuso, che tutti i suoi documenti siano al loro posto. Il suo medico le prescrive una terapia antidepressiva. Continua a rimanere astinente dall’alcool. Chiede aiuto e consiglio al personale sanitario del nostro Servizio, che ogni tanto la vede per controlli. Viene inviata ad una consulenza psicologica. Siamo nel 2005. LIUBA: COLLOQUI TRANSGENERAZIONALI – marzo 2010 Dr Nives Pasqualini Solo verso la fine della psicoterapia ho avuto la possibilità di conoscere personalmente la madre di Liuba, che era venuta in visita alla figlia per alcune settimane: tale visita era da tempo attesa da Liuba, che desiderava mostrarle quanto era riuscita a fare qui, partendo da niente. Pareva fosse possibile già un paio di anni prima, ma ogni volta mancava sempre un documento, un timbro, un foglio…. Quando le ho chiesto se fosse possibile incontrare la madre per cercare di ricostruire la loro storia familiare Liuba ha acconsentito: anche lei aveva desiderio di conoscerla più a fondo e poterne riparlare. La storia della sua famiglia era già entrata più volte nei colloqui, nelle ipotesi e nelle fantasie che venivano costruite insieme. A me pareva particolarmente importante riuscire a collocare nella storia di Liuba gli eventi traumatici di cui portava già il peso quando è arrivata in Italia. Nel corso degli anni di psicoterapia questo era diventato sempre più evidente: quando Liuba era arrivata in Italia ed è stata avviata alla prostituzione era una creatura già profondamente sofferente, con un abuso alcolico importante in essere da anni, che si allontanava dalla sua terra d’origine per mettere più strada possibile tra una serie di azioni che aveva compiuto là, e delle quali si vergognava profondamente, e la sua persona. A costo di fare la prostituta. I ricordi che portava della sua storia passata erano relativi soprattutto agli anni della prima adolescenza, quando si era consumata la rottura definitiva tra il padre e la madre, con il padre che si era allontanato dalla loro casa per non farvi più ritorno (salvo sporadiche visite improvvise e brevissime). Erano ricordi pertanto segnati dai litigi violenti tra i genitori, in cui la madre veniva descritta come la figura forte: quella che lavorava, si occupava della piccola famiglia, e se aveva avuto delle relazioni le aveva tenute fuori dalla loro vita. La madre parlava di sé come di una donna forte, capace, in contrasto con il marito del quale si parlava molto poco, in termini di debolezza e incapacità. Le descrizioni che Liuba dava della sua famiglia ricalcavano questi contenuti. Anche se nel corso della psicoterapia avevamo parlato più volte di questa madre così forte, così “tutta d’un pezzo”, che ora era una fragile alcolista che viveva da sola in una casa piuttosto isolata, senza nessuno che si potesse prendere cura di lei, che si lasciava andare, non mangiava, non voleva curarsi…. La madre di Liuba è infine arrivata, e ha acconsentito a incontrarmi. Abbiamo fatto due lunghi colloqui a tre: lei, Maryna, Liuba - nel triplo ruolo di figlia, paziente e interprete – e io. Maryna è una piccola donna poco somigliante alla figlia, con caratteristiche più mediterranee: pelle olivastra, capelli neri, uniti a due sorprendenti occhi azzurri. Prende la parola subito, senza attendere domande o spiegazioni. E’ vivace nelle risposte, il colloquio si trasforma in alcuni momenti in uno scambio veloce tra le due donne, un chiarimento tra loro che avviene in rumeno, con una tale espressività nei gesti e nella voce di Maryna, che mi dà l’impressione a volte di capire quello che si stanno dicendo. Quando poi Liuba traduce, spesso le mie ‘intuizioni traduttive’ vengono confermate. Questi incontri sono volti a ricostruire la storia transgenerazionale della famiglia di Liuba, e sono incentrati prevalentemente sul ramo materno. Pongo alcune domande a Maryna, ma la lascio anche libera nel racconto, e quindi le notizie che non vengono date hanno due cause: domande non poste, e cose spontaneamente non raccontate. Per quanto riguarda il marito, Maryna appare di poche parole e piuttosto sbrigativa: non sa nulla della sua famiglia, è arrivato da una grande città dell'ovest del paese, con due sorelle più grandi. Nasce nel 1945, probabilmente già orfano di padre (morto nella seconda guerra mondiale). Una sorella del padre è ancora vivente, ma non ci sono relazioni tra le due donne, che Maryna giustifica velocemente con la distanza abitativa. Mi colpisce questa assenza di notizie: di solito quando nasce e si stabilisce una relazione d’amore si è curiosi del soggetto amato, si vuole sapere ogni cosa di lui, della sua storia, si ascolta attentamente ciò che ci viene detto, che entra a far parte della storia della nuova coppia e poi della famiglia. Maryna non dice nulla di tutto questo. Afferma che lei da sola è riuscita a crescere due figli, a farli studiare, a non fargli mancare nulla. Anche il figlio le ha sempre chiesto perché non si è accorta per tempo dell’alcolismo del padre, ma lei risponde sempre che i fidanzati si vedevano poco, non come adesso, e che lui non si è mai mostrato alterato. Nel dirlo il tono di voce e il viso sono severi, quasi un po’ risentiti. E si intuisce che l’argomento non è gradito. LA LINEA TRANSGENERAZIONALE DEL RAMO MATERNO (V. P.POINT) La bisnonna materna di Liuba, Angela, ha cinque figli, di cui tre muoiono prima di lei: Igor, Angela e un figlio che muore piccolo di malattia (una forma influenzale). La bisnonna viene descritta con gli attributi del mito: innanzitutto c’è un errore nelle date che mi vengono fornite sull’età, in un primo momento sembra che sia morta ben oltre i 100 anni. E’ morta in realtà molto anziana, oltre i 93 anni. Non era rumena: non ricordano con esattezza da dove veniva, ma usava alcune parole ungheresi, e il posto dove vivevano era vicino al confine con l’Ungheria, quindi pensano che molto probabilmente fosse ungherese. Donna intelligente ed energica, molto bella, oltre a lavorare nel mulino e nei terreni circostanti, era levatrice e “medico di campagna”: estraeva denti, dava farmaci…. Del marito non viene ricordato nulla: solo che era alcolista, che era geloso della moglie, e che dei due era l’elemento più debole, assolutamente meno capace. La figlia Angela muore in America, non viene raccontato nulla di lei , se non che si è sposata là, ma ha avuto una vita infelice, e che il giorno in cui è morta un uccellino blu è entrato dalla finestra nella camera della madre, in Romania, la quale ha detto “Angela è morta”. Il simbolo dell’uccellino che entra in casa come segno della morte di qualcuno fa parte della tradizione austro-ungarica, confermando le probabili origini ungheresi di Angela. Igor, padre di Maryna (nonno di Liuba) muore per malattia causata, secondo la leggenda di famiglia, da un suo comportamento irruente, dettato dall’alcool: in seguito a questo ha passato una notte in un fossato, privo di sensi. Da questo fatto viene fatto derivare l’insorgere di un cancro allo stomaco che il padre non ha voluto curare. Igor viene descritto con grande vivacità e affetto dalla figlia. “Era un uomo in casa sua”: queste sono le parole con cui inizia il racconto sul padre, che aveva un particolare affetto per lei, femmina e ultimogenita. Eredita i beni di famiglia nella loro interezza, perché è l’ultimogenito. Ancora oggi è l’ultimogenito, sia maschio che femmina, che per tradizione riceve l’eredità, in cambio dell’impegno a occuparsi dei genitori, che rimangono a vivere con lui nella casa di famiglia. Maryna ricorda come la portava sul cavallo nei campi che circondavano il mulino, il benessere in cui vivevano, le sue capacità lavorative: il mulino serviva agli abitanti del piccolo paese, e quando il regime comunista ha istituito i Kolkoz, il padre è riuscito a mantenerne la proprietà, macinando i loro cereali frutto del lavoro comune. Aveva alveari , e campi coltivati per il fabbisogno della famiglia. Possedevano animali: maiali, galline, mucche, e un cavallo che hanno invece dovuto consegnare al Kolkoz: Maryna ricorda come il padre quando ha dovuto portarlo via l’ha chiamata per farle fare un ultimo giro, “per salutarlo”. Quando il padre muore Maryna è ancora piccola: “E’ stato l’inizio della fine”. Della madre viene raccontato spontaneamente poco: ne risulta un’immagine sbiadita, una compagna debole del marito. Quando questi è morto, ha cercato di portare avanti il mulino che era l’attività di famiglia, fino ad allora redditizia e fonte di benessere. Non è stata aiutata dai figli maschi perché erano più o meno in età da servizio militare, e Maryna aveva dieci anni. Il fatto che Maryna abbia dato scarsi elementi sulla madre, corrisponde probabilmente alla sua realtà psichica: l’immagine è quella di una donna fragile, che ha cercato di fare del suo meglio, eliminando via via le varie attività, e riducendosi ad una economia di sussistenza, un impoverimento progressivo. E’ morta dieci anni dopo il marito. Maryna a 17 anni va in una città vicina per studiare (sarta), corso che dura tre anni. Quando la madre muore lei ha venti anni, torna al villaggio per il funerale, e poi ritorna nella città dove nel frattempo ha anche trovato un lavoro. E’ in questo periodo che conosce Maksim, padre di Liuba: “Mio papà non era alto, ma era carino e simpatico, e a lei piaceva tanto. Lei si è innamorata, si sono sposati ed è rimasta subito incinta di me. Da quel lavoro è andata in maternità ed è tornata nel villaggio dove abitiamo ora, nella casa del mulino che era diventata sua. Maksim veniva da un paese abbastanza lontano, più vicino alla dogana cecoslovacca, noi siamo più vicini a quella ungherese. Mia mamma è andata in maternità: all’epoca durava tre anni pagata al 100/%: era il comunismo che ci dava questo. Negli anni 60 eravamo in Unione Sovietica, e quindi nel pieno del comunismo.” Il matrimonio si rivela difficile molto presto: Maryna scopre che il marito si ubriaca con frequenza, e molte volte non va al lavoro, finchè poco dopo la nascita di Liuba lo perde. La madre riprende a lavorare, mantenendo da sola la famiglia. I litigi col marito sono frequenti e violenti. Liuba ricorda che il padre le voleva molto bene, la chiamava “principessa”, ma lo ricorda anche come ubriaco e violento con la madre, che non subiva passivamente. Quando Liuba ha nove anni nasce un altro bambino. Maryna quando lo racconta lo definisce “bambino per caso”: data la situazione non voleva un altro figlio. Una tale definizione data al figlio fa immaginare anche che non è stato fatto su di lui un grande investimento. Era Liuba la prescelta. Poco dopo la nuova nascita Maksim va via da casa, per tornare sempre più sporadicamente fino alla morte, avvenuta si pensa attorno al 1987/88, fuori casa. Liuba bambina viene descritta dalla madre, con compiacimento: bella e capricciosa, molto determinata. Le cuciva molti bei vestitini, ed entrambe ricordano come da piccola si sedesse di fronte al suo armadio per scegliere meticolosamente le cose da indossare. Emerge dal racconto delle due donne come la madre fosse disponibile ai suoi “capricci”, ai suoi desideri. Le faceva fare la modella per le foto dei capi d’abbigliamento per l’azienda dove lavorava, non si spazientiva di fronte alle sue richieste di attenzione, incoraggiava le sue esibizioni “canore” per gli autisti della corriera che la portava all’asilo (non era prevista la fermata e Liuba cantando “compensava” il favore che le veniva fatto). Maryna era orgogliosa dei successi di Liuba: ancora adesso ne parla con un misto di orgoglio e rimpianto. Liuba era la preferita dalle maestre, era bravissima a scuola, era bella e molto ammirata dai compagni. Aveva “pretendenti” già all’asilo. Sembrava che tutto fosse facile per lei. Se il padre la chiamava “principessa”, la madre la considerava tale, con un forte investimento narcisistico, quasi che Liuba dovesse riscattare la sfortuna familiare, come una reincarnazione della bisnonna Angela. La vita in famiglia era burrascosa: Liuba ricorda frequenti litigi violenti tra i genitori , in cui il padre picchiava la moglie, e successivamente minacciava il suicidio, andando a cercare una corda. La madre nonostante ciò lo cacciava fuori casa, Liuba lo rincorreva per evitare il peggio, lui che dopo qualche tempo tornava con lavori sempre più brevi e precari, la dipendenza pesantissima dall’alcool. Tutto ciò però non sembra avere conseguenze nella “vita pubblica” della ragazza: a scuola ha sempre un rendimento eccellente, è solista nel coro scolastico, è bella e ammirata. La madre ha progettato per lei un futuro da infermiera, lavoro prestigioso all’epoca, ma soprattutto per la madre passaporto per il benessere e per il riscatto sociale: è insito nel progetto anche un successivo matrimonio con un medico. Liuba nel frattempo, a 16 anni, ha una relazione con un ragazzo della sua età, che alla madre non piace perché già beve. Non ne è particolarmente innamorata: in quel periodo è ricca di ammiratori, sceglie con chi uscire, con chi tornare, respinge e accetta come una vera principessa (successivamente nei colloqui questo suo antico comportamento viene ricordato con vergogna, come se fosse l’inizio del suo futuro degrado). Una sera che è in casa col suo ragazzo il padre torna inaspettato: è ubriaco e lei se ne vergogna profondamente. Cerca consolazione nella vicinanza del ragazzo, e ha con lui il primo rapporto sessuale (all’epoca non si parlava di sessualità, lei non ne sapeva nulla). Rimane incinta, e quello è l’inizio della sua rovinosa caduta. Viene cacciata da scuola, il preside la chiama sul palco in un momento pubblico, lei e un altro alunno, dicendo che entrambi sarebbero stati espulsi: il ragazzo perché aveva il rendimento peggiore, e anche lei, che invece era la migliore, ma era incinta. Quando la madre lo scopre è furibonda: Liuba ricorda giorni e giorni di scenate furiose, con lei chiusa in camera a piangere, e ogni tanto la madre che entrava urlando per picchiarla, per poi uscire e continuare a urlare con altre persone che frequentavano la casa. Liuba sente il mondo crollare attorno a sé, quando la futura suocera, come da usanze, viene a proporre il matrimonio, la madre la cancella di un colpo dalla sua vita “Prenditela pure, non mi serve più” Liuba è passiva, lascia decidere tutto agli altri, la data e la forma del matrimonio, gli invitati, il suo trasferimento nella casa dei suoceri (il marito è l’ultimo nato). Ha ricordi confusi e vaghi di tutto quello che è successo in quel periodo. Sente di essere la causa di un fallimento che va ben oltre il percorso della sua vita, per comprendere il crollo delle aspettative materne, annientandole. In uguale modo anche lei viene annientata dalla rabbia distruttiva della madre, che la trascina in un attimo dall’idealizzazione alla svalutazione totale. CONSIDERAZIONI Appare evidente ad una prima lettura che nelle coppie presentate c’è una sempre una forte disarmonia per le competenze, piuttosto che una divisione dei compiti (ad es. lui lavoro fuori, e lei lavori di casa e figli). Tutte le coppie si caratterizzano per un componente forte, talvolta con i caratteri dell’eccezionalità, come Angela e Igor, che scelgono però entrambi compagni deboli, invisibili (nemmeno i loro nomi vengono ricordati!). In queste coppie c’è uno capace e l’altro no, uno che prevale….un funzionamento sulla scissione piuttosto che su integrazione e complementarietà. Nella narrazione delle generazioni precedenti emergono con evidenza idealizzazioni positive e negative, a dimostrazione di relazioni oggettuali interiorizzate molto idealizzate, un mondo interno in bianco e nero, dove si viene visti come eccezionali o incapaci, leggendari o fallimentari. Di alcuni vengono ricordate le gesta leggendarie, di altri nemmeno il nome. Questa modalità viene assorbita da Maryna, che la ripropone inevitabilmente alla figlia Liuba. Il rapporto che ha con lei è intriso di idealismo fin dalla prima infanzia. È una bella bambina, intelligente e dotata, che viene particolarmente “premiata” dall’investimento materno quando si impone, si esibisce, si mostra: le caratteristiche infantili di un sé in costruzione (egocentrismo, esibizionismo, oppositività) vengono lette come tratti fondanti di una personalità precocemente eccezionale, in cui Maryna riconosce presumibilmente le caratteristiche che hanno reso leggendaria la nonna Angela. Possiamo pensare che Maryna abbia visto nella figlia, e nel futuro progettato per lei, la possibilità di riscatto e di ritorno verso quel periodo felice e di prosperità che è finito con la morte del padre. Igor che è vissuto solo 47 anni, è riuscito, insieme alla madre Angela, a traghettare la famiglia con successo attraverso epocali cambiamenti storici: la rivoluzione di Russia, la prima e la seconda guerra mondiale, la fine dell’indipendenza rumena e l’ingresso nell’URSS, e infine l’espropriazione dei beni privati imposto dal regime comunista. Un tale uomo ha iniziato il breve declino verso una morte prematura per un banale litigio provocato dall’alcol. E con la sua morte è finito anche il periodo felice. Maryna aveva dieci anni, e ha visto bene, ma con gli occhi di una bambina, cosa è successo a causa della morte del padre, si è accorta che la madre non era come la nonna Angela, e perciò non valeva niente. Quello che quindi poteva desiderare per la figlia era un matrimonio di prestigio, un matrimonio con una figura forte, che prevenisse fallimenti. Lei stessa non è riuscita a scegliere un buon marito: giovane e sola, non si è accorta del suo alcolismo, o non vi ha dato peso, tuttora questo è un tasto molto sensibile, anche il marito è entrato a far parte della schiera dei “senza nome, senza storia”: non vuole parlarne, si arrabbia quando il figlio le chiede spiegazioni. Quello che ha messo incinta la figlia, le ha rovinato la vita e le ha negato il riscatto di tre generazioni. Il “medico” doveva metterle al riparo dall'inettitudine. Liuba ancor oggi dice che questa cosa le è entrata dentro, perché uomini non “di prestigio” non la interessano. Liuba, che era stata l’oggetto di tale idealizzazione aveva realizzato in risposta un forte investimento su di sé: nella narrazione dei colloqui di terapia non si capacitava di come riusciva, prima della gravidanza, ad essere così sicura di sé e intraprendente da scegliere con leggerezza e facilità tra i ragazzi a cui piaceva, soddisfando i propri capricci. Vista dai colloqui quella ragazza le appariva sfacciata, esibizionista, e meritoria delle punizioni che le sono toccate dopo. Il trauma vissuto ha provocato una frattura nella sua vita dividendo nettamente in due la sua storia, è stato l’inizio di un lunghissimo periodo di vergogna e sofferenza, un ridimensionamento terribile di sé, e l’apparire quasi di una nuova identità che non aveva più alcuna continuità né relazione con la persona che era stata prima. Quando Liuba parla di quel periodo tutto le appare confuso e doloroso: è riuscita a finire la scuola, è stata riammessa perché era solista del coro, e l’insegnante di musica si è rifiutato di sostituirla. Molti ricordi sono stati però cancellati: appaiono solo immagini frammentarie. Ha tentato di farsi riaccogliere dalla madre (subito dopo il matrimonio il marito è partito per il servizio militare che l’ha tenuto lontano due anni), che però la teneva con sé pochi giorni e poi la rimandava a casa sua. Anche queste brevi visite erano però riempite da commenti frustranti, su quello che non sapeva fare, e su come era riuscita a rovinare tutto. Il trauma di Liuba è tanto più distruttivo perché è nel contempo personale e intergenerazionale, perché è il crollo del riscatto attraverso di lei di tutte le figure “eccezionali”, le parti funzionanti delle coppie: Angela, Igor, Maryna. E’ stato nel contempo un collasso individuale e intergenerazionale, il crollo delle speranze riparatorie e delle aspettative su più generazioni. Un trauma tale è una cacciata dall’Eden, un mai più. Da un punto di vista pulsionale appare tramandata nelle generazioni anche l’irrapresentabilità delle pulsioni aggressive e sessuali. L’alcolismo permette l’espressione primitiva della pulsionalità aggressiva: molti alcolisti appaiono nella storia di Maryna, che a sua volta ha ripetuto lo schema delle generazioni precedenti: lei forte, decisa, legata al padre, idealizzato, ha sposato un gravissimo alcolista, figura debole e incapace. L’alcolismo viene descritto quasi endemico anche adesso: tutti bevono molto nelle campagne, anche le donne, alcool spesso prodotto in casa, quindi di pessima qualità e altissima gradazione alcolica. Anche lei è diventata un’alcolista, e del padre, Igor, sappiamo che il veloce declino è iniziato in seguito ad azioni impulsive, fatte sotto l’effetto dell’alcool. Per riassumere queste sono le figure con problemi di alcolismo nella storia familiare di Liuba. Ricordiamo che per quanto riguarda il ramo paterno non è stato possibile avere altre notizie. ▪ ▪ ▪ ▪ ▪ il bisnonno marito di Angela, Igor: probabilmente sì, e comunque aveva una “prossimità” all’alcool. Maryna è un’alcolista tardiva, inizia in età avanzata, quando Liuba era già venuta via. Ora beve molto, ma vive sola. Quando qualcuno vive con lei riesce a controllarsi di più. Maksim, padre di Liuba, era un gravissimo alcolista, viene descritto come il più grave. Liuba è stata alcolista, il fratello no. Infine Liuba stessa sposa un uomo con problemi di alcolismo. LA PSICOTERAPIA La fotografia iniziale Inizio a vedere la paziente nell’ottobre del 2005, con colloqui settimanali che continuano fino alla fine del 2009, successivamente ci sono incontri circa mensili, fino a giugno 2010. Arriva con una terapia farmacologica antidepressiva, somministratale qualche mese prima dal suo medico di base. Liuba arriva molto sofferente. I suoi sintomi sono di tipo depressivo, con somatizzazioni: senso di soffocamento, mancanza d’aria, “un peso sul cuore che mi soffoca”, e comportamenti ossessivo/fobici (aprire e chiudere il gas numerose volte, così come la porta di casa e dell’auto, controllare diverse volte al giorno di non aver perso i documenti, il bancomat, i soldi, il contratto d’affitto). Ciò che la angoscia ancora di più, ed è una domanda ripetuta numerose volte nei primi mesi, è la paura di essere pazza, l’impressione vivida di poter perdere il controllo di sé e dei suoi gesti, che la porta a non usare coltelli, a stare lontana dalle finestre. L’impressione di camminare su un filo sottile, che potrebbe spezzarsi senza preavviso, come le è già capitato alcune volte in passato: nei due periodi in cui sentiva voci dietro i muri (voci che parlavano di lei “è pazza, è una puttana”), quando ha tentato il suicidio tagliandosi le vene e quando, in qualche occasione (alterata dall’alcool), si allontanava da situazioni per lei insostenibili scappando dalle finestre (non si è mai fatta male, ma solo per fortuna). L’arrivo in Italia risale a una decina d’anni prima, parla in italiano, con un linguaggio ricco e appropriato, la comprensione è molto buona. Succederà alcune volte nel corso degli anni successivi che in situazioni emotivamente molto pregnanti, ritorni alla lingua madre e si senta incapace di parlare italiano per qualche minuto. Due elementi risaltano nei primi colloqui: l’impressione di una sofferenza profonda che parte da molto lontano. La sua storia in Italia è stata nei primi anni drammatica, ma non si vive in colpa, afferma che non poteva fare altro. E’ la sua vita di prima che la fa star male, gli anni che sono trascorsi dal suo divorzio al suo arrivo in Italia. L’altro elemento è dato dal come si presenta: è una bella donna, ma per accorgersene occorre guardarla bene. Si mimetizza in tute informi, i capelli raccolti in una coda strettissima, niente trucco, niente “orpelli”. Credo possa facilitare dividere in capitoli la storia della sua terapia. Ognuno di questi capitoli rappresenta un passaggio positivo, l’abbandono di comportamenti ormai inadeguati, preparati e preceduti da modalità di funzionamento psichico più evolute. L’INIZIO DELLA TERAPIA: FUORI, SEDUTO” “UN CAVALLO ORGOGLIOSO, CON IL PETTO IN E’ una risposta del primo Rorschach, somministrato dopo alcuni colloqui (ottobre 2005). E’ una risposta che arriva quasi alla fine, sulla decima tavola. Mi colpisce perché dopo le risposte precedenti, mimando il cavallo caduto a terra, seduto ma col petto in fuori, anche lei si rianima, vede sé stessa caduta, ma ancora viva, orgogliosa, non definitivamente vinta. I colloqui sono permeati dalla sua sofferenza, di ricordi carichi di dolore, di umiliazioni ricevute, di vergogna profonda di sé, di quello che ha fatto, di quello che si è vista fare e sentita dire (lei non può immaginare…non può sapere….le parole mi vergogno solo a pensarle….e quello che ho fatto non riesco a dirlo neanche a me stessa). Quasi paradossalmente quello che mi racconta è tutto relativo alla sua vita precedente, in Romania. Quello che è successo qui in Italia non le procura così tanto dolore e vergogna, perché lo ha sentito come inevitabile, non poteva fare diversamente. In quello che è successo prima invece lei sottolinea le sue colpe, il suo essere stata una donna facile, poco orgogliosa, senza rispetto di sé. Beveva molto ed era raramente lucida, di alcuni eventi ricorda solo frammenti, angosciosi. Era affettivamente sola. Il rapporto con la madre restava pessimo dopo la sua gravidanza e il suo divorzio. Ogni tanto la vedeva, sentendosi ripetere ossessivamente di trovarsi qualcuno, “qualcuno che se la prenda”, rimproverandola del fallimento di non essere capace di trovarsi uno straccio di uomo. Lei usciva con tutti, cercando di allacciare relazioni improbabili come da “comandamento” materno. Da questi racconti emergono marginalmente anche le vicende del suo paese: i giovani che emigrano, le poche risorse e speranze. Paesaggi ancora intatti, una storia che sembra sovrapporsi a quella delle nostre campagne dei primi decenni del secolo scorso: povertà estrema, emigrazione massiccia, superstizioni e usanze contadine unite a cascami di teorie e pratiche socialiste, mai veramente fatte proprie e ora in rapido disfacimento. L’alcool onnipresente, per stordire, calmare la fame, rendere sopportabile la solitudine e la fatica fisica. I ricordi, seppure lontani, sono estremamente nitidi. La madre è una figura sempre presente nei colloqui: i sogni che Liuba racconta sono frequentemente relativi alla distanza che sente dalla sua terra d’origine, e dalla distanza interna che sente con lei. “Sogno che sto andando a casa, attraverso il bosco che la separa dal villaggio, ma vedo un larghissimo fiume che separa il bosco da casa mia: è pieno di detriti, di tronchi d’albero, mi chiedo come fare per superarlo, e non ce la faccio” “Sto salendo su una montagna, attraverso un bosco, la salita diventa sempre più ripida, mi devo aggrappare ai cespugli, agli alberi, non riesco più ad andare avanti, non vedo mai la fine del bosco” E’ una madre idealizzata, descritta dalla paziente esattamente con le parole che la madre stessa usava per sé: una donna forte, determinata, decisa, che ha sempre lavorato per mantenere la famiglia, che ha avuto delle relazioni anche durature, senza imporre i propri compagni ai figli. La madre “reale” vive in Romania, ed è diventata pure lei alcolista. Rifiuta di curarsi, nega l’alcolismo, lo banalizza. La paziente, che la sente telefonicamente, si accorge che è sotto l’effetto dell’alcool perché solo allora riesce a esprimere talvolta affetto e nostalgia. Ci sono anche altri aspetti della vita di Liuba che evidenziano il suo modo di funzionamento interno: non ha mezze misure, le cose sono o tutte giuste o tutte sbagliate, non ci sono verità individuali ma “la verità” unica e insindacabile. Sul lavoro è terribile: brava e precisa, rimprovera aspramente le altre quando non sono perfette. La perfezione ovviamente è stabilita da un suo metro interno assai esigente. Vive con difficoltà il rapporto con le colleghe di lavoro, per le quali prova insieme sentimenti di invidia, e di superiorità: invidia per la loro capacità di fare gruppo, di muoversi con apparente sicurezza nelle relazioni con gli altri, e superiorità perché si sente più capace e attenta di loro, e non manca di farglielo notare: spesso si lamenta perché “gli altri non rispettano le regole”, e a lei tocca ristabilire l’ordine. Le relazioni sono fonte di rabbia e frustrazione. Liuba è provocatoria e non capisce perché è così tenuta a distanza, perché suscita inevitabili antipatie che accrescono il suo isolamento: sembra non possedere gli elementi basilari di comprensione di ciò che muove gli affetti degli altri. Li guarda senza capire, sentendo solo l’ingiustizia insopportabile di non essere riconosciuta come quella che è per forza dalla parte della ragione. Quando cerco di aiutarla a riflettere su cosa possano suscitare negli altri i suoi atteggiamenti provoco reazioni piuttosto accese: possibile che proprio non riesca a capire quanto ha ragione? Se il regolamento dice così, così deve essere. Nel tempo prendo a chiamare con lei questo atteggiamento come “socialista sovietico”: le regole e la parità prima di tutto. Poi eventualmente la ragionevolezza, e per ultimo gli affetti. La vicinanza con gli altri è vissuta anche come pericolosa “Sento quello che sentono loro, mi comporto come loro”: è questo il suo modo per dire che non conosce i suoi confini, gli altri sembrano portatori di una sorta di contagio per cui la relazione con loro diventa fonte di confusione sul proprio senso di sé. Non è presente dentro di lei la possibilità di una giusta distanza di poter stare vicini ma diversi, vicini ma ambivalenti, affettuosi ma arrabbiati. Per lei è possibile solo dover essere appiccicati, uguali, o esplosivamente rompere, come da modello materno. E’ molto presente nei colloqui anche la religione, che viene vissuta come salvifica. Liuba è di religione ortodossa. Sebbene il comunismo rendesse difficili le pratiche religiose, nel suo piccolo paese d’origine la chiesa veniva frequentata. Alcuni riti dovevano essere praticati in semiclandestinità, come il battesimo, però le celebrazioni sacre, almeno le più importanti, venivano frequentate dalla gran parte delle persone, unitamente alla pratica di tradizioni legate ad esse (ad es. la benedizione del pane pasquale). Il matrimonio di Liuba viene celebrato in chiesa, su disposizioni della suocera: sono gli anziani perlopiù a portare avanti le pratiche religiose, tenendo in poco conto le nuove regole. Liuba si riavvicina in modo importante alla religione quando viene accolta in istituto. Quando arriva ai colloqui ha un sacerdote che funge da confidente, è assidua nelle preghiere e nei riti religiosi. Ha una visione magica e fortemente idealizzata del potere di Gesù, nel quale ripone le sue speranze di guarigione, e di migliori condizioni di vita. In questo possiamo riconoscere il suo bisogno di elementi, di figure che possano essere certamente idealizzati. Dio è padre onnipotente, buono, che accoglie tutti e guarisce da ogni male, ed è una certezza che deve avere (perchè in presenza di questa certezza anaclitica, il resto può assumere un suo senso). Non cerca, anzi teme, la relazione con gli uomini, dei quali ha una visione cruda, violenta, terribile. Gli uomini tutti sono considerati come predatori violenti, pericolosi, la loro presenza provoca la fuga: non entra mai in un negozio se il commesso è maschio. Desidera avere un figlio, ma è come se non riconoscesse dentro di sè che per averlo occorre concepirlo. Non tiene conto dei passaggi. Sembra che la sua debba essere una “immacolata concezione”. Quando si concede di pensare ad un compagno, immagina una persona specialissima, che un giorno la riconoscerà, e la sceglierà. Il tipo di relazione immaginato è prevalentemente spirituale, quasi del tutto desessualizzato, di nuovo con una figura estremamente idealizzata. Liuba ha bisogno di oggetti interni stabili: utilizza una relazione transferale idealizzata, una relazione che le permette di comprendere, “in sicurezza”, quella che lei chiama la sua ingenuità, che significa: idealizzo e non vedo gli aspetti negativi nell’altro perché non posso tollerare i miei e così alla fine non mi proteggo. Infatti non si è mai accorta prima della pericolosità, degli aspetti “predatori” degli uomini con cui cercava di avviare delle relazioni nel suo paese. Alcuni di questi uomini l’hanno picchiata, altri violentata, altri derubata. Lei non è mai riuscita a cogliere in tempo i segnali di pericolo per evitarli. DALLA TUTA AL VESTITO DELL’800 l titolo è preso dal 2° Rorschach (febbraio 2007) In questo primo periodo l’elemento clinicamente più rilevante, e quello che causava alla paziente maggiori difficoltà era la sua posizione interna che divideva il mondo e sé in totalmente buono/totalmente cattivo. IDEALIZZAZIONI POSITIVE E NEGATIVE: un mondo in bianco e nero. Rileggendo i colloqui che mi ero trascritta, ho rivisto quanto tempo sia stato dedicato ad equilibrare le posizioni estreme della paziente, quanto a calmierarle, a spiegarle, a sottolineare la necessità di andare oltre per poter stare meglio. Abbiamo ripercorso più volte la sua storia, e la storia del rapporto con la madre. Nonostante la paziente non se ne rendesse conto, il suo modo di comportarsi attuale ricalcava in gran parte il modello materno. Ad esempio: • quando qualcosa non le andava bene taceva per molto tempo, finchè per una ragione anche minima esplodeva in rabbie violente, imprevedibili, che facevano spaventare gli altri: lanciava piatti, pentole, stoviglie, urlava, picchiava se possibile. • Coi colleghi di lavoro: si sentiva “costretta” a far notare le loro manchevolezze, e far ammirare la sua perfezione. Ma per mantenere la perfezione si sottoponeva a sfibranti tour de force (“ci dicono che per fare una cosa abbiamo tot minuti. Io ce la faccio sempre”). Arrivava a casa sfinita e frustrata per non essere presa ad esempio e insegnamento dai suoi diretti superiori. Abbiamo lavorato sulla fatica che costa questa “perfezione”, sul riconoscimento di parti positive degli altri (meno precisi, ma forse più espansivi, più affettivi), sulla valorizzazione di altri aspetti personali, sulla auspicabile presenza di “prima il dovere, ma dopo, il piacere” ▪ Nel rapporto con la figlia: la ragazza, studentessa modello fin dal suo arrivo in Italia, ha imparato velocissimamente l’italiano e ha iniziato la frequenza di una scuola superiore impegnativa. Ha sempre avuto voti molto alti. Si è sempre adeguata alle aspettative della madre che esercitava un controllo totale sulle sue azioni: da quelle apparentemente più marginali a quelle più importanti. Quando la ragazza faceva piccolissime mosse di separazione la rabbia della paziente era feroce, assolutamente sproporzionata: una volta si è tagliata la frangia negandolo alla madre, e ammettendolo davanti ad una sua amica. La sera hanno avuto un litigio violento, dove Liuba si è sentita sfidata dalla figlia. Le ha mollato uno schiaffo. E’ stata in subbuglio tutta la notte. La frangia sembrava essere diventata il simbolo di una inarrestabile decadenza morale, e per lei era veramente così. E’ stato quando ha cominciato a non fare più quello che sua madre voleva, che è iniziata la sua fine. Solo elaborando a lungo fatti simili a questi e legandoli ai ricordi della sua vita e della sua propria relazione con la madre, Liuba è arrivata pian piano a riconoscere nei suoi comportamenti verso la figlia quelli della madre con lei. A rivivere la sofferenza e il dolore di dover vivere cercando in continuazione la sua approvazione, perché solo con quella poteva essere amata. A riconoscere come diverse, separate, la sua storia e quella di sua figlia, per arrivare infine a poter pensare: “io sono io, e questo mi appartiene, tu sei tu, e questo appartiene a te”. Via via emergeva nei colloqui come anche la madre di Liuba fosse stata incapace di accettare i movimenti di separazione della figlia: se lei faceva qualcosa di non permesso, per esempio uscire a ballare con delle amiche, o appunto acconciarsi i capelli, non veniva mai scusata, nemmeno dopo settimane di comportamento ineccepibile. Lei allora cercava di redimersi con il comportamento, con le scuse, con le preghiere, in un crescendo che arrivava alla minaccia di uccidersi (un paio di volte ha anche ingerito dei farmaci che ha trovato in casa) o alla fuga da casa. Il loro rapporto era già difficile prima della gravidanza della figlia, che è stato l’elemento di rottura definitivo. I colloqui sono stati anche rivolti a definirla e separarla meglio: le emozioni sue sono sue, quelle degli altri sono loro, la sua storia è stata questa, quella della figlia sarà la sua, non bisogna confondere, lei è lei e non sua madre….. Spesso infatti, in situazioni relazionali difficili, perdeva il “confine” di sé, e spostava sugli altri ciò che apparteneva a lei (in particolare la figlia, ma anche qualche collega). Ad esempio: mi racconta di quando sua madre fosse una donna molto conosciuta, apprezzata, tanto che lei quando era bambina non sapeva mai se quello che otteneva, come le buone votazioni a scuola, erano perché era brava, o perché era la figlia di sua madre. Elementi simili hanno creato delle zone cieche o iperdense che hanno avuto successivamente bisogno di un enorme lavoro per essere rese omogenee al resto dei contenuti coscienti. E' più facile che vengano rimossi, eliminati senza elaborazione, o talvolta, conservati in rappresentazioni iconiche dell’evento, dissociate dagli affetti che non hanno avuto modo di stabilizzarsi. Tali elementi sono causa di sintomi. Alla fine di questo periodo, che solo per maggiore chiarezza lego alla somministrazione del secondo Rorschach , gli aspetti depressivi nei colloqui sono quasi scomparsi, la paziente conduce una vita molto attiva, si è iscritta ad una scuola serale per ottenere il diploma di maturità, riesce ad avere un atteggiamento meno critico sul posto di lavoro, e a intrecciare qualche relazione di amicizia con alcune colleghe. Diviene evidente anche l’ investimento narcisistico su di sé: arriva ai colloqui con vestiti femminili, curata nell’aspetto e truccata. DAL VESTITO DELL’800 AL VESTITO DA SPOSA I temi delineati nel capitolo precedente sono stati oggetto di lavoro fino alla fine della terapia, seppur con intensità diversa e anche con obiettivi terapeutici in evoluzione. La parte non ancora presa in considerazione, già introdotta (ne testimoniano le differenza tra primo e secondo Rorschach), che si amplierà diventando il filo conduttore della terapia fino alla fine, è quella relativa alla conduzione verso un riconoscimento e una riappropriazione del desiderio sessuale, e di una possibile relazione con il maschile. Era stato essenziale introdurre nei colloqui temi inerenti alla pulsionalità sessuale perché Liuba capisse che era un argomento affrontabile, lecito, anzi auspicato, e che era importante rielaborare le sue vicissitudini per riprendere un percorso che si era interrotto, ma che era necessario riattivare per il suo equilibrio presente e futuro. Questa tematica è stata presente in sottofondo fin dal principio, profondamente segnata dalle sue esperienze passate, che l’avevano portata nell’attuale ad un evitamento per quanto possibile totale degli uomini, ma era un tema che tendeva ad evitare, perché si vergognava, perché tendeva a chiudere velocemente il periodo della prostituzione come non imputabile a sé, perché non si rendeva conto delle sue contraddizioni, ma soprattutto perché aveva una paura quasi fobica degli uomini. Restava possibile una vicinanza con figure maschili che ricoprissero un ruolo definito, caratterizzato da accudimento e vicinanza, completamente scevro da aspetti sessuali. Non era in difficoltà con i colleghi di lavoro, e si sentiva tranquilla con altri due uomini : uno è il sacerdote suo confidente spirituale, l’altro un amico che conosceva da molto tempo (ancora dalla sua permanenza in istituto), e che l’aveva molto aiutata sia economicamente sia in cose pratiche. Questo signore non aveva mai tentato con lei il minimo approccio, si era limitato ad offrire il suo aiuto ogni volta che gli veniva richiesto, ritirandosi subito dopo. Questo atteggiamento rassicurava Liuba, che era molto grata a questa persona. Per entrambi tuttavia, in maniera quasi inconsapevole, Liuba provava anche un’attrazione: una volta mi aveva detto scherzando a proposito dei preti “Quanto ben di Dio sprecato”! E per quanto riguarda l’amico provava sentimenti confusi: questo era un uomo diversissimo da quelli che lei sapeva essere gli uomini. Non si spiegava perché fosse così disponibile, e in assenza di sue richieste esplicite, non sapeva come regolarsi, né come doveva comportarsi. Non osava chiedere nulla, ma nello stesso tempo si chiedeva se doveva sentirsi legata a questo uomo, poteva essere che lui si aspettasse proprio questo, ritenendo superfluo comunicarlo. Entrambe queste figure, che si prestavano a fantasie relazionali idealizzate, spirituali, sono state importanti per poter ricondurre gli uomini nella più generica categoria “esseri umani”: non tutti i maschi sono brutali e violenti, anche loro prima di essere maschi sono esseri umani, e la differenza uomo/donna può in alcuni contesti non essere considerata. In realtà quello che la spaventava era un approccio maschile desiderante, a cui lei non avrebbe saputo come rispondere. Era molto in ansia a questo proposito: così come un tempo le sembrava obbligatorio accettare, adesso temeva di non essere in grado di dire di no: tutto quello che poteva fare era evitare di incontrare lo sguardo, ed evitare di parlare. Mi ha raccontato un episodio piuttosto singolare avvenuto mesi prima dell’inizio della terapia: un uomo l’ha avvicinata in un supermercato, facendole dei complimenti e insistendo per lasciarle il suo numero di telefono. Lei gli ha risposto che era inutile, non avrebbe mai chiamato. Era meglio se lei gli dava il suo: e glielo ha dato. Quest’uomo l’ha chiamata e sono usciti (non ha saputo dire di no): le ha anche detto però che “così non si fa”, la donna non da mai il suo numero al primo che glielo chiede. Questo l’aveva colpita molto: a causa della sua “ingenuità” si era messa ancora in una situazione di rischio. Meglio chiudere: era stata l’ultima volta che era uscita con un uomo. Anche in questo frammento possiamo riconoscere l’adesività al bisogno dell’altro, modalità unica per essere amata, ma anche comportamento che in passato ha favorito il suo mettersi in situazioni pericolose e degradanti. Il lavoro è stato centrato inizialmente sul cercare di riconoscere dentro di lei i motivi della sua incapacità di autoproteggersi, di questo suo fidarsi cieco, continuativo, auto lesivo. Nel suo rapporto con me talvolta parlava come una bambina: “dottoressa, lei me lo aveva detto che ci vuole molto tempo, dottoressa lei mi aveva detto che….. mi perdoni, non mi sono fidata di lei”. Quando sottolineavo positivamente questo suo non fidarsi: “è una persona adulta ed è giusto che coltivi dei dubbi, è giusto che voglia stare a vedere, che si prenda del tempo per decidere se è vero” si meravigliava: credeva di avermi fatta arrabbiare, di avermi persa per sempre, e invece veniva addirittura lodata! Ho lavorato per ampliare, favorire, premiare, la sua capacità cognitiva: vedere le cose, cercare di capirle e interpretarle, dare un giudizio, fidarsi di sé, della sua parte grande, capace, che pure dimostrava di avere in tanti aspetti della sua vita; e per introdurre l’ambivalenza, la possibilità di non essere sempre così accessibile, permeabile, ma di poter sentirsi anche arrabbiata, in collera, infastidita, senza dover per questo rompere la relazione, o temere di essere abbandonata. Abbiamo ripercorso più volte la storia delle sue relazioni con gli uomini: nell’adolescenza era una ragazza molto bella e desiderata, si muoveva con sicurezza con i ragazzi, ora pensava che era riprovevole il comportarsi così, ma allora no. “Uscivo con uno ed ero capace di farmi riaccompagnare da un altro…. Non si fa così….”. La relazione iniziata col suo futuro marito aveva un po’ queste caratteristiche, erano entrambi molto giovani, si piacevano, ma avevano altre priorità. Liuba quantomeno: finite le superiori ci sarebbe stata la scuola per infermiere, era il progetto della madre, ma lei lo condivideva. Il progetto della madre era anche che lei sposasse un uomo prestigioso, magari un medico. Era molto critica col suo fidanzatino, e cercava di interrompere il loro legame (“aveva già capito che beveva, io invece no, ancora una volta non ho l’ho ascoltata”). I rapporti sessuali sono stati pochissimi, ed in essi Liuba cercava solamente conforto e vicinanza. Non sapeva nulla della sessualità: non se ne parlava mai. La gravidanza è arrivata quasi subito, e il matrimonio ne è stata la conseguenza. Liuba è andata a vivere con il marito, ultimogenito, come da tradizione. Il rapporto tra i due ragazzi però si è presto logorato, e Liuba ha tentato alcune volte di tornare a casa sua, venendo però rimandata ogni volta indietro da una madre ancora furibonda con lei. Si è allora separata dal marito ed è andata a lavorare in città. E’ in quel periodo che la relazione con gli uomini è diventata problematica prima, e impossibile poi: doveva trovare uno, qualsiasi, che se la prendesse. L’affetto, l’innamoramento, il desiderio, non potevano avere spazio. Né se li meritava, né ne aveva più diritto. Il bere le serviva anche per disinibirsi sessualmente ed essere disponibile. E’ stato un periodo confuso, doloroso: l’oggetto materno idealizzato che era stata, era diventato definitivamente negativo, indegno, da buttare via. Il percorso di individuazione e separazione, già così difficile per questa ragazza, era diventato impossibile: l’unica alternativa che le restava dopo aver fallito gli obiettivi ideali cui era destinata era questa vita disastrosa (“me lo dicevano da piccola, che ero troppo bella, troppo orgogliosa, che avrei fatto una brutta fine”.) Tutto il male e le sofferenze se le era meritate, doveva espiare le colpe (“ho sempre pensato di avere un angelo e un diavolo in me, e quando mi capita qualcosa, o devo lavorare molto mi dico Ben ti sta, così impari”). In effetti, col senno di poi, non ne ha sbagliata una, e cerco di farla lavorare su questo: quanto c’è di suo in quel che le è successo? E quando finirà l’espiazione? E quali colpe erano da espiare? Nei numerosi colloqui necessari ad esplorare gli avvenimenti passati, il lavoro condotto rimaneva centrato sull’integrazione di parti positive e negative, e sul far emergere la pulsione sessuale connotandola come buona, essenziale da riconoscere, necessaria, togliendole gli aspetti di pericolosità e disvalore di sé, ripulendo la relazione con il maschile sia dal desiderio idealizzato di un rapporto quasi solo spirituale, sia dal timore di aggressioni. Era importante inoltre che il terrore potesse pian piano trasformarsi in paura, disagio, malessere, per poter essere guardabile e ulteriormente modificabile. Nel frattempo Liuba era diventata assai più saggia nelle relazioni lavorative: ciò le ha permesso di intessere amicizie con alcune colleghe. Questo ci ha aiutato perché con alcune di loro, senza legami affettivi in quel periodo, ha cominciato ad uscire, ad andare a ballare, a fare compere. Inizialmente molto critica verso la loro “leggerezza” nel relazionarsi all’altro sesso, dietro mio suggerimento ha cercato invece di capire, di guardare, di “imparare” come poteva essere una relazione sessuale normale, non prevaricante o violenta. Spesso le dicevo che anche questa era una “scuola serale”: non di materie scolastiche, ma delle cose della vita, degli affetti e delle emozioni. Se come loro facevano non le piaceva, bene, avrebbe trovato un suo modo. Ma doveva imparare. Questo lavoro di “rivitalizzazione” stava dando i suoi frutti: Liuba restava bloccata nei comportamenti, trincerandosi dietro il fatto di essere di gusti difficili, oltre che di non sapere come comportarsi, ma diversi uomini cominciavano a comparire nei colloqui: un professore, un nuovo collega, un medico sposato che la corteggiava garbatamente, un nuovo medico di cui era diventata paziente. Coltivava lunghi sogni ad occhi aperti, come una giovanissima ragazza, e chiedeva “istruzioni per l’uso”. Un sogno di questo periodo: “sono seduta su un letto, vicino ad un uomo che sta scrivendo una lettera: è in rumeno e mi fa leggere le prime parole. Mi dice - Vedi cosa c’è scritto? C’è scritto ti amo, è una lettera per te. Io non so cosa rispondere, ma sento che c’è qualcuno lì vicino anche se non lo vedo, forse nell’altra stanza, c’è una mia amica e io non ho paura” Arrivate a questo punto non dovevo più sollecitare i suoi racconti, i suoi pensieri: spontaneamente mi raccontava le sue fantasie, i suoi incontri, i suoi tentativi di non scappare via, i suoi insuccessi: “C’era il figlio di un paziente l’altro giorno, mi piaceva come uomo. Lui mi ha vista, e mi ha chiesto qualcosa: non sono nemmeno riuscita a rispondere, non mi ricordavo l’italiano, mi venivano solo le parole in rumeno, e sono scappata via, mi sono infilata nell’ascensore per sparire più in fretta”. Io la incoraggiavo, le spiegavo come funzionavano da noi le regole del corteggiamento, mi facevo raccontare da loro invece com’erano. Anche se nessuno era il “grande amore” doveva allenarsi prima, doveva “fare palestra”: anche questa è diventata una metafora condivisa. Verso la fine della terapia, quando i colloqui erano diventati quindicinali e poi mensili, Liuba sentiva il bisogno di essere rassicurata nelle nuove relazioni che stava intraprendendo, se lasciata da sola troppo tempo l’ombra lunga della Romania tornava a proiettarsi su di lei e la figlia (Ho paura di essere come quella di una volta… Mia figlia mi ha detto che sono come allora….). Allora veniva da me, mi riassumeva una girandola di incontri, appuntamenti, caffè e pizze varie, amore e rabbia..… e poi mi guardava interrogativa. Io le dicevo che era diventata bravissima. Lei rideva sollevata: “lo sapevo, lo sapevo, lo ripeto a me stessa: La dottoressa mi diceva sempre che devo fare palestra” Nella vita di Liuba stavano anche avvenendo altre cose: si era finalmente diplomata, stava cercando un nuovo lavoro, la figlia si era trovata un ragazzo, e dopo essersi diplomata aveva preferito andare a lavorare (il progetto era che andasse a fare l’infermiera….): dopo averne parlato lei si è detta d’accordo, anche perché sarebbe stato un notevole sollievo dal punto di vista economico. UNA STORIA CHE VIENE DA LONTANO Negli ultimi mesi della terapia ho cercato insieme a Liuba le “cose buone” della sua storia e della sua vita. Nessuna sofferenza era più pressante, le cose si erano ormai incamminate su una buona strada, mi pareva necessario recuperare anche elementi della sua storia che fossero positivi, testimoni che lei era stata una figlia amata, che potesse portarsi via e dai quali trarre fiducia e conforto nel tempo successivo. Liuba affermava di non avere ricordi di quando era piccola, ma non appena sollecitati, alcuni fatti, molto lontani nel tempo sono riemersi. Piccoli frammenti significativi: lei seduta davanti al suo piccolo armadio che sceglieva lentamente i vestiti da indossare, la madre che la lasciava fare e stava paziente ad aspettare. I numerosi bei vestiti che la madre le cuciva, che la rendevano ammirata da tutto il paese. Lei che cantava per l’autista della corriera che la portava all’asilo, perché lui si fermasse proprio davanti all’ingresso. Una sua grande arrabbiatura con la mamma perché una domenica mattina l’aveva trascurata: era andata in tutte le case dei vicini a fare le sue rimostranze: “Sono le dieci di domenica mattina, e guarda come sono, la mamma non mi ha ancora lavata e pettinata! “ Era commossa e stupita quando mi raccontava queste cose, che la riappacificavano con il suo passato, con sé stessa e con la madre. Attualmente Liuba ha cambiato lavoro, divenendo la responsabile di un servizio di assistenza specifico per persone non autosufficienti. Si è presentata al responsabile del personale molto determinata “Conosco bene il valore della mia merce”. Non ha mai messo in dubbio che il suo futuro è in Italia, e ha intrapreso un mutuo impegnativo per poter vivere in una casa veramente sua. Non ha ancora una relazione stabile, ma conduce una vita molto vivace. Sta bene. Test re-test a confronto: funziona la psicoterapia? Uso del test di Rorschach come potenziale “verifica degli effetti” della terapia psicoanalitica sul funzionamento psichico di una paziente in tre momenti differenti del trattamento Relazione della dott.ssa Valentina Andreoli Brescia, 16 marzo 2012 La consegna del Rorschach, mette il soggetto di fronte ad un lavoro di rappresentazione, un po’ come quando si sogna: ciò richiede da un lato di lasciare emergere le associazioni, “giocando” con il materiale, dall’altro tenere conto della realtà, attenendosi alla tavola. C’è una macchia sullo sfondo che obbliga a concentrarsi sui contorni, sulle forme, richiede un lavoro di legame per costruire una figura che abbia un significato. Il Rorschach è soprattutto una prova dell’identità e della tenuta dei confini interno-esterno. La sua struttura simmetrica intorno all’asse centrale, in contrasto a uno sfondo, sollecita la proiezione dello schema corporeo, permette quindi di valutare la solidità dei confini e la differenziazione interno-esterno. Il test non è un puro strumento ma, in quanto collocato tra percettivo e immaginario, tra mondo esterno e mondo interno, diventa un elemento relazionale che concorre al nascere di un’esperienza terapeutica con la funzione di “oggetto transizionale” , di terzo. La capacità di fare uso creativo del materiale, di “giocare” con esso, diviene l’elemento differenziante tra l’individuo relativamente sano e quello emotivamente disturbato, impegnato o a difendersi o ad espellere gli aspetti intollerabili di sé Le informazioni raccolte con il test di Rorschach, una volta rielaborate sono molto utili per delineare la personalità di un soggetto, tanto più se somministrato , come nel caso di Liuba, in momenti cronologicamente differenti della psicoterapia. Questo approccio, che potrebbe rappresentare un momento di verifica dell’efficacia della terapia, permette di evidenziare, se ci sono, i cambiamenti in corso e in quale direzione proseguire nel lavoro. E’ pomeriggio e siamo reduci da una mattina densa e interessante, l’idea è di esplorare i tre protocolli Rorschach di Liuba, seguendo dei fili “tematici” che forse ci permetteranno di non perderci e renderanno il lavoro più agevole. Tali temi sono stati individuati dopo un’ analisi dettagliata dei tre test, alla luce della storia personale, clinica e terapeutica di Liuba, ma probabilmente possono rappresentare una “traccia da seguire” anche in altri casi. 1. Rappresentazione del sé 2. Rappresentazione della relazione 3. Grado di elaborazione del trauma 4. Identificazioni maschili e femminili 5. Capacità di rappresentazione delle pulsioni aggressive e sessuali. 1.Rappresentazione del sé1 Gli" oggetti interni" vivono nello spazio psichico di ognuno di noi, sono frutto di processi introiettivi, sono soggettivi, deformati rispetto agli "oggetti esterni "cui si riferiscono. Influenzano la relazione con l’esterno, ma tanto più sono stabili, tanto più danno la libertà di incontrare gli oggetti esterni senza eccessive contaminazioni proiettive, permettono di vivere il "nuovo" con sufficiente libertà e, nello stesso tempo, di "ritrovare" nel presente echi del passato e prospettive per il futuro. Il protagonista e contenitore del palcoscenico interno è il Sé, ovvero la rappresentazione che L’Io fa di sé stesso. Il Sé è la fonte cui l’Io attinge per regolare le sue condotte: quanto più le informazioni pervengono e sono contenute correttamente nel sé, tanto più la persona è libera di agire ed esprimersi. Ognuno di noi dovrebbe avere, in età adulta, una rappresentazione di sé e degli altri, realistica, normale, né svalutata, né idealizzata. Ascoltando il racconto di Liuba e di sua mamma, abbiamo immaginato alcuni personaggi forti, nitidi e idealizzati, altri, altrettanto deboli, sfuocati e denigrati, un mondo interno in bianco e nero, popolato di buoni e cattivi. Liuba stessa ci appare a tinte forti: una bambina “speciale”, amata e ammirata; una ragazzina bella e corteggiata; una madre, una prostituta, una migrante, un’alcolista.. Partiamo dalla tavola I che rimanda alla rappresentazione di sé, all’immagine del corpo e all’imago materna. L’imago materna è il rappresentante interno della nostra relazione primaria con la madre. Importante non confondere la realtà psichica con la realtà esterna. Esempio famoso, per chi la conosce, della dott.ssa Morano: una mamma “melassa”, che si comporta cioè in modo sempre accondiscendente con il bambino produrrà una imago materna opposta, terrificante, perché? Perché è importante che il bambino sperimenti nella relazione, una madre “sufficientemente buona”, presente, attenta ai bisogni ma anche “sufficientemente cattiva”, capace di dare dei limiti, di arrabbiarsi cioè non così idealizzata2 in senso positivo (meravigliosa) o in senso negativo (tremenda). 1 Al Rorschach si analizzano le risposte Umane, le risposte Animali fino alle risposte Oggetto apprezzandone la qualitàformale, proiettiva e identificatoria. Tutte le tavole del Rorschach sollecitano la proiezione dell’immagine del corpo, alcune in particolare come la tavola I e la tavola V. 2 L’idealizzazione èun processo difensivo per cui un oggetto, considerato in modo ambivalente (amore-odio), viene scisso in due, uno dei quali viene concepito come idealmente buono, l’altro come totalmente cattivo. Il ruolo difensivo dell’idealizzazione èstato sottolineato da numerosi autori, in particolare Melanie Klein, secondo la quale l’idealizzazione sarebbe essenzialmente una difesa contro le pulsioni distruttive. L’idealizzazione puòavvenire sia nell’ambito della libido dell’Io sia nell’ambito della libido oggettuale. E’segno di una Questa esperienza dell’altro permette al bambino di avere una concezione di sé come di un essere abitato di passioni (amore e rabbia) che possono coesistere. A volte, infatti, proverà amore verso la madre, altre volte rabbia senza che questo distrugga il rapporto. Alla prima tavola è normale che la persona manifesti una certa ansia (è un test, un oggetto sconosciuto ecc..), si cerca però di vedere se l’ansia è un motore oppure paralizza la persona. Nel primo Rorschach di Liuba, l’ angoscia e impressionabilità al nero, la porta a lasciarsi “invadere” passivamente dal materiale piuttosto che proiettare attivamente. Compare una rappresentazione idealizzata in negativo, depressiva, aggressiva (due diavoli). A proposito di imago materna! Viene messa in scena una relazione anaclitica, “i diavoli stanno attaccati su qualcosa”. La relazione anaclitica non è una vera e propria relazione, non c’è uno scambio, è piuttosto la risposta a bisogni di appoggio e dipendenza, che nascondono e producono vissuti molto aggressivi. La confusione verbale tra “stare attaccati” e “attaccare” rappresenta bene l’ambivalenza dell’anaclitismo: nella somministrazione troviamo “attaccati” nel senso di appoggiati, in inchiesta “si attaccano” nel senso di aggredirsi. Nel secondo Rorschach diminuisce l’impatto angoscioso e Liuba approccia in modo più controllato la tavola. Come se riuscisse a mettere un po’ di distanza in più tra lei e la macchia. Dopo un abbozzo di rappresentazione umana (persone), compare come novità, rispetto al primo Rorschach, la scissione che produce, da una parte, un’idealizzazione positiva (angeli), dall’altra negativa (tutti neri). Siamo sempre sul registro dell’idealizzazione ma la scissione permette di proiettare fuori (nel mondo, nel nero..) il cattivo e tenere il buono. Nel terzo Rorschach l’approccio alla tavola è più dettagliato. Accanto all’immagine bipartita, non più idealizzata (animali) compare una rappresentazione unitaria, femminile, (farfalla) e una rappresentazione maschile, sessuale. Scompare la relazione anaclitica. Ne rimane solo un’ombra nella dicitura “questi due con le ali attaccate”. Quanto più le relazioni oggettuali perdono le caratteristiche arcaiche (“ti idealizzo e mi aggrappo, ti svaluto e ti attacco”), tanto più la rappresentazione di sé e d’oggetto diventa possibile. Non troviamo ancora, come risposta, la farfalla banale, ma è una farfalla, una rappresentazione di sé, né troppo bella, né troppo brutta, quella che tutti dovremmo avere. La tavola della rappresentazione di sé arriva finalmente a esserlo, l’aspetto angoscioso a mano a mano scema, la forma diventa più pregnante, l’affetto non invade il funzionamento cognitivo. problematica a livello di elaborazione della posizione depressiva, cioèdella possibilitàdi legare amore e odio ad un unico oggetto. La possibilitàdi mantenere un’idealizzazione minimale costituisce una necessitàdi appoggio (vedi Liuba all’inizio con la sua terapeuta) nella misura in cui non imprigiona il soggetto in un sistema chiuso ma resta legata all’investimento oggettuale. Questo si può vedere anche a livello della siglatura: il Clob diventa C’ e poi F+, arrivando ad una maggiore precisione formale legata ad una riduzione dell’angoscia. Da una rappresentazione globale si passa a una capacità di entrare nei dettagli. Nel contempo l’inchiesta va via via depurandosi, e snellendosi, nel momento in cui le risposte alle somministrazioni diventano più ricche. Anche guardando la tavola V si nota immediatamente che la risposta si depura del nero. Si spengono le angosce e si attenuano gli elementi pulsionali, il che comporta un rafforzamento dal punto di vista narcisistico, dell’immagine di sé. 2. Rappresentazione di relazione3 Scegliamo la tavola II, tavola del confronto con il mondo pulsionale e con la relazione. Al primo Rorschach, troviamo anche qui una relazione non relazione (“persone sanguinanti..sono attaccate”), violenta e fusionale. La relazione fusionale implica sempre la violenza, perché per staccarti da una fusione devi strapparti via, e sentire l’altro come oppressivo. Al secondo Rorschach c’è una presa di distanza dalla tavola (“mi ricordo dalla volta scorsa….forse guardando la tivù..”) e la scissione tra elementi violenti (terrorismo) ed elementi salvifici (cuore di Gesù). Compare una prima risposta nel bianco, cosiddetta “seconda pelle”, indumento protettivo a scopo di riabilitazione narcisistica (“vestito, di quello delle signore dell’800”). Ovvero Liuba, per la prima volta nei protocolli, gestisce le sue parti tristi e depressive attraverso una difesa narcisistica, investendo cioè su di sé. Questo segnale di passaggio nella psicoterapia corrisponde ad affermazioni del tipo “devo cominciare a occuparmi di me”, “sto meglio da sola, e non ho bisogno di nessuno” e a livello comportamentale ad un aumento di spazi dedicati a sé stessi, un cambio di abbigliamento... Quindi la difesa narcisistica non è buona o cattiva in sé, dipende dal funzionamento psichico della persona. In questo caso ha un valore prognostico positivo. E’ una “pausa” dall’investimento relazionale per investire su di sé e rafforzarsi. Nel terzo Rorschach l’”abito” della signora diventa un “abito da sposa”, l’abito più relazionale che esiste, perché si sceglie per sposare qualcuno. Dalla difesa di restaurazione narcisistica si va verso una rappresentazione isterico-femminile fortemente connotata culturalmente. 3. Grado di elaborazione del trauma4 3 Al Rorschach si analizzano le risposte movimento umano (K) e movimento animale (kan) apprezzando la qualità della relazione (evoluta-ambivalente, libidica, aggressiva, narcisistica, analitica, simbiotica). Le tavole di riferimento sono le Tavole II-III e la Tavola VII. 4 Al Rorschach si analizza la qualità dei processi di pensiero (Formule della Forma,TRI Rapporto tra polo colore e polo movimento) Quello che colpisce della storia di Liuba è l’abbondanza di situazioni traumatiche, senza tempo, spazio e appoggio per elaborarle. Il trauma è un’esperienza talmente forte, inaspettata che investe il soggetto come uno tzunami, lasciandolo passivo e incapace di assimilare l’esperienza. Un trauma può essere qualcosa che si gioca nello spazio angusto di attimi, di tempi più rapidi del pensiero, di tempi buoni soltanto per l’azione dell’istinto di sopravvivenza. Ciò crea delle zone cieche che hanno successivamente bisogno di un enorme lavoro per essere rese omogenee al resto dei contenuti coscienti. E’ senz’altro più facile rimuoverle, eliminarle non elaborate, o talvolta, conservare le rappresentazioni “flash” dell’evento, dissociate dagli affetti che non hanno avuto modo di stabilizzarsi. Il problema è che possono suscitare sintomi. I traumi di Liuba sono legati alla sua storia individuale, alla sua storia intergenerazionale e alla sua storia migratoria. Il momento del trauma individuale è quello della “caduta” agli occhi della madre. Tanto era stata idealizzata e investita narcisisticamente quando era una bambina, quanto poi viene denigrata e abbandonata da adolescente. E’ il trauma di Liuba, il trauma di sua madre, il trauma di più generazioni con premesse promettenti deluse: il crollo della possibilità di riscatto femminile attraverso di lei. I traumi sono tanto più profondi quanto più sono portatori di aspettative e speranze riparatorie di più generazioni. Anche la migrazione, sappiamo, rappresenta un trauma e come tutte le situazioni traumatiche, se elaborate, è ricca di potenzialità per chi le vive, altrimenti può coincidere con un vagare senza identità. Nel Rorschach per valutare la capacità di elaborare un trauma, occorre valutare la tenuta del funzionamento cognitivo, infatti la caduta cognitiva è il segnale dell’interferenza del trauma. Nei protocolli di Liuba, vedremo, l’aspetto traumatico va via via attenuandosi. Ripartiamo velocemente dalla tavola II per vedere gli effetti positivi dell’elaborazione del trauma sulla qualità della percezione. Nel primo Rorscahch, la tavola funge da “riattivatore traumatico”. E’ come se Liuba vedesse i corpi mozzati e sanguinanti davanti a sé. Nel secondo Rorschach, grazie all’intellettualizzazione c’è una maggiore organizzazione interna. Questa volta è come se Liuba vedesse i corpi in televisione. Nel terzo Rorschach, l’impressionabilità è attutita e rimane marginale in inchiesta. E’ come se Liuba guardasse un disegno. La percezione è più ricca e precisa, cresce la capacità analitica e la ricchezza delle risposte. Appaiono quindi delle difese evolute, di ordine nevrotico, che permettono di riorganizzare e rimuovere: le persone diventano “figure senza testa” La tavola VII è la tavola che rinvia simbolicamente alla relazione con l’imago materna e all’immagine femminile. Al primo Rorschach, troviamo ancora dell’idealizzazione in positivo (angioletti). una volta una rappresentazione sul registro Nel secondo protocollo, la rappresentazione si sposta verso un tema di nascita, forte la scissione che divide la tavola in due: il bello dentro e il cattivo fuori. Nel terzo Rorschach, apparentemente c’è un peggioramento. Troviamo infatti nella siglatura una grossa caduta cognitiva (Dd F-). Liuba, chiede l’appoggio della dottoressa (“non so se la vede anche lei?”), e proietta, in un dettaglio raro (Dd), una rappresentazione mortifera e persecutoria del materno e femminile: “la morte, occhi, naso, bocca, qualcosa di brutto..” L’ipotesi è che, proprio a questa tavola, Liuba entri, per la prima volta nel test, in contatto con l’aspetto traumatico del materno: una madre morta, che non ti contiene e ti vuole male se cade l’idealizzazione. La tavola IX è una tavola difficile per tutti, perché fa emergere gli elementi regressivi, collegati al femminile- materno. La tavola può essere letta a due livelli: un livello più antico (la madre nei suoi aspetti arcaici) e un livello più recente (i vissuti sessuali profondi di ognuno). Nel primo Rorschach, l’immagine triste dei “bambini morti nella pancia della mamma, non ancora formati” rimanda a un materno poco contenente e mortificante. Segue l’immagine violenta dell’”uomo che spara”, collegata simbolicamente a un’idea di sessualità violenta e pericolosa in cui la posizione passiva è preclusa perché equivalente di intrusione straniera e nemica (il Kalashnikov rimanda anche a livello culturale all’arma dei russi che hanno invaso l’Ucraina, quindi ai nemici). In sostanza si esplicitano le due profonde ferite di Liuba: una madre che “abbandona” e uomini che violentano. Nel secondo Rorschach, c’è un’ evoluzione. I “bambini mortificati” diventano dei “cagnolini con la lingua fuori”, il che è sinonimo di una migliorata qualità formale e portatrice di bisogni orali infantili. Segue una rappresentazione più labile legata al colore e alla sensorialità (“un quadro con la natura”). E poi Liuba vede la testa di ET, che richiama un elemento di fragilità narcisistica: ET è il diverso. Ricorda molto quei bambini con il testone e il corpo piccolo che aveva visto precedentemente, però l’ambito diventa culturale, fa parte di un film conosciuto ai più. Evoca il bisogno della propria terra, della propria casa, alla consapevolezza di essere in una terra straniera. ET è Liuba con un testone che lavora tanto. E’ l’emigrante, accolto in una terra lontana e diversa dalla sua, ma che non fa più paura. Nel terzo Rorschach, Liuba riesce a “entrare” nella tavola in modo più lucido e organizzato. Persistono alcune tematiche precedenti, ma emergono in modo meno violento. In particolare il materno -femminile diventa più vitale e morbido (“i bambini morti” diventano “appena nati”) e l’immagine maschile spaventosa (uomo che spara) lascia il posto a una rappresentazione depotenziata (“un clown”) che fa meno paura. 4. Identificazione maschile e femminile5 L’identificazione secondaria, si riferisce al raggiungimento dell’identità di genere, all’identificazione a un modello sessuato e all’integrazione del modello opposto come caratteristica psichica utile. Traducendo in termini più semplici e “ideali” significa poter dire: “sono femmina, sono maschio e la parte diversa da me (maschile o femminile) è una parte che ho integrato nella mia personalità che mi permette, se sono donna, di essere anche molto attiva e, se sono uomo, di concedermi anche momenti di passività”. E’ positivo, infatti, quando il soggetto può giocare tra condotte attive e passive rispettando la bisessualità psichica. Come abbiamo visto, Liuba progressivamente acquista una crescente capacità di definizione di sé e, in generale, offre risposte con contenuti più strutturati. La rappresentazione dell’immagine corporea presente nella risposta “il corpo della farfalla” ad esempio (Tav I del terzo Rorschach), non solo risponde in modo adeguato allo stimolo della tavola ma costituisce il primo livello per accedere al processo di identificazione sessuale. Analizziamo la tavola III,tavola “edipica”, della relazione e delle identificazioni sessuali. A questa tavola è positivo avere delle risposte umane, possibilmente connotate sessualmente e in relazione. Liuba non arriva a vedere le persone, ma analizzando i tre protocolli in successione si nota un “avvicinamento” progressivo a dei contenuti che rimandano al femminile e al maschile. Nel primo Rorschach, emerge un maschile “prepotente” (“scimpanzé”) anche se attutito (“scimmiette”). 5 Al Rorschach si analizzano le risposte movimento (K): si può trovare evitamento di identificazioni sessuali (personaggi), oppure oscillazione costante tra riferimenti maschili e femminili, modelli caricaturali, difficoltà a mantenere una scelta di identificazione stabile. Si analizzano poi i contenuti (H, Hd (H)) e contenuti a simbologia sessuale, maschile o femminile. Nel Rorschach, sono molte le tavole dove possiamo rintracciare la tematica identificatoria.: la tavola II tratta la problematica di castrazione, la tavola IV è per eccellenza la tavola a simbolismo fallico e sollecita prese di posizione identificatorie attive o passive, la tavola VI può essere elaborata in senso di un’identificazione maschile fallica dinamica o passiva femminile, mentre le tavole III e VII mobilitano meccanismi di identificazione sessuale. Seguono due rappresentazioni mortifere (“scimmiette morte che cadono” e “il bacino di uno scheletro”) che rendono bene il “pericoloso” impasto tra sessualità e morte. L’unica difesa possibile è rimanere in una relazione anaclitica, di dipendenza (“sono attaccate lì, basta, non so più cosa dire”). Nel secondo Rorschach, scompaiono gli scimpanzé e la rappresentazione diviene più tranquilla e vicina all’umano, oltre che al femminile (“scimmie”). La novità “positiva” è la risposta nel bianco “uccello che sta volando..un’aquila”. Questa è una risposta di restaurazione narcisistica ( del tipo abito dell’800 della tavola II), di investimento su di sé. Quella che prima era una carenzialità diventa ora un aspetto rivalutativo, dove c’ era il vuoto ora c’è la potenza, l’aquila, animale forte, regale, aggressivo, maschile e femminile assieme, e per Liuba culturalmente legato alla potenza sovietica. Liuba deve controllare e assumere su di sé degli aspetti aggressivi, quasi in una sorta di identificazione con l’aggressore (il maschile, il nemico), per poter difendersi attivamente dai vissuti depressivi e persecutori. Solo passando da questa fase più avanti potrà concedersi una posizione passiva-femminile. La risposta “sacro” che riprende la prima somministrazione è più evoluta e portatrice della pulsione sessuale anche se ancora seguita da un’immagine di morte (“animaletti che cadono morti”). Nel complesso questa sequenza rivela un assetto difensivo spostato verso una maggiore tenuta intellettualizzante e narcisistica. Nella sequenza associativa di risposte, al terzo Rorschach, vediamo che la riduzione dell’angoscia permette a Liuba di accedere a una progressiva definizione di sé anche in termini di identificazione femminile e ad una rappresentazione del maschile più accettabile. Troviamo come novità, ”un cagnolino seduto che si guarda indietro con la testa abbassata”, “lo scheletro di un uomo..” (“torace” in inchiesta), “le nuovole di fumo” e infine la “farfalla” (banale). La tavola VI sollecita il confronto con la differenza dei sessi e la bisessualità. Nella prima somministrazione, si nota una divisione tra gli elementi passivo-femminili (“foglia secca d’autunno”) e gli elementi di potenza-maschili (“albero”,“testa di serpente”). La risposta “lucertola con le gambe” denota una caduta a livello cognitivo (F-) ed è un’immagine primitiva che, alla luce della storia di abuso di Liuba, conferma l’idea di una sessualità poco attraente perché legata all’idea di violenza subita. A quest’epoca per Liuba la posizione femminile sembra poco elaborata e svalutata, mentre il maschile è vissuto come pericoloso. Nella seconda somministrazione, per evitare i vissuti depressivi legati alla femminilità (”foglia secca”), Liuba iperinveste le risposte a contenuto fallico-maschile. Rappresenta l’organo maschile con chiarezza e definizione e termina con una risposta eccellente di elaborazione della potenza maschile (“vulcano”). Nel terzo Rorschach, Liuba può finalmente oscillare tra rappresentazioni femminili e maschili. Da un lato la parte più femminile-ricettiva, “la foglia d’albero”, il “calice”; dall’altra quella maschile-attiva,“il pene” e la “spada con la punta”. 5. Capacità di rappresentazione delle pulsioni (aggressive e sessuali)6 La pulsione è un concetto limite tra psichico e somatico. Le pulsioni sono il motore, le fondamenta della vita psichica. Devono essere “trattate”, “lavorate” dal soggetto. Il sistema di rappresentazione del soggetto rende conto della sua capacità di “trattare” il mondo pulsionale, gli affetti. Al Rorschach, la reattività alla qualità cromatica degli stimoli (colore), ci dice l’impatto del materiale sul soggetto e la sua capacità di trattare gli affetti. Il colore nero rimanda all’angoscia e alla tristezza. Il colore rosso è il colore passionale che porta l’amore, la sessualità ma anche la rabbia e l’odio. I colori pastello rimandano all’euforia, alla eccitazione, alla regressione. Il bianco e il grigio all’assenza, alla mancanza ecc.. Sono le tavole cosiddette “rosse” (II e III) le più indicate a valutare la capacità di trattare le passioni. Liuba arriva al servizio delle tossicodipendenze, come ex-prostituta, alcolista. Prostitutuzione e alcolismo rappresentano la pulsionalità allo stato puro, l’assenza cioè della possibilità di mentalizzare le pulsioni aggressive e sessuali, che di conseguenza vengono “agite” a livello comportamentale. Nella iconografia di Anzieu, il contenitore psichico e somatico del funzionamento al limite è la “spugna”, quindi una materia permeabile a tutto quello che viene da fuori, che non tiene niente dentro, con la conseguenza di agire invece di pensare. La relazione con l’ambiente dipende dalla qualità dell’involucro psichico (“Io pelle” di Anzieu). Come si costruisce l’involucro psichico? L’Io pelle deriva dal ritmo delle relazioni precoci madre-bambino. Fa riferimento alla costruzione del sé e dello spazio intermedio, transizionale tra interno ed esterno, la pelle appunto. La madre “sufficientemente buona” saprà dosare principio di piacere e principio di realtà. Manterrà la “simbiosi” il tempo necessario per la creazione del contenitore psichico, sapendosi anche “separare” quando lo impone il principio di realtà. Al contrario relazioni precoci con madri “assenti”, non attente a riconoscere e comprendere gli affetti del bambino, oppure con madri invischianti, incapaci di separarsi e differenziarsi da lui, comporteranno delle difficoltà nel rapporto con l’altro e con l’ambiente. Costruiranno una pelle troppo permeabile all’esterno, o troppo corazzata, o addirittura l’”assenza” di pelle. 6 AlRorschach si analizza la mobilitàdifensiva (grado di flessibilitàe evoluzione) e la qualitàe quantitàdell’angoscia. In questi casi il mondo interno, gli affetti non troveranno argini, o saranno falsati, murati, nei casi più gravi evacuati e proiettati. Gli stimoli esterni avranno troppo effetto sul soggetto e l’angoscia legata alla relazione sarà intensa. La capacità o meno di rappresentare le pulsioni dipende dal tipo di angoscia centrale per il funzionamento psichico del soggetto. Se, come nel caso di Liuba, siamo di fronte ad un’angoscia di tipo abbandonico, a relazioni quindi poco stabili, la rappresentazione e l’espressione emotiva sono davvero difficoltose. All’inizio della terapia Liuba è talmente sensibile all’intensità pulsionale che non riesce a mentalizzare. La “pelle” è talmente sottile e traumatizzabile da comportare la fuoriuscita delle pulsioni (primo Rorschach). Il secondo Rorschach, rappresenta una fase di “distanziamento e rafforzamento” difensivo (intellettualizzazione, restaurazione, scissione, proiezione..) che aumenta la capacità di trattare gli affetti e diminuisce l’intensità dell’angoscia. Nel terzo e ultimo protocollo, vediamo gli effetti positivi della maggiore capacità di unire affetti a rappresentazioni. Si potrebbe dire che le pulsioni da traumatiche diventano via via più trattabili. Conclusioni In generale leggendo i tre protocolli e studiando la siglatura, si nota una crescente leggibilità e una maggiore chiarezza delle risposte. Ciò implica una definizione di sé e dell’oggetto in miglioramento, che si va chiarendo. Da un punto di vista dei processi percettivi scema l’impatto emozionale e aumenta la precisione formale. Prova del fatto che il pensiero funziona al meglio quando l’affetto è silente. Aumenta la capacità analitica, la capacità cioè di entrare nel dettaglio della tavola. Questo, dal punto di vista clinico, corrisponde alla capacità di riconoscere parti diverse di sé, affetti, emozioni e dare loro un nome. Per quanto riguarda l’identificazione femminile, Liuba si avvicina molto cautamente ad una posizione più morbida e ricettiva. Del maschile, accanto ad una rappresentazione violenta e cruda, evocatrice di fantasmi persecutori terribili, che inizialmente erano dilaganti e indifferenziati poi sempre più arginati; affiora una rappresentazione più accettabile e desiderante di un maschile connotato nella sua dimensione materna o comunque non pericolosa (il clown della tavola IX). A livello di siglatura, Liuba inizialmente presentava una modalità passiva dominante, quindi una prevalenza di risposte Colore. Erano cioè gli stimoli ad avere un effetto su di lei. Alla fine del trattamento è lei che modula gi stimoli in modo più attivo.