MEDIUM by P. Priorini

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MEDIUM by P. Priorini
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anno nono
N°
GIUGNO 2010
ATTUALITÀ
Il senso della vita?
Cosa dobbiamo aspettarci dalla biogenetica? (pag. 6)
La speculazione
all’attacco dell’euro
Perché serve una vera politica comunitaria. (pag. 12)
Declino e morte
dell’ideologia rinascimentale
Come i Piemontesi riscrissero la Storia. (pag. 22)
Mafia, Camorra e n’Drangheta
I più indovinati prodotti dell’Unità Nazionale. (pag. 34)
Caravaggio bisex
I suoi modelli, le sue passioni. (pag. 96)
MAGAZINE
fondato da
Lorenzo Paolini
DI STORIA, ARTE, CULTURA
SOCIETÀ, COSTUME, SALUTE
STORIA
San Pietro?
Mai messo piede a Roma!
Come nacque nel II secolo d.C.
il mito che legittimò il Papato. (pag. 60)
Nerone, angelo o demone?
Seconda parte. (pag. 42)
PSICOLOGIA
Il segreto del velo
Sessuofobia: ormai una patologia
per i maschi islamici. (pag. 80)
COSTUME
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FORUM - GIUGNO/10
EDITORIALE
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Centocinquanta anni fa Garibaldi aveva appena preso Palermo, ingenerando aspettative che appena
sei anni dopo erano già state amaramente deluse. Ne parliamo in questo numero con la convinzione
che in un momento in cui molti degli ex “liberatori” auspicano una separazione, sia utile ricordare
loro che le cose non andarono proprio come i libri di storia ci hanno sempre indotto a credere...
FORUM
vi augura... buon centocinquantenario!!!
Abbiamo promesso di essere obiettivi e super partes e se possiamo riuscirci dobbiamo ringraziare
Internet che ci consente di poter parlare a migliaia di lettori ad un costo tendente allo zero. Nella
precedente vita di Forum per poter parlare liberamente di cose talvolta scomode dovemmo accettare qualche contribuzione (ahimé carta e tipografia
costano!) da politici che ci chiedevano in cambio
(giustamente, per carità!) alcune di quelle che in
gergo definiamo “marchette”.
Ora che ci sentiamo totalmente liberi possiamo affrontare qualsiasi tema senza il timore di offendere
nessuno, con un unico obiettivo: raccontare il vero (o
quantomeno ciò che in buona fede riteniamo lo sia).
Quest’anno ricorre un anniversario importante:
sono 150 anni che questo Paese ha iniziato ad
unirsi. I risultati, come appare lampante, non sono
straordinari, ma io sono convinto che ciò dipenda
dal nostro DNA e che malgrado tutto questo sia un
luogo bellissimo dove vivere ed amare.
Ecco perché in questo e nei prossimi numeri vogliamo ricordare tante verità che oggi molti sembrano non conoscere: che il Nord, ad esempio, ha un
grande debito con quel Sud di cui vorrebbe liberarsi
e che ha occupato quasi con la forza, spogliandolo
di enormi ricchezze. Che la criminalità organizzata è oggi così forte ed invasiva non perché i meEdito da
“FORUM della SOCIETÀ CIVILE ONLUS”
Associazione di Volontariato culturale ed intellettuale,
apolitica, senza scopo di lucro e con fini di utilità sociale.
Via di San Donato di Ninea 24, Roma
ridionali “sono tutti mafiosi”, ma perché i “liberatori” hanno commesso tali e tanti errori da creare un
fertile terreno di coltura per chi si arrogava il diritto
di difendere la povera gente dall’arroganza e dalle
prepotenze dei “forestieri”.
In questo numero parliamo anche di un’altra verità scomoda che in genere si preferisce ignorare:
negando la venuta di Pietro a Roma non intendiamo eseguire un mero esercizio filologico, ma ripercorrere quel lungo processo attraverso il quale i
Vescovi di Roma si sono arrogati il diritto di rappresentare Dio su questo umile pianeta. Ovviamente
ammiriamo ed apprezziamo l’insostituibile attività
che la Chiesa Cattolica svolge nelle parrocchie, nelle missioni, negli ospedali e, come la maggior parte
dei laici, abbiamo plaudito al mai troppo rimpianto
Giovanni XXIII nel suo sforzo, attraverso il Vaticano
II, di portare la Chiesa nel terzo millennio. Tuttavia
nessuno può negare che la svolta reazionaria dei
suoi successori abbia spesso provocato tensioni e
conflitti con le istituzioni laiche e determinato scelte da molti non condivisibili. Sapere dunque che la
Cattedra da cui spesso provengono dure critiche,
quando non anatemi, non è del tutto legittimata
a pronunciarli può togliere qualche peso dalle coscienze di quei cristiani che talvolta confondono la
Fede in Gesù con l’obbedienza ad una Curia dalla
quale spesso dissentono. (lp)
magazine
[email protected] - www.forum2.it
Aut. Tribunale di Roma N° 332/2002
Fondato da
Lorenzo Paolini e Marina Bartella
Presidente: Lucio Macchia
Direttore Editoriale
Lorenzo Paolini
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Mani che stringono troppo forte. Mani che sfiorano e
non solo. Mani armate. Mani che spingono in strada,
mani che costringono in casa. Mani “che grandi mani
che hai”. Mani che scendono. Mani all’improvviso.
Mani dalle carezze nascoste. Mani che offrono. Mani
che dovrebbero rimanere fra le mani, in tasca, in catene.
Mani che ogni giorno cerchiamo di fermare.
www.casadomenor.org
FORUM - GIUGNO/10
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IN QUESTO NUMERO
ATTUALITÀ
STORIA
Il senso della vita
di Giuseppe De Vita
pag. 6
Nerone: angelo o demone?
di Lorenzo Paolini
pag. 42
C’era una volta il
Golem
di Marina Bartella
pag. 10
Politica contro
speculazione o deficit di
politica europea?
di Massimo Ortolani
pag. 12
San Pietro?
Mai messo piede
a Roma.
di Lorenzo Paolini
pag. 60
PSICHE
Il segreto del velo
di Piero Priorini
pag. 80
Declino e morte della
ideologia risorgimentale
di Gianni Cara
pag. 22
Mafia, Camorra e
n’Drangheta
i più riusciti prodotti
della Unità Nazionale
di Vito Lo Scrudato
pag. 34
SALUTE
Una bocca sana
e alla portata di
ogni tasca
di Lucio Macchia
pag. 104
È nata la filmtherapy
pag. 106
ARTE
Caravaggio:
erotismo e passione
di Gabriella Pesa
pag. 96
La nuova chirurgia dell’alluce valgo
pag. 107
di Marina Bartella
LINGUAGGIO
Parole, parole, parole...
di Lorenzo Paolini
pag. 94
COSTUME
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La nuova scoperta di Craig
Venter apre nuovi orizzonti alle
biotecnologie,
avvicinando
l’uomo alle fonti della vita.
Si tratta di una tappa esaltante
nel percorso della civiltà e
della conoscenza, eppure
c’è chi lo vede come un fatto
inquietante.
Il senso
della vita
di Giuseppe De Vita*
*Psichiatra, psicoterapeuta, docente di Psicologia
Dinamica C.A. dell’Università degli Studi Roma Tre
[email protected]
Direttore gentilissimo, lettori carissimi vorrei condurvi in un luogo fitto di
misteri dove proverò a farvi intravedere “meravigliosi giochi” della mente, alla portata di ognuno di voi.
La scienza è come un corpo di ballo che, nel tempo, ha privilegiato far
esibire alcune ballerine, tutte importantissime e affascinanti: la fisica, la
chimica e la matematica.
Oggi sul palcoscenico la prima ballerina è la genetica. L’onore della cronaca tocca a lei grazie a Craig Venter.
FORUM - GIUGNO/10
Ma prima di addentrarmi nei particolari della sua meravigliosa
scoperta, che già alcuni considerano come “la creazione della
vita” debbo chiarire una cosa:
la vita non esiste.
È solo l’esperienza espressa da
un “concetto” circondato da molti dogmi e zeppo di prosopopee.
Esistono invece “gli esseri viventi” dotati di un insieme di “qualità” che chiamiamo vita.
Gli esseri viventi… (che spettacolo variegato, straordinario…) sono
dotati di forme sorprendenti: i
batteri, i tigli, i leoni, gli elefanti, le spugne. Essi hanno alcune
proprietà in comune che permettono di distinguerli dal mondo
inanimato, non vivente. La prima
delle sei proprietà caratteristiche
della vita o degli esseri viventi è:
- Un livello di organizzazione
molto complesso: molecole
semplici (Carbonio C, Idrogeno H, Ossigeno O, Azoto N,
Zolfo S, Fosforo P) si uniscono
a formare macromolecole con
struttura e funzione specifica
“della vita” dell’organismo di
cui fa parte. Alcune macromolecole combinate insieme
formano il corpo di un organismo; altre, non combinate,
attivano processi essenziali
per dare continuità “alla vita”
di quell’organismo.
Le restanti cinque caratteristiche
dell’organismo sono:
- I viventi hanno una organizzazione fisico-chimica molto
diversa dall’ambiente esterno
in cui sono collocati. Codesta
organizzazione, pur formata
e funzionante con gli stessi
atomi e molecole dell’esterno,
mantiene il proprio “interno”
costante. Questo fenomeno
fisiologico (omeostasi) serve
a favorire l’oscillazione dei parametri vitali entro valori che
permettono la crescita dell’organismo vivente.
- I vegetali, attraverso la fotosintesi (autotrofi), gli animali e
i saprofiti (i parassiti) mangiano le piante o gli altri animali
(eterotrofi), hanno la capacità di prendere, trasformare e
usare energia dall’ambiente
esterno.
- Tutti i viventi rispondono, in
maniera percettibile e misurabile, agli stimoli meccanici,
fisici, chimici.
- Tutti gli organismi viventi si
possono (non si “devono”) riprodurre.
- I viventi hanno la capacità di
adattarsi all’ambiente.
Noti gli organismi viventi come
distinguere i viventi dai non viventi? Nella maggior parte dei
casi dalla capacità dei viventi di
“autoprodurre movimento”. Infatti, da alcuni esperimenti fatti
da Paul Bloom (psicologo clinico)
nel 2009, sembra che la distinzione fra viventi e non viventi si
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basa “solo” su un’idea “intuitiva
di tipo dualistico”.
Dice Bloom che noi umani, indipendentemente da fedi o dottrine distinguiamo viventi e non
viventi “d’emblée” senza vagliare
minimamente ciò che abbiamo
intuito.
Ancora più sorprendente è che
la maggior parte degli uomini e
delle donne sono certi che c’è
un “qualcosa” che sopravanza
la morte del corpo. Sempre per
il nostro “dualismo intuitivo”.
Non finisce qui lo stupore. Anzi
aumenta. L’area cerebrale degli
umani che si occupa di rilevare
ciò che è vivo è in tutti “ipertrofica” sviluppatissima.
Ora è più facile capire perché
spesso vediamo facce nelle nuvole, volti sulle macchie dei muri;
udiamo voci nei ronzii della radio
e diamo scopi ad oggetti inanimati: probabilmente per una funzione di adattamento evolutivo.
È stato ed è più prudente meno
dispersivo ipotizzare un “nemico
agente” per attivare meccanismi
di difesa piuttosto che indagare eventi casuali di oggetti inanimati. È troppo inverosimile e
pauroso pensare che sia il vento a muovere le foglie. È molto
meglio credere che ciò dipenda
da un movimento, dal suono di
un nemico così posso cercare di
fuggire, di trovare rifugio ed agire
con prudenza.
COSTUME
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A questo punto si capisce che da qui al soprannaturale (angeli, demoni, dei…) il cammino è breve.
L’esistenza è piena di “agenti invisibili” che andrebbero riconosciuti, indagati, studiati.
Troppo articolato, complesso.
Meglio per noi credere che pensare. Ecco che il
“senso della vita” si blocca di fronte alle credenze
e allora la maggior parte degli umani è convinta
che “qualcosa” sopravanzi la morte cosa mai può
interessare che il senso vero, unico della vita (finalmente ci sono arrivato!) è la conoscenza, sia pur
con tutti i suoi limiti e le frustrazioni.
Credere, molto meglio credere “intuitivamente” che
capire. Ma noi non molliamo e fiduciosi guardiamo
verso l’ignoto senza paura convinti che il tantissimo
che non conosciamo sia una sfida ma un patrimonio
a disposizione dell’umanità.
...ma torniamo a Venter
Sino al 2009, il “senso della vita”, - già era proprio
di questo che vi volevo parlare - era dato da geni
(piccole unità che si replicano in ogni essere vivente, composte di una base azotata, uno zucchero e
una molecola di acido fosforico) che individuiamo
come capitoli nel grande libro della vita: il genoma.
Fino a ieri indagare geni e genoma rappresentava
un’analisi della natura e del significato dei diversi genomi.
L’indagine sulle molecole della vita (DNA
-RNA) e sulla vita all’improvviso si ferma,
c’è una sospensione. Un vuoto.
Craig Venter decide di smettere di analizzare, ma va oltre, vuole progettare e costruire genomi.
Su misura.
È una rivoluzione? Non ancora.
Craig Venter
Venter decide di inserire queste sequenze di geni
sintetici in cellule che funzionano, vivono con questo DNA sintetico. Per ora è solo un batterio, ma
funziona.
“Sintetico” sa di “finto”, di “bassa lega”. Non è così.
Sintetico è l’aggettivo – perdonate la prolissità - del
sostantivo “sintesi”.
Cosa ha pensato e poi fatto Graig Venter?
Si è detto “provo ad assemblare in laboratorio gli
elementi chimici semplici (Carbonio C, Idrogeno H,
Ossigeno O, Azoto N) e compongo come nel gioco
dei lego questi elementi chimici inerti sino a formare le quattro basi azotate (cinque con l’uracile del
RNA) le unisco al desossiribosio (zucchero a cinque
atomi di carbonio a forma di pentagono mentre il
glucosio è a sei atomi di carbonio a forma di esagono) e li dispongono in sequenza di triplette (ogni
tripletta è un codone). Fatto ciò lo inserisco in un
batterio e vediamo cosa succede”.
Straordinario! Il batterio sequenza il DNA di sintesi,
lo inserisce nel suo patrimonio genetico.
Strepitoso! Lo fa suo! Il batterio è guidato dal DNA
inserito: è un DNA artificiale. Ora ci proverà con la
cellula, più articolata e complessa di un batterio.
Cosa vuole Venter?
Solo formattare batteri che facciano ciò che è
più utile fare:
1) Pulire l’aria;
2) Purificare il suolo;
3) Produrre energia (combustibile) da alghe sintetiche
“Su bravo, proviamoci!»
Ma non dovevamo parlare del senso della vita? Si certo. E sappiamo
FORUM - GIUGNO/10
quanti ci vorrebbero zittire.
forse questa volta ci siamo riusciti
- a “piegare” i geni a nostro van“Arroganti, presuntuosi! Chi vi
taggio dopo millenni di ignoranza
credete di essere?»
e superstizione.
Con il DNA-RNA artificiale possiaQuello che or ora abbiamo appremo indurre batteri e cellule a funso creerà nuovi problemi, ma non
zionare in modo tale da fare ciò
è con il rifiuto, l’ignoranza, la fede
che è meglio.
ad oltranza che si trovano le soNon ciò che è perverso.
luzioni. Il nostro patrimonio è la
conoscenza. Bene, cerchiamo di
Mi spiego: Se una cellula embriovalorizzare tutte le nostre risorse,
nale vira verso un tumore, una
senza sensazionalismi, ma dicenpatologia grave, perché una sedo le cose come stanno.
quenza di codoni e dei suoi complementari anticodoni obbliga a Insomma quello straordinario
produrre una proteina che, a ca- scienziato che è Craig Venter è riscata, stimola un gruppo di cellule uscito veramente a produrre un
malate a produrre cancro o altre organismo che si riproduce i cui
malattie, perché dobbiamo stare “genitori” sono le sue idee e un
a guardare “la volontà della natu- computer.
ra” e non intervenire?
Graig ha preso un batterio dalle
Noi inseriamo sequenze genetiche capre “mycoplasma mycoides”
sintetiche che “sappiamo” essere e ha ottenuto un altro batterio il
capaci di bloccare la vita “cance- “micoplasma laboratorium” perrogena” della cellula/e che vanno ché in esso ha inserito il genoma
verso la distruzione. Induciamo sintetico.
un blocco, anzi, un cambio di proÈ da anni che la biologia e la gespettiva.
netica sintetica producono moleLa vita non è “qualcosa di specia- cole in vari campi (farmacologico,
le”, è una duplicazione che, quan- agricolo…), creano nuovi matedo rispetta la sequenza giusta, riali, (combustibili); sviluppano
produce benessere: merce rara.
circuiti bio-elettrici, bio-sensori...
ma ora è il tempo di un ulterioÈ così semplice “il senso della
re avanzamento (vero grande
vita”. Eppure tanti non tollerano
Bion?).
quello che ho espresso in queste
poche frasi. Disprezzano quello Ora ci servono nuovi paradigmi
che ho affermato senza porsi le utili al “fare” per il bene dell’umadomande giuste, senza verificare, nità e per nuovi dialoghi anche col
senza capire. Stiamo cercando – e mondo religioso.
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Certo che la biologia e la genetica
sintetica sono a doppio uso: può
produrre molecole utili e molecole
“patogene”, ma è l’umanità che
deve dare le risposte giuste. Con
l’esempio, il saper fare.
Certo vanno elaborate norme, codici nuovi, ma sarà sempre l’etica
– non la morale - che ci spingerà
verso il futuro.
La ricerca fa capire a tutti che “non
si gioca a fare DIO. Ma quanti
sono i religiosi che, non si sa bene
a quale titolo, si sentono “padroni
del verbo di Dio” e con ignoranza
ed arroganza entrano in un merito che spesso non gli compete?
Tanti, ma davvero tanti.
Un’ultima riflessione: la vita è
combinazione pertinente di elementi secondo modelli di combinazione efficaci anche se complessi. Le ultime scoperte sono
“una ribellione” alla natura per
garantire a tutti i viventi una qualità migliore dell’esistenza.
Utilizziamo bene tutto questo e ne
verranno buone ricadute su tutto:
politici, società, mondo intero.
COSTUME
10
C’era una volta
il Golem...
di Marina Bartella
Craig Venter, in
un’intervista rilasciata al quotidiano britannico Guardian,
ha annunciato
di aver creato
la prima vita
artificiale:
«Creare la vita è una
prerogativa di Dio», scrive
l’Economist annunciando al
mondo la scoperta di Venter
«e ora appare come uno choc
apprendere che comuni mortali sono riusciti a fabbricare
la vita artificiale»1.
Uno choc, relativamente nuovo,
«un passo filo- visto che da sempre
sofico cruciale l’uomo sogna di poter dare la vita ad
per la storia del- una sua creatura fatta in casa.
la nostra spe- Quella del Golem, ad esempio, fu una legcie: passiamo genda medioevale ebraica molto popolare
dalla lettura del che terrorizzava grandi e piccini: attraverso
codice genetico arti magiche e formulando parole cabalistialla capacità di
Venter è lo scienziato padre di scoperte sensascriverlo. Que- 1 Craig
zionali: dalla lettura del genoma alla creazione della
vita artificiale. Fu il primo a ricostruire il genoma
sto ci dà la caumano nel 2007, e nel 2009 aveva eseguito il primo
pacità ipotetica
trapianto di Dna trasferendo il genoma (naturale)
da un mycoplasma ad un altro.
di fare cose mai
prima cellula sintetica è dunque una cellula in sé
contemplate in La
naturale ma regolata artificialmente: siamo ormai
nella fantascienza, unendo i due procedimenti, gli
precedenza».
scienziati hanno trapiantato il Dna sintetico caricandolo, come si fa con un programma del computer,
in una cellula batterica privata del suo Dna naturale.
La cellula vive.
Non dobbiamo tuttavia dimenticare le enormi polemiche di cui Venter e la sua multinazionale, la Celera Genomics, sono stati oggetto: accusati fra l’altro
di voler brevettare parte dei geni del DNA umano.
che un sapiente poteva fabbricare il Golem, un gigante
di argilla di straordinaria forza
e cieca obbedienza, da impiegarsi come servo per svolgere
lavori pesanti o come difensore del popolo ebraico
dai suoi persecutori. Il Golem era
tuttavia incapace
di pensare, di parlare e di provare qualsiasi tipo di emozione,
perché era privo dell’anima.
Ogni versione della leggenda implicava
però delle controindicazioni: in una i Golem
diventavano sempre più grandi, finché diveniva impossibile servirsene, in altre essi
sfuggivano al controllo fino a distruggere
tutto ciò che incontravano, in quasi tutte
al termine della storia Dio interveniva ad
ammonire gli uomini a non servirsi più di
queste creature innaturali.
E siamo dunque tornati al punto: è così
contrario alla natura che la scienza dell’uomo possa arrivare ad essere talmente
avanzata da poter far scoccare la scintilla
della vita in un essere da lui creato, che
divenga così capace di funzionare, nutrirsi,
crescere, riprodursi? Oppure possiamo essere autorizzati a pensare che la creazione
sia una catena infinita di creatori-creature,
al termine della quale c’è un principio desti-
FORUM - GIUGNO/10
11
nato a rimanere inconoscibile e sconosciuto?
Ma innanzitutto, cos’è la vita?
Cos’è quella scintilla che mette in moto il
meccanismo e che cessa di scorrere quando
questo si ferma definitivamente.
Allo stadio attuale delle conoscenze nessuno può
avanzare ipotesi scientifiche, eppure su una materia così misteriosa tutti vogliono basare un sistema
etico che, tuttavia, rischia di essere diverso a seconda delle diversità fra le idee delle persone. In
realtà la biologia, la chimica, perfino la genetica,
credendo di rispondere alla domanda “cosa è la
vita” ci dicono solo cosa “fa” la vita e quali sono le
sue caratteristiche minimali.
Mentre da ogni fazione si raccomanda, di fronte
all’avanzare della biogenetica, di far crescere di pari
passo un sistema etico adeguato, tali raccomandazioni in realtà nascondono soltanto la voglia di imporre le regole delle proprie fedi.
L’attuale papa, che non brilla per progressismo, ha
in proposito affermato: “l’attuale società “post-moderna” è particolarmente caratterizzata dagli effetti
prodotti dagli sviluppi della “tecnoscienza” che si
accompagnano alla crescita del “relativismo etico”.
Questa battaglia contro il relativismo ha caratterizzato fin dagli inizi l’azione apostolica di Ratzinger
che ha così continuato: “se quello sviluppo - che già
di per sé tende a favorire l’illusione di
una onnipotenza dell’uomo non si
accompagna ad una adeguata crescita della nostra “coscienza etica”
il pericolo può divenire enorme. Ed
è proprio ciò che si sta verificando,
in quanto agli sviluppi della tecnoscienza non corrisponde una
salutare crescita della nostra
“coscienza etica” bensì si va
verso una deriva relativista,
dando
così
luogo ad una pericolosa miscela”.
In realtà il problema non risiede in questa “deriva”,
ma nel fatto che le priorità etiche alla base delle
scelte del mondo laico, sono diverse da quelle cattoliche, che partono dal presupposto che le proprie
regole siano “vere”, condannando le laiche come
false.
In realtà entrambi i sistemi di pensiero sono in buona fede in quanto tendenti al bene in coerenza con
i propri principi. Questa discrasia è, a ben pensarci
essa stessa una sorta di “relativismo”, e ripropone
il dilemma sulla scelta delle priorità alla base di un
sistema etico.
Ritengo che, con l’avanzare delle scoperte in biogenetica, le problematiche etiche cresceranno in
maniera esponenziale ed il nocciolo del problema si
sposterà verso un dilemma di difficile soluzione.
Non si tratterà infatti di “far crescere la nostra coscienza etica”, (che sottintende la speranza che tutti
si convertano sulla via di Damasco, abbandonando
la “deriva relativistica”) ma di trovare la maniera di
mediare tra le convinzioni dei cattolici e quelle della
società laica.
Senza questa quadratura del cerchio
assisteremo impotenti ad un’interminabile battaglia fra Gog e Magog a
tutto vantaggio delle multinazionali
che continueranno a brevettare geni ed a produrre OGM a
danno dell’ambiente e dei
più poveri.
ATTUALITà
12
Il caso Grecia, ed i successivi
interventi
anti-speculazione
della UE, descrivono a chiare
tinte la gravità della crisi
sistemica che ci ha investiti, in
parte generata da una carente
politica
di
stabilizzazione
dell’area Euro.
Politica contro
speculazione o
deficit di politica
in area Euro?
di Massimo Ortolani*
Le sventurate vicende finanziarie della Grecia hanno di recente proposto all’opinione pubblica una serie di quesiti che trascendono di
gran lunga il solo problema di come è stata definita l’exit strategy
per questa nazione, la prima dell’area Euro ad essere bersagliata dal
tiro incrociato della cosiddetta finanza senz’anima, unicamente vocata
al profitto da trading speculativo sui titoli di stato di paesi con gravi
problemi di bilancio pubblico.
Il successivo downgrading del debito di Portogallo e Spagna, l’immediata reazione della Commissione e della BCE, unitamente agli accordi
con il FMI, infine le immediate quanto tardive misure di risanamento
dei conti predisposte dai paesi interessati inducono a riflettere su alcuni importanti fattori.
Il primo è individuabile nella cronistoria e nel timing degli attacchi speculativi, il secondo nelle modalità e negli strumenti di difesa approntati
per salvare non tanto la Grecia od il Portogallo o la Spagna, ma l’area
Euro nel suo complesso, come lasciano intendere le proposte di riduzione deficit/PIL avanzate anche da paesi UE non PIGS.
Le pagine della stampa economico-finanziaria hanno riportato come
un fatto di cronaca politica l’andamento al ribasso delle quotazioni dei
titoli pubblici della Grecia, a cui hanno fatto eco e sponda, temporalmente parlando, le decisioni delle agenzie di rating di procedere nelle
operazioni di downgrading, sino ad eguagliare alcuni titoli del debito
pubblico greco al rango di titoli spazzatura.
Come mai solo ora?
Se è vero come è vero che da anni si sapeva che i dati del debito pubblico greco erano truccati (grazie anche al probabile coinvolgimento di
una importante banca di investimento ed advisoring anglosassone), e
giacché i dati della debolezza degli altri paesi PIGS (Portogallo e Spagna in particolare) erano noti da tempo e reperibili su una molteplicità
di fonti ufficiali, perché si è arrivati ad attaccare il debito greco e quello
di tali paesi con una veemenza e quantità di risorse così concentrate
temporalmente e quantitativamente? E perché i fondi asiatici ed americani che sembra siano gli occulti attori di tali attacchi speculativi non
si sono anche concentrati su due nazioni che presentano anch’esse
evidenti segni di debolezza sul piano sia del deficit che del debito rispetto al PIL, vale a dire USA e UK.
*Economista finanziario
La risposta che danno gli economisti in proposito è che si tratta di
nazioni con potenzialità e rapidità di sviluppo economico molto più ele-
FORUM - GIUGNO/10
vate dei PIGS che sono finiti sotto tiro, condizioni
macroeconomiche che consentirebbero maggiori
gradi di liberà alle politiche di aggiustamento fiscale. Ma la migliore risposta in tal senso è quella fornita dall’economista P. Krugman, quando sostiene
che, “siccome il Dollaro è la principale valuta di
riserva, un mondo dove l’America va in default non
è pensabile”.
13
Anche se ormai sembra palese che gli speculatori
conoscono meglio e prima delle istituzioni le reali
situazioni di rischio di default ci permettiamo di dubitare, a questo proposito, della tesi dietrologica
del complotto ordito nei confronti dell’Euro.
Sebbene non esistano prove incontrovertibili che
ATTUALITà
COSTUME
La speculazione
necessita
di concentrare
attacchi ingenti
proprio per generare quegli
specifici effetti
di panico massmediatico che
creano quellaeco ingigantita
necessaria ad
ingenerare le
condizioni finanziarie per
realizzare ingenti ed immediati profitti.
14
portino ad escluderla1, ancorché sia risaputo che
alcuni principali azionisti
della società di rating sono
importanti gruppi finanziari
notoriamente coinvolti nel
trading della finanza speculativa, ed ancorchè sia noto
che il segreto professionale
di chi opera all’interno di
una società di rating risulterebbe difeso da sguardi
ed orecchie amiche dalle
potenti Chinese Walls di
natura organizzativa, istituzionale e normativa che i
vertici di tali società dichiarano di avere approntato
nell’intento di sventare ogni
possibile occasione di alimentare conflitti di interesse palesi o latenti.
Ma crediamo che la speculazione abbia bisogno di
concentrare ingenti risorse finanziarie proprio per
generare quegli specifici
effetti di panico massmediatico che creano una eco
ingigantita necessaria ad
ingenerare le condizioni finanziarie per un reddito
da speculazione, e che non
1 Sulla stampa si è letto dell’interesse di una superlobby angloamericana interessata a rafforzare il Dollaro per rilanciare gli
investimenti in USA, da cui la
congiura contro l’Euro architettata a Manhattan l’8 febbraio
scorso dai capi dei grandi “hedge funds”.
si otterrebbero diluendo la
concentrazione2.
Come mai troppo tardi?
È bene ricordare che, nel
caso Lehman Brothers3,
una delle tre sorelle4 ha
continuato a mantenere la
tripla A su tale banca sino a
tre settimane precedenti la
dichiarazione di fallimento.
Al fine di evitare dunque
che il comportamento oligopolistico delle tre sorelle
continui a dispiegarsi se2 Per comprendere la portata di
questo fenomeno basti pensare
a quanto accaduto al Portogallo. È infatti successo che, per
consentire al Portogallo di associarsi alla cordata dei paesi difensori dell’Euro e della Grecia,
si è dovuta inserire una clausola
che permettesse di sottrarsi al
prestito di aiuto se il tasso di
interesse da applicare (5% nel
caso greco) risultasse inferiore a
quello che nel frattempo il paese
avrebbe dovuto pagare sul mercato per approvvigionarsi dei relativi fondi
3 Secondo il N. Y. Times - che è
entrato in possesso di un documento
classificato
come
strettamente confidenziale – la
Lehman è riuscita ad occultare
pubblicamente la sua reale situazione finanziaria avvalendosi
degli interventi di una scatola
societaria “Alter Ego” ad essa
collegata, ma mai iscritta in bilancio, di nome Hudson Castle.
sarebbe stata la J P Morgan, socia in affari della Lehman, a scoprire per prima il meccanismo
con il quale Alter Ego operava al
fine di occultare.
4 Standard and Poor’s, Moody’s, e
Fitch
condo criteri non plausibili
sul piano della razionalità
economica, sarebbe opportuna una legge - applicabile
a livello europeo - che imponga alle società di rating
che emettano giudizi su titoli
del debito pubblico o quotati,
nonché ai principali operatori di mercato (hedge funds
in particolare) che agiscono
nelle compravendite di tali
titoli, di fornire in automatico
alle autorità di controllo delle
Borse europee predefiniti set
di informazioni.
Ciò dovrebbe avvenire
all’atto della emanazione del downgrading o al
compimento di operazioni
definibili di natura “speculativa” secondo schemi di
analisi
comportamentali
anch’essi predefiniti da un
apposito comitato integrato
da rappresentanti di dette
autorità, della BCE, del FSB
nonché, anche se può apparire azzardato, dei servizi segreti dei principali paesi
UE.
La reale portata degli
aiuti immediati.
È evidente come l’importo
dei fondi che è stato annunciato come disponibile per
tamponare gli effetti degli
attacchi speculativi sia in-
FORUM - GIUGNO/10
gente: 750 Miliardi di Euro. Dei
quali 60 Miliardi saranno messi
a disposizione dalla commissione
(con le regole degli aiuti UE/FMI
caso Grecia). A questi si aggiungeranno 440 Miliardi sotto forma
di garanzie messe a disposizione attraverso lo Special Purpose
Veichle (SPV) destinate al sostegno specifico della moneta unica,
mentre il FMI aggiungerà almeno
la metà del contributo europeo,
quindi 250 Miliardi.
Si tratta di un “fino a 750”, quindi di disponibilità ingenti che dovrebbero scoraggiare nuovi attacchi all’area Euro anche senza
arrivare ad attivare l’intero importo, anche perché la compagine delle fonti lascia intendere che
non si tratta di una difesa del perimetro europeo da parte dei soli
stati membri, poiché l’intervento
del FMI coinvolge anche quelle
della FED, con le linee di concambio di USD. E c’è da tenere inoltre
conto della forte preoccupazione
espressa dallo stesso presidente Obama sulla tenuta dell’Euro,
dato che un Dollaro troppo forte,
come ora sta avvenendo, non è
vantaggioso per l’economia USA.
Ma sul piano tecnico non è ancora chiara la configurazione
legale-societaria di tale SPV e
le condizioni operative alle quali
potrà agire se non in presenza
di uno statuto, di un Joint Operating Agreement e di un man-
15
ATTUALITà
16
Cosa sono i derivati lizza assicurativa o copertura per il quelli sulle valute, sulle obbligaSono strumenti finanziari che non
vivono di vita propria, in pratica sono scommesse a termine
sull’andamento di un’attività da
cui dipendono (che può essere un
titolo, un mutuo, una materia prima...): azzeccando la scommessa
si può guadagnare molto, ma in
alcuni casi si può perdere più del
capitale investito.
Sono utilizzati, dagli investitori
professionali, soprattutto come
una forma di assicurazione contro
i rischi dei mercati. Per esempio,
i fondi comuni che hanno grossi
investimenti azionari, in periodi di
particolare incertezza delle Borse,
assicurano il portafoglio titoli acquistando derivati al ribasso. Se la
Borsa scende, i guadagni realizzati
con i derivati compensano la perdita.
CDS e CDO
I Credit Default Swap (CDS) sono
i prodotti derivati maggiormente
utilizzati per la copertura dei rischi
connessi alla negoziazione di rischi sovrani.
Si tratta di uno swap che ha la
funzione di trasferire l’esposizione
creditizia di prodotti a reddito fisso
tra le parti. È il derivato creditizio
più usato. È un accordo tra un acquirente ed un venditore per mezzo del quale il compratore paga
un premio periodico a fronte di un
pagamento da parte del venditore
in occasione di un evento relativo
ad un credito (come ad esempio il
fallimento del debitore) cui il contratto è riferito. Il CDS viene spesso utilizzato con la funzione di po-
sottoscrittore di un’obbligazione.
Tipicamente la durata di un CDS è
di cinque anni e sebbene sia un derivato scambiato sul mercato overthe-counter (non regolamentato) è
possibile stabilire qualsiasi durata.
zioni e sulle azioni. Nella Borsa
italiana ci sono future sull’andamento dei Btp (Buoni poliennali
del Tesoro), denominati Mif, e future sull’andamento dell’indice di
Borsa Mib30, denominati Fib.
Il CDO, invece, è un contratto in
base al quale una controparte,
detta acquirente di protezione,
trasferisce all’altra, il venditore di
protezione, il rischio di default relativo ad un terzo soggetto che ha
emesso un’attività creditizia (Reference Entity) di cui l’acquirente di
protezione è titolare.
Ciò che rende i future molto rischiosi è l’obbligo di risarcire
all’intermediario l’eventuale perdita del valore del capitale oltre
alla somma investita.
Nel caso in cui si verifichi l’evento di
default (credit event) il venditore di
protezione è tenuto ad acquistare
dalla controparte il titolo di debito
al valore stabilito ad inizio contratto (cosiddetto phisical settlement).
Le opzioni e i warrant sono invece,
contratti con i quali si può perdere,
al massimo, il denaro impiegato.
Si tratta anche in questo caso, di
scommesse sull’andamento futuro
di un’attività quotata (un’azione,
un indice, una valuta, un paniere
di titoli, o altro ancora).
In sostanza il contratto, che ha un
costo, dà il diritto di ritirare l’attiIl prezzo di rimborso, in genere, è
vità sottostante entro una data
la differenza tra il valore di mercato
prefissata a un prezzo prefissato (il
iniziale e il valore di mercato postcosiddetto strike price).
default del credito oppure un ammontare fisso. L’acquirente di pro- Se il prezzo dell’attività sottostantezione a fronte della cessione del te alla data di scadenza sarà surischio creditizio è tenuto a pagare periore al prezzo prefissato, chi ha
alla controparte un premio unico sottoscritto il contratto incasserà
versato anticipatamente oppure, la differenza. Se invece, il prezzo
più frequentemente, un premio dell’attività sottostante sarà pari o
periodico versato fintanto che non inferiore allo strike price, il derivato
si verifichi l’evento di default o, in non avrà più alcun valore.
caso contrario, fino alla scadenza
naturale del contratto.
Hedge Funds
Trattasi di fondi aperti – a differenFuture, warrant e opzioni. za dei fondi di Private Equity – che
I future sono i derivati più rischio- prevedono il riscatto dell’investisi. Ci sono quelli sul prezzo del mento e che investono su qualunsucco d’arancia o della pancetta que titolo negoziabile sia sui mer(trattati nella famosa Borsa merci cati regolamentati che non, con
di Chicago, ricordate “una poltro- una ottica generalmente di natura
na per due” con Eddy Murphy?), speculativa.
FORUM - GIUGNO/10
dato da parte dei governi.
Nel frattempo la situazione
di tensione ancora palpabile, sembra aver dissuaso la
Polonia dall’adesione all’Euro nei termini concordati.
Probabilmente si sta esagerando nei timori sulle
conseguenze economicomonetarie di tale piano di
difesa, sia da parte di qualche stato membro dell’area
Euro (Germania in particolare) che di qualche altro
ancora in attesa di entrarne
a fare parte. Innanzitutto
va segnalata la validità delle scelte della BCE (nella foto,
l’Eurotower, la sede della banca Centra-
a di acquistare – in collaborazione
con le banche commerciali
e le banche centrali nazionali - i titoli a basso rating
da emettere da parte dei
paesi sotto attacco vendendone altri in portafoglio
a ben più elevato rating,
accompagnando tali scelte
con altre azioni idonee a
sterilizzare ogni aumento
della base monetaria europea che ne conseguirebbe
per non ingenerare spinte
inflazionistiche.
le Europea a Francoforte)
Ma a parte il fatto che,
come già osservato da altri,
le aspettative di inflazione
implicite nei prezzi dei ti-
toli indicizzati all’inflazione
hanno comunque iniziato
a crescere leggermente,
rimane da gestire il coordinamento delle istituzioni tra
loro indipendenti. In quanto
la BCE intende acquistare
i titoli di nuova emissione
solo dopo che avrà valutato positivamente il piano
di risanamento predisposto
dal paese interessato, che
dovrà essere stato anche
concordato con la commissione e gli altri stati membri. Mentre il ricorso al FMI
rimarrà un’opzione solo autonomamente attivabile dal
paese in difficoltà, ed il FMI
valuterà anch’esso, secondo suoi autonomi criteri, la
solidità e la credibilità dello
stesso piano di stabilizzazione.
Per tornare alla Grecia, dunque, gli operatori di mercati
si interrogano ora se, dopo
essere riuscita a piazzare
in qualche modo i propri
bonds con scadenza a tre
anni, questa nazione sia in
grado di onorare gli impegni
finanziari che l’aspettano a
tale scadenza, pur se i recenti crolli di borsa sembrano confermare che il mercato non crede alla Grecia
e, facendo crollare il prezzo
dei relativi titoli di stato, indebolisce il patrimonio degli
organismi finanziari che li
possiedono, con potenziali di impatti negativi sulla
capacità di credito del sistema. Questa esperienza
già ci insegna che, se alla
fine di un triennio non ci si
vuol ritrovare con una banca centrale piena di titoli di
stato privi di valore emessi
dagli stati PIGS, o tossici,
sarebbe sin d’ora conveniente che la stessa emettesse prime piccole trances
di bonds UEM a garanzia
solidale da parte dei paesi
partecipanti al capitale della
stessa. Mentre la liquidità
in tal modo ricavata, ed i
relativi oneri finanziari, potrebbero essere suddivisi
tra gli stessi secondo criteri
di solidarietà ed opportunità
politica, piuttosto che procedere con prestiti bilaterali
come ora si è fatto.
Questo quesito sposta
l’analisi del problema dagli
argomenti propri dell’economia finanziaria a quelli
dell’economia reale, che
non investono solo i paesi
UE più deboli ed attualmente oggetto di assistenza solidale, ma tutta l’area Euro.
La Germania al di la delle
contingenze
elettoralistiche, come tutti gli altri paesi solidali, devono ora fare
accettare ai propri cittadini
17
L’esperienza
greca ci insegna che, se alla
fine di un triennio non ci si
vuol ritrovare
con una banca
centrale piena
di titoli di stato
privi di valore
emessi da stati
“tossici”,
sarebbe sin d’ora
conveniente
che la stessa emettesse
prime piccole
trances di bonds UEM a garanzia solidale
da parte dei paesi partecipanti
al capitale della
stessa.
COSTUME
Appare certamente inevitabile la riscrittura del Trattato
in tema di aiuti
di stato, vista
la
situazione
alla quale si è
giunti con le attuali limitazioni, prevedendone una loro
utilizzazione
solo nei casi di
riforme strutturali nei paesi
beneficiari.
18
gli oneri e le conseguenze
attuali e prospettiche, in
termini di manovre di bilancio, connessi con interventi
di aiuto e fare prendere loro
coscienza di una condizione
che fino ad oggi non appariva, quella di una Europa
duale con dislivelli di reddito
e di produttività elevati, che
l’Euro sembrava non disvelare nella loro gravità.
È noto che l’utilizzo della
moneta unica, se da una
parte ha livellato verso il
basso le tendenze inflazionistiche in tutti i paesi, non
si è accompagnato a misure di politica monetaria
della BCE sufficientemente
diversificate territorialmente, in grado di contrastare
localmente i perniciosi effetti dell’abbassamento dei
tassi d’interesse, quali la
bolla immobiliare in Spagna
e l’aumento del debito pubblico in Grecia.
Si tratta quindi di creare le
condizioni per una nuova
politica economica europea,
maggiormente
integrata
fra i vari mercati nazionali,
e maggiormente guidata
centralmente. Le possibili
opzioni in tal senso devono
essere di varia natura, ma
appare certamente inevitabile la riscrittura del Tratta-
to in tema di aiuti di stato,
vista la situazione alla quale si è giunti con le attuali
limitazioni, prevedendone
una loro utilizzazione solo
nei casi di riforme strutturali nei paesi beneficiari.
Sul piano microeconomico andrebbero ad esempio
diversificati i benefici economici a favore dei paesi
più bisognosi, ritraibili dalle
grandi opere infrastrutturali
infra-europee, favorita l’attrazione di investimenti da
parte di investitori extraUE, sia con contributi che
con una maggiore liberalizzazione dei mercati, incentivate maggiormente le
produzioni ed i servizi a più
elevato valore aggiunto così
come quelle che favoriscano il riequilibro della bilancia commerciale, stabilito
un percorso di favore per le
sovvenzioni ad investimenti
per l’innovazione tecnologica realizzate in paesi UE più
deboli rispetto a quelle acquisibili investendo in aree
extra-UE. Queste ultime
potrebbero essere anche
eliminate.
Già intravediamo l’immediata obiezione di chi controbatte che le sovvenzioni
alleviano i problemi nel breve periodo senza risolverli.
Ma se tutti gli interventi di
riequilibrio venissero coordinati e monitorati a livello
centrale si sarebbe in grado:
- in primo luogo di pilotarne gli effetti in modo
tale che nel medio-lungo
i prezzi nei paesi deboli
beneficiari tendano ad
allinearsi alla produttività media UE più di quanto avverrebbe senza siffatti interventi, e quindi
lasciandone il coordinamento all’arbitrio di governanti, come lo sono
stati quelli greci in odore
di frode, ed in più calati
in un contesto temporale
di necessaria drammatica riduzione della spesa
pubblica;
- in secondo luogo di assistere gli investimenti
con forme di tutoraggio
economico intertemporale al precipuo scopo
di consolidare – e non
disperdere - nel tempo
i benefici della sovvenzione. Si tratterebbe
pertanto di operare avvalendosi di un organismo di nuova istituzione a durata temporale
limitata e che affianchi
la Commissione. Si può
pensare ad un’Authority assimilabile sul piano
funzionale ad un ministero delle finanze UE in
Andreas Gursky - Chicago Board of Trade, 1999
nuce, con l’esclusiva missione
istituzionale di porre in atto
penetranti controlli non solo
a livello macroeconomico sul
mantenimento degli impegni
di spesa e di entrate fiscali,
ma anche e soprattutto sulla specifica implementazione
delle politiche dirette al sostegno dell’economia reale. Tale
schema funzionale risulterebbe pienamente conforme con
il criterio operativo di applicare “il governo dove necessario
ed il mercato dove possibile”.
Va da se che, al termine del periodo di verifica delle politiche
di riequilibrio come quello sopra ipotizzato per tutti i paesi
dell’area UEM e per quelli ne che
dovranno fare parte nel prossimo futuro (si consideri il caso
Ungheria in proposito), sarebbe
davvero legittimo chiedersi se si
possa ancora procedere con un
solo Euro, ovvero se non sia necessario accettare un’Europa a
due velocità.
Gli interventi aggiuntivi in
atto e quelli prospettici
Come noto alcuni paesi dell’area
UEM hanno unilateralmente
FORUM - GIUGNO/10
19
messo in atto provvedimenti di
natura normativa regolamentare
al fine di porre un primo argine
di natura istituzionale all’operato
della speculazione. Ma le misure adottate dalla Bafin, l’agenzia
tedesca di controllo dei mercati
finanziari, che ha vietato la vendita allo scoperto di alcuni generi
di titoli, hanno avuto, come si
ricorderà, una immediata e forte
eco nel calo dei mercati borsistici
europei. Da qui l’ancor più sentita esigenza di muovere i passi
in forma coordinata tra gli stessi
paesi aderenti all’unione economica e monetaria, evitando ad
COSTUME
20
un tempo restrizioni che possano risultare di ostacolo all’efficienza dei mercati nella misura in cui generino od alimentino fattori di concorrenza sleale
sul piano della regolamentazione intra-UEM.
A ciò ha fatto seguito l’accordo Ecofin sugli Hedge
Funds (Vedi riquadro alla pagina precedente), che ha definito
gli orientamenti generali per questi fondi di investimento alternativi che intendano operare in ambito
UE.Si è trattato di individuare criteri normativi relativi a vincoli prudenziali, requisiti di capitale, obblighi di informazione delle Autorità di vigilanza sulle
politiche di investimento e limiti all’uso della leva di
indebitamento.
Misure analoghe stanno per essere emanate con
riferimento alle agenzie di rating, sottoponibili ad
una stringente supervisione europea circa le loro
valutazioni, che si prospettano in futuro controllate
dalla nascente ESMA (Agenzia Europea per i Titoli
e i Mercati).
Nel fermento di iniziative indirizzate in tal senso va
poi citata la previsione dei ministri Ecofin in tema di
modifiche al Patto di stabilità, ovverosia di applicare
sanzioni finanziarie e non finanziarie (negazione del
diritto di voto) ai paesi che non sviluppino piani di
rientro credibili ovvero non siano in grado di mantenere impegni presi in tema di rientro da deficit di bilancio o di riduzione del debito pubblico. Manovre per
il riequilibrio dei conti pubblici che sono peraltro già
iniziate anche nei paesi non PIGS: si consideri il caso
esemplare dei tagli alla spesa pubblica fatti approvare dalla Cancelliera tedesca, che a questo proposito
dovrebbero costituire un benchmark per le politiche
di riduzione del debito pubblico.
E comunque sottolineamo con piacere, visto quanto da noi proposto, la scelta di istituire un meccanismo “stabile” per la gestione delle crisi in ambito
Ecofin.
Conclusioni
Non si può non concludere questa breve analisi
senza accennare alla finanza spietata, che fa ampio
uso di strumenti virtuali in operazioni sofisticate e
che non intendono sentire parlare di limiti alla loro
libertà di movimento in quanto dettato, secondo
loro, dal solo intento di chi vede in anticipo ciò che
sta per accadere. Ma è di tutta evidenza che così
operando possono arrivare a destabilizzare l’economia di intere nazioni, con tutte le conseguenze
che ne derivano in termini di disoccupazione, nuove
forme di povertà, aumento del malessere generale
e di perdita della coesione sociale. Ma l’argine che
si cerca di porre a tali forme di “invadenza” delle economie nazionali e del corpo sociale, non può
sostanziarsi nel solo rafforzamento del patrimonio
degli intermediari “sistemici” e nell’emanazione di
nuove regole di Basilea 3, in quanto misure atte si
a migliorare le difese di liquidità del sistema, ma la
cui efficacia dipende comunque dalle mutabili sensibilità o percezioni del rischio nel tempo, e perché
FORUM - GIUGNO/10
non idonee a contrastare il
rischio riferibile alla casistica
cosiddetta del “cigno nero”.
E sarebbe opportuno valutare
allora se il rispetto di un parametro sulla composizione
dei rischi di portafoglio degli
organismi finanziari (tra rischi
da trading o da investimento
finanziario della liquidità, rispetto ai rischi generati dai
impieghi nell’economia reale)
non possa meglio riflettere la
sensibilità di tali organismi
all’insorgere di siffatti rischi
sistemici da mercato finanziario globalizzato.
Tale invadenza deve essere necessariamente frenata
dall’instaurazione di paletti istituzionali molto rigidi,
che siano in grado di creare
ostacoli molto forti alla catena delle aspettative razionali
- od irrazionali verrebbe da
dire - che presso gli operatori finanziari generano
l’effetto domino di cui siamo
stati spettatori. Ed in tal senso non possono che essere
fatte vale regole globali di
controllo come quelle cui si
è ispirato il recente vertice
ministeriale dei paesi OCSE,
mirate a rendere sempre
meno inaccettabili automatismi di comportamento propri
del pensiero finanziario unico
e sempre più severe verso
comportamenti non etici.
Laddove quindi si ritenga che
il benessere sociale sia un
bene pubblico, da privilegiare a determinate condizioni
rispetto alla cosiddetta efficienza dei mercati finanziari,
si potrebbero implementare
politiche volte a ridurre lo
spazio tecnico-operativo per
tali organismi.
Sono già state portate all’attenzione dei media proposte
di natura normativa quali la
trattazione dei derivati solo
su mercati con controparti
centrali e sui mercati regolamentati e il divieto di scommettere sul trading proprietario, di vendite allo scoperto,
ovvero di fare scommesse
con i soldi altrui.
Riteniamo che interventi
di tal genere genererebbero benefici più indiretti che
diretti in tema di attacchi
speculativi, rendendo sicuramente molto più rischiose,
ad esempio, le azioni per cui
Goldman Sachs e Morgan
Stanley sembra siano oggetto di indagine da parte della
SEC statunitense secondo il
Wall Street Journal, vale a
dire la vendita alla clientela
di loro prodotti derivati legati
ai mutui subprime, su cui a
volte avrebbero scommesso
contro.
Siamo invece dell’avviso che
una misura più efficace contro siffatta speculazione, e
che non imbavaglierebbe sul
piano gestionale tali operatori, andrebbe ricercata non
nella applicazione di una
Tobin tax generalizzata sui
mercati borsistici, bensì in
misure mirate di prelievo fiscale, qualora fosse ammissibile colpire isolatamente i
profitti dal trading speculativo di determinati titoli di stato di una predefinita lista di
paesi “vittima”.
Ma sicuramente la misura fiscale più efficace in tale contesto dovrebbe essere la non
imposizione fiscale delle plusvalenze che si originassero
sugli assets illiquidi - e senza prezzo di mercato al momento attuale - che fossero
riceduti dalla BCE agli organismi finanziari con i quali
può operare. Se tutto andasse in linea con le previsioni
dei policy makers dell’area
UEM, tali assets dovrebbero
inevitabilmente
rivalutarsi
nel medio periodo
Da ultimo perché non accennare anche alla provocante
proposta di chi vorrebbe una
corte di giustizia internazionale chiamata a giudicare i
politici responsabili di frodi
nella gestione dei conti pubblici tali da ingenerare ingenti danni sociali.
21
Perché non
pensare ad
una corte di
giustizia internazionale chiamata
a giudicare
i politici responsabili
di frodi nella
gestione dei
conti pubblici tali da
ingenerare
ingenti danni sociali?
STORIA
22
“Battaglia al ponte dell’Ammiraglio” di Renato Guttuso -1955.Olio su tela 300 x 500
Non è stato semplice
“fare” gli italiani.
In mancanza della TV
i Padri della Patria trovarono
più semplice riscrivere
la Storia.
Declino e morte
dell’ideologia
risorgimentale
di Gianni Cara
Giusto centocinquant’anni fa i Mille sbarcavano in
Sicilia: iniziamo da questo numero a celebrare,
con obiettività, quell’Unità che, pur restando un
grande valore, dovrebbe
essere intesa nella sua
essenza reale. Proprio per
costruire finalmente, nella
diversità, un grande Stato
moderno.
«Ideologia Risorgimentale» non è sinonimo di Risorgimento. Essa
è il «codice» etico-politico della classe dirigente nazionale dopo la
costituzione dello Stato unitario, è il «credo» politico di coloro che
si identificano con l’unità e hanno un evidente interesse ad assicurarne il buon funzionamento.
Per comprendere come tale ideologia si sia concretamente formata non serve risalire alle radici storiche e culturali del Risorgimento
e attribuire agli antenati ciò che fu spesso immaginato o inventato
dai loro discendenti. Conviene coglierne la nascita nella fase formativa dello Stato, quando essa divenne indispensabile alla sua
esistenza e gestione.
FORUM - GIUGNO/10
Ma il 9 Ottobre Bettino Ricasoli, presidente del Consiglio dopo la morte di Cavour, estese per decreto a
tutto il Paese la legge con cui Urbano Rattazzi aveva applicato alla Lombardia, nell’Ottobre del 1859,
il regime amministrativo, fortemente centralizzato,
delle province piemontesi.
Fu istituito il Prefetto, rappresentante del governo nelle province del regno, fu abbandonato il
modello inglese e adottato, con una radicale inversione di fronte, il modello francese. Moriva,
ancor prima di nascere, lo Stato decentrato che
Minghetti aveva prefigurato nei decreti del marzo precedente, e nasceva al suo posto lo Stato
napoleonico. Che cosa era accaduto fra il marzo
e l’ottobre del 1861 perché il paese imboccasse
improvvisamente una strada così radicalmente
diversa da quella che il partito vincente aveva
immaginato per il futuro?
L’architettura dello Stato
centralizzato e il regime prefettizio
Il breve intervallo fra ordine vecchio e nuovo, durante il quale lo Stato italiano fece le scelte che ne
avrebbero fissato i caratteri e segnato l’evoluzione,
durò dal gennaio all’ottobre del 1861. Fedeli alla
loro ideologia liberale e all’ispirazione inglese della
loro cultura politica, gli uomini della destra concepirono per le nuove province del Regno un sistema
politico-amministrativo che avrebbe rispettato e
valorizzato le tradizioni locali, le identità regionali e
i vecchi patriottismi municipali. Al governo centrale
sarebbero rimaste alcune competenze unitarie: gli
esteri, la difesa, i trasporti, le poste.
Era morto Cavour, era scoppiata la guerra del
brigantaggio, era emersa con evidenza la precarietà nazionale ed internazionale dello Stato
Unitario. Dopo avere miracolosamente raggiunto
traguardi che nessuno si era prefisso, il governo
dovette improvvisamente misurarsi con l’ostilità del clero, l’indifferenza di una larga parte
dell’opinione pubblica
delle regioni annesse,
la diffidenza di alcune grandi potenze,
la distanza economica e civile fra il nord
e il sud, le condizioni
dell’ordine
pubblico
meridionale.
La risposta del governo alle minacce che
insidiavano il nuovo
Stato fu il regime prefettizio; una scelta frettolosa e necessaria, imposta da problemi di cui nes-
23
STORIA
24
Il plebiscito del 1860 a Napoli
suno, nei mesi precedenti, aveva
immaginato la complessità e la
grandezza.
Il rapido susseguirsi di due strategie amministrative così profondamente diverse conferma che
l’unità nazionale non fu il risultato
di un disegno preordinato.
Nessuno, se non le frange radicali del movimento garibaldino e
mazziniano, aveva immaginato
negli anni precedenti l’improvvisa
scomparsa di tutti gli Stati italiani. E nessun ministro piemontese
aveva nei propri cassetti, alla fine
del 1860, un dossier politico-amministrativo sull’unificazione della
penisola.
li e che l’Inghilterra, fingendosi
indifferente e neutrale, avrebbe perfidamente incoraggiato la
loro morte, essi crollarono su sé
stessi. Il fattore decisivo non fu la
L’unificazione Quando fu chiaro che l’Austria pressione esterna degli «unitari»,
Ci ritrovammo uniti fra il Settem- non avrebbe potuto difender- che furono complessivamente
La Banca Nazionale degli Stati Sardi nacque dalla fusione tra la Banca di Torino
e la Banca di Genova, come società privata, nel 1849. Grazie alle pressioni di
Cavour, che aveva forti interessi personali nel capitale della Banca, venne autorizzata ad emettere cartamoneta pur
essendo di proprietà privata, esercitando
anche le funzioni di Tesoreria di Stato.
bre e il Novembre del 1860 perché gli stati pre-unitari, e in particolare il regno delle Due Sicilie, si
rivelarono infinitamente più fragili
di quanto Torino avesse previsto.
piemontese fosse ormai carta straccia.
La Banca, ormai divenuta, il braccio finanziario di Cavour, ancor più esausta
dopo le spese per la campagna del 1860,
divenne “Banca d’Italia” dopo la proclamazione del Regno d’Italia e provvide ad
inglobare il Banco delle Due Sicilie, che
aveva in circolazione proprie monete
d’oro e d’argento per un valore di oltre 1
Il Piemonte era l’unico Stato della Peni- miliardo e duecento milioni di lire!
sola ad emettere carta moneta, contra- Al Banco delle Due Sicilie (diviso poi in
riamente al Banco delle Due Sicilie che Banco di Napoli e Banco di Sicilia) era
coniava monete d’oro e d’argento. La stato precedentemente impedito di rariserva aurea piemontese ammontava a strellare dal mercato le proprie monete
20 milioni di lire, ma a causa della fame d’oro per trasformarle in carta moneta
di denaro dei Savoia generata dalle con- secondo le leggi piemontesi, poiché in tal
tinue spese belliche la carta moneta in modo i Banchi avrebbero potuto emetcircolazione era di oltre 60 milioni. Ciò tere carta moneta per un valore di 1200
fece sì che negli anni ‘50 la carta moneta milioni e sarebbero potuti diventare pa-
droni di tutto il mercato finanziario italiano. Quell’oro piano piano passò nelle
casse piemontesi. Tuttavia, nonostante
tutto quell’oro rastrellato al Sud, la nuova
Banca d’Italia risultò non avere la maggior parte di quell’oro nella sua riserva.
Evidentemente aveva preso altre vie, che
erano quelle del finanziamento per la costituzione di imprese al nord operato da
banche, subito costituite per l’occasione,
che erano socie (!) della Banca d’Italia:
Credito mobiliare di Torino, Banco sconto
e sete di Torino, Cassa generale di Genova e Cassa di sconto di Torino.
L’emissione incontrollata della carta moneta ebbe come conseguenza un decreto
di “corso forzoso”: a partire dal 1866 la
lira carta non poté più essere cambiata
in oro.
FORUM - GIUGNO/10
una piccola minoranza.
ordineranno e condurranno gli
elettori alle urne della Nazione
in gruppi o in file più o meno numerose, ma sempre disciplinate
e procedenti in buon ordine. In
testa sarà la bandiera italiana;
ciascuno deporrà nell’urna la
propria scheda, poi si ritirerà e
in un punto determinato il gruppo si scioglierà con quella calma
e quella dignità che proviene
dalla coscienza di avere compiuto un alto dovere».
Decisivi furono, in Sicilia, i vecchi rancori del patriottismo isolano contro la dominazione di
Napoli e, altrove, il rapido dissolversi delle strutture amministrative, militari e sociali che
avevano assicurato l’esistenza
degli Stati pre-unitari. Decisivo,
in altre parole, fu l’immediato
voltafaccia di una parte delle
classi dirigenti-funzionari dello
Stato, militari, liberi professionisti - che corse a ingrossare le Se questi furono i nuovi batfila del partito risorgimentale.
taglioni dell’Italia unitaria, la
nuova classe dirigente avrebCome spiegare altrimenti i
be dovuto rendere rispettoso
plebiscitari (1.312.366 contro
omaggio, nel momento in cui
10.302 nelle province continenassumeva la direzione del nuotali, 432.053 contro 667 in Sicivo Stato, agli ostinati difensori
lia) con cui i sudditi di Francesco
borbonici di Messina, Civitella
«chiesero di diventare sudditi
del Tronto, Gaeta, e avrebbe
di Vittorio Emanuele»? Persino
dovuto aggiungerne i nomi al
in Toscana ed in Emilia, dove il
«ruolo degli eroi» di cui veneramovimento nazionale poté conre la memoria.
tare sulla guida autorevole di
Ricasoli e Farini, i referendum Come gli svizzeri alle Tuileries
furono una manifestazione di nel 1792, quegli uomini si batfeudale lealtà per i leader loca- terono perché avevano giurato
li piuttosto che un atto di fede fedeltà al loro re e non meritanella monarchia sabauda. Ecco vano l’oblio a cui li ha condancome Ricasoli, in Toscana, or- nati la leggenda risorgimentale.
ganizzò la partecipazione popoMa nessuno può permettersi il
lare al referendum:
lusso di scrivere una storia che
« (…) gli intendenti agricoli a non tenga conto delle proprie
capo dei loro amministrati, il più esigenze e non favorisca la reainfluente proprietario rurale a lizzazione dei propri obiettivi.
capo degli uomini della sua parAnziché raccontare l’unità come
rocchia, il cittadino più autoreeffetto di circostanze impreviste
vole a capo degli abitanti di una
e di opportunistiche adesioni, la
strada, di un quartiere, ecc. (…)
nuova classe dirigente nazionale fu costretta a raccontarla
come il risultato di un grande
sforzo unitario e di una forte
volontà collettiva.
Fu taciuto il ruolo delle navi inglesi davanti al porto di Marsala, furono taciuti l’opportunismo
e il doppiogiochismo delle classi
dirigenti locali, fu ignorato o dimenticato l’eroismo di coloro che
tentarono un’ultima difesa contro i piemontesi e i garibaldini.
Proprio perché scaturito da circostanze impreviste, lo Stato
unitario ebbe quindi immediatamente bisogno di una forte
ideologia dominante1.
Un’ideologia strumentale
per “fare” gli italiani
L’opera nata per caso finì per
condizionare i suoi involontari creatori e per orientarne la
strategia politica. Per consolidare il proprio potere ed acquisire legittimità morale, la classe
dirigente dovette credere fermamente nella necessità della
propria esistenza e realizzare il
mandato di cui si vide improvvisamente investita.
L’ideologia risorgimentale non è
1 Indro Montanelli, sicuramente molto
più obiettivo di tanti pseudointellettuali, scriveva: “L’Italia è finita. O forse, nata su plebisciti-burletta come
quelli del 1860-61, non è mai esistita
che nella fantasia di pochi sognatori,
ai quali abbiamo avuto la disgrazia di
appartenere”.
25
STORIA
26
11 maggio 1860. Sbarco dei Mille a Marsala.
Dal disegno di un ufficiale di marina preso da bordo di una nave inglese.
Nulla ha giovato alla nascita di
una nazione francese quanto le
grandi guerre di espansione e
conquiste, da Luigi XIV a Napoleone. Nulla ha «fatto» la Germania quanto la grande insurrezione antifrancese del 1813 e le
due guerre degli anni ‘60. Nulla
Improvvisamente proiettata al
ha «fatto» la Santa Madre Rusvertice di uno Stato imprevisto,
sia quanto Poltava e la «guerra
essa deve proclamarne la nepatriottica» del 1812.
cessità, il fondamento storico,
la missione morale. Ma deve an- Non v’è nazione in Europa che
che realizzare il più rapidamente non abbia definito la propria
possibile ciò che avrebbe dovu- identità e creato il proprio territo, in buona logica, precedere torio senza lottare per la propria
l’unificazione e giustificarne l’av- esistenza. La riscrittura romantica della storia italiana può servento. Deve «fare gli italiani».
vire a puntellare le pretese della
Assistiamo così sin dall’inizio a
classe dirigente, ma non può souna sorta di sdoppiamento delstituire la storia vera. Lo voglia o
la ideologia risorgimentale e alla
no l’Italia ha bisogno, per esistenascita, in seno alla classe dire, di guerre e di sangue.
rigente, di due partiti. Il primo
pensa che gli italiani debbano Il secondo partito non nega l’utifarsi «col ferro e col fuoco» nel lità delle guerre, ma ne valuta
vivo dell’azione, nel crogiolo del- più attentamente i costi e i perile guerre e delle battaglie. Lo coli. Sa che la guerra del 1859 è
rafforza in questo convincimento stata prevalentemente francese,
il ricordo e lo spettacolo di altri che la spedizione di Garibaldi in
Stati nazionali europei.
Sicilia non basta da sola a proquindi l’antefatto ideale e morale
dello Stato unitario. È la somma
delle convinzioni, delle certezze,
degli obiettivi e dei metodi con
cui la classe dirigente conferisce
a sé stessa il diritto di governare.
vare le virtù guerriere del popolo
italiano, che la guerra del 1866
è stata vinta in Boemia, non in
Adriatico e nel Veneto. Sa soprattutto, per diretta esperienza,
che le guerre costano molto denaro e pesano per molto tempo
sul bilancio dello Stato. Per «fare
gli italiani» occorre quindi tentare una strada diversa, più graduale, meno rischiosa. Occorre
unificare il territorio e le istituzioni, promuovere l’educazione
dei cittadini creare fra essi i vincoli della convivenza economica
e della comunità culturale. Vorrei
poter dire che queste due famiglie dell’ideologia risorgimentale
corrispondono alle tradizionali
denominazioni degli schieramenti politici, che la prima è di
destra, la seconda di sinistra. Ma
l’affermazione sarebbe del tutto
infondata.
Durante la prima generazione unitaria è vero, piuttosto, il contrario:
la Sinistra è Volontarista, aggressiva, nazionalista, mentre la Destra è cauta, poco incline ai colpi
di testa e alle avventure militari.
FORUM - GIUGNO/10
27
Più tardi la distinzione fra le due famiglie attraverserà in diagonale tutta la società politica italiana raggruppando in ciascuno dei campi, fianco a fianco,
progressisti e conservatori. Accadrà persino che gli
stessi uomini politici - Crispi (a sinistra, nella foto), Giolitti
(a destra), Sonnino, persino Mussolini - passino da un
campo all’altro perseguendo strategie diverse in momenti diversi della loro vita politica.
Per semplificare dirò schematicamente che Crispi,
Salandra, Sonnino e Mussolini cercarono di «fare gli
italiani» con la guerra, mentre Spaventa, Sella, Minghetti, Depretis, Giolitti e altri leader minori cercarono di «fare gli italiani» con le riforme, le infrastrutture, la scuola, lo sviluppo economico. L’uomo che
dette alla seconda famiglia la sua politica estera più
efficace e coerente fu probabilmente Emilio Visconti
di Venosta (foto a fianco), sette volte ministro degli esteri tra il 1863 e il 1901.
tra le cause della prima guerra mondiale, è certamente lecito sostenere che essa contribuì largamente a creare i quadri interventisti della primavera del
1915.
Entrammo quindi in guerra nel maggio di quell’anno,
per «fare gli italiani».
Accade spesso nella storia che le grandi strategie Che questo fosse il principale «fine di guerra» delpolitiche siano fondate sull’esito, talora casuale di un lo Stato Italiano è dimostrato dalla spregiudicata indifferenza con cui le élite nazionali presero in
episodio.
considerazione le due alleanze possibili. Il governo
Fare la guerra italiano era onnivoro, cioè pronto ad espandersi sia
per “fare” gli italiani verso il Mediterraneo orientale sia verso il MediterLa sconfitta di Adua ebbe l’effetto di mettere fuori raneo occidentale, perché la guerra era anzitutto un
gioco per parecchi anni il partito del «ferro e fuoco», mezzo per «forgiare» l’unità nazionale. Per entrare
ma la guerra di Libia, che Giolitti cercò inutilmente di in guerra, tuttavia, una delle famiglie risorgimentali
declassare a «fatalità storica», ebbe quello di esten- dovette sbarazzarsi dell’altra con un colpo di mano.
dere la voglia di sangue e di cimenti che continuava Dopo essere stata una monarchia parlamentare,
ad agitare gli animi di una parte delle élite nazionali. l’Italia divenne improvvisamente per qualche settiSe è assurdo sostenere che la guerra italo-turca fu mana, nella primavera del 1915, un Reich tedesco e
Il mito risorgimentale di Cavour “tessitore”
integerrimo dovrebbe essere integrato da
una visione molto più “prosaica” della sua
figura. Fu infatti soprattutto un ricco e potente uomo d’affari che seppe sfruttare la
politica per aumentare a dismisura il suo
potere finanziario. Debuttò in politica facendo approvare un grosso aumento dei
dazi doganali sui concimi chimici, men-
tre era azionista di una fabbrica di fosfati. Come azionista dei mulini di Collegno,
fece incetta di grano durante un periodo
di carestia e per questo il suo palazzotto
fu assaltato dalla popolazione affamata.
A seguito di questo episodio, John Daniel,
ambasciatore americano a Torino, nella
sua relazione al Governo U.S.A., cosí lo
descriveva: «… totalmente privo di scru-
poli … Ama il denaro e, mentre si occupa degli affari della nazione, si è costruita
un’ingente fortuna privata. Ama appassionatamente il potere, che non può mai
indursi a dividere con altri, né sopporta la
minima opposizione …». Dell’interesse di
Cavour nella Banca Nazionale degli Stati
Sardi e di come favorì questo Istituto, si
è detto sopra
STORIA
28
Salandra una sorta di cancelliere.
Ma non si trattò di colpo di Stato.
Lo scontro fu tra le due famiglie
dell’ideologia risorgimentale e
il duello fu arbitrato dal Re che
buttò il peso della monarchia nel
campo degli interventisti.
Il “metodo Mussolini”
Mussolini si presentò al re, sin
dalla prima udienza, il 30 Ottobre
del 1922, come l’esponente più
radicale e intransigente del volontarismo risorgimentale.
Le parole «vi porto l’Italia di Vittorio Veneto», con cui dichiarò di
essersi indirizzato a Vittorio Emanuele, indicavano che egli avrebbe, per l’appunto, «fatto» gli italiani col ferro e col fuoco.
In realtà, come alcuni dei suoi
predecessori, tentò strade diverse, a seconda delle circostanze,
e non esitò a fare in alcuni momenti, sia pure con linguaggio
sprezzante e tracotante, la politica guardinga della Destra storica.
Ma il successo della guerra etiopica, l’ascesa di Hitler e la docilità
con cui le democrazie accettaro-
no tutti i colpi di mano del Fűhrer,
dalla occupazione della Ruhr alla
spartizione della Cecoslovacchia,
dovettero convincerlo che le sorti
del paese erano a un bivio: buttarsi nella mischia per fare gli italiani o starsene fuori e rinunciare
all’obiettivo.
L’idea che l’Italia potesse restare
neutrale non gli passò mai per la
FORUM - GIUGNO/10
testa. Considerata nella logica del
volontarismo risorgimentale l’ipotesi, del resto, era del tutto irrealistica.
I tre maggiori esempi europei Svizzera, Belgio, Svezia - dimostrano che la neutralità incute
rispetto e produce i risultati desiderati soltanto quando è sostenuta alle spalle da coesione,
fermezza, comunanza di valori e
principi, un esercito forte e temuto, vale a dire tutto ciò che ancora
faceva difetto «all’Italia di Vittorio
Veneto». Furono queste in gran
parte le ragioni per cui funzionò
bene in Svizzera e Svezia, male
in Belgio.
Sino a quel momento si erano
combattute in Parlamento, si erano scomunicate a vicenda e una
di esse, il fascismo, aveva perseguitato l’altra con misure di polizia. Ma durante gli ultimi due anni
della seconda guerra mondiale i
nipoti del Risorgimento passarono alle armi e si uccisero.
Fu questo l’aspetto più tragico di
quella vicenda: il Risorgimento
diviso in due campi contrapposti,
un’Italia non ancora fatta e già
Paradossalmente potrebbe dirsi
che l’Italia avrebbe potuto essere
neutrale soltanto il giorno in cui
qualcuno, finalmente, avesse fatto gli italiani.
Una guerra civile?
Sappiamo che cosa accadde fra il
1940 e il 1943 e sappiamo ormai,
grazie al libro di Claudio Pavone,
che anche la storiografia progressista ammette essersi combattuta in Italia dal 1943 al 1945 una
guerra civile.
L’espressione è particolarmente
calzante. Più che di guerra tra
fascisti ed antifascisti si trattò infatti di uno scontro mortale tra le
due famiglie dell’ideologia risorgimentale.
lacerata da un insanabile contrasto fra due rami di una stessa
famiglia. La vittima più illustre di
questa lotta intestina fu l’uomo
che ne comprese meglio di altri il carattere «familiare» e che
fece il possibile per interporsi fra
i combattenti. Giovanni Gentile fu
certamente ucciso dai gappisti di
29
Firenze davanti alla sua villa del
Salviatino, ma avrebbe potuto
cadere sotto i colpi del fascismo
radicale. Così muore Antigone
quando cerca di contrapporre le
leggi della pietà a quelle della forza.
Vinse come sappiamo la «Famiglia» risorgimentale che voleva
fare gli italiani con l’educazione
civile e con il progresso economico. Per le condizioni in cui si era
combattuto un paese sconfitto e
diviso dopo una lunga dittatura,
gli orrori di una guerra mondiale, una lotta spietata fra nemici
«terminali» - la guerra fu necessariamente un fratricidio e amputò l’ideologia risorgimentale di un
suo membro.
Non basta. Quella del partito risorgimentale vincente fu una vittoria di Pirro perché il campo dei
vincitori fu dominato durante la
lotta da due forze - i comunisti e
in misura minore, i cattolici - che
non appartenevano alla tradizione del Risorgimento e avevano
altri ricordi, altri obiettivi. Si delinea così sin dall’inizio dello Stato
repubblicano un contrasto tra coloro che vorrebbero tenere viva
l’idea del Risorgimento e coloro
che vorrebbero - esplicitamente i
comunisti, implicitamente i cattolici negarne il valore morale, svelarne le ipocrisie, sottolinearne i
fallimenti e cancellarne il ricordo.
Al centro del dibattito fu spesso
STORIA
30
l’Italia aveva bisogno per sopravvivere di una nuova ideologia e che soltanto «l’idea d’Europa» come
Chabod intitolò in quei mesi le sue lezioni di Milano,
poteva dare un senso all’esistenza del paese sconfitto. Fu questa la ragione per cui, contrariamente
a Croce, accettò senza esitare la ratifica del trattato di pace: per liquidare un passato fallimentare ed
evitare che il paese si attardasse inutilmente nella
contemplazione delle proprie frustrazioni.
Credo che le ricerche degli storici futuri sul crepuscolo del Risorgimento dovranno concludersi con la
fine degli anni ‘60.
la Resistenza che i «Risorgimentisti» - Saragat, ad
esempio - cercarono di accreditare come ultima
«guerra d’indipendenza» e che i comunisti esaltarono invece come lotta di liberazione sociale, insurrezione di popolo, promessa di rivoluzione.
A chi vorrà fare la storia dell’idea di Risorgimento
durante la prima generazione dello Stato repubblicano propongo alcuni temi di ricerca: i manuali di
storia nelle scuole, le discussioni provocate dal libro
di Rosario Romeo su Risorgimento e capitalismo e
da quello di Mack Smith sulla storia d’Italia, i discorsi presidenziali di Saragat, la graduale scomparsa
del 20 Settembre dagli annali delle feste nazionali e
infine, il dibattito sull’europeismo.
L’europeismo
L’europeismo fu infatti, negli anni immediatamente
successivi alla seconda guerra mondiale, la preoccupazione dominante di coloro che erano maggiormente consapevoli della precarietà dell’ideologia
risorgimentale.
Einaudi fu tra i primi a rendersi conto che la guerra
perduta colpiva a morte non soltanto il partito «del
ferro e del fuoco», ma l’intero Stato nazionale.
Sin dall’esilio in Svizzera giunse alla conclusione che
Da quel momento in poi lo studioso troverà probabilmente sulla sua strada temi più modesti: il socialismo tricolore, il culto garibaldino e i pellegrinaggi
a Caprera di Bettino Craxi, la pietà risorgimentale di
Giovanni Spadolini, le stanche discussioni provocate
dalle invettive antirisorgimentali di Vittorio Messori
e del cardinale Biffi.
La morte dell’ideologia risorgimentale
L’agonia dell’ideologia risorgimentale si protrae nel
tempo, ma a chi esige, per periodizzare la storia
degli italiani, una data di morte propongo il 1976.
L’anno in cui il 73,1% degli italiani dà il proprio voto
Il Trattato di Roma, istitutivo della CEE
firmato il 25 marzo 1957
alla Democrazia Cristiana e al
Partito Comunista se si deducono dal resto i voti di Democrazia
Proletaria, della Sűdtiroler Volkspartei e della Union Valdotaine,
alle due vecchie famiglie dell’ideologia risorgimentale rimane il
24,9%, di cui il 6% al Movimento
Sociale Italiano e il resto diviso
fra socialisti, socialdemocratici,
liberali, repubblicani e radicali.
diventa presidente del Consiglio,
Amintore Fanfani (foto in basso) presidente del Senato e Pietro Ingrao presidente della Camera, gli
italiani risorgimentali sono ormai
minoranza e vivono nel loro paese in una condizione intellettuale
analoga a quella che caratterizzava gli orleanisti e i bonapartisti
dopo l’avvento della Terza Repubblica.
Nell’anno in cui Giulio Andreotti
Si potrebbe naturalmente sostenere che l’emergenza di forze
nuove non comporta necessariamente la fine degli ideali risorgimentali.
Perché non riconoscere che il
partito comunista e la Democrazia Cristiana hanno accettato il
retaggio del Risorgimento e tentato di «fare gli italiani»?
Perché non riconoscere che i cattolici furono sin dall’inizio fervida-
FORUM - GIUGNO/10
31
mente europeisti e che i comunisti divennero tali nella prima
metà degli anni ‘70?
Non avevano gli stessi ricordi e le
stesse tradizioni, ma si proposero di realizzare, con la solidarietà, la giustizia sociale e l’Europa,
ciò che i partiti risorgimentali non
erano riusciti a compiere nelle
generazioni precedenti.
La Cassa del Mezzogiorno e gli
insediamenti industriali nelle province meridionali furono certamente un tentativo per unificare
il paese dando agli italiani eguali
possibilità di lavoro, di educazione e di promozione sociale. Ma lo
sciagurato risultato di quella politica è sotto i nostri occhi.
Il giudizio sulle responsabilità
spetta agli storici del futuro, ma
non è necessario attendere il loro
responso per constatare che la
STORIA
32
prassi della democrazia consociativa - risorse contro consenso,
favori contro voti - ha accentuato
le differenze tra le diverse parti
della penisola e che la strategia
della Cassa del Mezzogiorno è
complessivamente fallita. In un
momento in cui una parte del territorio nazionale ancora sfugge al
controllo giudiziario, poliziesco e
fiscale dello Stato unitario, la distanza fra il sud e il nord è più
forte, paradossalmente, di quanto non fosse all’epoca in cui l’Italia
era, come scrisse Croce, «divisa
in due». Gli anni felici tra il 1850
e il 1860, quando gli intellettuali
napoletani e siciliani, lavoravano
fraternamente a Torino con i loro
amici piemontesi, liguri, lombardi
e veneti per preparare un futuro
comune, ci appaiono terribilmente lontani.
Occorre risalire alla guerra contro
il brigantaggio, ai moti di Palermo
del settembre 1866 e ai fasci siciliani per ritrovare l’estraneità che
caratterizza oggi i rapporti fra le
due parti della penisola.
L’estraneità fra Nord e Sud
Questo fenomeno è andato accentuandosi col passare del tempo, ma può farsi risalire, simbolicamente, a due catastrofi
naturali: il terremoto in Friuli del
1976 e quello nelle province meridionali del 1980. Se le elezioni
nazionali del 1976 registrarono il
brusco declino delle forze politi-
che risorgimentali, i quattro anni
che corrono fra i due terremoti
segnano nella vicenda dell’Italia
unitaria l’inizio del processo di
scissione morale fra le due parti
della penisola.
Per la prima volta gli italiani videro «in diretta», grazie alla televisione, gli effetti in diverse regioni
di uno stesso avvenimento naturale: al nord una regione ansiosa
di riparare i guasti e ricominciare a lavorare, al sud la macchina
perversa di un assistenzialismo
senza progetti e prospettive.
Non basta.
Quei due avvenimenti produssero, sotto gli occhi degli italiani,
conseguenze radicalmente diverse; in Friuli un processo modernizzatore che ne ha fatto in pochi
anni una delle più intraprendenti
regioni mitteleuropee; nelle province meridionali un processo di
criminalizzazione che ha sottrat-
to una larga parte della penisola
all’impero della legge.
Gli stessi denari che hanno permesso al Friuli di costruire nuove
infrastrutture e nuove imprese
hanno creato in Campania, nella
migliore delle ipotesi, opere fittizie, nella peggiore una vasta rete
di «intermediari» che ha barattato il denaro dello Stato contro i
voti delle clientele elettorali.
Alla spaccatura orizzontale fra le
regioni settentrionali e meridionali si aggiunge un’altra spaccatura,
non meno pericolosa. Il fallimento dell’ideologia risorgimentale
nella sua duplice versione militare e civile ha trasformato l’Italia
in uno Stato senza fondamenta
etico-politiche.
Un neo-corporativismo
Questo non significa che la sua
unità sia in forse; gli interessi comuni prevalgono sulle divergenze. Significa tuttavia che il paese
è progressivamente divenuto nel
corso di questi ultimi anni una costellazione di grandi corporazioni
tribali o professionali, ciascuna
delle quali è preoccupata, anzitutto, dalle proprie prerogative e
dalla propria autotutela: i giudici,
la Banca d’Italia, i giornalisti, le
forze dell’ordine, la Commissione
episcopale e le organizzazioni che
ne dipendono, le Forze Armate,
le nomenklature accademiche,
gli apparati burocratici dei partiti
e dei sindacati, le clientele della
FORUM - GIUGNO/10
criminalità organizzata e giù sino
alle corporazioni minori dei commercianti, dei farmacisti, degli
edicolanti, dei tabaccai, dei tassisti.
Non tutte le corporazioni hanno
la stessa rilevanza. La loro compattezza e coesione dipende dal
livello di partecipazione.
La corporazione è forte quando
il socio si identifica totalmente
con essa e trae grandi benefici
dalla sua tutela. È debole quando l’identificazione dipende da
occasionali interessi di categoria
o il socio, per ragioni personali o
familiari, divide la propria lealtà
fra corporazioni diverse.
Ma è la corporazione-tribù ormai
la vera patria degli italiani, l’istituzione attraverso la quale essi
trattano con lo Stato.
Non esistono più cerimonie pubbliche, in Italia, in cui la comunità nazionale celebra se stessa.
Esistono cerimonie corporative in
cui la corporazione celebra il diritto di autoelogiarsi e a cui lo Stato rende omaggio con la propria
presenza.
Si va all’Altare della Patria il 4
Novembre per compiacere la corporazione delle Forze Armate,
si va all’inaugurazione dell’anno
Giudiziario per compiacere i magistrati, si mandano telegrammi
ai meeting di Comunione e Liberazione per rendere omaggio a
una particolare tribù della famiglia
cattolica, si è votato il lunedì 28
marzo 1994 (e non soltanto domenica 27) per compiacere la nomenklatura dell’ebraismo italiano
a cui non era permesso, in linea di
principio, votare nel giorno di una
propria festività religiosa.
La fine dell’ideologia non comporta necessariamente la fine
dei riti risorgimentali. Gli uomini
politici continueranno a salire i
gradini del monumento a Vittorio Emanuele, a deporre corone
d’alloro, a visitare gli ossari della
prima guerra mondiale e quello di
El Alamein, a celebrare ricorrenze dimenticate, a commemorare
martiri di cui nessuno ricorda più
di quando e perché siano morti.
Così fece Giuliano l’Apostata negli anni in cui i suoi connazionali
avevano già smesso di credere
agli dei dell’Olimpo.
Il vuoto ideologico postrisorgimentale
L’establishment politico-amministrativo continuerà a parlare il
33
linguaggio del Risorgimento anche per nascondere il vuoto ideologico della repubblica.
Ma è difficile immaginare che il
nuovo Stato italiano possa costituirsi sulla base di ideali così duramente provati dalla realtà storica e così fortemente minoritari.
Nascerà, se i suoi cittadini non riusciranno a dargli un’anima nuova, sulla base di un pragmatico
patto di convivenza fra popoli che
parlano la stessa lingua, vedono
la stessa televisione, partecipano
allo stesso campionato di calcio
e hanno un evidente interesse a
non pregiudicare, con gesti avventati o decisioni emotive, le
prospettive della loro comune
prosperità.
La storia dell’Italia risorgimentale
si è conclusa.
Quella degli anni ‘80 e della crisi
presente appartiene ad un libro
nuovo che potremmo chiamare,
per meglio marcare, la cesura col
passato, «dell’Italia post-risorgimentale».
STORIA
34
Mafia, Camorra e ‘n’Drangheta:
i più indovinati prodotti dell’Unità Nazionale
di Vito Lo Scrudato
Risorgimento,
sistema
Parlamentare e Stato
fortemente
centralistico
hanno
definitivamente dirottato l’evoluzione storico-sociale
delle Regioni del
Mezzogiorno verso
il modello deteriore e sottosviluppato che conosciamo.
Non solo il Meridione era dotato di
maggior ricchezza
e mezzi produttivi
poi inesorabilmente liquidati, ma con
l’Unità Nazionale
cambiò profondamente il rapporto
del cittadino con
le Istituzioni dello
Stato.
Non sarebbe corretto far partire la storia della criminalità organizzata dall’Unità d’Italia, perché prima di allora già esistevano nella struttura feudale del
Meridione modesti germi di quella sanguisuga che avrebbe dissanguato l’Italia Unita succhiandole, costantemente e fino ad oggi, una gran fetta di PIL.
Ma si trattava di costumi arcaici che, anziché scomparire con quella struttura,
vennero rinforzati dal processo unitario, soprattutto per l’incoscienza e l’incompetenza dei nuovi governanti piemontesi e dei loro metodi oppressivi.
È appunto in quel momento storico che si evidenzia il conflitto palese tra
questa criminalità e il nuovo Stato, con conseguente appoggio della popolazione più umile alla “Mafia”, che inizia a crescere e ad organizzarsi in modo
rigido.
Quella che oggi conosciamo col nome di Mafia altro non fu che lo strumento
FORUM - GIUGNO/10
35
Di Vito Lo Scrudato è appena uscito il volume “Varsalona, l’ultimo brigante. Nel latifondo siciliano tra ‘800 e ‘900” Vittorietti, Palermo 2010.
Vi si realizza un bilancio negativo per la Sicilia, a 150 anni dall’Unità Nazionale.
di potere delle classi dominanti, dei
proprietari, ricchi borghesi o famiglie
col blasone con terre al sole e ramificazioni dentro le alte cariche dello
Stato e degli Enti Locali.1
Questi nella mafia trovavano il mezzo
per difendere ed ampliare i loro interessi, accrescere le fortune economiche e, col controllo sulle popolazioni
soggezionate, accrescere anche la
fetta di gestione politica e di potere. E
si trattava, allora come oggi, di finalità razionalissime che prevedevano
1 L’Unità d’Italia rafforzò nel Mezzogiorno un
processo di fine della struttura feudale delle
campagne, nel momento in cui l’economia
veniva integrata, seppure faticosamente, a
quella del resto del Paese. Come è già stato
accennato, il nuovo governo piemontese si
sovrappose infatti ad una struttura sociale
meridionale già per molti aspetti affermata
in modo originale nel tessuto sociale, senza riuscire ad interagire positivamente con
essa. Conseguenza di questi cambiamenti
fu che nelle campagne i grossi latifondisti,
che avevano detenuto interamente il potere
fino a quel tempo, cominciarono ad aver bisogno sempre più di qualcuno che garantisse loro un controllo effettivo delle proprietà,
sia per difendersi dal brigantaggio, sia per
resistere alle nascenti pretese delle classi
contadine per una più equa distribuzione
del prodotto del loro lavoro.
Questo ruolo, che in altri paesi ed anche in
altre zone d’Italia fu tipicamente un compito affidato alla classe borghese imprenditoriale, aiutata nella sua affermazione dallo
stato liberale, venne assunto da alcuni personaggi che presero il nome di “campieri”
(perché controllavano i campi) o “gabelloti”,
in quanto riscuotevano, per conto del padrone, le “gabelle”. Quindi, fin dal principio,
la mafia si delinea come un’organizzazione
che assume dei ruoli pubblici per eccellenza, che altrove sono di competenza dello
Stato (Clemente Russo, “Storia della mafia
nel Mezzogiorno d’Italia).
l’impiego di metodologie e di mezzi
approntati e selezionati con cura. A
cominciare dal personale reclutato e
dal suo livello d’impiego: quello militare, quello finanziario e quello destinato alla gestione del potere pubblico in funzione privata. Avevano torto
quegli autori che nei primi decenni
di Unità Nazionale pensavano alla
mafia come ad un fenomeno senza
contorni, quasi uno stato d’animo.
Una definizione fuorviante fornì ad
esempio il deputato Romualdo Bonfardini alla Commissione d’inchiesta
parlamentare sulle condizioni della
Sicilia, nominata nel 1875:
“La mafia non è una precisa società
segreta, ma lo sviluppo ed il perfezionamento della prepotenza, diretta ad
ogni scopo di male.»
Sappiamo che non è così: la mafia
è una precisa società segreta alla
quale si aderisce in piena coscienza,
addirittura attraverso arcani rituali
d’iniziazione. Anche sull’affermazione la mafia essere diretta ad ogni
scopo di male, ci fu una presa di posizione critica espressa da Napoleone Colajanni:
“spessissimo il mafioso è persona assai
laboriosa, che ci tiene a trarre i mezzi
di sussistenza dal proprio lavoro (...)
il furto, la rapina, lo scopo economico
del delitto sono proprio di una mafia
degenerata.»
È falso anche questo: oggi si ha coscienza che la finalità primaria della
I Borboni, immeritatamente vituperati
da persistente propaganda politica, rilanciata ancora oggi
da tanta storiografia
di parte, erano circondati da consenso e condivisione, i
Savoia al contrario
rimasero lontani, tirannici, parassitari,
incapaci di capire
l’identità
culturale
dei nuovi cittadini
italiani, in definitiva
mandanti di azioni
di repressione e di
guerra brutali ed eccessive contro istanze che rilette oggi si
presentano plausibili
e giustificate.
Campieri e mafiosi
(foto di Luigi Marinaro)
STORIA
36
La nostra storia repubblicana ha protratto, in alcuni casi
addirittura aggravato, gli errori della prima fase unitaria.
La mafia rozza e violenta e una parte
considerevole della
classe dominante siciliana, hanno sempre retto il gioco e
offerto gli strumenti
per il lavoro sporco,
alle “menti raffinatissime” dello Stato
centrale.
Gli intrighi più devastanti ed insidiosi
sono nati nei santuari del potere politicoeconomico di Roma e
di Milano e non certamente a Palermo.
mafia è l’interesse economico e l’acquisizione del potere assoluto sulle
comunità sulle quali intende avere
competenza territoriale. Certo, la
mafia, nella ricerca di una sua legittimità spendibile, ha fatto credere di
essere stata in origine un fenomeno
sano e positivo.
“La mafia di una volta, quella sì...» è detto ancora oggi in Sicilia da alcuni anziani. Ma è un inganno al quale
concorre la stessa mafia, in cerca di
legittimazione e addirittura di consenso.
Nel latifondo la mafia era rappresentata tout court dai soprastanti, più
spesso dai campieri e dai loro picciotti. Quando c’erano briganti, la mafia
faceva in modo di allearseli con lo
scopo di accrescere la sua potenza e disporre di un ulteriore braccio
esecutivo per consumare vendette,
ridurre e mettere fuori gioco rivali e
nemici. I picciotti venivano reclutati
tra i villani, ma la scelta ricadeva solo
su chi dava prova di saper delinquere
con temerarietà e coraggio. I picciotti
erano spesso l’anello di congiunzione
tra mafia e brigantaggio perché talvolta non erano dei semplici mafiosi,
bensì dei latitanti.
I picciotti erano un altro problema
per i contadini - si trattava di dovere sfamare anch’essi, - ma nel contempo costituivano un modello, una
stretta via d’uscita dalla condizione
d’irreversibile miseria. Altra soluzione praticata per sfuggire alla durezza
del latifondo era l’emigrazione a Tu-
nisi o in America. Diventare picciotto,
affiliato cioè di mafia, nel gradino più
basso, non era facile, occorrevano
dei titoli e delle caratteristiche professionali. I titoli si acquisivano sul
campo dimostrando di possedere
tre qualità: pettu (coraggio), tuba o
panza (saper tenere i segreti) ed essere amico dei briganti. Di un buon
campiere poi si diceva che aveva già
uno o due cuoi al sole, aveva cioè già
ucciso una o due persone. I campieri
si ponevano al centro di una mediazione tra mondo agricolo della produzione, proprietari e gabellotti, e il
variegato mondo della latitanza, picciotti e briganti veri e propri.
Il brigantaggio fu un fenomeno discontinuo, sorto e sviluppatosi in
determinate condizioni storiche: ha
conosciuto vere esplosioni di grande
impatto e periodi di diminuzione e
addirittura di scomparsa.
Alla stessa stregua della mafia, anche il brigantaggio trasse linfa dalla
rivoluzione garibaldina. La mafia,
che non esisteva prima dell’Unificazione, ebbe una rapida e generalizzata diffusione soprattutto nella Sicilia occidentale. Attraverso l’adesione
ad essa si conseguiva la ricchezza,
non si doveva rinunciare a permanere nell’ambiente di sempre e la
stessa violenza esercitata non era
rivolta contro le Istituzioni, la mafia
cioè non aveva finalità eversive o rivoluzionarie.
“Il tratto distintivo della violenza mafiosa fin dal suo primo sorgere era ap-
FORUM - GIUGNO/10
punto questa capacità di operare
all’interno del sistema e di porsi al
servizio di interessi dominanti, ricevendone in compenso protezione e servizio.»2
Come si vede l’uso politico, lucido e determinato, della mafia
era già stato collaudato. Diverso
invece era il discorso relativo al
brigantaggio dove si coagulavano
istanze che avevano una confusa
pulsione politica e ribellistica ad
opera delle sole classi subalterne.
Le bande nate nei decenni dopo il
1860 avevano due modelli organizzativi: ce n’erano di associate permanentemente e di quelle
che si riunivano solo per il tempo
sufficiente per portare a termine
i delitti, i furti, le rapine, gli abigeati, i sequestri, gli assalti alle
diligenze, gli assalti ai monasteri,
le vendette. Il fenomeno fu talmente vasto e ramificato da connotarsi come scontro oltre che
militare, anche sociale, tra popolazione isolana e Stato, in modo
del tutto assimilabile al banditismo che si sviluppo nel ‘900 dopo
le due guerre mondiali.
Si suole collocare l’epoca di maggior virulenza del brigantaggio
postunitario nel quindicennio
di governo della Destra storica,
individuando poi la sua “epoca
d’oro nel primo quinquennio degli
anni ‘70. In effetti il banditismo
postunitario cessò di essere un
2 Francesco Renda
fenomeno diffuso ed organizzato
a cominciare dal 1877.
Va specificato che il banditismo
siciliano, ancorché legato ad
istanze di tipo larvatamente politico rivoluzionario, si diversificò in
modo netto dal restante banditismo dell’Italia Meridionale che si
presentava più centralizzato nella
direzione e dov’erano presenti e
più spiccati i motivi del legittimismo borbonico.
In Sicilia lo scontro con il nuovo
Stato unitario avvenne soprattutto sul piano della renitenza alla
leva, incomprensibile per i contadini, per i quali la distrazione di
braccia dai lavori agricoli significava un ulteriore peso economico. E poi il governo si prendeva i
giovani contadini avvezzi al duro
lavoro e li restituiva - questo veniva affermato con convinzione
dai vecchi - oziosi e incapaci di
riadattarsi ai vecchi ritmi di lavoro. E comunque il problema oltre
che culturale era certamente anche sociale, ma lo Stato Sabaudo
non seppe andare ad una composizione, preferendo lo scontro. E
lo scontro fu durissimo a partire
dalle stesse cifre della renitenza:
nel 1863 i renitenti in Sicilia furono 26.225.
A ben vedere si trattò dell’organico di un esercito e anche se
le cifre ad una successiva stima
risultarono gonfiate, si può ben
comprendere la gravità dello
37
scontro sociale in atto.
Altre cause che fomentarono
la ribellione al nuovo Stato furono l’estensione della Legge
Pica, pensata quale strumento
per combattere il brigantaggio
dell’Italia meridionale (si ricordi
l’allucinante ordine del mediocre
e borioso generale piemontese
Govone:
punto questa capacità di operare
all’interno del sistema e di porsi al
servizio di interessi dominanti, ricevendone in compenso protezione e servizio.»3
Come si vede l’uso politico, lucido e determinato, della mafia
era già stato collaudato. Diverso
invece era il discorso relativo al
brigantaggio dove si coagulavano
istanze che avevano una confusa
pulsione politica e ribellistica ad
opera delle sole classi subalterne.
Le bande nate nei decenni dopo il
1860 avevano due modelli organizzativi: ce n’erano di associate permanentemente e di quelle
che si riunivano solo per il tempo
sufficiente per portare a termine
i delitti, i furti, le rapine, gli abigeati, i sequestri, gli assalti alle
diligenze, gli assalti ai monasteri,
le vendette. Il fenomeno fu talmente vasto e ramificato da connotarsi come scontro oltre che
militare, anche sociale, tra popolazione isolana e Stato, in modo
del tutto assimilabile al banditi3 Francesco Renda
STORIA
38
1866: la ribellione di Palermo allo Stato Unitario
“Una tinta mattinata del settembre 1866, i
nobili, i benestanti, i borgisi, i commercianti all’ingrosso e al minuto, i signori tanto di
coppola quanto di cappello, le guarnigioni
e i loro comandanti, gli impiegati di uffici,
sottuffici e ufficiuzzi governativi che dopo
l’Unità avevano invaso la Sicilia pejo che le
cavallette, vennero arrisbigliati di colpo e
malamente da uno spaventoso tirribllio di
vociate, sparatine, rumorate di carri, nitriti di
vestie, passi di corsa, invocazioni di aiuto.
Tre o quattromila viddrani, contadini delle
campagne vicino a Palermo, armati e comandati per gran parte da ex capisquadra
dell’impresa garibaldina, stavano assalendo
la città.
In un vìdiri e svìdiri, Palermo capitolò, quasi
senza resistenza: ai viddrani si era aggiunto
il popolino, scatenando una rivolta che sulle
prime parse addjrittura indomabile. Non tutti però a Palermo furono pigliati di sorpresa.
Tutta la notte erano ristati in piedi e viglianti
quelli che aspettavamo che capitasse quello
che doveva capitare. Erano stati loro a scatenare quella rivolta che definivano “repubblicana”, ma che i siciliani, con l’ironia con la
quale spesso salano le loro storie più tragiche, chiamarono la rivolta del “sette e mezzo”, ché tanti giorni durò quella sollevazione.
E si ricordi che il “sette e mezzo” è magari un
gioco di carte ingenuo e bonario accessibile
pure ai picciliddri nelle familiari giocatine di
Natale.
Il generale Raffaele Cadorna, sparato di corsa nell’Isola a palla allazzata, scrive ai suoi
superiori che la rivolta nasce, tra l’altro, “dal
quasi inaridimento delle risorse della ricchezza pubblica”, dove quel “quasi” è un pannicello caldo, tanticchia di vaselina per far meglio
penetrare il sostanziale e sottinteso concetto
che se le risorse si sono inaridite non è stato certamente per colpa degli aborigeni, ma
per una politica economica dissennata nei
riguardi del Mezzogiorno d’Italia”.
(Andrea Camilleri, Biografia del figlio cambiato,
Edizioni Rizzoli - La Scala)
Palermo, la quarta città d’Italia, che
aveva accolto Garibaldi come un liberatore dopo solo 5 anni di governo unitario, si ribellò. 5 anni che avevano provocato in tutta la Sicilia una feroce crisi
economica, dovuta principalmente alla
difficoltà del passaggio forzoso e troppo
rapido da una economia campagnola di
tipo feudale, al capitalismo. Inoltre tutta
la sinistra che aveva creduto in Garibaldi
e nelle sue idee repubblicane, aveva subito una tal delusione dall’avvento di una nuova monarchia, per di
più “straniera”, da divenire intransigente ed estremista.
Dopo il colorato prologo descritto, con la solita genialità, da Camilleri, e di cui gli studenti italiani nulla hanno mai saputo dai libri
di scuola, i ribelli riuscirono a sollevare l’intera popolazione. La
ribellione fu imponente, fonti governative parlano di 35-40 mila
uomini armati il cui malcontento venne presto incanalato da alcune forze politiche che sfruttarono la situazione economica disastrosa e la debolezza dello Stato savoiardo che, dopo le sconfitte
di Custoza e di Lissa, sembrava dovesse perdere quella che poi
venne chiamata la terza guerra d’indipendenza
Nella rivolta di Palermo insorsero contemporaneamente e di concerto sia l’opposizione di estrema destra che quella di estrema
sinistra. Obiettivo dei nobili e del clero era la restaurazione borbonica e clericale, con il recupero dei vecchi privilegi, mentre la
sinistra estrema tendeva ad instaurare uno stato repubblicano
di tipo mazziniano. Tale strano connubio si concretizzò in una
giunta rivoluzionaria con un presidente borbonico, il principe di
Linguaglossa, ed un segretario mazziniano, Francesco Bonafede.
Non sapremo mai come sarebbe finito questo “inciucio” perché
la repressione delle forze del Regno d’Italia fu feroce e la rivolta
fallì dopo sette giorni e mezzo, durante i quali Palermo restò in
mano ai rivoltosi (da qui il nome “sette e mezzo”). Ma grazie ai
40.000 soldati e ad un cannoneggiamento a tappeto ordinato dal
generale Cadorna, i sabaudi ebbero ragione dei rivoltosi. Morti e
prigionieri furono molte migliaia e fu subito chiaro che la situazione era critica e l’unità nazionale in pericolo.
Malgrado ciò i Savoia non cambiarono atteggiamento: dopo aver
soffocato la rivolta andarono avanti con la repressione e lo sfruttamento. L’odio iniziò a montare, divenne abitudine, con i risultati
che ancor oggi paghiamo.
Lo Stato maggiore delle truppe piemontesi, comandate da Raffele Cadorna, che dopo la rivolta di Palermo del 1866, entrarono in città imponendo il coprifuoco e facendolo rispettare a fucilate.
FORUM - GIUGNO/10
39
Legge Pica, pensata quale strumento per combattere il brigantaggio dell’Italia meridionale (si
ricordi l’allucinante ordine del
mediocre e borioso generale piemontese Govone:
“Arrestare tutti quelli che si incontrano per la campagna all’età
apparente del renitente o col viso
dell’assassino, circondando i paesi
e facendo perquisizioni di massa”
smo che si sviluppo nel ‘900 dopo
le due guerre mondiali.
Si suole collocare l’epoca di maggior virulenza del brigantaggio
postunitario nel quindicennio
di governo della Destra storica,
individuando poi la sua “epoca
d’oro nel primo quinquennio degli
anni ‘70. In effetti il banditismo
postunitario cessò di essere un
fenomeno diffuso ed organizzato
a cominciare dal 1877.
Va specificato che il banditismo
siciliano, ancorché legato ad
istanze di tipo larvatamente politico rivoluzionario, si diversificò in
modo netto dal restante banditismo dell’Italia Meridionale che si
presentava più centralizzato nella
direzione e dov’erano presenti e
più spiccati i motivi del legittimismo borbonico. In Sicilia lo scontro con il nuovo Stato unitario avvenne soprattutto sul piano della
renitenza alla leva, incomprensi-
bile per i contadini, per i quali la
distrazione di braccia dai lavori
agricoli significava un ulteriore
peso economico. E poi il governo si prendeva i giovani contadini
avvezzi al duro lavoro e li restituiva - questo veniva affermato con
convinzione dai vecchi - oziosi e
incapaci di riadattarsi ai vecchi
ritmi di lavoro. E comunque il
problema oltre che culturale era
certamente anche sociale, ma lo
Stato Sabaudo non seppe andare
ad una composizione, preferendo
lo scontro. E lo scontro fu durissimo a partire dalle stesse cifre
della renitenza: nel 1863 i renitenti in Sicilia furono 26.225. A
ben vedere si trattò dell’organico
di un esercito e anche se le cifre
ad una successiva stima risultarono gonfiate, si può ben comprendere la gravità dello scontro
sociale in atto.
Altre cause di ribellione al nuovo
Stato furono l’estensione della
e la Legge di Polizia con l’abusato
impiego dell’istituto dell’ammonizione e del domicilio coatto.
Per fare un esempio nella sola
provincia di Palermo nel 1866
gli ammoniti erano in numero
di 5.000. Il brigantaggio isolano
fu così fomentato per un lungo
periodo da un circolo vizioso: lo
Stato alimentava il brigantaggio
mentre lo combatteva.
Tuttavia l’affermazione che nel
1877 il banditismo cessò di essere un fenomeno diffuso, con
rilevante valenza sociale, e che
con l’avvento della sinistra al
governo del giovane Regno sia
stato debellato, si scontra con la
constatazione che nel decennio di
maggiore gloria di Francesco Paolo Varsalona, autentica stella del
brigantaggio siciliano, oltre che
lui operavano nello stesso territorio o in posizione appena contigua altri illustri e valenti professionisti della latitanza: tra questi
Melchiorre Candino, il famigerato
Mirto e la banda Collotti.
STORIA
40
Non vi è dubbio che molte aspettative furono deluse prestissimo, ne fanno fede la rivolta e la feroce
repressione di Bronte, i moti del 1866, l’esplosione
dei fasci dei lavoratori del 1892/93 e lo stesso brigantaggio, che anche se non era consapevole di esercitare una resistenza politica, pure era il prodotto di
un’evidente incapacità gestionale dello Stato sardopiemontese.
Il centralismo attuato con subitanea brutalità fu uno
dei fattori scatenanti del brigantaggio e della mafia
che gli sopravvisse per la sua insidiosa natura trasformistica e filogovernativa.
Il brigantaggio e perciò anche la mafia trasse linfa
e innumerevoli adepti dalla decisione garibaldina
di introdurre subito dopo l’unificazione la chiamata
obbligatoria di leva, ignorando secoli di consuetudine diversa.
L’imponenza del fenomeno è altresì testimoniato da
grandi processi, che si celebrarono ancora nei primi anni del nuovo secolo, la verità essendo dunque
che il brigantaggio dopo il 1877 preferì adottare il
modello della piccola banda mobile che si scioglieva
finito lo scopo dell’assembramento.
Non era cioè più praticabile, né conveniente, organizzare il grande assembramento stabile avvistabile
negli spostamenti e perciò obbligato a scontrarsi in
campo aperto con le squadriglie mobili degli agenti
di Pubblica Sicurezza, di Reali Carabinieri e di reparti dell’Esercito. Ma nonostante l’adozione di questa
struttura leggera il brigante era in grado di reggere
il territorio come un monarca che emanava leggi e
imponeva tributi, creando così un vero stato nello
stato.
Quanti dei problemi sorti all’indomani della rivoluzione garibaldina sono stati affrontati e risolti dallo
Stato Unitario?
Era noto che la Sicilia godeva di antichissimo privilegio dell’esenzione dalla coscrizione, perciò la sua
soppressione doveva essere quantomeno graduale.
Gli eccessi a tal riguardo non mancarono e furono
dettati nella maggior parte dei casi dal pregiudizio secondo cui la missione dei Reali Carabinieri e
dell’esercito piemontese era di asservire la Sicilia
alle rigide direttive centrali nel modo più brutale ed
insensato. Capitò che - nella totale sfiducia nelle
buone ragioni dei siciliani - le autorità sanitarie e
militari dell’Ospedale Militare di Palermo infliggessero ad un giovane sordomuto ben “centocinquantaquattro bruciature di ferro rovente” nel tentativo
di farne una recluta. La sofisticata terapia tentò di
smascherare quello che fu creduto un caso di simulazione; ovviamente quando i perspicaci e tenaci
medici del reclutamento si arresero fu troppo tardi:
il corpo del coscritto Antonio Cappello si presentava penosamente ricoperto di ustioni. L’enormità
dell’atto sembrò agli stessi medici con le stellette
difficilmente confessabile e così diagnosticarono
delle improbabili revulsive superficiali volanti.
FORUM - GIUGNO/10
Nella coscienza dei siciliani dunque cresceva un atteggiamento di insofferenza nei confronti dei nuovi
arrivati man mano che diveniva chiaro che anche gli
eccessi commessi dagli stessi Carabinieri - che pure
all’inizio erano stati accolti con rispetto e ammirazione - non venivano mai puniti, agendo questi in
regime di sostanziale impunità.
Le inciviltà dei militari vennero con forza denunziate in Parlamento dall’ex Ministro del Re Filippo
Cordova. Successivamente analoga e più incisiva
denuncia fece il parlamentare Diego Tajani che sarebbe diventato Ministro di Grazia e Giustizia. Con
passione e coraggio Tajani fece scoppiare un caso in
Parlamento. Era l’11 Giugno del 1875 e Tajani diede
da subito la sensazione di avere più di un sassolino
nelle scarpe, perché lui stesso era stato vittima di
decisioni maldestre e di uomini corrotti:
“Dal 1860 al 1866 fu un continuo offendere abitudini
secolari, tradizioni secolari, suscettibilità, anche puntigliose, se vuolsi di popolazioni vivaci, espansive e che
erano disposte a ricambiare con un tesoro di affetti un
governo, che avesse saputo studiarle e conoscerle...
alla Sicilia è stata aperta la via ad ogni maniera di arricchire, se si voglia, ma le si è spianata la via verso la
propria corruzione. Le si è imbellettato il viso, lasciate
che io lo dica, ma le si è insozzata l’anima!»
Altrettanto invisa ai siciliani fu la questione tributaria, nuovi balzelli e infiniti scandali che davano la
misura della corruzione possibile, tollerata e addirittura commissionata dal nuovo Stato.
A proposito della rivolta del 1866 l’Onorevole Tajani all’interno dello stesso discorso parlamentare
denunciò:
“Dopo la rivolta vi fu un diluvio di disposizioni cozzanti
tra di loro; vennero i tribunali militari, i quali fecero
sterminato numero di processi e quando la posizione
era compromessa e che la giustizia dei tribunali civili doveva riuscire difficilissima, se non impossibile, si
annullarono ad un tratto i tribunali militari ed i tribu-
41
nali civili ne rimasero imbarazzati; e così ne rimase
esautorata la giustizia militare e la giustizia civile!» La
constatata paralisi della giustizia indusse il governo a
praticare una scorciatoia: mandare ancora un generale, il generale Medici che “per restaurare l’imperio della
legge violò tutte le leggi; per restituire la fiducia nella
giustizia affidossi all’iniquità.»
Scorretto fu dunque l’approccio dei nuovi governanti, inadeguata la risposta del Mezzogiorno e della Sicilia sia nelle sue componenti popolari, scusabili
per l’arretratezza sociale e culturale, che nelle sue
classi dominanti (scarsamente dirigenti), dominati
per diritto di nascita feudale o per appartenenza di
cosca, di “camerilla”, come appunto dicevano quegli
autori, contemporanei del brigante del quale ci siamo proposti di ricostruire la vicenda, che s’intrecciò
con quella di altri briganti direttamente coinvolti negli intrallazzi della politica. Del brigante Candino si
sapeva che fu “la principale forza elettorale governativa in qualche collegio della provincia di Palermo,» mentre del “mafioso Petrilli si diceva che “con
trentadue processi era al servizio della polizia.»
STORIA
di Lorenzo Paolini
42
Tra le figure che nella storia hanno
mutato immagine a seconda dello
spirito dei tempi in cui li si raccontava,
quella di Nerone detiene il record di
condanne e rivalutazioni.
Ma, oggettivamente, chi era costui?
to con un DNA
non splendido
da parte paterna, afflitto dalle
angosce di un
infanzia precaria
ed infelice, tormentato dalle insicurezze
di una posizione diseconda parte
nastica quantomeno
traballante, si trova
all’improvviso
totalmente libero delle sue azioni, ma
Incubi e rimorsi contemporaneamente privo dell’appoggio e
Agrippina venne cremata la sera stessa delle risorse che fino a poco tempo prima la
del suo omicidio, (aveva appena 44 anni), madre gli aveva assicurato.
senza una degna sepoltura e neppure una
Burro tentò di convincerlo che ciò che era
lapide, mentre il Senato si dava un gran da
stato fatto si “doveva” fare. Nerone scapfare per cancellarne ovunque la memoria e
pò a Napoli dove trovò la forza di scrivele tracce delle sue gesta.
re al Senato per informarlo del tentativo di
Ma l’unico luogo dal quale non poté essere Agrippina di attentare alla sua vita.
estirpata fu la psiche del ventiduenne impeLa reazione era scontata: Agrippina era staratore, che iniziò a rifiutare il cibo e a torta troppo odiata perché la sua morte non
mentarsi, restando quasi inebetito. Incubi e
venisse accolta con gioia, ma l’idillio fra
rimorsi iniziarono a tormentarlo, facendolo
Nerone ed il popolo romano andava ormai
piombare in un grave stato di depressione.
incrinandosi, anche perché le cattive notizie
Periodo fondamentale per comprendere
che stavano arrivando sia dalla Britannia
la vera natura del ragazzo: equipaggiache dall’Oriente richiedevano l’azione di un
Nerone,
angelo o demone?
“Il rimorso di Nerone”
di J. W. Waterhouse,
1878.
FORUM - GIUGNO/10
43
imperatore capace e deciso: e lui
non era né l’uno né l’altro.
Al suo ritorno a Roma Nerone si
sentì per la prima volta libero di
fare qualsiasi cosa volesse e dette sfogo alle sue grandi passioni:
i cavalli ed il canto.
“Era sua vecchia passione guidare
la quadriga, unita all’altra mania,
non meno spregevole, di cantare,
accompagnato dalla cetra, per
dare spettacolo. Ricordava che
gareggiare nella corsa dei cavalli
era pratica di re e di antichi capitani, e materia del canto dei poeti e consacrata a onorare gli dèi.
Il canto poi era sacro ad Apollo,
divinità importantissima e signore della profezia, che proprio con
la cetra veniva figurato non solo
nelle città greche, ma anche nei
templi di Roma. Non si riusciva a
frenarlo, e allora Seneca e Burro, perché non la spuntasse in
entrambi, scelsero di cedere su
un punto: venne recintato, nella
valle del Vaticano, uno spazio, in
cui guidasse i cavalli senza dare
spettacolo a tutti”1.
Ma ora che poteva ciò che voleva
aprì le porte alla folla ed iniziò a
godere del successo e della popolarità, rendendosi conto che
la cosa che più lo inebriava era
il consenso delle masse e se ne
eccitava sempre di più. Presto si
circondò di una corte di rampolli
1 Tacito, Annali XIII, 14
delle famiglie più nobili, insieme
ai quali si abbandonò a gozzoviglie e turpitudini di ogni genere,
manifestando quel lato violento
e intemperante della sua indole
che lo porterà alla rovina. Ecco
come Svetonio ci descrive le sue
scorribande notturne:
“Manifestò impudenza, libidine,
lussuria, avidità e crudeltà dapprima gradualmente e di nascosto e come se si trattasse di errori giovanili, ma in un modo tale
che anche allora nessuno aveva
dubbi che quei vizi fossero di natura e non di gioventù.
Subito dopo il crepuscolo, calzato un berretto o una parrucca,
entrava nelle osterie e vagabondava per le strade in vena di
scherzi, d’altronde non inoffensivi, giacché era solito picchiare
persone che ritornavano da una
cena e ferire e buttare nelle fo-
gne chi opponeva resistenza,
sfondando porte e saccheggiando botteghe.
In risse di questo genere rischiò
gli occhi e la vita e una volta fu
ferito quasi a morte da un senatore, alla cui moglie aveva messo le mani addosso. Perciò, in
seguito, non si azzardò mai più a
quel tipo di uscite senza la scorta
di alcuni tribuni, che lo seguivano
di lontano e con discrezione.
Anche in pieno giorno, fattosi trasportare di nascosto in teatro su
una lettiga, assisteva dall’alto del
proscenio alle liti dei pantomimi,
nel contempo come vessillifero
e come spettatore, e una volta,
poiché si era venuti alle mani e si
lottava a colpi di pietre e di pezzi
di sgabelli, ne gettò anch’egli sulla gente, ferendo gravemente un
pretore alla testa”2.
2 Svetonio, Vita di Nerone 26
STORIA
44
Thomas Couture “I romani della decadenza”
1847, Parigi, Musèe d’Orsay
lezza del principe e alla sua voce
epiteti divini: e, come se lo dovessero a meriti particolari, vivevano godendosi fama e onori”3.
Ormai Seneca aveva iniziato ad
allontanarsi da lui. Del resto anche Nerone vedeva lui e Burro
come due scomodi grilli parlanti
che in qualche modo vantavano il
diritto di limitare i suoi eccessi ed
indirizzare la sua azione. La passione per Poppea, infine, morta Agrippina, poteva finalmente
manifestarsi alla luce del sole.
Gli Iuvenalia
La Gravitas romana, tuttavia,
imponeva dei limiti: per non abbassarsi fino all’esibizione in un
pubblico teatro, Nerone, sempre
teso ad imitare modelli grecizzanti, pensò di istituire dei giochi
chiamati Iuvenalia, cui si iscrisse
gente di ogni provenienza.
“Costrinse anche noti cavalieri romani, con doni cospicui, a
promettere di dare spettacolo
nell’arena: ma se il compenso
viene da chi può dare ordini, diviene un obbligo. Tuttavia non la
nobiltà, l’età, le cariche ricoperte impedirono loro di esercitare
anche l’arte degli istrioni greci o
latini, fino a scendere a gesti e
atteggiamenti non virili. Non basta: matrone famose si esibivano
in parti oscene; e presso il bosco
di cui Augusto contornò il lago
riservato alle naumachie sorsero
luoghi di convegno e taverne e
si potevano comprare strumenti
di lussuria. ... Infine Nerone salì
sulla scena, accordando con molto impegno le corde della cetra e
provando il tono giusto con maestri di canto al suo fianco. Erano
intervenuti la coorte pretoria, i
centurioni, i tribuni e Burro, affranto ma prodigo di lodi.
Fu allora che, per la prima volta,
vennero reclutati tra i cavalieri
romani, col nome di Augustiani,
dei giovani, selezionati per l’età e
il fisico aitante, alcuni di insolente presunzione, altri sperando di
acquistare potere. Costoro, in un
continuo scrosciare di applausi
giorno e notte, davano alla bel-
Poppea Sabina
Aristocratica, bellissima, affascinante, ambiziosa, di classe4
Poppea aveva messo gli occhi su
Nerone fin da quando era sposata con Rufrio Crispino, capo della
guardia pretoriana sotto Claudio5. Appena Agrippina fu imperatrice, fece giustiziare Crispino
sostenendo che questi aveva favorito Messalina nei suoi intrighi.
Vedova ed in disgrazia presso
Agrippina, a Poppea non restò
che sposare Marco Salvio Otone,
amico di Nerone e suo compagno di gozzoviglie, certamente
3 Tacito, Annali, XIV, 20
4 Tacito descrive Poppea con questa frase meravigliosa, degna di Woody Allen:
“Essa ebbe ogni pregio femminile, tranne l’onestà”.
5 Poppea gli aveva dato un figlio dallo
stesso nome, che dopo la morte della
madre sarebbe stato affogato in una
battuta di pesca dall’imperatore Nerone.
“Poppea”, Museo archeologico di Olimpia
nel segreto intento di usarlo per aggiungere il
suo vero obiettivo: l’imperatore Nerone.
“Otone, reso imprudente dalla passione,
non cessava di elogiare all’imperatore
la bellezza della moglie; o forse voleva
accendere la bramosia di lui, pensando
che, quando avessero posseduto la medesima donna, questo nuovo vincolo gli
avrebbe accresciuto potenza”6.
Frequentando la corte e sfoderando la sua
seduttività, ne divenne ben presto l’amante, mai immaginando in quel momento
che suo marito sarebbe divenuto imperatore a sua volta, sia pure per soli quattro
mesi. Comunque Otone, uomo di mondo,
invitato da Nerone a partire per governare
la Lusitania, accettò di buon grado di sparire dalla scena lasciando a Nerone campo
libero con sua moglie.
Agrippina aveva visto un grande pericolo nel fascino che Poppea esercitava
su Nerone ed aveva ostacolato in ogni
modo la loro relazione, ottenendo solo
che l’odio e l’insofferenza di Nerone
verso di lei aumentassero fino all’esasperazione ed all’omicidio. Con Agrippina fuori scena, l’influenza di Poppea sull’imperatore divenne tale che questi iniziò a considerare di
divorziare dalla povera Ottavia, ormai relegata ai
margini della vita pubblica, ma che godeva ancora
di grande rispetto presso il popolo quale figlia del
defunto imperatore Claudio ed ultima discendente
diretta di Augusto ancora in vita.
Problemi in Britannia e coi Parti
Chi ha montato un cavallo in corsa o guidato un
carro trainato da una pariglia al galoppo sfrenato sa
6 Tacito, Annali XIII, 46
FORUM - GIUGNO/10
45
quanto coraggio e quanta freddezza di nervi occorrano per uscirne vivi. Dunque definire Nerone
un pavido sarebbe quantomeno superficiale.
Quindi la scarsa propensione di Nerone ad
impegnarsi in prima persona nella guida
dell’esercito ed in qualsiasi attività militare non è facilmente comprensibile.
Paura di non essere all’altezza? Incapacità di rinunciare alle sue abitudini
fatte di agi, bagordi e performances artistiche? Pigrizia? Disinteresse per ogni
gloria che non venisse dal palcoscenico? O più semplicemente, orrore per la
volgarità della violenza e del sangue.
Non è un caso che Nerone non amasse
i ludi gladiatori e che, quando tutto fu
perduto, non riuscì a compiere da sé il
gesto tipicamente romano di trafiggersi col gladio.
Fatto sta che Nerone non condusse mai
un esercito in battaglia, avendo peraltro
la fortuna di disporre di uno dei migliori
generali del suo tempo: Gneo Domizio
Corbulone, già vincitore di Frisii e Cauci
sotto Claudio.
Quando l’impero dei Parti rinnovò le sue pretese di controllo sull’Armenia, regno cliente di Roma,
Nerone decise che era tempo di vendicare l’onta subita dall’esercito di Roma oltre un secolo prima.
Nel 53 a.C., infatti, il triumviro Crasso era stato
sconfitto pesantemente, perdendo la vita e le aquile nella disastrosa battaglia di Carre. Le guerre civili
fra Cesare e Pompeo, prima e fra Ottaviano ed i
cesaricidi poi, avevano impedito a Roma di intraprendere azioni militari contro la Partia. Azione che,
peraltro, Cesare stava organizzando quando la sua
grande vita venne stroncata alle idi di marzo del
‘44 a.C.
STORIA
46
Gneo Domizio Corbulone
Grazie all’impiego di
una potente cavalleria pesante7 e di mobili arcieri a cavallo,
la Partia si era rivelata ormai da tempo
il più formidabile rivale dell’impero romano, quindi le sue pretese
sull’Armenia dovevano essere arginate.
Dopo un adeguato periodo di preparazione Corbulone iniziò l’offensiva contro i Parti
nel 58 ottenendo buoni successi
e rimettendo sul trono di Armenia il re Tigrane, fedele a Roma.
Purtroppo nel ‘62 la situazione si
era ribaltata: scelte strategiche
infelici portarono il console di
quell’anno, Lucio Cesennio Peto,
ad una pesante sconfitta a Rhandeia, ed al conseguente ritiro
dall’Armenia.
notizia l’altra, di
pochi mesi precedente, riguardante la ribellione
della Britannia8,
guidata dalla regina
Boudicca9,
per la quale oltre
settantamila fra
romani ed alleati erano morti,
si può comprendere che il clima
politico a Roma era molto agitato.
La metamorfosi del ‘62
Mentre a Roma imperversava la
crisi e alle frontiere crescevano
7 I celebri Catafratti che, grazie all’uso
di selle avvolgenti e staffe, operavano vere azioni di sfondamento tali da
mutare le strategie militari dell’antichità, ponendo le basi per l’avvento delle
“Cavalleria” medievale.
8 Mentre il proconsole romano Gaio Svetonio Paolino stava conducendo una
campagna contro i druidi dell’isola di
Anglesey (Galles settentrionale), gli
Iceni e i loro vicini, i Trinovanti, si ribellarono sotto la guida di Boudicca, in
precedenza spodestata. Dopo alcune
vittorie, fra cui la conquista di Londinium, (cioè Londra), abbandonata a sé
stessa da Paolino, che non aveva sufficienti truppe per affrontare i ribelli. Riorganizzate le truppe, Paolino si scontrò con Boudicca e, benché con forze
inferiori di numero, la sconfisse grazie
alla sua superiorità tattica. Boudicca si
avvelenò.
Ammiano Marcellino così descrive queste truppe: “Tutti i loro cavalieri sono
ricoperti di metallo e ogni parte del loro
corpo è rivestita di spesse placche, perfettamente aderenti alle loro membra.
I loro volti metallici sono così perfettamente modellati sulle loro teste che le
frecce che cercano di colpirli, poiché i
loro corpi sono interamente ricoperti di
metallo, riescono a penetrare solo nelle
strette fessure che utilizzano per vedere o in quelle del naso da dove respirano un po’d’aria”.
9 Cassio Dione Cocceiano la descrive così
nella sua Storia Romana, (62, 2) “Era
una donna molto alta e dall’aspetto terrificante. Aveva gli occhi feroci e la voce
aspra. Le chiome fulve le ricadevano in
gran massa sui fianchi. Quanto all’abbigliamento, indossava invariabilmente
una collana d’oro e una tunica variopinta. Il tutto era ricoperto da uno spesso
mantello fermato da una spilla. Mentre
parlava, teneva stretta una lancia che
contribuiva a suscitare terrore in chiunque la guardasse”.
Se si aggiunge a questa brutta
Boudicca
i
pericoli, Afranio Burro morì.
Era stato colto
da una malattia alla gola che
gli provocava un
enorme gonfiore
e, su ordine di Nerone, i medici per
lenire il suo dolore gli spalmavano il cavo orale di
uguenti. Quando Nerone si recò
al suo capezzale Burro, sospettando di essere stato avvelenato,
gli volse le spalle.
“La morte di Burro compromise il
potere di Seneca, perché la sua
positiva influenza, ora che era
sparita l’altra, possiamo dire, guida, non aveva più la presa di prima, e Nerone si lasciava attrarre
dai peggiori. Costoro prendono di
mira Seneca con accuse di vario
tipo: che aumentava ulteriormente le sue enormi ricchezze,
eccessive per un privato; che intendeva concentrare su di sé le
simpatie dei cittadini; che superava, quasi, il principe nella raffinata bellezza dei giardini e nella
sontuosità delle ville. Gli rinfacciavano anche di volersi accaparrare tutta la gloria dell’eloquenza
e di aver intensificato la produzione di versi, da quando Nerone
vi si era appassionato.
Lo dicevano scopertamente avverso agli svaghi del principe,
Prefetto del Pretorio e guardie pretoriane
FORUM - GIUGNO/10
47
pronto a sprezzare la sua abilità
nel guidare i cavalli e a schernire
la voce, quando cantava. E fino
a quando si doveva credere che
nell’impero non ci sarebbe stato
niente di buono che non provenisse da lui?
Senza dubbio, l’infanzia di Nerone era trascorsa ed egli era nel
pieno vigore della sua giovinezza: si togliesse dunque di dosso
quel precettore ora che poteva
valersi dei suoi avi, come veri e
preziosi maestri”10.
Seneca si rese conto che era solo
lui a frapporsi fra Nerone e la libertà totale e, temendo per la
sua incolumità, chiese di essere
congedato come ricompensa ai
suoi servigi lasciando all’imperatore tutte le sue ricchezze.
Al rifiuto di Nerone ed ai suoi abbracci Seneca ringraziò, ma si affrettò a cambiare le sue abitudini
ritirandosi a vita più che privata.
Morto Burro, Nerone nominò
come Prefetto del Pretorio Gaio
Sofonio Tigellino11, un siciliano
rozzo e crudele, di umili origini,
che condivideva con lui la passione per i cavalli: aveva infatti
gestito ippodromi in Puglia ed in
Calabria. Il sodalizio fra i due fu
ulteriormente cementato dalla
10
Tacito, Annali XIV, 52
11 «...di Tigellino (Nerone) apprezzava
l’inveterata spudoratezza e la pessima
fama”. (Tacito, Annali, XIV, 51)
propensione di entrambi agli eccessi sessuali: ben presto Tigellino, manovrandolo con insinuazioni e calunnie, divenne la “mano
sinistra” del giovane imperatore,
che anche in questa scelta dimostrò non tanto la sua incapacità,
quanto la sua dissolutezza.
Una mano che iniziò a colpire,
duramente, insinuando dubbi
sulla fedeltà di Rubellio Plauto e
Cornelio Silla, gli unici due patrizi che potevano ancora vantare
un legame con la discendenza di
Augusto, ora che - morta Agrippina - Nerone poteva essere
considerato un semplice Domizio
Enobarbo. L’incubo dell’insicurezza dell’imperium, che Nerone
pensava di aver esorcizzato con
l’assassinio di Britannico, ritornò a popolare le notti di Nerone,
rendendo inevitabili nuove epurazioni.
Tigellino fece assassinare Cornelio Silla, già in esilio in Gallia,
dopo aver convinto Nerone che
questi stesse tramando per far
ribellare le legioni del Reno. I sicari inviati da Tigellino lo colsero
d’improvviso, mentre era a pranzo, e in capo a sei giorni la sua
testa venne portata a Nerone,
che ne trovò molto comica la calvizie precoce.
Più complicato fu l’assassinio del
giovane Plauto che, ricco e potente, avrebbe potuto veramente
raggiungere Corbulone, ormai di
stanza in Siria e preparare una
rivolta. Malgrado da Roma fossero giunti diversi messaggi per
metterlo in guardia, Plauto non si
mosse, forse per tema d rappresaglie verso sua moglie ed i suoi
figli. Venne trucidato mentre,
nudo, faceva della ginnastica.
Alla vista della sua testa Nerone
STORIA
48
scoppiò a ridere facendosi beffe
delle dimensioni del suo naso.
Tigellino continuò le epurazioni avvelenando i liberti più potenti: Doriforo, accusato di aver
osteggiato le nozze con Poppea,
e Pallante, il vecchio amante di
Agrippina, perché non si risolveva, alla sua età, a lasciare le sue
immense ricchezze. Questo clima
di calunnie e delazione indusse
Gaio Calpurnio Pisone, convinto di essere il prossimo oggetto
delle attenzioni di Tigellino, ad
iniziare a tramare per rovesciare
Nerone.
Contemporaneamente, per accumulare denaro, si iniziò il saccheggio sistematico dell’Italia, si
spremettero le province, gli alleati e le città libere.
Il ‘62 è dunque l’anno in cui Nerone si libera dalle spoglie del
ragazzo mite, amante dell’arte e
animato da sentimenti di giustizia e dal rispetto per le istituzioni
e ritrova la sua natura irascibile e
violenta, trasformandosi pubblicamente in un tiranno.
Molti storici giustificano questa
svolta come il segno di un carattere congenitamente crudele e
dissoluto che finalmente si libera
di ogni freno: la madre, Burro,
Seneca.
Altri, invece, sostengono che il
ragazzo istintivamente pacifico,
che detestava sangue e guerre
iniziò a comportarsi da tiranno quando vide che tutto
era perduto.
Paolo di Tarso
L’anno
precedente,
poco prima della morte
di Burro, era arrivato a
Roma per essere giudicato, Paolo di Tarso, un
ebreo cittadino romano
che si era appellato,
com’era suo diritto, alla giustizia
dell’imperatore.
Io propendo per
una visione intermedia. Nel ‘62 nulla era
perduto e la posizione
di Nerone era ancora forte.
E non riesco
a vedere afPortato di fronte
fatto Nerone
a Burro, questi
come un raPossibile identikit di Paolo di Tarso realizzato da un non lo trovò colgazzo mite nucleo della polizia scientifica tedesca nel febbrapevole di alcun
e represso, io 2008 sulla base delle descrizioni contenute nelle più antiche fonti storiche, con la commissione e reato e lo lasciò
ma
come consulenza dello studioso Michael Hesemann.
libero.
una persona
di indole collerica e violenta, af- Iniziava quindi l’apostolato di
flitta da patologie psichiche (vedi Paolo nell’Urbe, che dava l’avvio
FORUM N°1: “l’imperatore che ad un capitolo decisivo nella stonon voleva essere abbandona- ria dell’umanità: la fondazione di
to”) aggravate dai complessi di una religione - il Cristianesimo
colpa per l’omicidio della madre, - che se da un lato avrebbe creato nei tre secoli successivi seri
oggetto di odio-amore.
problemi alla cultura della romaNel ‘62 tutto si sublima, il limite
nitas, dall’altro fu l’unica forza in
è ormai oltrepassato e da questo
grado di traghettarne la fiaccola
momento tutto diventa possibile.
della civiltà attraverso i tempi bui
Non si intravede in Nerone una
del medioevo.
qualsiasi etica ispirata al senso
dello stato, alla coscienza della Nessuno può affermare con suffigrandezza della sua missione, o ciente storicità la consistenza nupiù semplicemente a valori misti- merica della comunità cristiana a
Roma all’inizio degli anni ‘60.
co religiosi.
Nerone, a mio avviso, dopo il ‘62
si rivela come un narcisista insicuro, profondamente egoista,
disancorato dalla realtà dell’amministrazione del principato.
Superata dall’analisi storica l’ipotesi di un primo viaggio di Pietro
a Roma nel ‘51 (per approfondire,
vedi l’articolo “Pietro: mai messo
piede a Roma” a pag. xx) pos-
Gli ebrei tentano di linciare Paolo fuori dal tempio di Gerusalemme
FORUM - GIUGNO/10
49
Quando Claudio, che definiva la
diaspora ebraica “una peste comune a tutto il mondo”, ascese
alla porpora, si trovò alle prese
con il problema dell’“aumento di
una minoranza etnica compatta,
impermeabile ed inassimilabile,
capace di costituire una forza unitaria in seno alla popolazione della grandi città e di turbare, eventualmente, l’ordine pubblico”13.
Ordinò dapprima di tenere separate le varie sinagoghe insieme
per il culto, per evitare grandi
assembramenti, poi nell’anno 49
ordinò un’espulsione generale
degli ebrei da Roma:
“Iudaeos impulsore Chresto
assidue tumultuantes Roma
expulit”14.
siamo immaginare che fin dagli
anni ‘40 qualche giudeo cristiano
dedito ai commerci possa essersi
stabilito a Roma ed abbia iniziato
a predicare presso gli ebrei quella
che a quei tempi era solo una variante della legge Mosaica.
La comunità ebraica, seppur protetta, non era ben vista dal popolo romano che disprezzava cor-
dialmente il giudaismo. Tuttavia
una consistente diaspora verso
l’Urbe era iniziata fin dai tempi
di Cesare che, in ringraziamento
dell’aiuto offertogli dal re giudeo
Antipatro (futuro padre di Erode
il Grande) nella guerra contro
Pompeo, aveva concesso grandi
privilegi agli ebrei12.
12 Come l’esonero dai tributi ogni sette
anni per riguardo alla legge ebraica
dell’anno sabbatico; l’esclusione di vessilli militari recanti l’effigie dell’imperatore in territorio giudaico per non violare le prescrizioni della Legge Mosaica;
le requisizioni militari in natura e le leve
di persone; l’esenzione dal servizio militare in ossequio al riposo ebraico del
Sabato anche per i giudei della Diaspora. Inoltre la religione ebraica era dichiarata “religio licita”, ed ufficialmente
protetta da Roma.
13 Marta Sordi in “Il cristianesimo e
Roma”
14 “espulse da Roma i Giudei che, sotto la spinta di Chresto, tumultuavano
continuamente” Svetonio “Vita di Claudio” 25, 4. Da notare che tale espulsione non è menzionata in nessun’altra
fonte, neppure in Tacito o in Giuseppe
Flavio che non avrebbe potuto ignorare un evento di tale importanza. Alcuni
storici pensano che si tratti di un inserimento posteriore in Svetonio o di una
espunsione dalle “Antichità Giudaiche”
di Giuseppe Flavio.
STORIA
50
Tale espulsione trova riscontro
negli Atti degli Apostoli15, dove si
cita un incontro avvenuto nella
città di Corinto, intorno all’anno
50, tra l’apostolo Paolo ed una
coppia di giudei di nome Aquila
e Priscilla che vi si erano rifugiati
dopo l’espulsione da Roma.
Se il termine “Chrestus” indicasse un leader messianico che viveva a Roma o che si riferisse alla
nuova setta ebraica emergente
dei Cristiani è argomento che
interessa solo marginalmente
questa trattazione, malgrado sia
da molto tempo al centro di un
appassionato dibattito tra coloro
che vedono nei contrasti religiosi
giudaico-cristiani la causa dei tumulti e coloro che ritengono che
l’espulsione non riguardasse in
alcun modo la nascente comunità
cristiana16.
Qualunque sia stata la realtà, è
evidente che i contrasti all’interno della comunità ebraica fra gli
ortodossi e i seguaci delle idee di
Gesù17 furono molti e, soprattut15 Atti 18, 1-2
16 Di sfuggita faccio rilevare che il termine “Cristiani” per definire i seguaci
di Gesù appare molto più tardi e che,
come abbiamo già visto, il vocabolo
greco Christos era usato dagli ebrei per
indicare “l’unto del Signore, il Messia”
e poteva essere attribuito a qualsiasi
personaggio che si rendesse credibile
per tale ruolo.
17 ...che definire “cristiani” sarebbe ancora improprio, in quanto il termine nasce
molti decenni dopo ed indica dei gruppi in cui la maggioranza è formata da
to in questo primo periodo, legati
alla pretesa di convertire i gentili,
cosa non facile in quanto la Legge di Mosè prescriveva come non
lecito per un Giudeo unirsi o incontrarsi con persone di un’altra
razza18.
Aprire a chiunque avrebbe significato per gli ebrei tradizionalisti
far entrare la corruzione nel loro
mondo religiosamente immacolato, poiché i non circoncisi erano
considerati persone spiritualmente impure in quanto non osservanti la Legge Mosaica.
Abbiamo dunque solo due fonti attendibili che ci indicano la
presenza di seguaci di “Cristo”
nell’Urbe: il passo di Svetonio e
quello degli “Atti”.
Che in una ventina di anni gli
adepti di quella che fino ad allora
era solo l’ennesima setta ebraica
fossero diventati qualche centinaio è dunque plausibile. Ancor
più probabile è che Paolo, con
l’energia e l’irruenza che gli erano
proprie, dal 62 al 64 abbia esteso
la sua opera di persuasione anche a molti romani, preparando il
terreno all’incidente che avrebbe
portato all’incriminazione di molti
di essi come incendiari.
Quasi impossibile, invece, è sostenere storicamente la tesi che
Pietro abbia mai visitato Roma.
Questa la situazione negli anni
‘60, confermata dalla frase di
Svetonio, che fra le benemerenze
di Nerone come amministratore,
dopo aver elogiato le sue misure
antincendio e in favore dell’ordine pubblico, afferma:
“furono inviati al supplizio i Cristiani, genere di uomini dediti a una nuova e malefica
superstizione”19
C’è da notare un punto che amplierò più avanti: Svetonio non
mette in relazione i cristiani con
l’incendio, l’unica fonte che stabilisce un rapporto di causa-effetto
è Tacito e, come vedremo, si tratta di un passo sulla cui autenticità molti storici sollevano dubbi.
Occorre stabilire tre punti fermi:
- nel 64 i cristiani avevano già
raggiunto una consistenza
numerica significativa (molte
centinaia? Un migliaio?)
- la loro litigiosità con gli ebrei
(probabilmente più potenti e
quindi tollerati, se non protetti) turbava la morale comune
e l’ordine pubblico
- la loro attività di proselitismo
e le loro critiche al modo di vivere romano aveva già iniziato
a dar fastidio alla gente comune che reagiva sparlando della
nuova religione, addebitandole ogni nefandezza.
non-ebrei.
18 Atti 10:28
19 Svetonio, Vita di Nerone, 16
FORUM - GIUGNO/10
Le nozze con Poppea
Poppea, bella e capricciosa
com’era, doveva essere una vera
piantagrane. Svetonio ci racconta
delle frequenti recriminazioni e
dei sarcasmi con cui assillava il
principe perché la sposasse:
“lo definiva un pupillo, perché,
sottomesso agli ordini altrui, non
solo non controllava l’impero, ma
neppure la sua libertà personale.
Perché allora rimandare le nozze? Non gli piaceva la sua bellezza e sdegnava i suoi antenati,
coperti di trionfi, non credeva alla
sua fecondità e ai suoi sentimenti
sinceri? O temeva che, divenuta
sua moglie, gli aprisse gli occhi
sui soprusi commessi da Agrippina nei confronti dei senatori e
sull’avversione del popolo contro
la superbia e l’avidità di sua madre? E se Agrippina non poteva
sopportare come nuora altri che
una donna ostile a suo figlio, la
lasciasse tornare a essere moglie
di Otone: preferiva andarsene in
qualsiasi parte del mondo, dove
sentir raccontare gli affronti rivolti all’imperatore, piuttosto che
averli sotto gli occhi, coinvolta
nei pericoli da lui corsi”20.
Nel 62 le continue pressioni indussero Nerone a divorziare da
Claudia Ottavia che, dapprima
esiliata, venne poi messa a morte, sotto l’imputazione di adulte20 Tacito, Annali XIV, 1
rio; l’accusa era così impudente e
calunniosa che all’istruttoria tutti
i testimoni si ostinarono a negare e Nerone dovette costringere
Aniceto ad autoaccusarsi di aver
abusato di lei con uno stratagemma. Ottavia fu incatenata ed esiliata a Ventotene. Trascorsi pochi
giorni le venne recato l’ordine di
morire: le furono aperte le vene
sia ai polsi che alle caviglie, ma
poiché per la paura il sangue
usciva troppo lentamente, fu immersa in un bagno caldissimo. La
testa le fu troncata e fu portata a
Roma per essere mostrata a Poppea. Aveva 22 anni.
51
verato aspramente una sera che
era rincasato tardi da una corsa
di carri.
Due anni di eccessi
Può darsi che Svetonio esageri
nell’elencare le pretese malefatte di Nerone a partire da questo
periodo, tuttavia anche se solo il
10% di esse fosse vero ne uscirebbe il quadro di un individuo
quanto meno poco adatto a gestire le responsabilità che dovevano gravare sulle sue spalle:
sregolatezze con giovani ragazzi,
relazioni con donne sposate, arrivò addirittura a violentare una
vestale.
Roba quanto meno da impeachment!
Inaugurando anzitempo una
moda oggi fiorente, fece evirare
un fanciullo di nome Sporo, lo acconciò da donna e tentò di sposarlo con una cerimonia regolare,
con tanto di corteo e velo color
fiamma. Svetonio ci racconta una
battuta che girava fra il popolo:
“Che fortuna per l’umanità se suo
padre Domizio avesse avuto una
simile moglie!» E ancora:
Undici giorni dopo il divorzio da
Ottavia, Nerone sposò Poppea,
che amò più di tutto, e che tuttavia uccise con un calcio, perché,
incinta e malata, lo aveva rimpro-
“Prostituì il suo pudore ad un tal
punto che, dopo aver insozzato
quasi tutte le parti del suo corpo,
ideò alla fine questo nuovo tipo di
divertimento: coperto dalla pelle
di una bestia feroce, da una gabbia si lanciava sugli organi geni-
STORIA
52
“Le rose di Heliogabalo” - Sir Lawrence Alma Tadema, 1888
Nella sua mania per l’ellenismo e
per ogni forma di arte e raffinatezza Nerone da tempo progettava un debutto sulle pubbliche
scene e scelse Napoli, città greca,
per esibirsi: un debutto sfortunato perché il teatro crollò durante la sua performance! Svetonio
sostiene che l’augusto cantore
non se ne diede troppa pena, visto che continuò a cantare la sua
canzone fino al finale.
tali di uomini e di donne, legati ad
un tronco, e, quando aveva imperversato abbastanza, per finire, si dava in balia del suo liberto
Doriforo; da costui si fece anche
sposare, come lui aveva sposato
Sporo, e arrivò perfino ad imitare
i gridi e i gemiti delle vergini che
subivano violenza”21.
Svetonio sottolinea che il ragazzo amava talmente lo sperperare
il denaro che affermava di ammirare suo zio Gaio soprattutto
perché in poco tempo aveva fatto
fuori le immense ricchezze lasciate da Tiberio. Aveva anche il vizio
del gioco: ai dadi giocava al tasso di quattrocentomila sesterzi a
punto!
L’estate del 63 portò una lieta
notizia a Nerone, subito funestata da una disgrazia: in quella villa
21 Svetonio, Vita di Nerone, 27-30
al mare nella quale anch’egli era
nato Poppea partorì una femmina: tutta la nobiltà ed il Senato
vennero ad Anzio per festeggiare
con celebrazioni e giuochi.
“Purtroppo fu cosa effimera, ché
la bambina al quarto mese morì.
Nerone fu senza freno nel dolore,
come nella gioia”.22 Con queste
lapidarie parole Tacito ci conferma il carattere instabile e violento di Nerone, per il quale passare dall’euforia alla rabbia era
questione di attimi e che era capace di perdonare, deridendolo,
un console vigliacco ed incapace
come Peto23 e un’attimo dopo ordinare ad un patrizio come Torquato Silano24 di aprirsi le vene.
22 Tacito, Annali, XV, 24
23 Lucio Cesennio Peto, console nel 61,
sconfitto disonorevolmente a Rhandeia
e poi fuggito di fronte ai Parti.
24 A D. Giunio Torquato Silano, console
Nel 64 Nerone festeggiò la primavera con la famosa orgia lacustre
descritta da Tacito25.
“Sullo stagno di Agrippa26 fece
dunque costruire uno zatterone e
disporre su di esso l’apparato del
nel 53, forzato a suicidarsi perché Augusto era il suo trisavolo. Suo fratello
Lucio era stato fatto avvelenare da
Agrippina.
25 Tacito, Annali, XV, 37
26 “Si pone concordemente presso la
Chiesa di S. Andrea della Valle, siccome si deduce dalla denominazione che
ebbe tale luogo per la valle evidentemente rimasta dallo scavo fatto. In tale
località sembra, dalla disposizione che
ivi conserva il moderno fabbricato, che
questo lago dalla parte rivolta verso il
circo Agonale avesse la forma semicircolare; ed infatti si racconta dal Venuti
che nel fabbricarsi la casa dei Marchesi Massimi, posta verso la porteria del
convento di S. Pantaleo, vi furono trovati grandi massi di travertino ornati di
scorniciamenti e lavorati in porzione di
circolo, i quali, non potendo appartenere alla parte curvilinea del nominato
circo Agonale, giacché questa doveva
stare nel lato opposto, è di necessità
credere, che avessero fatto parte del
circuito semicircolare che doveva circoscrivere il suddetto lago”. Luigi Canina,
Indicazione topografica di Roma antica,
1831
«“L’incendio di Roma”, Robert Hubert (1733–1808)
convito, in modo che potesse venir rimorchiato da navi incrostate
d’oro e d’avorio. I rematori erano
giovani viziosi, distribuiti secondo
l’età e l’esperienza nella libidine.
Da terre remote e fin dall’Oceano
aveva fatto venire uccelli e bestie
selvatiche e animali marini. Sulle
rive del lago sorgevano postriboli pieni di nobildonne, e di fronte
si mettevano in mostra meretrici
ignude. Dapprima furono atti e
movenze oscene; poi, man mano
che le tenebre avanzavano, tutti
i boschi e gli edifici all’intorno risuonarono di canti e risplenderono di lumi. Nerone s’era macchiato ormai d’ogni illecito piacere, e
si sarebbe pensato che non rimanesse alcuna turpitudine a farne
più vergognosa la vita, se pochi
giorni dopo non avesse celebrato
un matrimonio solenne con uno
di quel branco di depravati, di
nome Pitagora. All’imperatore fu
messo il flammeo27, furono tratti gli auspici, e poi dote, talamo,
faci nuziali, insomma venne esibito tutto ciò che la notte cela, pur
quando la sposa è femmina”.
L’incendio di Roma
E arrivò l’estate: un luglio caldo
ed afoso come quelli che anche
i romani di oggi conoscono molto bene. Nerone ha creduto di
trovare rifugio alla calura nella
27 Il velo rituale della sposa, detto così
perché di colore rosso porpora.
brezza di ponente che spira costante sulle terrazze della sua
villa di Anzio. Lo immaginiamo
pigramente sdraiato su morbidi
cuscini, circondato da schiave,
liberti, cortigiani, mentre ascolta dei versi o pizzica la cetra, in
attesa della visione del tramonto,
che da quella terrazza è splendido. All’improvviso arriva, inatteso, un pretoriano di corsa, inviato
da Tigellino. Ansima, ha coperto
al galoppo in poco più di un’ora
gli oltre cinquanta chilometri della Via Ardeatina, probabilmente cambiando cavallo un paio di
volte alle mutationes del cursus
publicus: “Roma brucia... è un’incendio colossale, come non se n’è
mai visto uno!»
FORUM - GIUGNO/10
53
Nerone rientra immediatamente:
l’incendio, iniziato presso il Circo
Massimo, sembra sia stato alimentato dal vento e dalle merci
delle botteghe, per poi estendersi
rapidamente all’intero edificio, risalendo poi sulle alture circostanti
e infine diffondendosi con grande
rapidità senza trovare impedimenti. I soccorsi sarebbero stati
ostacolati dal gran numero di abitanti in fuga e dalle vie strette e
tortuose. Ora è quasi arrivato alla
sua domus sul Palatino, che in
poche ore brucia completamente, così come brucia tutta Roma,
dal Circo Massimo alla Suburra,
dal Celio all’Aventino.
Nerone fa aprire alla folla in fuga
STORIA
54
gli spazi verdi dove l’incendio non
può alimentarsi: il campo Marzio,
i suoi giardini sul colle Vaticano
e perfino gli horti di Mecenate28
sull’Esquilino dove ha in progetto
di costruire la sua nuova domus.
Sulla torre che sovrasta gli horti
Nerone crea il quartier generale
per coordinare i soccorsi e le operazioni di spegnimento: da lì può
vedere tutta Roma e lo spettacolo
che gli si presenta è terribile nella
sua grandiosità. Delle quattordici
regioni che compongono la città,
tre (la III, Iside e Serapis, attuale
colle Oppio, la IX, Circo Massimo,
e la X, Palatino) sono totalmente
distrutte, mentre in altre sette si
registrano enormi danni. I morti
sono migliaia, i senzatetto oltre
duecentomila. 4.000 insulae e
132 domus, oltre ad edifici pubblici e monumenti, sono ormai
cenere. Dopo sei giorni l’incendio
sembrava domato, ma i cittadini
stremati non fecero in tempo a
riprendersi, che scoppiarono altri incendi in altre zone ricche di
templi e portici. La gente, disperata, notava che le fiamme partivano dalle proprietà di Tigellino.
28 L’amico e consigliere dell’imperatore
Augusto aveva trasformato in una sontuosa residenza la zona che oggi coincide con il Colle Oppio, Via Merulana,
Santa Maria Maggiore, fino ad allora
destinata a necropoli, bonificandola
con un alto interro. Passati nel demanio imperiale, i giardini costituirono in
età neroniana un prolungamento della
Domus Aurea.
Sulle cause dell’incendio i tre autori di cui ci sono pervenuti gli
scritti sono quasi completamente
d’accordo: il mandante dell’incendio fu Nerone, che ne ebbe anche il movente. Svetonio e Dione
Cassio lo accusano apertamente,
Tacito esprime il beneficio del
dubbio, ma poi elenca particolari
che inducono il lettore a credere
nella sua colpevolezza.
«...si era sparsa la voce che,
mentre la città bruciava, Nerone fosse salito sul palcoscenico
del palazzo ed avesse cantato
la caduta di Troia, raffigurando
nell’antico disastro le presenti
sciagure29»
“Adducendo a motivo che quegli
antichi edifici così irregolari e quei
vicoli stretti e storti non gli piacevano punto, diede a bella posta
alle fiamme la città in maniera
così evidente, che la maggior parte degli ex consoli, a cui accadde
di sorprendere, nelle proprie tenute, camerieri dell’imperatore
con stoppa e fiaccole accese, non
li arrestarono; e alcuni granai nei
pressi della Domus Aurea, della
cui area fabbricabile desiderava
massimamente venire in possesso, li fece abbattere e dare alle
fiamme con macchine da guerra,
perché erano costruiti in pietra.
Per sei giorni e sette notti durò la
distruzione operata dall’immenso
29 Tacito, Annali, XV, 39
rogo, mentre la plebe era costretta a cercare rifugio nei monumenti e nelle tombe. Allora, oltre
un numero incalcolabile di insulae, andarono distrutte anche le
case di antichi condottieri, ancora adorne delle spoglie nemiche,
ed i templi degli dei promessi in
voto o consacrati dai re e quelli
dell’epoca delle guerre puniche e
galliche…
Henryk Siemiradzki : “Le torce di Nerone” - 1876. (Cracovia, Polonia, Museo Nazionale)
Godendo dall’alto della torre di
Mecenate dello spettacolo dell’incendio e rallegrato, come diceva,
dalla bellezza delle fiamme, indossò il costume di teatro e cantò
“La presa di Troia”30.
Che l’incendio fosse spontaneo
o di natura dolosa, alcuni saggi
30 (scritta da lui). Svetonio, Vita di Nerone, 38
contemporanei31 tendono ad assolvere Nerone adducendo a discolpa l’odio che scrittori come
Svetonio e Tacito avevano per
la tirannide. Altri, invece, continuano ad accusare Nerone tout
court, semplicemente per la sua
fama di primo persecutore dei
31 Cfr. Massimo Fini, “Nerone - duemila
anni di calunnie”, Mondadori, 1993”,
Roberto Gervaso, “Nerone”, Bompiani,
1990
FORUM - GIUGNO/10
55
cristiani. Posizioni che, entrambe,
non mi trovano d’accordo perché
l’unico Nerone che conosciamo e
possiamo conoscere è quello che
vediamo emergere dall’analisi
delle fonti che abbiamo, filtrate
dalla conoscenza del contesto
storico, dei costumi, delle abitudini ed arricchite dalle moderne
conoscenze sulla psicologia e sulla neuropsichiatria.
STORIA
56
Lo stesso procedimento che si
dovrebbe tentare di seguire per
la conoscenza del Gesù storico.
La prima cosa che rileviamo è che
tutte lo fonti ci raccontano che
Nerone è colpevole. D’accordo,
è possibile che mentano o che
tendano ad accettare l’opinione
dominante, visto che è quella
che fa loro comodo. Tuttavia non
conosciamo una sola riga utile a
discolparlo.
Non solo: se la domanda “cui
prodest”, che ogni detective si
pone mentre cerca il colpevole di
un delitto, ci deve aiutare ad alleggerire le responsabilità di Nerone, ebbene ci rendiamo conto
che, nella fattispecie, ci indica il
contrario: grazie all’incendio Nerone può finalmente costruire la
sua “Domus Aurea”, che occupa
l’intera superficie del Colle Oppio,
degli horti di Mecenate e della
valle su cui oggi sorge il Colosseo. Infine: il sogno di Nerone di
trasformare Roma in una città di
marmo, dai grandi viali e dalle
grandi aree pubbliche finalmente
potrà compiersi.
Concludendo: non ci sono prove
né di innocenza, né di colpevolezza, solo qualche indizio, ma certamente Nerone non fu un personaggio da ammirare.
Ad Anzio l’attuale sindaco ha fatto apporre dei cartelli all’ingresso
della cittadina, in cui si esibisce
Jean-Léon Gérôme, 1863-1883
“L’ultima preghiera dei martiri cristiani”
la scritta “Anzio, città di Nerone” come se ciò fosse un titolo di
merito: mi sembra una iniziativa
del tutto fuori luogo. A meno che
non si volesse plaudire ad una
eventuale azione di Nerola, se
mai si appellasse come “città del
Mostro”!32
Nerone e i cristiani
Nerone fu un individuo particolarmente violento e depravato,
portatore di patologie odiose, ma
non si comportò diversamente dai
suoi predecessori quanto ad omicidi, intrighi ed eccessi sessuali.
Tiberio e Caligola non furono certo degli stinchi di santo! Eppure è
lui che la storia ci tramanda come
il mostro per eccellenza.
Credo che la maggior parte della sua pessima fama gli sia derivata dalla propaganda cristiana
che ce lo ha tramandato come il
primo persecutore. L’ironia della
faccenda sta nel fatto che di persecuzione non si trattò e che la
religione con l’evento non ebbe
nulla a che fare!
Fatto sta che sulla bocca di ogni
romano, plebeo o aristocratico
che fosse, correva la voce che
32 Tra il 1944 e il 1947 numerosi viaggiatori sparirono tra Roma e Rieti,
all’altezza del chilometro 47 della via
Salaria. I loro corpi martoriati furono ritrovati nell’“orto degli orrori” di Ernesto
Picchioni, un contadino di Nerola che
aveva escogitato questo sistema per
rubare le biciclette, i soldi e i motorini
dei viandanti.
indicava in Nerone il mandante
dell’incendio. L’imperatore, Poppea, Tigellino, la corte tutti erano
preoccupati da ciò che il popolo,
esasperato, denutrito, senza più
nulla da perdere avrebbe potuto
fare. C’era chi giurava di aver visto i cubiculari di Nerone ostacolare le operazioni di spegnimento,
FORUM - GIUGNO/10
chi sosteneva che le demolizioni sull’Esquilino non erano state
fatte per arginare le fiamme, ma
per liberare aree edificabili per
la domus imperiale. Insomma,
c’era da aver paura e occorreva
riversare l’odio che si andava accumulando su dei colpevoli.
Perché proprio i cristiani?
Intanto va notato che né Svetonio né Plinio parlano del supplizio
dei cristiani come conseguente
all’incendio. Solo Tacito ne parla,
mentre Svetonio cita un generico:
“Sotto il suo principato furono
comminate condanne rigorose,
57
furono prese misure repressive,
ma furono anche introdotti nuovi
regolamenti: si impose un freno
al lusso, si ridussero i banchetti
pubblici a distribuzioni di viveri,
fu vietato di vendere nelle osterie
cibi cotti, ad eccezione dei legumi
ed erbe commestibili, mentre in
precedenza si serviva ogni ge-
STORIA
58
nere di pietanza, furono inviati
al supplizio i Cristiani, genere di
uomini dediti a una nuova e malefica superstizione...»33.
dunque di un provvedimento di
ordine pubblico: vennero giustiziati come incendiari, non per
aver praticato una qualsiasi religione.
Questa differenza fra le fonti ci
indica tre cose:
- che nel 64 il gruppo cosiddetto
dei “cristiani” era differenziato
dai giudei ortodossi, che certamente lo avversavano.
- che la quasi totalità di coloro che vennero arrestati non
aveva la cittadinanza romana,
visto che le pene che ci sono
note furono quelle riservate
agli stranieri o agli schiavi.
- che fra la popolazione di Roma
si era già diffuso l’odio verso
gli appartenenti a questa nuova setta che doveva essere di
turbativa all’ordine pubblico
ed al mos maiorum.
I cristiani dalla vox populi erano
infatti da diversi anni accusati di
praticare ogni genere di “flagitia”,
in parte per i comportamenti anomali in tema di sessualità, continenza, moderazione e soprattutto per la loro incessante opera di
proselitismo.
Odiati dal popolo, “venduti” alla
polizia pretoriana dagli ebrei che
anelavano a distinguersene34,
33 Svetonio, Vita di Nerone, 16
34 I numerosi privilegi riconosciuti agli
ebrei da Cesare (esenzione dal servizio
militare, benefici fiscali, liceità della loro
“religio”, ecc.) erano stati ridimensionati da Tiberio e da Claudio. Tuttavia le
loro attività finanziarie erano preziose
per senatori e cavalieri. Ciò suggeriva
Graffito (fine II sec. inizio III sec. d.C.) ritrovato sul Palatino raffigurante la caricatura di un uomo crocifisso con testa d’asino, con ai suoi piedi un altro uomo in atto
di adorazione, il tutto accompagnato dalla scritta: “Alessameno adora il suo Dio
furono il capro espiatorio ideale
per Nerone e finirono per pagare
– innocenti – le conseguenze del
grande incendio. Durante il processo fu probabilmente impossibile provare la loro responsabilità
nell’incendio, tuttavia emerse il
loro fanatismo ed il loro “odio per
il genere umano” che venne giudicato un buon movente per aver
tentato di distruggere la “novella Babilonia” e fu per questo che
vennero condannati35. Si trattò
agli ebrei, recentemente reintegrati nei
loro diritti, di tenere un “profilo basso”
che l’atteggiamento esibizionista dei
cristiani (che i romani non distinguevano da loro) minacciava di vanificare.
35 In alternativa alla versione tradizionale, lo storico Carlo Pascal (L’incendio di
Roma e i primi Cristiani, Torino, E. Loescher, 1900) espose l’ipotesi secondo
la quale avrebbero potuto essere effettivamente i cristiani ad appiccare il fuoco a Roma, allo scopo di dare seguito
ad una profezia apocalittica egiziana,
secondo cui il sorgere di Sirio, la stella
del Canis Major, avrebbe indicato la caduta della grande malvagia città.
Malgrado la mitologia formatasi non meno di due secoli dopo,
l’apostolo Paolo non era presente a Roma nel 64 e non fu fra
coloro che vennero giustiziati in
quell’occasione. Gli storici hanno
prospettato due diverse ipotesi,
per le quali Paolo avrebbe fatto
un altro viaggio prima di tornare
a Roma: la prima possibilità è che
nel 65-66 fosse dapprima ad Efeso e poi in Macedonia e Grecia la
seconda (meno probabile) è che
si trovasse in Spagna. Le prime
avvisaglie della grande rivolta
ebraica del 66 lo trovano a Nicopoli, donde scrive la sua epistola
ai Cretesi. Nel 67 si traghetta a
Brindisi per poi tornare a Roma
dove viene arrestato e condannato a morte per qualche reato
che non conosciamo, ma che immaginiamo connesso al suo pessimo carattere e alla veemenza
della sua predicazione che, come
mille altre volte gli era successo,
dovevano aver creato turbativa
dell’ordine pubblico.
Quanto a Pietro, la sua venuta a
Roma è talmente improbabile e
mancante di una qualsiasi prova
storicamente accettabile da doversi considerare mitologica36.
36 Per approfondire cfr. il mio libro “Gesù
non era Cristiano”, di prossima pubbli-
FORUM - GIUGNO/10
59
dominio.
La Domus Aurea
Nerone provvide immediatamente alla ricostruzione, progettando
strade ampie ed edifici in pietra,
ben allineati e limitati in altezza.
Vennero emanati provvedimenti di rimborso per la ricostruzione, pagabili solo se essa fosse
compiuta in un certo termine. Le
macerie vennero trasportate con
chiatte alla foce del Tevere e furono utili per riempire le paludi di
Ostia. Tali provvedimenti furono
apprezzati, ma subito il popolo di
Roma ebbe una nuova delusione:
Nerone aveva volto a suo vantaggio gli effetti dell’incendio, giacché aveva iniziato la costruzione
di una domus di 80 ettari nella
quale “destavano meraviglia non
tanto le pietre preziose e l’oro,
sfoggio ormai solito e divenuto
comune, ma le piantagioni e gli
cazione.
specchi d’acqua, e di qua parchi a
somiglianza di foreste vergini, di
là spazi aperti e belvederi: opera
immaginata e diretta da Severo
e da Celere, la cui ardita genialità creava coll’artificio quanto non
era stato concesso dalla natura
e si sbizzariva coi grandi mezzi
dell’imperatore”.
Il quale, quando la vede terminata, commenta: finalmente una
casa degna di un uomo!
La Sala del trono, simbolo del
dominio di Nerone sull’universo,
era coperta da una volta che girava su sé stessa giorno e notte,
così come nel cielo girano in cerchio il sole, la luna, i pianeti.
Una statua colossale dell’imperatore rappresentato come il dio
Sole, alta 25 metri, si ergeva al
centro del padiglione porticato
della villa, e sottolineava questo
La Domus Aurea fu un tale spreco di spazio e di denaro pubblico
da necessitare, per il suo finanziamento, di risorse straordinarie che, in aggiunta a quelle
impiegate nella ricostruzione,
provocarono una crisi economica
senza precedenti. L’improvvido
e capriccioso ragazzino imperiale, affetto da una megalomania
patologica non trovò altro mezzo
che la rapina sistematica dell’Italia e delle province. Per reperire
oro Nerone non esitò a spogliare
i templi degli Dei dalle offerte votive, arrivando perfino al sacrilegio, facendo rubare in Grecia ed
in Asia le statue degli Dei fatte in
materiale prezioso.
Mentre nel mitico “quinquennium felix” Nerone aveva creduto di trovare la soddisfazione
della sua carenza affettiva nel
consenso popolare, per ottenere il quale aveva tentato di promulgare provvedimenti che oggi
definiremmo “di sinistra”, ormai
la vera natura del personaggio,
altalenante fra delirio di onnipotenza e mania di persecuzione,
emerge nella sua realtà.
Il popolo non lo approva più e
l’aristocrazia, pur temendolo,
sente che occorre reagire.
Inizia il tempo delle congiure e
delle vendette. Che affronteremo
nel prossimo numero.
STORIA
60
San
Pietro?
Mai messo piede a Roma!
Il mito del soggiorno di Pietro a Roma nacque tardivamente, almeno 150 anni dopo la morte di Gesù, e venne
costruito a tavolino per affermare il traballante primato del Vescovo di Roma sulle altre diocesi dell’Impero.
Articolo tratto dal libro di prossima
pubblicazione “Gesù non era cristiano” di Lorenzo Paolini
Malgrado per secoli nessuno abbia mai osato mettere
in dubbio l’effettiva venuta
a Roma di Pietro, chiunque
voglia usare il metodo storico e la filologia sperimentale, non potrà che ammettere che non esistono prove
che ne attestino la presenza
nell’Urbe, che tutta la tradizione che ha tramandato
tale venuta si è formata oltre un secolo dopo i fatti e
che sussistevano interessi
forti ad appropriarsi dell’autorevolezza che tale venuta
avrebbe conferito al capo
della comunità cristiana di
Roma che, non detenendo
ancora alcun primato gerarchico conclamato sulle altre
comunità dell’Impero, non
era che un “par inter pares”.
Come spiegare allora un
fatto dato per certo dalla
totalità dei cattolici?
Semplicemente approfondendo la questione del primato del vescovo di Roma.
Nella pag. prec. “Crocefissione di S.Pietro” di Caravaggio, 1600, Olio su tela, 230 x 175 cm.
Cappella Cerasi, Santa Maria del Popolo, Roma.
Sotto: “Liberazione di Pietro” Bernardo Strozzi (1635) Art Gallery of New South Wales
Partiamo da una premessa sostanziale: fino al medioevo non
esisteva un “papa” ma solo
“vescovi 1. Il concetto di “papa”
come lo conosciamo noi nasce
al tempo dei Franchi, tra il 700
e l’800. Per legittimare la sovranità sulla cristianità ed il potere
temporale la Chiesa fabbricò addirittura un falso: “la donazione
di Costantino”2.
Il vescovo, nel cristianesimo, è il responsabile (pastore) di una diocesi ed
è considerato successore degli apostoli.
La parola viene dal greco επίσκοπος, che
significa “supervisore”, “sorvegliante”. Nel IV secolo Costantino dette ai
vescovi lo “status” di funzionari dello
Stato romano, attribuendosi lui stesso
il titolo di “supervisore/vescovo per gli
affari esterni alla chiesa cristiana”. Nel
cattolicesimo l’episcopato è il primo e
più alto grado del sacramento dell’Ordine. Gli altri due, in posizione subordinata all’episcopato, sono il presbiterato
(sacerdoti) ed il diaconato. La chiesaedificio da cui un vescovo esercita il suo
magistero è detta cattedrale.
1
Il “Constitutum Constantini”, è un documento apocrifo conservato in copia
nelle Decretali dello Pseudo-Isidoro (IX
secolo) e, come interpolazione, in alcuni manoscritti del Decretum di Graziano
(XII secolo), che pretende di riprodurre
un editto emesso dall’imperatore romano Costantino I e risalente al [313].
Con esso, l’imperatore concederebbe al
papa Silvestro I e ai suoi successori il
primato sui cinque patriarcati (Roma,
Costantinopoli, Alessandria d’Egitto,
Antiochia e Gerusalemme) e attribuirebbe ai pontefici le insegne imperiali e
la sovranità temporale su Roma, l’Italia
e l’intero Impero Romano d’Occidente. La donazione venne utilizzata dalla
Chiesa nel medioevo per avvalorare i
propri diritti sui vasti possedimenti territoriali in Occidente e per legittimare
le proprie mire di carattere temporale
ed universalistico. Nel 1440 l’umanista
italiano Lorenzo Valla, sulla scia delle
pesanti perplessità già espresse pochi
anni addietro dal filosofo Nicola Cusa-
2
Nel I, II e III secolo in tutto il
mondo civilizzato le religioni,
ebraismo e cristianesimo inclusi,
erano gestite localmente. Come
non esisteva un capo assoluto
che avesse autorità su tutti templi di Iside, o di Cibele, o di Apollo
sparsi per l’Impero, non esisteva
alcun vescovo cristiano che avesse autorità sugli altri vescovi.
È innegabile però che l’auctoritas
del capo della comunità cristiana
dell’Urbe promanava da quella
dell’Urbe stessa e poteva rappresentare un faro unitario che
potesse difendere una dottrina
comune dalle numerose eresie
che sorgevano ai quattro angoli
dell’impero: fu per questo che i
vescovi romani, mentre tentavano di imporsi agli altri vescovi, dovettero trovare qualcosa in
grado di legittimare quella che,
per i tempi, era una vera e propria rivoluzione: l’istituzione di
una gerarchia piramidale.
Eresia e giurisdizione erano in
realtà due facce della stessa medaglia: gerarchia e dottrina unica
ed omogenea furono i due fattori indispensabili per costruire il
potere temporale della Chiesa di
Roma, che tuttavia necessitava
di essere fondato su un’eredità
“reale”.
no, dimostrò in modo inequivocabile
come la donazione fosse un falso. L’argomento è ulteriormente approfondito
a fine articolo.
FORUM - GIUGNO/10
61
Ma come fu possibile consolidare una convinzione così fondante se non esistevano prove serie
che l’apostolo Pietro fosse venuto a Roma, e se le numerose
argomentazioni di tipo deduttivo
rendono tale venuta altamente
improbabile.
Ad esempio: la tradizione cattolica vuole che Pietro sia venuto
una prima volta a Roma nel 42,
sotto Claudio. Tradizione che gli
esegeti (che in questo caso fanno davvero onore al loro nome,
andando a briglie sciolte nell’arte
dell’interpretazione!) pretendono
di confermare interpretando “Babilonia” come “Roma”.
Ma negli Atti si afferma che Pietro, dopo essere stato arrestato
da Erode, viene liberato da un
angelo.
“Egli allora, fatto segno con la mano
di tacere, narrò come il Signore lo
aveva tratto fuori del carcere, e
aggiunse: «Riferite questo a Gia-
STORIA
62
como e ai fratelli». Poi uscì e s’incamminò verso un altro luogo”3.
prendeva cibo insieme ai pagani;
ma dopo la loro venuta, cominciò a
evitarli e a tenersi in disparte, per
timore dei circoncisi. 13 E anche
gli altri Giudei lo imitarono nella
simulazione, al punto che anche
Barnaba si lasciò attirare nella loro
ipocrisia. 14 Ora quando vidi che
non si comportavano rettamente
secondo la verità del vangelo, dissi
a Cefa in presenza di tutti: «Se tu,
che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei,
come puoi costringere i pagani a
vivere alla maniera dei Giudei”6?
Gli esegeti di cui sopra interpretano questo “altro luogo” come
Roma. Il mese successivo Erode
Agrippa, muore d’infarto:
“Nel giorno fissato Erode, vestito
del manto regale e seduto sul podio, tenne loro un discorso. Il popolo acclamava: «Parola di un dio
e non di un uomo!». Ma improvvisamente un angelo del Signore lo
colpì, perché non aveva dato gloria
a Dio; e roso, dai vermi, spirò”4.
La storia, quella vera, ci dice
che Erode Agrippa morì qualche
settimana dopo la Pasqua del
44. Dunque come avrebbe fatto
Pietro ad arrivare a Roma, soggiornarvi durante l’imperium di
Claudio per il tempo necessario a
fondare la comunità e a tornare
a Gerusalemme nel 50, in tempo
per partecipare al famoso concilio?
Non solo: da un attenta lettura
dell’epistola ai Galati, Pietro risulterebbe essere fra il 45 e il 48
ad Antiochia, dove si scontrò con
Paolo:
“Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto
perché evidentemente aveva torto.
12 Infatti, prima che giungessero
alcuni da parte di Giacomo5, egli
Gli Atti, oltre a non parlare mai di
una presenza di Pietro a Roma,
ci mostrano Pietro come figura
preminente nel gruppo giudaico
– cristiano, ma sempre in posizione subalterna a Giacomo, il
fratello di Gesù. Nel concilio citato, Pietro introduce la questione
dell’accettazione dei gentili nella
comunità dei cristiani senza che
essi passino per la conversione
all’ebraismo, sintetizzata e simboleggiata nella circoncisione, ma
chi conclude e decide è Giacomo.
Se Pietro fosse già stato riconosciuto come capo della nascente
Chiesa, perché il Concilio di Gerusalemme, pietra angolare di tutte le scelte che sarebbero state
fatte da quel momento in avanti,
venne convocato e presieduto da
Giacomo e non da lui?7
Atti 12, 17
3
Atti 12, 21
mentre Pietro fu solo un subalterno.
4
Un ennesimo esempio che era Giacomo
il capo della comunità giudeo-cristiana,
5
Quando poi si tratta di portare
l’annuncio cristiano in Samaria,
gli Atti sono espliciti nel descrivere Pietro in chiave subalterna:
“Ora gli apostoli che erano a Gerusalemme, quando seppero che la
Samaria aveva ricevuta la parola
di Dio, mandarono loro Pietro e
Giovanni…»8
La tradizione poi vuole ancora
Pietro a Roma dopo il 55, dove
lo farà morire crocifisso a testa in
giù nel 64, durante la persecuzione neroniana.
Altro argomento sostanziale:
che motivi avrebbe avuto Pietro
di venire a Roma? Ebreo di umili
origini e di credenze semplici, che
mai avrebbe voluto contaminare
le sue usanze e le sue tradizioni
contaminandole con quelle dei
“gentili”, aveva combattuto una
battaglia lunga oltre 10 anni contro le idee di Shaul-Paolo che poi
aveva dovuto accettare obtorto
collo, di dividere la sfera di evangelizzazione: a Paolo i gentili, al
gruppo di Gerusalemme gli ebrei.
Cosa mai avrebbe dovuto fare a
Roma?
Ed ancora: mentre sappiamo tutto sulla geografia e la tempistica
dei viaggi di Paolo, perché non
sappiamo nulla di quelli di Pietro? Ma soprattutto: conoscendo
le difficoltà enormi incontrate da
Paolo, cittadino romano, nel suo
Gal 2, 11-14
6
Vedi capitolo III, par. 2
7
At 8, 14
8
FORUM - GIUGNO/10
lungo e pericoloso viaggio verso Roma (oltretutto a spese del
governo), ci domandiamo come
un pescatore ebreo ignorante e
semianalfabeta abbia potuto trovare i mezzi per affrontare ben
due viaggi del genere.
Stanti tali fatti, perché gli Atti non
menzionano neppure di sfuggita
tali spostamenti di Pietro, di cui si
parla diffusamente per tutti i capitoli? E, soprattutto, perché Paolo
nella sua “epistola ai Romani” del
58 (e in nessuna altra epistola)
non fa alcun riferimento a Pietro
e alla sua attività a Roma?
Nel Concilio Vaticano I (1870)
il vescovo di Diakovar in Croazia Joseph Georg Strossmayer,
nell’intento di contestare il dogma sull’infallibilità papale che
un Pio IX con l’acqua alla gola e
i bersaglieri alle porte stava per
promulgare, affermò nel suo discorso
“L’apostolo Paolo non menziona
in nessuna delle sue lettere il primato di S. Pietro. Se tale primato
esisteva, se in una parola la chiesa
aveva nel suo corpo un capo supremo, infallibile nell’insegnamento, avrebbe il grande apostolo dei
Gentili trascurato di farne menzione? Ma che dico! Avrebbe dovuto
scrivere una lunga lettera attorno
a questo importantissimo soggetto. Quando veniva eretto l’edificio
della nostra Dottrina poteva essere dimenticato il fondamento,
l’architrave?... Né negli scritti di S.
Paolo e di S. Giovanni né in quelli
di S. Giacomo ho trovato traccia o
germe del potere papale. S. Luca,
lo storico dei fatti missionari degli
apostoli tace su questo importantissimo punto di cui, pure, se così
come voi pretendete, avrebbe anche lui dovuto per forza trattare. Il
silenzio di questi santi uomini, i cui
scritti sono nel canone delle Scritture ispirate da Dio, qualora S. Pietro fosse stato papa, m’è sembrato
insostenibile e impossibile, e tanto
ingiustificabile quanto sarebbe se
il Thiers, scrivendo la storia di Napoleone, avesse omesso il titolo di
imperatore...»9
Infine, come mai nelle due lettere attribuite a Pietro egli non fa
mai alcun riferimento a Roma, ad
ambienti romani, a personaggi o
situazioni romane?
Il silenzio delle fonti fino al
180 d.C.
Non c’è nessuna testimonianza
attendibile anteriore al 180 d.C.
della presenza di Pietro a Roma
ma, contestualmente è assordante il silenzio su tale presenza
in testimoni come Giustino di Nablus, di cui abbiamo molti scritti
e perfino gli atti del suo processo
da parte romana, nel 168.
Disponiamo invece solo di testimonianze di terza e quarta battuta come quelle dell’inizio del terzo
“Il papato alla luce della storia e della Scrittura”, p. 8, Ed. Sentieri diritti,
Roma 1981
9
63
secolo (Origene e Tertulliano) che
poi esplodono dopo la rivoluzione
di Costantino attraverso tutta la
letteratura promossa da Eusebio di Cesarea al fine di fondare
e dare organicità ad una dottrina
univoca.
Chiunque legga le argomentazioni che la maggior parte dei
teologi utilizzano per dimostrare
che Pietro ha subito il martirio a
Roma, si renderà conto che essi
citano come prova fonti del IV secolo: scritte da vescovi che erano
CERTI di tale venuta, perché (se
proprio vogliamo accreditarli di
buona fede) ne sentivano parlare
come di cosa vera da oltre centoventi anni!
La mitologia su Pietro
Le numerose leggende sugli
eventi relativi alla permanenza
di San Pietro a Roma, come ad
esempio quella di “S.Pietro in
vinculis” 10 o quelle sulla sfida di
fronte a Nerone tra San Pietro
e Simon Mago, nascono dopo il
400, quando la presenza di Pietro
a Roma è ormai un fatto assodato
10
Sotto il pontificato di Sisto III (432440), l’imperatrice Augusta Eudossia, moglie dell’Imperatore d’Oriente
Valentiniano III (425-455), donò le
catene della prigionia di San Pietro a
Gerusalemme al Papa San Leone Magno (440-461). Questi, accostando tali
catene a quelle della prigionia di San
Pietro a Roma, al carcere Mamertino,
fu testimone di un fatto prodigioso: le
due catene si fusero in un’unica catena,
ancora oggi visibile.
STORIA
64
San Pietro e la caduta di Simon Mago (1571).
Affresco nella Cappella Foppa nella chiesa di san Marco a Milano.
e sono legate alla grande importanza che le reliquie rivestivano
per l’economia di quel periodo.
Quanto a Simon Mago, tutto
ciò che abbiamo di lui è in Atti,
9-20:
V’era da tempo in città un tale di
nome Simone, dedito alla magia,
il quale mandava in visibilio la popolazione di Samarìa, spacciandosi
per un gran personaggio. A lui aderivano tutti, piccoli e grandi, esclamando: «Questi è la potenza di Dio, quella che è chiamata
Grande». Gli davano ascolto, perché per molto tempo li aveva fatti
strabiliare con le sue magie.
Dopo aver ascoltato le prediche
del diacono Filippo, Simone decise di farsi battezzare. Successivamente, però, cercò di comperare da san Pietro il potere di
conferire, con la semplice imposizione delle mani, lo Spirito Santo,
incorrendo nelle ire dell’Apostolo.
Da questo antico tentativo di
commercio di cose sacre deriva il
termine di simonia.
Ulteriori testimonianze sulla sua
vita sono pura agiografia, in
quanto derivano da tardi testi
apocrifi come gli Atti di San Pietro11 (posteriori alla compilazione
dell’elenco dei primi papi da parte
di Egesippo) o le Pseudo-clemen11Scritti
intorno al 200 d.C. da un tal Leucio Carino, che si proclamava discepolo
di Giovanni. In questi “Atti” si racconta
anche la leggenda della crocefissione a
testa in giù.
tine12 che lo vogliono a Roma sotto Claudio e Nerone. Qui ottenne
fama e gloria, ma fu sfidato ad un
confronto pubblico da San Pietro
e san Paolo. Sostenendo di poter
essere seppellito per poi risorgere dopo tre giorni, morì nella
prova. Un’altra leggenda afferma
invece che, nel tentativo di mostrare a Nerone la sua capacità
di levitazione, precipitò morendo
12
Alcune lettere attribuite a Clemente Romano, ma in realtà databili fra il secondo e il terzo secolo
sul colpo grazie alle preghiere di
Pietro e Paolo.
Un’ulteriore prova di quanto le
tradizioni non siano attendibili ce
la fornisce la leggenda dell’impronta lasciata da San Pietro su
un architrave del Carcere Mamertino, o “Tullianum”: il più antico carcere di Roma, risalente al
VII secolo a.C.
Come tutti sanno la pena detentiva era sconosciuta al diritto
romano, pertanto tale carcere
Clemente romano,
monastero di San Clemente, Macedonia
FORUM - GIUGNO/10
Ignazio, vescovo di Antiochia
“Ma lasciando gli esempi antichi,
veniamo agli atleti vicinissimi a
noi e prendiamo gli esempi validi
della nostra epoca. Per invidia e
per gelosia le più grandi e giuste
colonne furono perseguitate e lottarono sino alla morte. Prendiamo i
buoni apostoli. Pietro per l’ingiusta
invidia non una o due, ma molte
fatiche sopportò, e così col martirio
raggiunse il posto della gloria. Per
invidia e discordia Paolo mostrò il
premio della pazienza. Per sette
volte portando catene, esiliato, lapidato, fattosi araldo nell’oriente e
nell’occidente, ebbe la nobile fama
della fede.
di Cristiani venissero rinchiusi, in
attesa della fine, nei sotterranei
del circo stesso13.
si riduceva a un ambiente relativamente angusto collegato ad
un piano sottostante attraverso
una botola. È noto che in questo
“buco” vennero gettati prigionieri “illustri” come Vercingetorige e
Giugurta, per esservi strangolati
dopo aver sfilato in catene nel
trionfo e che anche alcuni cittadini
romani come Caio Gracco e, successivamente, i Catilinari vi subirono la stessa sciagurata sorte.
Un luogo dove il gruppo numeroso dei cristiani, che dovevano
essere nella peggiore delle ipotesi, alcune centinaia non aveva
motivo giuridico di soggiornare,
né ci sarebbe entrato fisicamente. Tacito ci racconta che Nerone
offrì lo spettacolo del supplizio dei
cristiani “nei propri giardini e celebrava giochi nel Circo”. Possiamo dunque supporre che i gruppi
Le “prove” addotte
Chiesa Cattolica
13
Ovviamente non sapremo mai se si
trattasse del Circo Massimo o del circo privato che Seneca e Burro avevano
fatto costruire per Nerone alle pendici
del colle Vaticano. Ma la seconda ipotesi è improbabile, in quanto più che di
un circo con infrastrutture e tribune si
trattava di uno “spazio recintato”, giacché il suo scopo era proprio quello di
impedire che Nerone si esibisse in pubblico alla guida dei suoi cavalli.
databile forse al 96
14
Dopo aver predicato la giustizia a
tutto il mondo, giunto al confine
dell’occidente e resa testimonianza davanti alle autorità, lasciò il
mondo e raggiunse il luogo santo,
divenendo il più grande modello di
pazienza”15.
dalla
La più antica prova che viene
addotta dalla chiesa sulla venuta di Pietro a Roma è la “lettera
ai Corinzi”14 di Clemente Romano
(forse il Clemente che Paolo cita
nella lettera ai Filippesi) che viene
indicato come quarto nell’elenco
dei Papi secondo l’elenco stilato
nel 160 da Egesippo di cui parleremo (ed ampiamente!) fra poco.
Vediamo cosa dice:
65
Qualcuno mi dovrebbe indicare
in quale punto è nominata Roma.
È ridicolo pensare come si possa
citare questo passo come prova
del soggiorno di Pietro a Roma,
effettuando l’arbitraria deduzione che il “noi”, piuttosto che alla
comunità dei seguaci di Gesù, si
riferisse ai romani, per il semplice
fatto che Clemente era romano e
scriveva da Roma.
La successiva “fonte” portata
come prova è una lettera ai romani scritta da Ignazio di Antiochia, probabilmente nel 107
Prima lettera di Clemente Romano ai
Corinzi, V
15
STORIA
66
Questo Ignazio fu il successore di Pietro alla guida
della comunità di Antiochia16 ed era stato arrestato
Un’altra considerazione sulla impossibilità della presenza a
Roma di Pietro. Tutte le fonti indicano Ignazio come immediato successore di Pietro all’episcopato di Antiochia. Ora noi sappiamo che il cosiddetto “incidente di Antiochia” avviene immediatamente prima del Concilio di Gerusalemme che pone gli
episodi fra il 49 e il 51 e che Pietro esce dalla storia con il suo
discorso durante il Concilio di Gerusalemme: dopo quell’intervento gli Atti non parlano più di lui. Possiamo, quindi, fare
soltanto delle ipotesi. Pietro non può tornare ad Antiochia che
dopo il 52, giacché nel 51 furono Paolo, Barnaba, Giuda e
Sila a recarvisi per riferire le decisioni prese. Ammettiamo che
dal 52 divenga formalmente il “vescovo” di Antiochia e che
abbia mantenuto tale carica per due soli anni, (un po’pochi
per affermare una tradizione che in Oriente è invece viva e conosolidata) per poi intraprendere il suo viaggio che lo porterà
a Roma nel 55. Tutto ciò premesso se ne deduce che Ignazio
dovrebbe aver avuto l’investitura a vescovo di Antiochia nel
54. Quanti anni poteva avere? Anche se fosse stato molto giovane è difficile pensare che un vescovo abbia potuto essere
un adolescente. Ipotizziamo che avesse 30-35 anni, età appena plausibile, anche perché le fonti ci dicono che non nacque
cristiano e che si convertì da adulto. Considerato che è stato
giustiziato nel 107 dovremmo dedurre che abbia affrontato
poco meno che novantenne l’improbo viaggio di quasi 3.000
km. durante il quale fu così vitale da scrivere epistole come un
grafomane!
16
Non è facile comprendere come mai
Pietro, figura di secondo piano fra gli
apostoli e chiaramente subordinata
a Giacomo, emerse al punto da diventare il capo “della Chiesa fondata
da Gesù” se prima non ci si domanda
se Gesù intendesse davvero fondare
una “Chiesa” per lo meno nell’accezione che conosciamo.
Ma questo è un tema che esula
dall’argomento di questo articolo.
Tuttavia non si può negare come
Pietro, sia nei Vangeli che negli Atti,
evidenzi tratti nel carattere tutt’altro
che positivi: nell’orto del Getsemani
è l’unico a mettere la mano alla spada, contravvenendo alle disposizioni
di Gesù, fino a tagliare un orecchio
ad uno dei servi del Sinedrio non esitando a negare tre volte di esserne
un seguace.
sotto Traiano con capo di imputazione a noi sconosciuto. Inviato a Roma per il supplizio percorse per
mare il tratto che dalla Siria lo portò in Panfilia; poi,
per via di terra, attraversò la Caria e la Lidia (tutte
province dell’Asia minore) e così giunse a Smirne e,
da lì, per via mare, alla Troade. Arrivato a Roma, fu
fatto dilaniare dalle fiere nel 107. Durante il viaggio,
riuscì a comporre sette lettere: da Smirne scrisse
alle comunità dell’Asia Minore (Efeso, Magnesia e
Tralle) e poi ai Romani per impedir loro di intercedere in suo favore presso Traiano; da Troade scrisse
alle comunità di Filadelfia e di Smirne e, infine, a
Policarpo.
“Scrivo a tutte le Chiese e annunzio a tutti che io muoio
volentieri per Dio, se voi non me lo impedite. Vi prego
di non avere per me una benevolenza inopportuna. Lasciate che sia pasto delle belve per mezzo delle quali
mi è possibile raggiungere Dio. Sono frumento di Dio e
macinato dai denti delle fiere per diventare pane puro
di Cristo. Piuttosto accarezzate le fiere perché diventino
la mia tomba e nulla lascino del mio corpo ed io morto
Negli Atti poi appare tutt’altro che
caritatevole nell’episodio di Anania e
Saffira:
“un cert’uomo, di nome Anania, d’accordo con Saffira sua moglie, anche lui
vendette un campo e, consapevole la
moglie, si tenne per sé una parte del
prezzo, portando il resto e deponendolo ai piedi degli apostoli.Allora Pietro disse: «Anania, come mai Satana
t’ha così preso il cuore che tu cerchi di
mentire allo Spirito Santo con frodare
una parte del prezzo del campo? Anania, a udir queste parole, cadde e spirò.
Dopo circa tre ore, entra la moglie di
lui, che nulla sapeva e Pietro le si rivolse: «Dimmi, donna, è vero che avete
venduto il campo per il tal prezzo?». E
quella: «Sì, per tal prezzo». E Pietro a
lei: «perché, dunque, vi siete accordati a tentar lo Spirito del Signore? Ecco
stanno sulla porta i piedi di coloro che
han sepolto tuo marito, e porteranno
via anche te!». In quell’istante ella cadde a’suoi piedi, e spirò”.
Se, come sostengono molti autori, la
famosa frase “Tu sei Pietro e su questa pietra...» è un’interpolazione tardiva (tale frase appare solo in Matteo,
16-18, benché l’episodio del contesto
sia narrato in tutti gli altri vangeli in
modo simile), ci si domanda dunque
“perché proprio Pietro?».
L’unica risposta plausibile è che l’autore degli Atti nei primi 15 capitoli,
centra su Pietro il proprio racconto
nominandolo 61 volte, quasi sempre
con ruoli esecutivi, citando spesso
Giovanni (10 volte) e trascurando
Giacomo che viene citato solo 3 volte
nelle quali, tuttavia, svolge sempre le
funzioni di capo della comunità.
Sono gli Atti, dunque, ad aver consacrato la fama di Pietro e Paolo, che
degli Atti è il vero ispiratore e protagonista (165 citazioni).
“Consegna delle chiavi a san Pietro” Pietro Perugino (1481-82)
Affresco, 335 x 550 cm. Cappella Sistina, Vaticano
FORUM - GIUGNO/10
67
desse come uno che aveva “comandato”. Che la deduzione sia arbitraria lo dimostra anche il fatto che
se per tale frase si dimostrava che Pietro era stato
Vescovo di Roma avrebbe dovuto esserlo stato, automaticamente, anche Paolo.
L’esegeta onesto deve affermare che questo testo
non prova né che Pietro abbia comandato a Roma,
né il suo contrario. Si tratta di una testimonianza
del tutto irrilevante per il problema in questione.
Mi permetto solo una brevissima annotazione sulla
lunghezza, la difficoltà e le molte tappe (corrispondenti ad altrettante lettere) di questo viaggio “in
vinculis” fino a Roma per sottolineare ancora una
volta come esso fosse difficile e complesso e quanto improbabile sia l’ipotesi che Pietro abbia potuto
compierne due (ciascuno con andata e relativo ritorno) in pochi anni e senza lasciarne traccia.
non pesi su nessuno. Allora sarò veramente discepolo
di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo.
Pregate il Signore per me perché con quei mezzi sia
vittima per Dio. Non vi comando come Pietro e Paolo.
Essi erano apostoli, io un condannato; essi erano liberi
io a tuttora uno schiavo. Ma se soffro sarò affiancato
in Gesù Cristo e risorgerò libero in lui. Ora incatenato
imparo a non desiderare nulla”17.
Assumere il “non vi comando come Pietro e Paolo”
come prova di un comando diretto di Pietro come
Vescovo di Roma è un’operazione al limite del raggiro.
La locuzione può riferirsi ad un “comando” carismatico esercitato a tutta la comunità, ma non va
dimenticato che Pietro era succeduto a Simeone
come capo della comunità di Antiochia, quindi non
è improbabile che il suo successore Ignazio lo veIgnazio di Antiochia, Lettera ai Romani, IV
17
Ugualmente tralascerò ogni testimonianza di cui
non possediamo fonti di prima mano ma che esistono solo attraverso racconti o citazioni di Eusebio di Cesarea nella sua Storia Ecclesiastica, autore
storicamente inattendibile, giacché ciò che scrive è
strumentale agli scopi del disegno politico costantiniano: quindi ciò che lui afferma che abbiano scritto
Dionigi di Corinto, Clemente Alessandrino e Papia di
Gerapoli (scritti per noi perduti) non prova assolutamente nulla.
Il processo a Giustino
Giustino di Nablus fu un intellettuale e filosofo nato
in Samaria intorno al 100 che dopo aver frequentato molte scuole filosofiche alla ricerca della Verità, si
convertì al cristianesimo e si trasferì a Roma, dove
venne arrestato e condannato a morte come cristiano sotto Marco Aurelio, intorno al 165.
Come ebreo cristiano doveva ben conoscere la storia degli apostoli (vissuti fino a pochi decenni prima
della sua nascita), e come cristiano della comunità
STORIA
68
romana doveva essere al corrente delle gerarchie e
della storia dei suoi correligionari.
Ebbene, benché di lui ci siano rimaste sia le opere
che i verbali del processo, egli non ha mai menzionato Pietro nelle sue opere, né tantomeno
ne parla come del fondatore della c o m u nità cristiana di Roma. L’unica volta che lo cita è per ripetere ciò che
era già scritto in Marco (3,16):
“Uno dei discepoli, che prima si chiamava Simone,
conobbe per rivelazione del Padre che Gesù Cristo
è Figlio di Dio. Per questo egli ricevette il nome
di Pietro”18.
Nulla di più: neppure una riga sulla
“missione papale” di Pietro, né alcun accenno ad una sua presenza a
Roma.
La prima testimonianza storica
La prima testimonianza che attesta
l’istituzione della chiesa di Roma da parte di Pietro e Paolo
è quella di Ireneo, vescovo di Lione, ed è datata
intorno al 180
“Ma poiché sarebbe troppo lungo in quest’opera enumerare le successioni di tutte le Chiese, prendiamo la
Chiesa più grande e la più importante e conosciuta da
tutti, fondata e istituita a Roma dai due gloriosissimi
apostoli Pietro e Paolo, e, mostrandone la tradizione
ricevuta dagli apostoli e la fede annunciata agli uomini
che giunge fino a noi attraverso le successioni dei vescovi, confondiamo tutti coloro che in qualunque modo,
o per infatuazione o per vanagloria o per cecità e per
errore di pensiero, si riuniscono oltre quello che è giusto. Con questa Chiesa infatti, per la sua più forte preminenza, è necessario che concordi ogni Chiesa, cioè
i fedeli che da ogni parte del mondo provengono; con
essa, nella quale da coloro che da ogni parte proven Dialogo 100, 4 PG 6, 709 C. In Dial. 106, 3 si rifà a Mc 3, 16
per dire che Gesù ha dato a un apostolo il nome di Pietro
gono fu sempre conservata la tradizione che discende
dagli apostoli”19
Si tratta di una vera affermazione non solo della
fondazione della Chiesa di Roma da parte
di Pietro e Paolo, ma soprattutto del suo
primato su tutte le altre chiese. Come si
spiega questa innovazione straordinaria che, all’improvviso, stabilisce
una gerarchia fra le varie comunità,
affermando di fatto quel primato
della chiesa di Roma che ha condizionato e condizionerà l’intera
storia del mondo occidentale?
Cosa è accaduto fra il 160 e il
180 per determinare tutto questo?
La costruzione del primato
del vescovo di Roma
Tutta la storia delle comunità cristiane fino alla tarda seconda metà
del II secolo ci mostra l’importanza dei vari vescovi sparsi in tutto
l’impero, dei loro contatti e delle
loro dissertazioni dottrinali: le
sedi di Antiochia, Smirne, Alessandria, Lione, Cartagine, Cesarea e così via espressero illustri teologi,
ognuno dei quali proponeva una sua visione della
figura del Cristo e del modo di rapportarsi a Dio.
In questo contesto il vescovo di Roma non risulta
godere di una particolare autorità, se non quella legata al prestigio dell’Urbe.
Nell’anno 155 circa venne eletto a capo della comunità romana un siriano di nome Aniceto. Durante gli
anni del ministero, terminato con la sua morte nel
166, accaddero degli eventi importanti che potrebbero darci una spiegazione del giallo legato all’origi-
18
Ireneo di Lione, Adv. haer. III, 2
19
FORUM - GIUGNO/10
ne del primato del papato.
Il primo di tali eventi fu una visita
illustre: da Smirne, all’età di 80
anni, nel 154 venne a trovarlo a
Roma il vescovo Policarpo, l’ultimo discepolo diretto dell’evangelista Giovanni, su mandato di
tutte le altre chiese d’Asia, per
tentare di trovare un accordo
sulla data di celebrazione della
Pasqua. Con tale visita le chiese
asiatiche riconoscevano esplicitamente il vescovo di Roma come
portavoce delle chiese d’Occidente, stabilendo così un precedente
importante20.
Qualche anno dopo, sotto l’imperium di Marco Aurelio, esplose
l’eresia montanista, con la sua
svalutazione dell’autorità vescovile e del clero e la creazione di
disordini, derivanti da una predicazione estatica estrema che
induceva le folle ad esaltazione,
che turbavano la relativa tranquillità che i cristiani si erano
conquistata dopo Domiziano.
dannati a morte e le persecuzioni ripresero a ritmi accelerati. Gli
stessi Policarpo e Giustino furono
suppliziati.
Egesippo ed Aniceto
Poco tempo prima era arrivato
Roma dalla Palestina lo storico
Egesippo21, un ebreo convertito
che citava dall’ebraico, conosceva
il Vangelo degli Ebrei e un Vangelo siriaco, ed era esperto delle
tradizioni giudaiche non scritte.
Fu certamente vicino ai vescovi
di Roma che si succedettero in
quegli anni: Aniceto, Sotero ed
Eleuterio compiendo perfino una
missione a Corinto per conto della chiesa di Roma.
Ebbene Egesippo, forte delle sue
conoscenze storiche e della sua
perizia nelle lingue orientali, per
primo scrisse:
“Quando arrivai a Roma, ho scritto la successione dei vescovi fino
ad Aniceto, e a Sotero Eleutero. E
in ogni successione e in ogni città
tutto funziona secondo le ordinanze della Legge, e i Profeti, e il Signore”.
A causa di queste esagerazioni si
fece di ogni erba un fascio confondendo cristiani e montanisti.
Moltissimi vescovi furono con In Oriente si celebrava la Pasqua alla
maniera ebraica, e cioè nel quattordicesimo giorno del mese di Nisan,
indipendentemente dal giorno della
settimana, mentre secondo la Chiesa
Romana bisognava celebrare la Pasqua
di domenica. Policarpo ed Aniceto non
raggiunsero un accordo, ma si lasciarono in buoni rapporti..
20
Egesippo (110 c.ca – 180 c.ca) ci viene descritto da Eusebio come un ebreo
convertito, che citava dall’ebraico, conosceva il Vangelo degli Ebrei e un Vangelo siriaco, e citò anche delle tradizioni
giudaiche non scritte. Sembra che sia
stato a Corinto e a Roma, raccogliendo
di volta in volta le dottrine delle varie
chiese che visitava, e accertandosi che
fossero in conformità con Roma. Scrisse una “Storia della Chiesa” e apologie
contro le eresie, tutte oggi perdute.
21
69
Nell’elenco Egesippo attesta
che Pietro fu il primo vescovo di
Roma, contrariamente a tutte le
fonti precedenti. Non mi è stato
facile capire questo passaggio,
anche perché ogni testo moderno
che parli di Pietro inizia con frasi
che richiamano quella, ingenuamente categorica, di Don Bosco
nella introduzione alla sua opera
su Pietro:
“Mettere in dubbio la venuta di san
Pietro a Roma è lo stesso che dubitare se vi sia luce quando il sole
risplende in pieno mezzodì; perciò
la sola ignoranza o mala fede può
esserne cagione”.
Non voglio né posso prendere
una posizione o fare alcuna ipotesi su una contraddizione nata
oltre 1.800 anni fa, e mi sono
limitato a riportare fedelmente
le fonti. Tuttavia non posso esimermi dal condividere con il lettore una scoperta in cui mi sono
casualmente imbattuto durante
i mesi di ricerche impegnate nel
tentativo di trovare una spiegazione ad un problema storico che
presentava troppe incongruenze.
Fin dagli anni della mia infanzia
nella biblioteca di famiglia esisteva una polverosa edizione in
tre volumi, intitolata “Storia del
Cristianesimo” di Ernesto Buonaiuti. Ho iniziato a leggerla con
la sensazione che si trattasse di
uno studio di grandissimo valore storico ed esegetico, mirabil-
STORIA
70
mente scritta e piena di intuizioni interessanti. Incuriosito dalla
biografia dell’Autore22 ho cercato
di approfondirne la figura, scoprendo un gigante sfortunato
che, pur avendo subito, oltre
alla scomunica, anche una sorta
di “damnatio memoriae” (infatti
in tutte le mie ricerche storiche
non ho mai trovato un rimando
Vedi riquadro
22
Don Ernesto Buonaiuti (Roma, 24
aprile 1881 – Roma, 20 aprile 1946)
fu un sacerdote, storico, antifascista, teologo, accademico italiano,
studioso di storia del Cristianesimo
e di filosofia religiosa, fra i principali
esponenti del modernismo italiano.
Scomunicato e ridotto allo stato laicale dalla Chiesa cattolica per aver
preso le difese del movimento modernista, il movimento di riforma del
cattolicesimo condannato nel 1907
da Pio X. Docente di Storia del cristianesimo alla Sapienza di Roma,
nel tentativo di conciliare la religione
con il pensiero moderno e i raggiunti
traguardi scientifici predicò il ritorno
ai valori della chiesa primitiva attraverso un’analisi critico-filologica del
Vangelo. Nel 1926 gli venne inflitta
la massima scomunica che impediva
a ogni buon cattolico di avvicinarlo.
Accusato dal Sant’Uffizio, attaccato
dall’”Osservatore Romano” e dalla
“Civiltà Cattolica”, usato come oggetto di scambio tra il regime fascista
e la Santa Sede durante la stesura
del Concordato del 1929, vittima di
veri complotti ecclesiastici tesi ad
allontanarlo dall’insegnamento, Buonaiuti rinunciò alla cattedra solo nel
1931, rifiutando di giurare fedeltà
o una citazione alle sue opere)
è rimasto talmente cattolico da
scrivere, alla fine della sua vita,
le seguenti parole:
“Il Cristianesimo è l’unica democrazia possibile; perché in nessun’altra forma di vita religiosa, come in
nessun’altra visione filosofica della
vita, l’aggregato umano, il senso della solidarietà universale, la coscienza
dell’unica famiglia del mondo hanno,
come nel Cristianesimo, altrettanto
rilievo e altrettanto inconsumabile
peso”.
Il Cristianesimo, dunque, non la
gerarchia della Chiesa, lo splendore della Curia ed il suo talvolta
sinistro potere. Il Cristianesimo
dei missionari, dei buoni parroci,
di Madre Teresa, dei devoti caritatevoli.
Lutero e sulla Riforma protestante.
L’opera da cui ho tratto ampi stralci è
scritta con finalità apologetiche “per
istituire il bilancio definitivo dell’azione cristiana nella storia, ora che da
mille indizi si poteva facilmente e
sicuramente arguire che il Cristianesimo si avvicinava ad un’ora di drammatico trapasso”.
Ernesto Buonaiuti
al regime con soli altri 13 docenti.
Seminarista dell’Apollinare di Roma
insieme ad Angelo Roncalli (il futuro Giovanni XXIII) iniziò a studiare il
cristianesimo delle origini utilizzando
gli strumenti scientifici e razionalisti
del metodo positivista. L’opera di
Buonaiuti è sterminata: ha lasciato
circa tremilaottocento lavori scritti,
fra i quali importanti una “Storia del
Cristianesimo” in tre volumi, un testo sullo gnosticismo, l’autobiografia
e gli studi su Gioacchino da Fiore, su
Il Cristianesimo, nato come annuncio di palingenesi, veicolava un vastissimo programma sociale “che
imponeva un progressivo arricchimento concettuale e un inquadramento disciplinare sempre più rigido.
Per vivere e fruttificare nel mondo,
il Cristianesimo fu condannato così a
snaturarsi e a degenerare”. La sola
salvezza per la Chiesa e per la società moderna è, per Buonaiuti, il ripristino dei valori elementari del Cristianesimo primitivo: l’amore, il dolore,
rimorso, la morte.
Buonaiuti si dichiara cattolico e dichiara di voler rimanere tale usque
dum vivam, come scrisse alla facoltà
di teologia di Losanna, la quale gli rifiutò la cattedra di storia del cristianesimo poiché egli non aveva accettato la condizione di aderire a quella
Chiesa Evangelica.
FORUM - GIUGNO/10
Buonaiuti ha avuto il coraggio,
che ha pagato duramente sia alla
chiesa che al fascismo, di scrivere – a differenza di altri che
spesso hanno voluto trovare ciò
che cercavano – ciò che aveva
trovato. Lascio dunque alle sue
parole il compito di concludere
con un’ipotesi molto interessante
la mia ricerca sulla improbabilità
della venuta di Pietro a Roma e
sulle cause primigenie del primato della sede apostolica romana.
“La storia del costituirsi e dell’evolversi della Chiesa romana e dei
suoi poteri primaziali è senza dubbio uno degli aspetti più romanzeschi e più sorprendenti della Storia
del Cristianesimo.
In questo campo più che negli altri
di tale storia, la leggenda ha cosi
profondamente investito i dati primordiali che vorrebbero essere il
fondamento e la giustificazione di
tali poteri, che gli storici più accorti
e più scrupolosamente preoccupati
della perfetta oggettività, riescono
a fatica a svincolare la realtà dai
rivestimenti che le hanno imposto
la capacità fabulatrice della massa
credente e l’interesse apologetico
della autorità costituita.
Quanto questo processo di elaborazione leggendaria fosse sollecito
ad attuarsi nello sviluppo dell’antica organizzazione cristiana appare
eloquentemente dal fatto che già
all’alba del quarto secolo noi vediamo, nel momento del trapasso
dell’Impero dalla professione pagana al riconoscimento pubblico
del cristianesimo, profilarsi una
concezione delle origini cristiane
tutta avvivata da presupposti favolosi e mitici che ne fanno un processo stilizzato e difforme da qualsiasi concreta verisimiglianza.
Il padre della storia ecclesiastica,
Eusebio di Cesarea, è quegli che
più validamente ha contribuito alla
divulgazione della deformata visione delle origini cristiane.
Quando egli nel 311, all’indomani
dell’editto di libertà religiosa, con
cui Galerio, imponendo un termine al regime persecutorio iniziato
otto anni prima, gettava le prime
basi della trasformazione religiosa
dell’Impero, poneva mano alla sua
grande storia del cristianesimo,
questa grande storia aveva già un
suo piano ideale. (…)
Le prime manifestazioni del potere
romano sulla Chiesa cristiana ecumenica sono incerte e titubanti. La
lettera di Clemente Romano alla
comunità di Corinto al tramonto del
I secolo non è un documento che
rispecchi una autorità di magistero
e di governo palesemente consapevole di sé e nettamente basata
su una inappellabile investitura
sovrannaturale. Non si può dire
neppure, sul terreno dei fatti e della chiara e spontanea significazione dei termini, che questa lettera
possa validamente invocarsi come
testimonianza aperta di una sicurezza della venuta di San Pietro a
Roma e di una autorità primaziale,
costituita da lui attraverso la sua
venuta ed il suo martirio. Le raccomandazioni del documento romano sono tutte esortatorie e l’ap-
71
pello alla paziente sofferenza degli
Apostoli è un appello generico ai
personaggi più insigni, che nel primo momento della disseminazione
evangelica hanno portato alla loro
fede nel Cristo il contributo della
loro devozione, della loro sofferenza e del loro amore di pace.
Nella prima metà del secondo
secolo la Cristianità romana ci si
presenta come la palestra in cui i
maestri delle varie interpretazioni cristiane cercano di esercitare
il loro magistero, di guadagnare
proseliti e di instaurare una certa
egemonia intellettuale. Roma è la
capitale di un immenso Impero ed
anche dal punto di vista della spiritualità colta rappresenta il mercato
centrale in cui tutti ambiscono di
mettere a prova le loro virtù di proselitismo e di conquista. I maestri
gnostici come i maestri dell’apologetica, Marcione come i rappresentanti dell’ispirazione profetica, che
pretende tuttora di rappresentare
l’unica continuazione logica, valida
e accreditata del primitivo messaggio evangelico, tutti, dalle più
lontane plaghe dell’Impero, affluiscono a Roma, non diversamente
dai retori, come Elio Aristide e dai
rappresentanti della cultura misteriosofica, come quel Filostrato che
cercherà di accreditare alla corte
sincretistica dei Severi la figura
ambigua e leggendaria di Apollonio di Tiana. Ma si direbbe che è
proprio in virtù della complessità eterogenea di queste correnti,
quali si profilano nel seno della comunità cristiana del II secolo, che
si viene avvertendo istintivamente
STORIA
72
la necessità di un governo e di un
magistero, che tra le varie correnti
stesse istituiscano una cernita, che
garantiscano l’autorevole e ufficiale interpretazione di un messaggio,
che si è mostrato suscettibile delle
più antitetiche interpretazioni. E
questo magistero non uscirà dal
travaglio puramente intellettuale
delle scuole e delle conventicole
colte; non sarà neppure il risultato di una valutazione comparativa
dei differenti atteggiamenti concettuali e dogmatici; ma sarà piuttosto il trionfo delle esigenze della
massa credente, sulle speculazioni
avventurose e sugli orientamenti
ultra-spirituali. Sarà in altri termini
la vittoria di quei bisogni concreti della massa associata, che, per
la disciplina collettiva, ha bisogno
di un magistero infallibile e di una
gerarchia canonizzata.
da un tutt’altro punto di vista che
quello politico, Marcione aveva voluto ricacciare l’Iddio d’Israele nel
novero dei demiurghi inferiori. Noi
non sappiamo in quale misura le
condizioni ambientali hanno favorito la disseminazione del messaggio marcionita e la costituzione di
comunità marcionitiche su tutto il
territorio dell’Impero. (…)
La propaganda antibiblica e antimosaica, paolinista a oltranza, di
Marcione, era caduta in un momento di straordinaria tensione
etnica nell’Impero Romano. Da più
di mezzo secolo Roma aveva ingaggiato la lotta all’ultimo sangue
contro l’ebraismo, perfettamente
consapevole della difformità irreconciliabile che esiste fra ogni organizzazione politica assolutistica
e lo spirito profetico, che la razza
d’Israele si porta indistruttibilmente nel cuore.
Una funzione di mediazione tra
queste varie correnti e di eliminazione di tutto quello che poteva
rappresentare uno sgretolamento
della disciplina associata non poteva che costituire una mansione
romana, una mansione cioè della
comunità che, per il fatto stesso di
vivere nella capitale dell’Impero,
era automaticamente tratta ed autorizzata ad esercitare un ministero di preminenza. A quale dei vari
elementi etnici che costituivano la
comunità romana sarebbe in particolare caduta in sorte questa opera di preminenza e di governo?
La Gerusalemme sacerdotale era
morta nel 70. Adriano aveva annientato drasticamente, con un
eccidio dalle vastissime proporzioni, le superstiti velleità insurrezionali della razza di Giuda. Partendo
ceto presiedette ai fedeli che erano
colà: sotto di lui Egesippo racconta
di essere andato a Roma e di esservi rimasto fino all’episcopato di
Eleutero»23. Quando Ireneo giunse
a Roma quale ambasciatore dei
«confessori»di Lione, Egesippo doveva ancora occupare in mezzo alla
comunità romana una posizione
preminente. Quanto meno doveva
avervi lasciato una eredità delle più
cospicue, se Ireneo si riporta a lui
come ad una autorità indiscutibile,
largamente riconosciuta.
Lo gnosticismo rappresentava
l’interpretazione del cristianesimo
cara ai ceti colti della comunità;
il marcionismo rappresentava un
paolinismo portato alle sue ultime
conseguenze. Tra poco, di contro all’uno e di contro all’altro, il
montanismo cercherà di ripristinare l’effervescenza della primitiva
esperienza messianica cristiana
annunciando la prossima palingenesi e l’inaugurazione dell’età dello
Spirito.
C’è in Eusebio (…) una pista oscura e misteriosa che vale la pena di
seguire. «A Roma, morto Pio, dopo
un episcopato di quindici anni, Ani-
Quale era di preciso questa eredità?
Noi sappiamo da Eusebio che Egesippo aveva scritto certe Memorie, la perdita delle quali rappresenta per l’antica storia cristiana
una perdita altrettanto grave che
quella dei libri esegetici di Papia. I
frammenti superstiti di queste Memorie, disseminati soprattutto nella grande opera storica eusebiana,
sono ad ogni modo tali da rivelare
una struttura logica ed una finalità
di cui bisogna tenere il massimo
conto nel definire il processo che
portò alla costituzione della gerarchia episcopale e del primato romano nella seconda metà del secondo secolo.
Questo Egesippo era un convertito dal giudaismo. Eusebio stesso
ce lo attesta nell’atto stesso in cui
raccoglie dall’opera del convertito,
che egli aveva dinanzi agli occhi, i
particolari autobiografici dell’autore. «Egesippo - così ci dice Eusebio
(IV, 22, 8) - cita il Vangelo secon Eusebio di Cesarea. Storia Ecclesiastica, IV, 11
23
FORUM - GIUGNO/10
do gli ebrei e il Vangelo siriaco, e
trae osservazioni e dati dalla lingua
aramaica, documentando come
egli sia venuto alla fede dall’ebraismo ed altre cose ricorda come
provenienti dalla tradizione orale
giudaica».
(…) Possiamo facilmente immaginarci come, arrivando a Roma,
Egesippo, neo-convertito dal giudaismo al cristianesimo, dovesse aver trovato l’ambiente ancor
tutto sossopra per la propaganda
marcionitica. Doveva essere stato
un fatto sbalorditivo quello che si
era svolto in quella comunità cristiana un trentennio prima! Un ricco armatore, passato al Vangelo,
era venuto dal lontano Ponto per
aggregarsi alla fraternità cristiana
della metropoli e come primo suo
gesto si era spogliato di tutto il suo
avere per donarlo alla comunità.
Marcione però non aveva voluto
donare alla Chiesa soltanto i suoi
beni, aveva voluto donarle anche
il suo paolinismo a oltranza. E questo era molto meno assimilabile
del pingue donativo in moneta sonante. Marcione era apparso come
un dissemi-natore di scandalo e la
comunità lo aveva respinto.
(…)Egesippo aveva potuto constatare che se la propaganda del
marcionismo si era effettuata sollecitamente, altrettanto sollecite e
vaste erano le opposizioni. Non era
un’impertinente audacia bistrattare la tradizione di Israele, antefatto profetico del cristianesimo,
e portare la mano iconoclastica
contro quei Vangeli ecclesiastici e
contro quel testo corrente dell’epi-
73
stolario paolino che erano ormai
ufficialmente riconosciuti e, quasi
si sarebbe detto, canonicamente fissati? E non era un costituirsi
correi della campagna antiebraica
scatenata da decenni dall’Impero,
insorgere contro il testo canonico
dei Vangeli e di Paolo, in nome di
presunte interpolazioni giudaizzanti?
no ora delinearsi e pullulare nel cristianesimo. «Vi furono - egli aveva
scritto - nel mondo della circoncisione, in mezzo ai figli di Israele,
varie correnti contro la tribù di Giuda e contro il Cristo. Queste varie
correnti furono: quelle degli esseni
e dei galilei, degli emerobattisti e
dei masbotei, dei samaritani, dei
sadducei e dei farisei»24.
Sebbene convertito al cristianesimo, Egesippo doveva sentirsi
l’anima lacerata ed umiliata. E
quaranta anni prima di Tertulliano egli avvertiva la necessità di
contrapporre al dilagare delle novità marcionitiche la diga infallibile
ed invalicabile di una prescrizione
salutare. (…) Nella sua fantasia di
giudeo palestinese, tutto saturo
di reminiscenze nazionali, anche
dopo l’eccidio di Gerusalemme e
anche dopo la conversione al cristianesimo, è vivo e presente il
fantasma del sacerdozio e del pontificato gerosolimitani, che Roma
ha decisamente distrutto. Le eresie
non sono una novità. Il giudaismo
le ha conosciute anche nel tempo
del suo massimo splendore. E le ha
vinte appunto col suo sacerdozio e
col suo pontificato.
Se dunque, secondo Egesippo, la
pulviscolare secessione delle eresie
si rinnova nel seno del cristianesimo, come già aveva imperversato
in seno al giudaismo, il cristianesimo, continuazione del giudaismo,
doveva, per difendersi, seguire la
prassi del giudaismo stesso, e fare
ricorso ad un sacerdozio organizzato e ad un pontificato legittimamente legiferante e amministrante
le realtà sacre.
(…) “Come fare ora per resistere
efficacemente e universalmente
agli pseudo-cristi, agli «pseudoprofeti, agli pseudo-apostoli che
hanno lacerato l’unità ecclesiastica, con discorsi dissolvitori contro
Dio ed il suo Cristo?».
(…)Secondo Egesippo non c’era che
un mezzo valido e bene sperimentato. E questo mezzo era di cercare dovunque la trasmissione apostolica nella successione vescovile.
Ed ecco dunque scoperto il metodo
infallibile per la conservazione e
la tutela fedele della trasmissione
cristiana: la Diadoché costituirà la
difesa invulnerabile della purezza
e della immutabilità della Didaché.
La Chiesa cristiana dovrà raccoglierne l’esempio e procedere, facendo ricorso ai medesimi sistemi
ed ai medesimi metodi.
Un frammento delle sue memorie
conservatoci da Eusebio lascia chiaramente supporre che Egesippo si
compiacesse straordinariamente di
riscontrare nella tradizione religiosa del suo popolo i precedenti dei
movimenti ereticali che si vedeva-
Eusebio di Cesarea, Storia Ecclesiastica, IV, 22, 7
24
STORIA
74
Ne sarà anzi senz’altro il surrogato
equivalente.
Se noi ci indugiamo su questo apporto di Egesippo alla costituzione
ed alla continuità dottrina le cristiana, è unicamente per l’enorme
importanza che questo apporto ha
avuto nello sviluppo della cristianità occidentale. Riferendosi alle memorie di Egesippo, Eusebio ci dice
che il loro autore, nel suo viaggio
verso Roma, aveva assiduamente tentato di stringere rapporti
con numerosi vescovi, cercando
di constatare presso di loro la incorrotta unità della dottrina. Roma
però rappresentava la più assillante preoccupazione del suo spirito.
Qual mai successo sarebbe stato
quello di Israele se nella capitale
dell’Impero che aveva abbattuto la
città santa, che aveva innalzato nel
Foro un arco di trionfo a chi aveva sovvertito il Tempio, e che con
Adriano aveva ignominiosamente
profanato il santo dei santi, fosse
sorta una organizzazione religiosa
analoga e conforme a quella che
aveva avuto nel Tempio il suo centro e il suo palladio!
Bisogna riconoscere che Egesippo
non era uomo dai propositi timidi e
dalle capacità circoscritte. Un frammento delle sue memorie ci mostra
come, tornato in Palestina, egli si
potesse vantare di quel che aveva
fatto a Roma. Dice infatti: «Giunto a Roma redassi la tavola della
successione apostolica fino ad Aniceto, di cui Eleutero era diacono.
Dopo Aniceto, successore Sotero,
dopo il quale Eleutero. In ciascuna
delle successioni apostoliche e in
ciascuna città, tutto si svolge come
la legge insegna e come insegnano
i profeti e il Signore». La Diadoché nella concezione di Egesippo è
dunque una catena che risale alla
legge di Mosè e scende fino ai continuatori del Signore.
In nome di Paolo, Marcione aveva segnalato spietatamente tutte
quelle che gli apparivano antitesi
inconciliabili fra la legge di Mosè
e il Vangelo del Cristo. Egesippo,
ebreo convertito, aveva anche egli,
come Marcione, traversato l’Impero col proposito inverso: reintegrare la perfetta continuità e l’assoluta coerenza tra la legge di Mosè e il
messaggio del Dio buono. Questa
continuità e questa coerenza erano raccomandate alla successione episcopale e dalla successione
apostolica erano garantite.
Ma su quali argomenti Egesippo
fondava questa sua armonistica
visione dell’opera del Verbo nel
mondo?
Eccoci dinanzi al punto più oscuro
ed alla zona più delicata in tutto il
processo di sviluppo dell’organizzazione cristiana nel secondo secolo. Ma non è azzardato tentare
una soluzione dell’enigma, mercé
una plausibile ipotesi di lavoro.
Marcione aveva fatto fulcro per la
sua propaganda del pensiero paolino. Al Paolo marcionita non poteva contrapporsi che Pietro. I due
nomi erano già da lunga pezza abbinati nelle memorie romane. Egesippo, che si era fermato a Corinto, doveva ben conoscere la lettera
che non molto meno di un secolo
prima Clemente aveva diretto in
nome della comunità romana alla
comunità di colà.
Venuto a Roma, Egesippo doveva
avere raccolto tutte le tradizioni locali che legavano leggendariamente il passaggio di Pietro e Paolo,
avviati verso Roma, con una lussuosa villa dell’Appia antica e individuavano al Vaticano e sulla via
Ostiense il luogo del loro martirio e
del loro sepolcro. Se nel pensiero di
Egesippo la successione vescovile
nelle grandi città dell’Impero costituiva la salvaguardia e la garanzia
della immutabile integrità dottrinale, qualcosa veramente si sarebbe
dovuto dire che mancasse alla riproduzione perfetta dell’organismo
pontificale del Tempio gerosolimitano nell’ambito del cristianesimo,
se la ecumenicità episcopale della
nuova diaspora non avesse avuto
anche essa un centro unico di irradiazione e di disciplina.
Marcione aveva fatto di Paolo l’unico interprete genuino del Cristo, in
quanto questi aveva abbattuto in
radice la vecchia legge e le morte tradizioni mosaiche. A Marcione
non importava affatto che il cristianesimo avesse degli antecedenti:
quel che a lui premeva era piuttosto l’inconguagliabile originalità del
messaggio della bontà e dell’amore. Paolo aveva detto qualcosa di
simile: Marcione lo ripeteva a suo
modo.
Trattandosi di salvare invece la
continuità sostanziale tra «la Legge, i Profeti, il Signore», non c’era
a portata di mano che un mezzo:
riabilitare e celebrare quel Pietro,
col quale Paolo si era trovato così
FORUM - GIUGNO/10
aspramente a conflitto. La bisogna
era straordinariamente facile. O
che forse non era stato Pietro quegli che, secondo i Vangeli così di
Matteo come di Marco e di Luca,
aveva riconosciuto per primo nei
paraggi di Cesarea di Filippo che
Gesù era il Cristo?25
Qui veramente Egesippo capitava in buon punto. Egli era privilegiatamente agguerrito per fare
di quell’episodio la chiave di volta
del sistema gerarchico dogmatico,
quale egli lo sognava, sul modello
del sistema gerosolimitano, argine
efficace al dilagare anarchico dello
spiritualismo marcionita.
Nella sua redazione primitiva quale è quella conservataci intatta nei
Vangeli di Marco e di Luca, l’episodio di Cesarea di Filippo tradiva
uno schematismo semplice e lineare. Pietro vi professava apertamente, in nome di tutti i suoi
compagni nella sequela di Gesù, la
messianicità del Maestro.
Gesù accoglieva la confessione
solenne imponendo il segreto in
argomento e contrapponendo al
ri-conoscimento esplicito della sua
messianicità l’annuncio dell’imminente tragico epilogo a Gerusalemme. Questo, puro e semplice,
l’episodio nelle sue linee embrionali.
Ma nello spirito di credenti avviati
verso la costituzione organica della società uscita dalla delusa fede
nell’imminente inaugurazione del
Regno, quel riconoscimento solenne di Pietro non era cosa da la-
Filippo26. Facendosi forte della sua
grande maestria in fatto di lingua
aramaica, forse subcoscientemente travagliato e sedotto dal fantasma della successione apostolica,
Egesippo può avere egli stesso
introdotto nel racconto matteano dell’episodio di Cesarea questo giuoco di parole che, con uno
scambio di termini suggerito dal
nome dell’Apostolo più rumoroso,
finisce con l’investire Pietro di un
potere di cui si sarebbero sempre
più allargati e rafforzati i confini.
sciarsi passare senza un adeguato
corrispettivo. Oramai che Marcione
aveva con così impertinente irriverenza scalzato in radice l’autorità
dei Dodici, per fare di Paolo l’unico vero Apostolo e di quegli che
era stato amico e medico di Paolo
l’unico evangelista degno di fede,
occorreva assolutamente ristabilire lo spezzato equilibrio, non solamente assicurando alla successione apostolica l’integro deposito
della fede, ma ponendo anche Pietro al vertice della gerarchia e immaginandolo investito da Gesù di
un imperituro potere primaziale.
A Roma, in un momento criticissimo dello sviluppo disciplinare ecclesiastico, ai primi sentori della
crisi montanistica, dovettero essere ben felici di scoprire il fondamento giuridico del potere di Pietro
e dei suoi successori.
Sulla base della testimonianza di
Papia, il Vescovo millenarista di
Gerapoli in Frigia, si sapeva nella
comunità cristiana che Matteo aveva originariamente dettato il suo
Vangelo in aramaico: ebraidi dialecto. Ma Egesippo era maestro in
aramaico. Eusebio ci attesta questa perizia in aramaico di Egesippo
con una frase straordinariamente
significativa:
I latino-africani, che dovevano
costituire allora il nucleo più imponente e più accreditato della comunità romana, dovettero essere
ben grati alla sapienza aramaistica
di Egesippo che con le sue sottigliezze linguistiche riusciva a dare
ad uno degli episodi salienti della
narrazione evangelica una portata
nuova ed una significazione preziosa27».
«In particolare trae parecchie cose
dalla lingua aramaica ».
Saremmo legittimamente curiosi
di sapere con esattezza quali sono
queste parecchie cose che Egesippo trae «dalla lingua aramaica». E
siamo naturalmente tentati di pensare che tra quelle parecchie cose
debba essere compreso il giuoco
di parole perfettamente aramaico
che il Vangelo di Matteo suppone
istituito da Gesù sul nome Cefas, al
momento della confessione messianica nei paraggi di Cesarea di
Quindici anni dopo il vescovo
Dionigi di Corinto, nella sua lettera alla chiesa romana durante il
pontificato di papa Sotero (165174) scriveva
«Dovete quindi, con la vostra più
Cfr. nota 41
26
E. Buonaiuti, “Storia del Cristianesimo
vol. I” dall’Oglio, 1942
27
Mt. 16, 16; Mc. 8, 29; Lc. 9, 20
25
75
STORIA
76
vivida esortazione, riunire insieme
i prodotti della semina di Pietro e di
Paolo a Roma ed a Corinto. Poiché
entrambi hanno seminato la parola del Vangelo anche a Corinto,
e insieme lì ci hanno istruiti, nello
stesso modo in cui insieme ci hanno istruiti in Italia ed insieme hanno patito il martirio»
Neanche quaranta anni dopo Tertulliano affermava che la preminenza di Roma è legata al fatto
che tre apostoli, Pietro, Paolo e
Giovanni, vi hanno insegnato e
i primi due vi sono morti martiri:
«Si autem Italiae adiaces, habes
Romam... Ista quam felix ecclesia
cui totam doctrinam apostoli cum
sanguine suo profuderunt, ubi
Petrus passioni dominicae adaequatur, ubi Paulus Iohannis exitu
coronatur, ubi apostolus Iohannes
posteaquam in oleum igneum demersus nihil passus est, in insulam
relegatur. 28».
Era così nata e si era consolida Tertulliano, “De praescr. Haer.» 36. Il
passo mostra chiaramente l’inattendibilità di Tertulliano, che evidentemente
scriveva per “sentito dire”. Infatti egli
confonde l’apostolo Giovanni con Giovanni evangelista e per far tornare i
conti gli fa superare il supplizio dell’olio
per poi rimetterlo al suo posto nella
storia, con l’esilio a Patmos.
28
ta, dapprima timidamente e poi
con più chiarezza, una verità che
avrebbe legittimato per secoli il
primato della chiesa di Roma su
tutte le altre diocesi, conferitole
dalle parole di Gesù a Pietro e dal
suo magistero nell’Urbe.
Al punto che Callisto, nel 220,
una cinquantina di anni dopo
Egesippo, applicandosi ai suoi testi, affermava di avere il potere
di legare e sciogliere e quindi di
accogliere nella Chiesa anche gli
adulteri, in quanto la sua Chiesa
“era vicina al sepolcro di Pietro”.
Quanto a tale sepolcro, portato
da molti come prova definitiva
della presenza e del martirio di
Pietro a Roma dopo le scoperte di
Margherita Guarducci29, esso pre «Nei sotterranei della Basilica Vaticana
ci sono i fondamenti della nostra fede.
La conclusione finale dei lavori e degli studi risponde un chiarissimo sì: la
tomba del Principe degli apostoli è stata
ritrovata». Così papa Pio XII diede l’incauto annuncio, a conclusione del Giubileo del 1950, del riconoscimento della
sepoltura di Pietro, di cui aveva ordinato le ricerche per soddisfare le volontà
di Pio XI, che nel suo testamento aveva
chiesto di essere sepolto “quanto più
vicino fosse stato possibile alla Confessione di San Pietro”.
29
senta allo sguardo dello storico
che considera come “vero” solo
ciò che può essere provato con il
metodo filologico sperimentale,
lo stesso ironico stupore che dovettero suscitare agli stoici del IV
secolo le reliquie portate a Roma
da Elena, madre di Costantino.
La tomba di Pietro
Poiché da diversi secoli la cripta
sottostante l’altare papale accoglieva le tombe dei papi scomparsi, Pio XII ordinò di risistemare l’area perché vi si potesse
accogliere il sarcofago di Pio XI.
Gli scavi vennero affidati al professor Enrico Josi, ai gesuiti Antonio
Ferrua ed Engelbert Kirschbaum,
all’architetto Bruno Maria Apollonj Ghetti e furono svolti sotto
la direzione di monsignor Ludwig
Kaas. Appena si iniziò a scavare
fu chiaro che ci si era imbattuti
in una “piccola Pompei” ricca di
sepolture e resti di antichi muri,
un’antica necropoli che sorgeva a
nord del circo di Nerone con grandi stanze coperte a volta, ornate
FORUM - GIUGNO/10
con pregevoli pitture, decorazioni a stucco e talvolta mosaici.
In particolare sotto l’altare della
Confessione venne ritrovato un
piccolo campo funebre per tombe
interrate, delimitato su un lato da
un muro dipinto di rosso, databile al II secolo, circondato da un
muro di protezione di era costantiniana con iscrizioni graffite che
invocano Cristo e Pietro, oltre ad
una scritta dubbiosamente interpretata in “PETRUS ENI” (vedi foto
in testa di pagina). La tomba però era
priva di resti umani. Si evitò di
fare altra pubblicità e sull’intera
faccenda calò il silenzio.
Tre anni dopo l’illustre storica ed
epigrafista cattolica Margherita
Guarducci (nella foto) scese sotto
l’altare papale a studiare i graffiti.
“Mentre mi scervellavo – scriverà
poi la Guarducci - per trovare una
via dentro quella selva selvaggia,
mi venne in mente che forse mi
sarebbe stato utile sapere se
qualche altra cosa fosse stata trovata nel sottostante loculo, oltre i
piccoli resti descritti dagli scavatori nella relazione ufficiale”.
Parlando col sampietrino Giovanni Segoni, costui confessò che dei
resti umani erano stati trovati nel
loculo da lui e Kaas (nel frattempo
deceduto), ma erano stati asportati per poterli archiviare. In un
magazzino della Reverenda Fabbrica della Basilica di San Pietro,
dunque, la Guarducci rinvenne la
cassa fatidica, opportunamente
catalogata.
Padre Ferrua, anche a nome degli
altri tre protagonisti dello scavo,
su pressante invito del sostituto
mons. Giovanni Benelli, entrò in
polemica con la Guarducci, facendo pervenire alla Segreteria di
Stato un memoriale di 11 pagine
in cui affermava ancora una volta
che non s’era trovata alcuna reliquia di san Pietro.
Tuttavia la Guarducci continuò a
sostenere la sua tesi di fronte a
Paolo VI, con una replica di ben
45 pagine. “La solita valanga di
parole in mancanza di fatti precisi”, commentò Ferrua su «Civiltà
Cattolica». Paolo VI, però, dette
ragione alla Guarducci
La contestata cassetta conteneva dunque le ossa di Pietro? La
Guarducci era eccitata e convinta di aver trovato le reliquie
dell’apostolo e le fece sottoporre
ad esame antropologico che confermò trattarsi dello scheletro di
un uomo anziano (60/70 anni),
avvezzo alla fatica fisica. Tali ossa
risultavano essere sporche della
77
terra del colle, e di frammenti
dell’intonaco del muro rosso ed
erano state avvolte, prima della
deposizione, in un elegante panno di lana colorato di porpora e
intessuto d’oro. Invece di pensare, come farebbe un normale
uomo di scienza non accecato
dall’appartenenza religiosa, che
tutto quello che aveva dimostrato era che in quel punto era
stato sepolto un ricco, anziano e
robusto romano del II secolo, la
Guarducci concluse che la scritta
che “forse” recitava PETRUS ENI
era la prova che quelle erano le
ossa del giudeo del I secolo, apostolo di Gesù, e non forse che si
trattasse di qualcuno che, magari
per devozione ai vangeli, si fosse
ugualmente chiamato Pietro.
Quanto al fatto che i resti erano stati dimenticati, secondo la
Guarducci si trattò di una somma
di strane coincidenze: lo scavo
era avvenuto in condizioni difficili, c’era la guerra e la consegna
del silenzio era molto forte.
Della Guarducci il vicepresidente
del Senato Domenico Contestabile ebbe a scrivere:
“La professoressa Guarducci (non
voglio metterne in discussione la
buona fede) è una archeologa che
ha grandi ed illustri precedenti,
Schliemann ed Evans: trova quello
che ha deciso di trovare”.
Il 26 giugno 1968 Paolo VI, durante l’udienza pubblica nella
STORIA
78
Basilica Vaticana, con una certa
impudenza, ma attento a perpetuare quel culto delle reliquie che
tanti pellegrini ed offerte aveva portato in Vaticano da secoli,
ebbe il coraggio di annunciare :
«Nuove indagini pazientissime
e accuratissime furono in seguito eseguite con risultato che noi,
confortati dal giudizio di valenti e
prudenti persone competenti, crediamo positivo: anche le reliquie di
san Pietro sono state identificate in
modo che possiamo ritenere convincente, e ne diamo lode a chi vi
ha impiegato attentissimo studio e
“Silvestro e Costantino”
affresco (metà dell’VIII sec.) nell’Oratorio di San Silvestro, Roma
lunga e grande fatica. Non saranno esaurite con ciò le ricerche, le
verifiche, le discussioni e le polemiche. Ma da parte nostra ci sembra doveroso, allo stato presente
delle conclusioni archeologiche e
scientifiche, dare a voi e alla Chiesa questo annuncio felice, obbligati come siamo a onorare le sacre
reliquie, suffragate da una seria
prova della loro autenticità [...] e
nel caso presente tanto più solleciti
ed esultanti noi dobbiamo essere,
quando abbiamo ragione di ritenere che siano stati rintracciati i pochi, ma sacrosanti, resti mortali del
Principe degli apostoli».
Poi ordinò di sigillare nel loculo le
ossa, chiuse in scatole di plexiglas insieme ad una iscrizione in
cui si dice che quei resti “si pensa” siano dell’Apostolo Pietro.
Oggi tali resti sono nuovamente
visibili dai fedeli, che si accostano
trepidanti e devoti come facevano 1.700 anni fa con reliquie eleniane come i tre chiodi ed i frammenti della croce di Cristo.
È singolare che ancora oggi,
ignorando la dinamica dei fatti, ci siano un’infinità di cattolici
che sostengono come quei resti
FORUM - GIUGNO/10
e quella sepoltura siano la prova
del soggiorno di Pietro a Roma!!!
La definitiva consacrazione
del primato di Roma
Con il papa Leone I, detto Magno30 (440-461) il primato di
Roma diviene legittimo ed ufficiale, perché sancito da un editto
di Valentiniano III datato 8 luglio
445 in cui venivano appoggiate le misure prese del papa nei
confronti di alcuni vescovi delle
Gallie, e veniva solennemente riconosciuto il primato del vescovo
di Roma sull’intera Chiesa31. Tale
editto riconosceva che il primato
del vescovo di Roma era basato
sui meriti di Pietro, la dignità della
città e il Credo di Nicea; ordinava, inoltre, che ogni opposizione
alle sue decisioni, che avrebbero
avuto forza di legge, doveva essere trattata come tradimento e
che chiunque si fosse rifiutato di
rispondere agli avvertimenti di
Roma avrebbe dovuto essere ivi
estradato da parte dei governatori provinciali.
Questo titolo si rafforzò notevolmente nel 607 quando l’imperatore Foca, che aveva visitato
Roma e la colonna commemorativa del quale ancora si erge nel
Foro romano, per contraccambia Il Papa che andò incontro ad Attila, re
degli Unni e ne scongiurò la marcia su
Roma
30
Epist. Leonis, ed. Ballerini, I 642
31
re l’amicizia del vescovo di Roma,
riconobbe la supremazia della
“sede apostolica di Pietro su tutte le chiese” (caput omnium ecclesiarum) e vietò al patriarca di
Costantinopoli di usare il titolo di
“universale” che da quel momento doveva essere riservato solo al
vescovo di Roma, Bonifacio III.
Talmente era necessaria una legittimazione incontestabile su un
primato papale che non era nel
DNA del sistema religioso cristiano, sia per le rivalità delle diocesi, sia per le interferenze del
potere secolare che voleva condizionarle per i propri scopi, che
in epoca carolingia (tra il 750 e
l’830) venne creato su mandato
della Curia (ma non conosciamo
esattamente sotto quale Papa)
un falso, noto come la “donazione di Costantino” per avvalorare
i diritti della Chiesa sui vasti possedimenti territoriali in Occidente
e per legittimare le proprie mire
di carattere temporale ed universalistico.
Nel documento si attestava:
«In considerazione del fatto che il
nostro potere imperiale è terreno,
noi decretiamo che si debba venerare e onorare la nostra santissima
Chiesa Romana e che il Sacro Vescovado del santo Pietro debba essere gloriosamente esaltato sopra
il nostro Impero e trono terreno.
Il vescovo di Roma deve regnare
sopra le quattro principali sedi, An-
79
tiochia, Alessandria, Costantinopoli e Gerusalemme, e sopra tutte le
chiese di Dio nel mondo...
Finalmente noi diamo a Silvestro,
Papa universale, il nostro palazzo e
tutte le province, palazzi e distretti della città di Roma e dell’Italia e
delle regioni occidentali».
Peccato che alla presunta data
della donazione Costantinopoli
non fosse ancora stata fondata!
Comunque a tale documento si
riferirono molti papi, il più scandaloso dei quali fu Alessandro VI
Borgia, (nel 1.500!) che lo riesumò per giustificare il suo intervento nella disputa tra Spagna e
Portogallo sul dominio delle Americhe.
PSICHE
80
L’interpretazione falsata e deviante del
Corano, sviluppatasi da poco più di un
secolo, ha prodotto una vera patologia
culturale nei maschi islamici: del tutto
paradossale, perché sessuofobica da un
lato e maniacale dall’altro.
Il segreto del velo
(articolo estratto dal libro
“AfricAzonzo”
di prossima pubblicazione)
di Piero Priorini*
Sono radicalmente convinto che ogni cultura possa essere compresa solo usando i
parametri e i valori propri di quella stessa
cultura, e i libri che scrivo sono una testimonianza di quanto io sia lontano dal considerare la civiltà alla quale appartengo la
più evoluta, la “migliore possibile” e, dunque, quella dall’alto della quale sputare
sentenze. Orribili mali dell’anima deturpano la società moderna occidentale, ma
questo non dovrebbe esonerare nessuno,
munito di oneste intenzioni, di studiare i
mali degli altri.
*psicoterapeuta.
Devo fare una premessa fondamentale:
non ho mai sopportato che un qualsiasi
uomo, moderno occidentale, si permetta
di emettere giudizi superficiali e sentenze
gratuite su tradizioni e comportamenti di
culture “Altre” e diverse dalla propria.
Scrivo tutto questo perché la frase con
cui avanzo dei dubbi sull’equilibrio psichico di molti maomettani potrebbe sembrare quanto meno una mia paradossale
incoerenza, se non addirittura un giudizio
superficiale, inopportuno e incompetente,
fondato su una sorta di gratuita antipatia
per certi costumi propri dell’Islam.
Ma non è così.
FORUM - GIUGNO/10
Un
possente elemento
maschilista,
sessista
e
opportunista serpeggia
nell’animo di
molti musulmani, anche
in quello dei
più tolleranti,
moderni e illuminati.
Quando, molti anni fa –
prima nel Bangladesh, poi
in Egitto - mi accorsi delle
assurde reazioni di concupiscenza che molti uomini
esprimevano nei confronti
della più piccola e insignificante provocazione femminile, seguite subito dopo
da fastidio, intolleranza ed
estrema violenza, compresi che, se volevo davvero
capire di cosa si trattasse,
dovevo immergermi spregiudicatamente nello studio della loro cultura e della
loro religione.
La frequentazione assidua
di paesi di religione islamica, l’attenzione e il fascino
discreto che avevo sempre
provato verso molti dei loro
costumi, facilitarono la mia
determinazione: per tre
anni dedicai tutti i miei sforzi
allo studio particolareggiato
dell’Islam. Mi sforzai di entrarvi dentro, di lasciarmene assorbire acriticamente,
rimandando a poi il vaglio
della ragione. Non posso
sapere fin quanto in là mi
sia spinto, ma certo non ho
lesinato energie; e se oggi
dico ciò che dico, non è certo per superficialità o ignoranza, bensì per modesto
convincimento. Con un’unica pregiudiziale: ho sempre
fatto lo psicoterapeuta, ho
81
una formazione clinica, ed
è perciò possibile che una
sorta di distorsione professionale infici la mia visione
del mondo e della vita. Ne
chiedo venia.
Ciò detto: quando iniziai a
studiare l’Islam, visto che
davvero volevo capire come
stavano le cose, iniziai dal
principio. Con la vita del
profeta Abu al-Qasim Muhammad e la sua Rivelazione. E, subito, rimasi sorpreso e affascinato! Perché
Maometto, fino ai suoi 40
anni, epoca della Rivelazione, aveva vissuto una vita
semplice, come pastore di
dromedari, prima, e come
commerciante-carovaniere
poi, compensando in un
qualche modo il fatto di essere del tutto analfabeta.
Da tutti coloro che lo conoscevano era soprannominato al-Amin “l’onesto”,
non solo per la correttezza dei suoi scambi commerciali ma, anche, per la
moralità con cui conduceva
la propria vita. Di costumi
riservati e morigerati, era
solito infatti dedicare molto tempo della sua giornata
alla preghiera e alla meditazione. E fu proprio durante uno di suoi frequenti ritiri
Sembrerebbe
che un certo
“bipolarismo
clinico” sia insito nell’Islam
come, d’altra
parte, in tutte le religioni
monoteiste
“rivelate”, di
origine
patriarcale.
PSICHE
82
sul monte Haira che, inaspettatamente, l’Arcangelo Gabriele si rivelò alla sua anima dettandogli le
prime Sura di quella raccolta che
sarebbe poi divenuta il Corano.
La cosa però davvero straordinaria fu che un pastore, del tutto
incapace di leggere e scrivere,
iniziò a recitare versi di una bellezza impareggiabile. Versi che
ancora oggi possono essere considerati una delle più alte espressioni poetiche che l’uomo abbai
mai prodotto. L’Arcangelo rivelava. Maometto ricordava, grazie
alla prodigiosa memoria per la
quale gli arabi sono sempre stati
famosi, e recitava poi a quanti volessero ascoltarlo. Più tardi, solo
molto più tardi, man mano che
la nuova religione si andò affermando, qualcuno più erudito e di
buona volontà, si assunse l’onere
di trascrivere i suoni melodiosi e
celestiali di cui Maometto si era
fatto portavoce. Così raccolte,
in un ordine non corrispondente
alla cronologia con la quale furono rivelate, bensì solo alla loro
lunghezza decrescente, le Sura
divennero Il Corano: che non era
però inteso come un libro qualsiasi che contenesse la Parola di
Dio, né come una qualche Sua
occulta manifestazione. Bensì
come Dio Stesso. Per l’Islam, infatti, il Corano è il Verbo Increato
di Dio1, né più né meno di come,
1 Michael Cook “Il Corano”Ed. Einaudi,
Torino 2001
per i cattolici, l’ostia consacrata
durante la messa sia il corpo di
Cristo.
Ora, si potrà stare a discutere
finché si vuole se i versi in questione siano o meno il corpo mistico di Dio. Resta però il fatto
che una poetica sublime si sia
manifestata in un uomo adulto,
del tutto analfabeta, che mai e
poi mai sarebbe stato in grado di
articolarne la milionesima parte
con forze autonome. La bellezza,
la musicalità e l’armoniosa perfezione stilistica dei versetti coranici incantano l’orecchio, rapiscono
lo spirito e rassicurano il cuore.
Si potrà disquisire a lungo se il
Corano sia stato un evento mistico, oppure magico, paranormale, psicopatologico o comunque
incomprensibile; ma di certo non
lo si può minimizzare né tanto
meno ridurlo a fenomeno di scarso rilievo. Anche perché è proprio questa consustanziazione
a determinare tutte le difficoltà
di dialogo tra musulmani e nonmusulmani. È sempre molto difficile, infatti, riuscire ad ottenere
anche dai più spregiudicati dei
suoi studiosi, una qualche forma
di ermeneutica, sia essa storica,
linguistica o psicologica, perché
chi oserebbe sottoporre ad analisi critica il Verbo di Dio?
Per uno studioso imparziale, ma
non condizionato dalla fede, le
domande poste dall’esegesi del
Corano sarebbero invero mol-
teplici. Come ad esempio: data
la complessità della lingua araba che, all’epoca, era appena
all’esordio della sua strutturazione compiuta, quanti vocaboli potrebbero aver perso nella trascrizione il vero significato originale?
Oppure ancora: l’epoca storica in
cui le Sure furono rivelate quanto
potrebbe aver influito sul significato profondo di alcuni vocaboli
che oggi potrebbe invece essere
inteso in maniera del tutto diversa?
E per finire: ammesso – ma non
concesso – il carattere di “strumento divino” assunto dall’anima
di Maometto come profeta unico di Allah, si possono ignorare
le trasformazioni e i mutamenti
profondissimi intercorsi nella vita
personale di quest’ultimo e non
ritenerli invece, anche se solo in
minima parte, responsabili di una
certa qual inevitabile “distorsione
soggettiva” ?
Mi rendo ovviamente conto che
queste mie osservazioni potrebbero essere tacciate di blasfemia,
eppure sarebbe di estremo interesse poterne discutere con spregiudicatezza e così forse dirimere
tutta una serie di incomprensioni
profonde che oggi impediscono il
colloquio tra uomini appartenenti
a fedi diverse.
Soprattutto per quello che riguarda la cosiddetta questione
femminile.
FORUM - GIUGNO/10
Ha senso, oggi, nel terzo millennio, irrigidirsi su:
“Dio ha creato la donna
per servire l’uomo!» senza nemmeno chiedersi che
cosa questo potrebbe aver
voluto davvero significare?
Ha senso non riconoscere
come, tra le Sura accolte da Maometto durante il
matrimonio con la prima
moglie (una donna adulta,
vedova, ricca e indipendente), e quelle successive,
quando Khadigia era morta e lui, uomo di 60 anni,
volle sposare Aisha, che
all’epoca aveva 10 anni,
si sia verificato un radicale
cambiamento nelle imposizioni richieste alle fedeli?2
Domande come queste sarebbero fondamentali per
potersi orientare, oggi più
che mai, tra paesi di religione islamica che, pur
ottemperando ai codici coranici, rispettano la digni2 Nel mondo occidentale il cristianesimo è continuamente
sottoposto a continue analisi
e sulla figura del Gesù storico
le discussioni sono iniziate fin
dall’epoca illuminista, continuando oggi con particolare
vitalità, anche per la nutrita audience di fedeli che hanno sete
di risposte ai loro dubbi. Questo
processo non si è ancora avviato nell’Islam, in cui la Fatwah
di condanna è l’unico tipo di
risposta ad ogni posizione dissenziente, come era accaduto
nel mondo cattolico fino a tutto
il XVII sec. (N.d.E.)
83
Paradossalmente, fra le
tre grandi religioni monoteiste patriarcali, fu proprio
l’Islam delle
origini ad essere
l’unico
ad individuare il carattere metafisico
della sessualità umana e
a riconoscere
lo
strapotere esercitato
in tal senso
dall’essere
femminile.
tà sia dell’uomo che della
donna, e paesi islamici in
cui una arbitraria, distorta e
abietta interpretazione alla
lettera del Corano riduce le
donne ad una condizione di
vita sordida e subumana.
“È uno scandalo intollerabile – scrive Ghaleb Bencheikh3, in un accorato testo a
3 Ghaleb Bencheikh “Che cos’è
l’Islam?»
Ed. Mondadori,
Milano 2002
difesa dell’Islam – il vile silenzio con il quale i dirigenti
musulmani di tutto il mondo si rendono complici della tragica condizione della
donna afgana. E sarebbe
auspicabile – continua l’autore – che gli stessi Talebani
venissero riconosciuti, oggi,
per quello che realmente
sono: dei psicopatici, frustrati e ossessivi”.
Coraggiose parole le sue.
PSICHE
84
Jean Leon Gérome: “La danza di Almeh” - 1866. (Dayton Art Institute)
Ma se ciò non avviene, mi permetto di credere, è perché un
possente elemento maschilista,
sessista e opportunista serpeggia
nell’animo di molti dirigenti musulmani, anche in quello dei più
tolleranti, moderni e illuminati.
Perché come sostiene il prof. Abdelwahab Meddeb4, un certo “bipolarismo clinico” sembrerebbe
4 Abdelwahab Meddeb “La malattia
dell’Islam” Ed. Boringhieri, Torino 2003
essere proprio dell’Islam come,
d’altra parte, di tutte le rivelazioni monoteiste (e dunque patriarcali): in esse, dietro la mitezza,
la pietà e la tolleranza, c’è sempre una parte guerriera, fanatica,
violenta, temibile.
tempo essa è ancora operante.
Eppure, fra le tre grandi religioni
patriarcali, l’Islam fu quella che,
almeno alle origini, possedeva
i migliori requisiti per stimolare
un’autentica maturazione spirituale dei suoi fedeli, uomini o
La Santa Inquisizione – come donne che fossero.
Ombra del cattolicesimo – non
Innanzi tutto perché il Corano
è stato altro che un eccellente,
allude esplicitamente ad una anscellerato esempio di tale doppia
droginia originaria che si sarebbe
natura, e la sua fine solo un fenosolo in seguito divisa generando
meno storico. Dietro le quinte del
FORUM - GIUGNO/10
via regia per sanare la ferita originaria e guarire gli esseri umani dal trauma derivato da questa
innaturale divisione. Si potrebbe
perciò sostenere che – almeno
fra le tre grandi religioni patriarcali – l’Islam sia stato l’unico ad
individuare il carattere metafisico
della sessualità umana e a riconoscere lo strapotere esercitato
in tal senso dall’essere femminile. Occorreranno secoli prima che
l’occidente sfiori, con i suoi più
illuminati rappresentanti (Balzac,
Goethe, Novalis) tali occulte conoscenze.
due creature di sesso diverso, ma
aventi pari dignità di fronte a Dio.
Secondo, perché non si trova il
minimo accenno alla responsabilità della donna nella cacciata
dal paradiso che, semmai, viene
invece interamente attribuita ad
Adamo. Terzo perché, su questo
sfondo, l’attrazione affettiva e
sessuale – anziché essere colpevolizzata e demonizzata (come
ha inteso fare il cattolicesimo) –
veniva piuttosto considerata la
Di fatto la sessualità, nell’Islam
originario, assurgeva così ad atto
di devozione, di superamento
della coscienza ordinaria e di vera
e propria esperienza mistica. Era
intesa come un travalicamento
del Sé ordinario in grado di far assaporare ai due amanti la quinta
essenza della beatitudine divina5.
Perciò non dobbiamo stupirci se
la società islamica dei primordi
fosse una società edonistica che
aveva in gran cura la sessualità e,
dunque, per una sorta di necessità intrinseca, le arti della seduttività femminile. Se è lecito credere alla scrittrice Salwa Al-Neimi6,
la letteratura araba classica pullula di erotismo a cui l’arabo, come
lingua parlata, permetterebbe la
5 J. Evola “La metafisica del sesso” Ed.
Mediterranee, Roma 1975
85
massima espressione. E la stessa
Fatema Mernissi7, nelle sue ricerche, riporta la vivacità delle antiche corti islamiche dove, in un
tripudio di arti come la musica, la
danza e la poesia, donne di carattere, fiere e parzialmente incontrollabili, giostravano da pari
a pari con i loro nobili amanti.
Fu, quella, un epoca straordinaria durante la quale sensualità
e ricerca interiore coincidevano. Un’epoca durante la quale lo
stesso uso del velo era relativo:
prima di tutto perché, contrariamente a quanto si crede, esso
era già consueto in tutte le precedenti civiltà mediterranee (basta
confrontare i reperti archeologici
per accorgersi che già erano velate le nobildonne greche e persino quelle romane). In secondo
luogo perché il suo uso era consequenziale a quella sottilissima
sensibilità (oggi andata perduta)
che permetteva agli uomini di un
tempo di “percepire” il destarsi di
una speciale energia, o “fluido”
immateriale, anche al semplice accostarsi dei due sessi. Era
sulla base di questa conoscenza
occulta dell’Eros che veniva perciò vietata anche la semplice frequentazione a distanza dell’uomo
e della donna: per evitare che
“la forza” si destasse anche in
assenza di quelle condizioni ottimali che avrebbero permesso la
6 Salwa Al-Neimi “La prova del miele” 7 Fatema Mernissi “L’Harem e l’occidente”
Ed. Giunti, Firenze 2000
Ed. Feltrinelli, Milano 2008
PSICHE
86
funzione di trascendimento dell’io
ordinario. In un qualche modo si
intuiva che il sesso poteva assurgere indifferentemente ad una
funzione sacra o invece profana.
In terzo e ultimo luogo, infine,
perché l’uso del velo, lungi dalla
rigidità pudibonda che ha assunto
ai nostri giorni, spesso assumeva
i connotati del gioco seduttivo:
con la trasparenza che nasconde ma lascia intravedere; con le
forme leggere e volatili, che ricoprono ma anche alludono; con
la seta che limita lo sguardo, ma
anche sottolinea ed amplifica ciò
che resta visibile: lo splendore
della fronte, la linea del naso, il
bagliore fulgido dell’occhio. Quei
tempi sono andati perduti, ma resta il fatto che se il velo, oggi, può
ancora essere considerato il simbolo esteriorizzato della “promessa e della assunzione di fede” di
una giovane musulmana, il burka
rappresenta invece la sua perversione. Uno strumento di tortura
aberrante, degenerato, che solo
il degrado dell’intelligenza, l’ignoranza e la stupidità hanno reso
comune, perfino nei paesi più tolleranti come l’Egitto, il Marocco o
la stessa Turchia.
“La società islamica – scrive a tale
proposito A. Meddeb8 – è passata
da una tradizione edonistica, fondata sull’amore per la vita, a una
realtà pudibonda piena di odio
8 Abdelwahab Meddeb, Ibidem
verso la sensualità. La pruderie è
diventata criterio di rispettabilità.
...La città organizza i suoi scenari
per privare il corpo dei suoi diritti …
Le strade, noiose nelle loro nuove
costruzioni, irrispettose e negligenti rispetto alla favolosa memoria
architettonica, diventano ancora
più brutte quando sono attraversate da corpi balordi incuranti di
sé; l’estetica venne meno quando
fu abolita la seduzione nel rapporto
tra i sessi. La cura della bellezza,
come l’arte di metterla in valore,
sono a loro volta scomparse.»
Se l’integralismo è la malattia
dell’Islam – continua l’autore la sua origine va rintracciata nel
risentimento e nel fanatismo di
tutti quei semiletterati che se ne
sono fatti portavoce.
Va ricercata nella fondazione del
Wahhabismo, il movimento fondamentalista che, nell’attuale
Arabia Saudita, ha realizzato un
mostruoso connubio con l’americanizzazione dell’economia e della società.
L’analisi di Meddeb è puntuale
ed esaustiva da un punto di vista sociologico. Ma, come ho già
apertamente dichiarato, io posseggo una visione psicologica del
mondo e della vita; perciò ho voluto di più. Ho cercato di capire
attraverso quali dinamiche psicologiche questa grave perversione
dello spirito maschile si sia potuta
realizzare e scaricare poi sul femminile. Ho letto. Ho studiato. Ho
raffrontato… e, alla fine, credo di
essere riuscito a comprendere.
FORUM - GIUGNO/10
La costruzione
delle identità di genere
La costruzione dell’identità maschile e femminile nell’Islam poggia su due coppie di attributi:
Il Namus e il Qeirat per l’uomo –
traducibili grosso modo come il
Desiderio Sessuale e l’Onore.
Lo Hojb e l’Haya per la donna –
traducibili, sempre grosso modo,
come il Pudore e la Vergogna.
Il Namus, nell’uomo musulmano,
rappresenta dunque la corrente
del desiderio sessuale che come
tale è si sacra ma, nello stesso
tempo, impura. Perciò è un tabù
(vedremo presto perché) represso nel profondo di ogni moderno
musulmano. Esso simboleggia
l’interno, perciò deve essere protetto, nascosto, e restare al riparo dagli sguardi di tutti gli altri
uomini. Per garanti ha la madre,
la sorella, la moglie, la figlia… in
pratica il corpo femminile.
“Il velo è un riparo per il Namus
– ci dice la scrittrice iraniana
Chahdortt Djavann9 - per l’onore
dell’uomo musulmano, e crea in
quest’ultimo una dipendenza psichica; perché l’essenza dell’identità dell’uomo musulmano si radica sotto il velo femminile.»
Il Qeirat simboleggia invece lo
zelo, la determinazione, la capa9 Chahdortt Djavann “Giù i veli” Ed.Lindau
Torino 2004
cità dell’uomo musulmano di preservare il proprio onore sessuale che ha come oggetto il corpo
femminile.
L’Hojb e l’Haya, il pudore e la vergogna della donna, oltre a fondare la sua propria identità, sono in
sovrappiù i garanti dell’onore e
dello zelo dell’uomo musulmano
perché, come si è visto, la stessa identità maschile poggia su tali
elementi.
Prego ora i miei lettori di seguirmi
molto attentamente in un passaggio delicato.
Da un certo punto di vista possiamo considerare infatti straordinaria la percezione sottile con cui il
pensiero orientale coglie il nesso
metafisico tra il desiderio sessuale nell’uomo e l’immagine femminile. In occidente, una sorta di
grossolanità psicologica individua
nel maschio il portatore della sessualità e nella donna la portatrice
dell’affettività. Ma le cose, almeno io credo, non stanno così. Nel
senso che se anche è vero che nel
corpo maschile giace una potenziale carica sessuale, essa si innesca nel preciso momento in cui
l’immagine femminile l’attiva. È la
donna, con la bellezza archetipale del suo corpo, con la grazia, il
fascino e la morbidezza delle sue
forme e dei suoi movimenti che
accende la corrente del desiderio
maschile. Più di quanto non accada al contrario.
87
Confessiamolo: chi di noi, maschietti, alla vista di una bella
donna non viene sempre sopraffatto da un languore doloroso, da
un impulso esplosivo, da uno spasmo lancinante del desiderio che,
magari anche solo per un breve
istante, ci lascia come storditi e
tramortiti? Chi di noi negherebbe
che, se soltanto potessimo, faremmo l’amore, subito, con tutte
le donne che, anche inconsapevolmente, accendono tale desiderio? In pratica quasi con tutte
quelle che incontriamo?
Solo che abbiamo educato tale
impulso. Indipendentemente dal
fatto di riconoscerne o meno la
natura metafisica, abbiamo imparato a trattenerlo, rimandarlo,
sublimarlo (direbbe Freud) e a
liberarlo poi nel gioco, nel corteggiamento, nel rapporto d’amore
occasionale o, meglio ancora, in
quello amoroso e, dunque, significativo.
Nonostante 2000 anni di repressione e terrorismo cattolico, si
può dire che la maggior parte degli uomini occidentali abbia davvero educato e raffinato la propria
pulsione avvicinandola alla sacralità dell’eros.
L’uomo musulmano, al contrario,
pur avendo colto l’essenza ultima
di questa dinamica, in un certo
senso ci si è perso, rinchiudendosi nella rigidità della peggiore
repressione.
PSICHE
88
insicuri che, paradossalmente, scaricheranno poi
le loro patologie appunto sulle donne, in una dinamis circolare di cui – come ho già detto - sarebbe
vano oramai cercare l’origine o la fine.
Perché? Come è potuto accadere?
La descrizione della caduta in questa perversione
collettiva è semplicissima e complessa nello stesso
tempo perché, come si vedrà, si tratta di un fenomeno circolare del quale, come tale, sarebbe stolto mettersi a cercare un punto di inizio. Mi si voglia
pertanto perdonare l’arbitrarietà della scelta e si
immagini, una volta afferrato il quadro di insieme,
come tutto questo possa essersi determinato gradualmente, a mano a mano che la società islamica andava perdendo quella supremazia culturale,
scientifica ed artistica che per molti secoli l’aveva
caratterizzata.
Ciò nonostante, e anche se con una certa approssimazione, si potrebbe asserire che il processo si
sia innescato nel momento storico in cui la società
islamica cominciò a regredire dai fasti che aveva
raggiunto, e il peggioramento delle condizioni economiche, culturali e religiose, come per una sorta
di osmosi naturale, finì per traslare dagli uomini
alle donne. Donne che, soggette ad un dominio
sempre più forte da parte di uomini sempre più
frustrati, ignoranti e inconcludenti, si indebolirono,
favorendo cosi l’esercizio della tutela su se stesse10.
Magari nel nome di una religione che nessuno era
più in grado di ben interpretare, esse accettarono
tacitamente di essere sempre più rinchiuse all’interno della casa, sorvegliate e protette, limitate
nella propria libertà. Poi però, come per una sorta di perversa, inconscia compensazione, finirono
per proiettare sui figli maschi la propria mancata
realizzazione personale. Allevandoli come Principi
Ereditari a cui qualunque capriccio sarebbe stato
concesso. Crescendoli come despoti presuntuosi
ed arroganti a cui qualunque donna, in futuro, si
sarebbe dovuta sottomettere11.
Inizierò dunque riportando una affermazione lapidaria di Qassim Amin citata nel suo celeberrimo libro - Tahrir al-mar’a - pubblicato nel lontano 1899.
Affermazione che io oggi, come psicanalista, pur
con certe attenuanti e limitazioni, mi sento però
di confermare:
Anche se da noi, in occidente, il fenomeno si presenta sotto forme molto più attenuate, tuttavia è
ben conosciuto: madri non realizzate come donne,
mancanti di una propria autonoma personalità, che
allevano i propri figli maschi confermando la loro
alterigia, la loro supremazia, la loro naturale arro“L’uomo adulto, altro non è che ciò che la madre ganza maschile. Donne i cui figli maschi rimarranno eterni bambini, viziati, capricciosi, presuntuosi,
ne ha fatto nell’infanzia.»
sfrontati, violenti… e sessualmente repressi.
Prendendo tale asserzione alla lettera, sarebbero
dunque proprio le donne musulmane, in quanto 10 Leila Ahmed “Oltre il velo” La nuova Italia, Firenze 1995
madri, a fare dei loro figli quegli uomini repressi e 11 Rita El Khayat “La donna nel mondo arabo” Ed. Jaca Book,
Milano 1983
FORUM - GIUGNO/10
La madre con il velo
“La madre con il velo. – intuisce la scrittrice C.
Djavann12 – Il velo che ha l’odore della madre.
La madre vietata. Il velo che la madre porta
su di sé. Il velo che ha l’odore del peccato,
l’odore della madre vietata. La madre oggetto
del desiderio, il desiderio colpevole, represso
dalle leggi ancestrali. … La forza viscerale del
legame madre-figlio, questo legame di cui il
velo materno è stato il tramite durante la prima infanzia e che proietta la sua ombra (l’ombra del proibito, dell’incesto e del desiderio)
sulla donna agognata. Il velo che nasconde
la donna è tanto detestato quanto desiderato
dall’uomo musulmano. ... La pressione dei divieti non rafforza la pulsione dello sguardo? Il
velo ricorda uno dei divieti principali dell’Islam,
il corpo femminile. Ciò che si nasconde agli
sguardi non fa che attizzare gli sguardi. …
Impossibile ignorare gli sguardi insistenti, importuni, degli uomini nei paesi musulmani. Lo
sguardo lascivo, lo sguardo illecito, lo sguardo
in agguato, lo sguardo che penetra il velo. E
le ragazze rimproverate, perché, malgrado il
loro velo, il loro corpo coperto, hanno attirato
gli sguardi illeciti. Il timore dello sguardo e dei
pericoli che nasconde è inculcato dalle madri
alle figlie. Dallo loro più tenera età, le ragazzine interiorizzano l’idea che la loro esistenza
è una minaccia per il ragazzo e per l’uomo;
che, alla vista di un pezzo della loro pelle o
della loro chioma, questi ultimi possono perdere ogni controllo di sé. Le madri, negli ambienti più tradizionali, continuano a riprodurre
gli stessi dogmi trasmessi di generazione in
generazione.»
Ho voluto riportare questo brano della scrittrice iraniana quasi per intero, perché ritengo
12 Chahdortt Djavann, Ibidem
che contenga una delle sintesi più lucide della
perversa spirale psico-dinamica in cui l’Islam
è caduto, oramai da moltissimo tempo. Manca
solo più un elemento, della cui assenza però la
scrittrice non è certo imputabile, non essendo
in definitiva una addetta ai lavori.
Quello che manca è di ravvisare in questa dinamica anche la radice ultima di quella drammatica spaccatura psichica, tipica dell’uomo,
per cui se da una parte c’è la Madre, come
immagine del Femminile casto, puro e virginale, dall’altra ci sono tutte le altre Donne, ma
come immagine del Femminile lascivo, impuro
e peccaminoso.
Il Femminile Originario, compagno di piacere
e di resurrezione mistica, si scinde così, anche per l’uomo musulmano, nella Madre Vergine Santa e nella Grande Prostituta, né più
né meno come per il cattolico, tradizionale o
moderno che sia.
Per questo negli stati islamici gli sguardi sono
illeciti, lascivi, in agguato: perché l’impulso non è stato educato bensì represso. E la
89
psiche
90
sua forza, immensa, permane
nell’inconscio e si dirige verso
tutte “quelle puttane” che osano risvegliarlo, adularlo e tormentarlo senza tuttavia esaudirlo. Per questo non è raro che
in alcuni tra i paesi islamici più
intransigenti, in caso di violenza e stupro di giovani donne,
siano poi le vittime ad essere
punite con la lapidazione mentre gli aggressori se la possano sempre cavare con qualche
“bacchettata” sulle mani.
Raramente ho trattato nel mio
studio casi di così grave repressione e frustrazione sessuale
quanto quella di cui fanno invece bella mostra buona parte dei
maomettani, ancorché moderni e liberali, e di cui i Talebani
afgani – per assurdo - rappresentano solo l’espressione più
coerente.
L’altra, quella più in mala fede
e vergognosa, è rappresentata
dal comportamento consueto
degli sceicchi sauditi o dai rampolli delle famiglie saudite più
abbienti: in Arabia, infatti, le
donne vivono sepolte in casa
ad allevare figli, senza avere
nemmeno il permesso di uscire se non accompagnate da un
uomo.
Ma da Parigi giungono continuamente voli diretti, pieni di
prostitute di “altissimo bordo”,
il cui compito è quello di sollazzare e soddisfare i desideri
insaziabili di questi fedeli fanatici13.
Come si può credere o sperare che chissà quali alti dirigenti
musulmani potranno mai sconfessare (nel senso letterale
della parola) la turpe incoerenza dei maggiori rappresentanti
13 Jean P. Sasson “Dietro il velo”
Ed.Sperling & K., Milano 2004 - Carmen Bin Laden “Il velo strappato”
Ed. Piemme Milano 2004
del popolo nella cui anima Allah
scelse di rivelarsi e sul cui territorio, alla Mecca, scelse di edificare la propria dimora?
Sarebbe come se qualcuno, da
noi, trovasse il coraggio di denunciare l’omosessualità e la
pedofilia che imperversano nei
corridoi della Santa Sede della
Santa Romana Chiesa Cattolica
ed Apostolica.
****
Alcuni giorni fa, mentre scrivevo questo capitolo, ho seguito
un impulso: ho acceso Internet, tra i miei “Preferiti” ho cercato “candy camera sexy” e ci
ho cliccato sopra.
Sono comparse più serie di filmati ripresi di nascosto in cui
giovani ed attraenti modelle,
dopo aver “adescato” un uomo
in una situazione qualsiasi, magari per far partire un motorino
ingolfato, all’improvviso, come
per un incidente, si ritrovano a
perdere la camicetta o la gonna
e a rimanere a seno scoperto o
in mutandine.
Bene! Un esame attento, al
rallentatore, della gestualità e
della mimica facciale degli uomini che ci cascano, rivela prima lo stupore, poi subito dopo
l’imbarazzo e lo spasmo atroce
di quel desiderio di cui prima
ho parlato.
FORUM - GIUGNO/10
iuscola, e hanno imparato perciò a controllare i loro impulsi.
In un qualunque paese musulmano nessun filmato del genere potrebbe mai essere girato:
l’attrice sarebbe come minimo
violentata e subito dopo - perché no? - lapidata per aver
osato turbare la falsa morale di
tutti quei bambini fanatici, arroganti, ipocriti e presuntuosi
che lo abitano.
L’incanto del “nudo di donna”
per un nanosecondo prende il
sopravvento e sconquassa. Poi
ancora, quasi sempre, arriva la
risata liberatoria attraverso la
quale, inconsciamente, si scarica il surplus energetico prodotto.
Adoro guardare questi filmati.
Quello che mi commuove, davvero, sono gli uomini. Dalle
statistiche risulta che non sono
quasi mai occorse violenze di
alcun tipo contro le giovani attrici. Proprio perché la maggior
parte degli uomini occidentali,
almeno da questo punto di vista, sono uomini, con la U ma-
Mi sono chiesto a lungo se fosse legittimo, da parte mia, diagnosticare una simile “patologia culturale”. Mi sono chiesto
se non stessi commettendo lo
stesso identico errore di quanti
si permettono di giudicare determinati usi o costumi di altre
culture usando i parametri validi solo nella propria.
Ma alla fine mi sono assolto.
Non solo perché mi sono sforzato di “ripensare” pensieri che
già esponenti alla stessa cultura islamica avevano pensato.
Ma, soprattutto, perché credo
che nessun elemento - sia esso
culturale, politico, economico
o religioso - possa ancora giustificare il sopruso dell’uomo
sull’uomo. E, ancora, perché
sono convinto che le dinamiche
archetipiche – se attentamente
separate dalla loro componente storica - abbiano un valore
collettivo universale.
Mi permetto perciò di sostenere che l’onore di una persona,
chiunque essa sia, riposi nella dignità del proprio vissuto
e non può essere proiettato o
attribuito ad altri che se ne facciano garanti.
L’onore di un uomo dipende
dalla sua stessa rettitudine,
dalla sua stessa moralità e dalla sua stessa integrità interiore.
Dipende dal coraggio con cui
affronta le difficoltà della vita,
dall’onestà che caratterizza le
sue scelte e dalla autenticità
con cui vive.
Se anche una donna della sua
famiglia si comportasse come
una poco di buono, se – addirittura – decidesse di prostituirsi,
essa denuncerebbe la propria
91
psiche
92
immoralità, la propria scelleratezza che, tuttavia, nulla
toglierebbero alla moralità del
padre, del fratello, del marito o
del figlio. Che avrebbero ragione di addolorarsi per il comportamento della donna, ma non
di ritenersene disonorati.
So bene quanto radicato possa
essere questo falso convincimento, le cui radici ancestrali
inquinano tutte le religioni monoteiste patriarcali (e non solo
l’Islam).
Qualche traccia di tale fantasma
si può rinvenire anche nella nostra tanto decantata società
civile, come testimonianza del
maschilismo patriarcale di cui
ancora è impregnata.
Ciò nonostante tale convincimento va denunciato ed estirpato dall’animo umano perché
espressione di una indifferen-
ziazione psicologica che contraddice la distinzione sacra tra
individuo ed individuo. Va condannato per quello che è nella
sua ultima essenza: la negazione della Alterità e della Libertà,
che su questa si fonda.
Così come vanno smascherate
la paura, l’inquietudine e il dubbio che tormentano tutti quegli
uomini che sentono la necessità
di controllare, limitare e segregare la propria donna, rivelandone la radice unica: che non è
altro se non una inconfessata e
inconfessabile, vergognosa insicurezza di sé.
Tuttavia, dietro il comportamento paradossale di molti
maomettani - sessuofobico da
una parte e maniacale dall’altro
– si nasconde ben altro.
Perché la repressione dell’impulso sessuale, come antitesi
alla sua educazione, genera
solo patologie nell’essere umano qualunque sia la sua estrazione culturale o la religione
alla quale appartiene.
Si possono studiare le dinamiche che le producono e parzialmente giustificarle: ma come
tali non possono essere avallate, né più né meno di come
la comprensione delle ferite
psichiche subite dai pedofili durante il proprio sviluppo
non possa per questo avallare
la loro successiva violenza sui
minori.
E poi ancora: la schiavitù, di
qualunque tipo, è un sopruso
che come tale va condannato.
L’amore è un dono. Sempre! Ci
piaccia o meno… l’amore è un
dono! L’amore è un regalo gratuito che qualcun altro ci fa in
piena autonomia emotiva.
FORUM - GIUGNO/10
Occorre meritarlo. Non può essere preteso con la forza, ne
tanto meno difeso togliendo
all’altro la propria libertà. Pena
la perdita di ciò che fa dell’amore appunto l’amore. E solo la libera reciprocità amorosa, quale
che sia la sua natura, giustifica
l’accoppiamento dell’uomo e
della donna. Nel passato come
nel presente. Tutto il resto sarà
sempre e soltanto stupro… o
comunque violenza.
Sono molto addolorato di dover scrivere queste cose, e non
ne faccio una colpa specifica a
nessuno.
Ho viaggiato per 15 anni nel
Nord Africa e nel Medio Oriente, e ho conosciuto musulmani
con cui ho avuto scambi davvero toccanti. Con alcuni di
loro, parlare di fede, è stata
una esperienza umana inten-
sa, profonda e commovente.
Eppure, spesso, anche se non
sempre, dentro di me c’era una
attenzione angosciosa, una
sorta di vigilanza latente, perché, se ero con la mia donna,
non sapevo mai cosa sarebbe
potuto accadere se un lembo
della sua pelle si fosse improvvisamente scoperto.
Scrivo con dolore queste parole, e in più con la consapevolezza che nel mio mondo, forse
a causa di una violenta reazione al violento condizionamento
delle coscienze operato dalla
chiesa cattolica, i problemi tra
uomini e donne sono speculari ed opposti a quelli presenti
nell’Islam. Perdita di qualunque
pudore, prostituzione facile in
cambio di fama e notorietà,
sesso superficiale come espressione narcisistica di potere o di
affermazione di sé.
Bisogna ammetterlo: anche noi
occidentali non stiamo poi tanto bene.
Un segreto si cela nella potenza dell’amore sessuale umano
e, forse per paura di questo
mistero, tutti ne fuggono: nella
repressione alcuni e nella sua
banalizzazione altri.
Ma certo è che se nessuno,
fin’ora, sembrerebbe aver realizzato quel giusto atteggiamento interiore che permetterebbe a uomini e donne di vivere
l’amore sessuale come una autentica esperienza di reintegrazione spirituale, il cammino che
separa oggi il mondo islamico
da questo ipotetico traguardo
sarà ben più lungo e tormentato del nostro.
93
LINGUAGGIO
94
Quante volte abusiamo
di modi di dire di cui ignoriamo
completamente le origini?
Riflettiamoci un po’...
gine colta della parola, è quella
con una sola b (latino obiectum.
Pertanto, anche “obiettare”). Lo
stesso dicasi per qual è; qual era
che i sostenitori dell’elisione scrivono con l’apostrofo.
Parole,
parole, parole...
di Lorenzo Paolini
Il mio precedente articolo sui
modi di dire sembra aver avuto
un certo successo, perché sono
stata subissato di richieste: ecco
la prima: “Per un punto Martin perse la cappa...» una frase
celebre che si presta a molte
interpretazioni. Ho indagato e
qualcuno si è anche avventurato
a scomodare Martin Lutero che,
come tutti sanno, affisse sulla porta della cattedrale di Wittemberg le sue celebri tesi in 95
“punti”. Ma il padre della Riforma
perse la cappa certamente per
tutti i punti, non per uno solo. E
allora? E allora la frase si riferisce ad un certo monaco Martino
che non fu nominato priore dal
Papa (e perse la cappa, cioè il
mantello con cappuccio indossato dai priori) per lo scandalo
creato dal suo sbaglio nel mettere un punto: doveva infatti far
incidere sulla porta del convento
questa frase: “porta patens esto,
nulli claudatur honesto”. Cioè:
“la porta aperta sia; a nessuna
persona onesta si chiuda”. Nel
trascriverla, mise per errore un
punto dopo “nulli”: “porta patens est nulli. Claudatur hone-
Ma torniamo a Martino e ricordiamo che un analogo gioco
verbale fu celebre nell’antichità
in relazione ai responsi della Sibilla: “Ibis, redibis, non morieris
in bello” (partirai tornerai, non
morirai in guerra). Spostando
la virgola dopo “non” la profezia
esprime esattamente il suo contrario ed il responso è tutt’altro
che OK.
sto”, cioè: “la porta aperta sia a
nessuno. Si chiuda in faccia alla
persona onesta”.
Oggi questa espressione è diventata proverbiale e si usa a proposito di chi stava per raggiungere
quello che desiderava e, a causa
di un piccolo errore (che tuttavia
produce gravi conseguenze), ha
perso l’occasione di raggiungere
il suo obiettivo.
A proposito, molti scrivono tale
lemma con due “b”: obbiettivo.
Ebbene, anche se è brutto,
debbo ammettere che
è corretto. Tuttavia
la forma più “elegante”, e più vicina all’ori-
OK?! Sembra sia il lemma più
usato nel mondo, ma il suo acronimo è oscuro... Qual’è (o qual
è) la sua origine? Ci sono molte
teorie ma la più accreditata è la
seguente: durante la Guerra di
secessione americana, nei bollettini dal fronte, sarebbe stata
usata l’abbreviazione 0K, cioè
“zero (che si può anche pronunciare “O”) killed”, “zero uccisi”.
Una buona notizia, dunque, che
ha dato origine al termine.
Veniamo ora alle richieste dei
lettori: il detto “Non c’è trippa
per gatti” da dove viene? Lo ha
spiegato di recente Walter
Veltroni: “Fu Ernesto
Nathan,
leggendario
sindaco di Roma nel
1907, ad annunciare
così i primi tagli di bi-
FORUM - GIUGNO/10
95
sommo sacerdote prendeva due
capri: il primo veniva sgozzato e
il sacerdote lo caricava, simbolicamente, di tutti i peccati suoi e
del popolo; l’altro veniva mandato via perché si disperdesse nel
deserto e non tornasse mai più. Il
primo si chiamava capro espiatorio, il secondo capro emissario.
Come si vede fin da molto tempo prima dell’invenzione della confessione l’umanità aveva
escogitato sagaci espedienti per
mettersi in pace con la propria
coscienza!
lancio, quando, alle prese con la
necessità di risparmiare, cancellò
con un tratto di penna la somma
che il Comune stanziava per sfamare i felini che albergavano tra i
ruderi di Largo Argentina”.
A proposito di Largo Argentina,
sapete perché se qualcuno non
paga il biglietto “fa il portoghese”?
Perché nel secolo XVIII l’ambasciata del Portogallo a Roma,
per festeggiare un avvenimento,
aveva indetto una recita al teatro
Argentina per la quale non erano
stati distribuiti i biglietti d’invito;
per entrare bastava presentarsi
come “portoghesi”.
E perché se la cameriera che va a
farci la spesa intasca il resto “fa la
cresta”? Perché anticamente si
chiamava agresto un condimento
asprigno che si ricavava dall’uva
poco matura che, quando era colta dai contadini per far l’agresto,
dava luogo anche alla “distrazione” di un po’di uva buona che
avrebbero invece dovuto portare
al padrone; e si diceva far l’agresto per indicare questa piccola
ruberia. In seguito, far l’agresto
è diventato far la cresta.
Infine mi è stato chiesto da cosa
deriva la locuzione “far da capro
espiatorio” per indicare una persona a cui si addossano tutte le
colpe, anche quelle non sue. Gli
Ebrei avevano anticamente una
strana usanza (ma molto pratica ed utile!). Mosè aveva
ordinato che ogni anno si celebrasse l’espiazione dei peccati. Nel giorno designato, il
E a proposito di ovini e sacrifici
sapete da cosa deriva la “standing ovation” con cui acclamiamo
i nostri idoli? Dalla romanissima
“Ovatio”, ovazione, una forma
minore di trionfo, nella quale il
condottiero vincitore veniva onorato col sacrificio di molte pecore!
ARTE
96
Caravaggio:
erotismo e
passione
la bella Fillide Melandroni,
mentre l’anno prima era
stato costretto a fuggire
da Roma per aver ferito di
spada un notaio che aveva mancato di rispetto alla
sua amante Lena.
in mostra a Roma
alle scuderie
del Quirinale
Tuttavia non possiamo
non notare che in tutte le
opere giovanili (Caravaggio si trasferì a Roma dalla
Lombardia a soli vent’anni) l’intenso erotismo che
le pervade è riservato
esclusivamente a giovani
maschi efebici.
di Gabriella Pesa
Michelangelo Merisi fu
uomo di intense passioni. Erotismo e violenza, collera e passione caratterizzarono la
sua infelice vita, sempre sospesa fra le critiche dei benpensanti
che non riconoscevano
la sua arte e quelle degli invidiosi che non arrivavano al suo genio.
La sua modesta nascita
gli impedì di divenire il
gentiluomo cui aspirava, il suo carattere lo
portò alla rovina.
Ma fu comunque il più
grande del suo tempo.
Veder riunite un così cospicuo numero di opere
del Caravaggio è occasione da non perdere per chi,
affascinato dalle sue luci,
ha sempre inseguito - da
Malta a Londra - l’estasi
dell’incontro dal vivo col
suo genio.
mai versati fiumi di ... caratteri digitali, che vorrei
parlare, quanto dell’intenso erotismo che traspare
dalla maggior parte delle
tele esposte.
Un erotismo talmente
indipendente dal sesso
dei modelli da farci, anLa mostra in corso alle cora una volta, porre la
Scuderie del Quirinale è domanda sulle tendenze
dunque appagante e l’im- sessuali dell’autore.
pianto espositivo (contraChe gli piacessero le donriamente a quanto accade
ne è cosa indubbia: nel
in altre aree espositive
1606 uccise in una rissa
romane) del tutto dignitoRanuccio Tommasoni cui
so. Ma non è della mostra,
contendeva le grazie delsulla quale sono stati or-
Malgrado il perbenismo di
una certa critica che tendeva ad escludere l’ambiguità sessuale del Caravaggio1, difficilmente oggi
se ne può prescindere. Al
punto che, oltre al parere
positivo di Bernard Berenson, anche un esegeta
autorevole come Sgarbi,
tutt’altro che bacchettone, ebbe a dichiarare nel
2001:
1 “In realtà la presunta omosessualità del Caravaggio, utile ad
aggiungere un tocco al quadro
del suo maledettismo, è probabilmente solo un abbaglio;
e questo discende soprattutto
da una discutibile interpretazione di alcuni quadri del
primo periodo romano, che
presentano figure effeminate
o ritenute provocanti” (Maurizio Calvesi, Caravaggio, Art &
dossier, aprile 1986, p. 14).
FORUM - GIUGNO/10
«Caravaggio sopporta ogni tipo
di lettura. (...) [anche] quella
omosessuale: non m’importa
conoscere la vita privata di Caravaggio (...) però mi colpisce
la sua ambiguità. Mi colpiscono quei giovani modelli, i suoi
Bacco e i suoi Giovanni Battista,
allusivi e lascivi come i ragazzi
fotografati da von Gloeden. Una
omosessualità intinta di cattolicesimo, come quella di Pasolini
e di Testori e di altri maledetti
nostri contemporanei quali Fassbinder e Genet”.
Vedo quindi di essere in buona
compagnia nell’aver provato le
sensazioni che mi hanno spinto a scrivere queste note!
Debbo comunque osservare
che la tendenza prevalentemente omosessuale si manifesta nel Caravaggio soprattutto nel primo periodo della
giovinezza, quando la povertà
e la precarietà di una vita di
espedienti non gli consentirono esperienze femminili, se
non con prostitute di basso
rango. Non si può omettere di
considerare che nell’ambiente
artistico alternativo che Caravaggio iniziò a frequentare agli
inizi del suo soggiorno romano, una moderata bisessualità
facesse “tendenza” e che praticare una certa omosessualità rappresentasse una rottura
degli schemi consolidati nel
popolino della Roma papale.
Quando a Roma Michelangelò
avrà trovato, se non la tranquillità, quantomeno una certa copertura economica ed il
riconoscimento del suo valore
artistico, la sua natura prepotentemente erotica esploderà
con amanti femminili di ogni
natura e rango. Tuttavia le sue
pulsioni verso i ragazzi non
scompariranno mai del tutto.
Anzi ritengo non sia azzardato
ipotizzare che furono proprie le
sue opere intensamente proiettate verso l’erotismo maschile ad affascinare il Cardinale Francesco Maria Del Monte,
spingendolo a prendere il pittore sotto la sua protezione e
nella sua casa.
Nulla ci autorizza ad affermare
che qualcosa ci fu fra il il pittore e il Cardinale2 ma è molto
probabile che il comune sentire ed il contenuto delle opere
2 Di cui un contemporaneo, Theodorus Amayden (1586-1656) scrisse: “Era dotato di una singolare
dolcezza di costumi, e si dilettava
della frequentazione di giovanetti,
non tanto, credo, per motivi illeciti, quanto per naturale affabilità. O
forse è palese che si può concludere
che prima dell’elezione di Urbano al
soglio papale scaltramente celasse
tutto ciò, per non dare nessun appiglio ai suoi oppositori, ma dopo
l’elezione di Urbano, sciolto ormai
dal freno della speranza di essere
eletto papa, assecondava apertamente il suo gusto: già vecchio e
quasi privo della vista, più simile ad
un tronco d’albero che ad un uomo,
e di conseguenza non più in grado di
cedere alle tentazioni, ciononostante un giovincello fu da lui reso ricco.
97
ARTE
98
dovettero indirizzare quest’ultimo ad interessarsi
del suo futuro protetto.
Ma chi furono dunque questi ragazzi, questi modelli,
che Caravaggio immortalò in tante sue opere?
Il primo era un aspirante pittore siciliano e si chiamava Mario Minniti, più giovane di lui di sei anni, che
nel 1593, a 16 anni posa per lui nel “Il fanciullo con
canestro di frutta”, ma che riconosciamo anche ne
“I Bari” (a destra in alto), nella “Buona ventura” (a destra
in centro), nel “Concerto”, nel “Suonatore di liuto” (a
destra in basso), nel “Ragazzo morso da un ramarro”,
nella “Vocazione di san Matteo” e nel “Martirio di
San Matteo”. Con lui il Caravaggio ebbe una sorta
di relazione che durò fino al 1600, una relazione basata sulla sconfinata ammirazione del Minniti che,
pur mancando del talento del suo Maestro, ne venne profondamente influenzato specie in relazione al
realismo con cui Caravaggio intendeva descrivere
la natura. Immagino le infinite discussioni, inframmezzate da momenti di passione, sul verismo di
quella frutta, che doveva per Michelangelo includere
addirittura i vermi e le foglie marcite!
Fu una relazione ambivalente, perché nel frattempo il Caravaggio aveva iniziato a corteggiare Lena,
mentre il Minniti intendeva sposarsi e se ne andò
da Roma, pur conservando intatti la sua amicizia e
la sua ammirazione: che Caravaggio ritroverà inalterate otto anni dopo quando, malato ed in fuga da
Malta, l’amico gli offrirà riparo a Siracusa ed addirittura una commessa: “il seppellimento di Santa
Caterina”.
Ma Michelangelo non si limitò alla storia con il Minniti ed alla relazione con Lena: la sua natura impetuosa aveva bisogno di esplodere continuamente in una
serie di “ambigui” rapporti con garzoni e modelli. Il
quadro in basso nella pagina precedente, il San Giovannino Battista del 1602 è la prova della passione,
a dir poco pedofila, suscitata in lui da Cecco, che
FORUM - GIUGNO/10
ritrasse nudo in una posa che nulla
aveva a che fare con il personaggio
del Battista, ma che esaltava la voglia di provocazione del Maestro ed
appagava il suo erotismo. Già lo aveva ritratto nell’angelo che sorreggeva Cristo nella prima versione della
Conversione di Saulo (a destra in alto),
dopodiché lo esibì in una posa a dir
poco imbarazzante nell’“Amor vincit
omnia” che appare nell’immagine a
fianco del titolo di questo articolo.
Cecco era il garzone di bottega di
Caravaggio, viveva con lui, preparava e mischiava i colori, serviva come
modello, apprendeva l’arte e inevitabilmente eccitava i sensi del pittore, da cui tuttavia ricevette in cambio moltissimo, in quanto da adulto
acquisì un proprio prestigio come
Francesco Boneri: sua è la “Cacciata
dei Mercanti dal Tempio”, dipinto in
età adulta (qui sotto).
Parlare soltanto del suo lato ambiguo sarebbe ingeneroso nei confronti di Michelangelo Merisi, la cui
grandezza artistica unita ad una
sensibilità straordinaria non possono che valergli come giustificazione di una sessualità altrettanto fuori
dagli schemi.
99
ARTE
100
Egli infatti, amò appassionatamente anche le donne e ne fu prova il suo rapporto violento e burrascoso con Lena, alias
Maddalena Antonietti, cortigiana romana
dalle amicizie altolocate, amante fra gli altri del cardinal Peretti, nipote di Sisto V.
Caravaggio la trasforma nella “Madonna
dei pellegrini” di Sant’Agostino e nella
“Madonna dei Palafrenieri” (particolari in alto a
destra nella pag. prec.).
Gran frequentatore di taverne ed osterie
del Campo Marzio insieme ad altri pittori e perdigiorno, Michelangelo presto
dovette incrociare il cammino di altre
due prostitute d’altro bordo. Si trattava
di due amiche venute a Roma
da Siena nel 1593: Anna Bianchini e Fillide Melandroni. La
prima, «più presto piccola che
grande» e dai «capelli rosci
et lunghi» la conobbe in una
sera d’aprile del 1597 quando,
dopo una lite con altre colleghe, era entrata nell’osteria
del Turchetto, suscitando un
commento pesante da parte
di Michelangelo: «Ecco qua
l’Anna dal bel culo!», immediatamente rimbeccato da un
«mi sa che il bel culo sei tu ad
avercelo!». Probabilmente la
frase voleva alludere al noto
atteggiamento che Caravaggio aveva con i garzoni e lui la
prese male. Volarono schiaffi,
scoppiò una zuffa e arrivarono i gendarmi. Tutto questo
risulta dai verbali di polizia e
la povera Anna molto proba-
bilmente finì alla gogna dopo
aver subito la frusta.
Fatto sta che i due fecero la
pace, perché qualche mese
dopo Caravaggio la ritrasse
nella “Maddalena penitente”
(a sinistra) in cui la ragazza appare contrita e dolente, forse per la punizione inflittale.
C’è chi sostiene che il vasetto
d’unguento ai suoi piedi fosse uno scherzo del pittore per
ricordarle le piaghe delle frustate!
Quando, pochi mesi dopo, il
Cardinal Del Monte espresse
il desiderio di avere un quadro che raffigurasse la conversione della Maddalena (qui
sotto) da parte della sorella
Marta (evidentemente il tema
della peccatrice lo affascinava!). Michelangelo ne dovet-
FORUM - GIUGNO/10
101
te parlare con Anna, che si presentò alla posa con
l’amica Fillide: il pittore ne fu talmente affascinato
che spogliò la povera Anna del ruolo della protagonista, relegandola di lato, nell’ombra, e riservando
palcoscenico e riflettori all’altra!
Fillide Melandroni, tenace, bellissima, arguta, dallo
sguardo ironico lo affascinò a tal punto da essere
scelta l’anno successivo come modella per la Santa
Caterina (a destra), malgrado il decreto papale che vietava di ritrarre le prostitute. Ecco come la descrive
Peter Robb nel suo libro “L’enigma di Caravaggio”:
“L’elettrizzante duplicità della sua presenza, avvincente come simbolo di giovane donna impavida, seduttiva
e sovversiva per se stessa, avviò irreversibilmente l’artista verso quella maniera drammatica che, non meno
della sua tecnica di rappresentazione, di cui si è tanto
più parlato, ne avrebbe fatto la grandezza di pittore.
Una volta dipinta Fillide, Michelangelo non poteva più
tornare indietro: né all’indolente sguardo di un Mario
amabilmente annoiato, né all’affascinante ma puramente pittorica immobilità di gruppi come il Concerto
di giovani, San Francesco in estasi o il Riposo nella fuga
in Egitto. (...) Una volta che l’ebbe dipinta, tutto il resto
passò in secondo piano: persino i suoi ritratti, persino le
nature morte si volsero inesorabilmente in dramma.
Fillide era la modella di Michelangelo, ma forse, nel riera probabilmente quella di Michelangelo, che qualche
tratto successivo che egli le fece, giocò una parte la
anno prima le autorità gli avevano trovato addosso e
vita. L’artista era nella folla che aveva accompagnato
l’ufficiale addetto alla confisca aveva brevemente deBeatrice Cenci al patibolo. C’era quasi tutta Roma, e
scritto nel suo rapporto.
quasi tutta Roma s’era appassionatamente identificata
Il quadro fu semplicemente il ritratto di giovane donna
con l’incantevole e intrepida giovane nobile schiacciata
più bello che l’artista mai dipinse, il solo in cui giovidal regime. Nel 1599, l’anno stesso della tragedia Cennezza e bellezza femminili fossero l’unico oggetto d’atci, Michelangelo ritrasse Fillide per Del Monte nella tela
tenzione. Fillide era ritratta come santa martire senza
più grande e formale che avesse mai dipinto: un’imlabbra socchiuse, seni nudi o raggi di luce celeste. Il suo
magine di Santa Caterina di Alessandria, incantevole
sguardo franco era più virile di quello di qualunque dei
e intrepida giovane nobile schiacciata da un più antiragazzi fino ad allora dipinti da Michelangelo, ma era
co regime. Attorno a lei, gli strumenti di un’imminente
uno sguardo interrogativo e adombrato da una vulneterribile morte. Nulla di trascendente emanava dall’agrabile e profondamente toccante incertezza”.
giunta dell’aureola, dalla palma del martirio o dalla crudele ruota dentata. L’ancora più sinistra e professio- Negli anni successivi Michelangelo continuò la sua
nale spada, lunga lama fatta per fendere e penetrare, vita fatta di risse, ubriacature, polemiche e liti giudi-
ARTE
102
ziarie fra pittori, dividendo il suo erotismo fra Fillide
e Cecco, mentre la Bianchini scomparve dalle sue
opere. Ma non per sempre.
La ritroviamo, penosamente, nel 1604 nella “Morte
della Vergine”, commissionata dalla famiglia Lelmi
per decorare la propria cappella gentilizia: Anna
era appena stata ritrovata nel Tevere, annegata,
con il volto tumefatto e Michelangelo, sempre ossessionato dal verismo, ma stavolta anche sopraffatto dalla pena, volle ritrarla un’ultima volta nel
viso della Vergine morta. Naturalmente Roma era
piccola anche allora e quando il committente seppe che come modella per la Vergine Michelangelo
aveva usato una che tutto era tranne che vergine,
rifiutò il quadro senza pagarlo.
Ma forse una cortigiana dal carattere e dalle frequentazioni di Fillide era troppo per un pittore dal
carattere ribelle e dal temperamento focoso, talmente orgoglioso da considerarsi “qualcuno”, senza
comprendere appieno che nel suo tempo essere un
grande artista ti guadagnava, sì, la protezione dei
potenti, ma sempre con la riserva di una posizione
poco più che servile. Caravaggio portava la spada
e si atteggiava a gran gentiluomo ed alla fine, nella
sera del 28 maggio 1606, avvenne il fattaccio.
FORUM - GIUGNO/10
Fillide da sempre aveva un protettore, a capo di una
banda di bulli filospagnoli, tal Ranuccio Tommasoni
da Terni.
Nell’ennesima rissa seguita a discussioni di osteria
sulle fazioni pro o contro il Papa Borghese3, ma in
realtà a causa della sorda rivalità per Fillide, di cui
3 Paolo V Borghese era stato eletto da meno di un anno con
l’appoggio del Re di Spagna succedendo a Leone XI Medici,
filofrancese che aveva regnato per soli 17 giorni, essendosi
gravemente ammalato poco dopo la proclamazione. Caravaggio era protetto dal Cardinal Del Monte, imparentato con i Borbone di Francia.
103
Michelangelo era il cliente-innamorato, ma l’altro
il protettore-padrone, il pittore ferì mortalmente il
rivale. Ci fu un processo con un verdetto severissimo: Caravaggio venne condannato alla decapitazione, eseguibile sul posto da chiunque lo avesse
riconosciuto.
Iniziava il periodo della fuga e delle angosce, facilmente leggibili nei macabri autoritratti nei quali il
pittore si raffigurava nella testa mozzata del condannato.
SALUTE
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Una bocca sana...
e alla portata di ogni tasca
Con l’evoluzione
tecnologica nel
campo della chirurgia dentaria
oggi chiunque
può tornare ad
avere una bocca
sana a costi del
tutto ragionevoli, anche se i
denti mancanti
sono molti.
Se poi il paziente necessita di
ricostruzione
ossea e gengivale (cosa che
accade in gran
parte dei casi)
l’intervento,
impianto incluso, è gratuito in
quanto a carico
del SSN.
La riabilitazione del paziente edentulo per mezzo
di impianti osteo-integrati
è diventata oggi pratica
comune, con risultati affidabili a lungo termine.
La maggioranza dei pazienti che necessitano di
una protesi convenzionale
non hanno difetti così ampi
e non richiedono interventi
chirurgici complessi.
Il problema è
più articolato
per i pazienti
edentuli con
grave stato di
ipotrofia del tessuto osseo delle
arcate dentarie mascellari e mandibolari che non
è più idoneo a sostenere
una protesi convenzionale.
In questi pazienti, in virtù
delle nuove tecnologie chirurgiche, e possibile praticare la ricostruzione ossea
e restituire alle strutture
ossee mascellari e mandibolari una nuova struttura
idonea a ricevere gli impianti necessari per la riattivazione dei denti.
o extra-orali (autologo), di
banca o sostitutivo altresì
l’inserimento diretto senza
ricostruzione di fixture in
titanio specifiche, cioè progettate per le zone particolarmente atrofizzate.
A tal proposito abbiamo intervistato il responsabile del
Day Hospital di Chirurgia
Orale e Odontostomatologico della c.d.c Siligato* di
Roma convenzionata con il
Servizio Sanitario NazionaLe tecniche chirurgiche le, il Dr. Pasquale Frisina
hanno lo scopo di ripristi- (nelle foto).
nare il giusto volume osseo
Cos’è l’implantologia?
tramite innesti e ricostruzioni con osso prelevato È una tecnica con cui è
dal paziente da sedi intra possibile inserire delle viti
FORUM - GIUGNO/10
o più generalmente dei
supporti in titanio nell’osso che riproducono una
radice artificiale, su cui
è possibile confezionare
dopo un periodo di tempo variabile di guarigione
la protesi fissa.
Tutti ne possono usufruire?
Assolutamente si. Spesso
una cattiva informazione
spinge i pazienti a diffidarne, ripiegando sulla
classica dentiera, anche
per colpa di alcuni dentisti
che preferiscono un facile
guadagno rispetto al faticoso training formativo a
cui ci si deve sottoporre
per effettuare un’implantologia, anche se solo di
base.
Quindi la dentiera può essere considerata un ricordo?
La cultura dell’estrazione
dei denti aggrediti dalla
piorrea è di fatto la causa
più frequente di edentuli-
Questo dovrebbe essere un dogma nella
professione odontoiatrica. Fanno eccezione
solo i pazienti gravemente defedati e chi effettua
radioterapia.
Molto spesso si parla di
mancanza d’osso. Cosa
smo, quando invece con fare in questi casi?
tecniche di rigenerazione
La mancanza d’osso può
è ormai possibile procraessere risolta con degli
stinare la caduta denti e
innesti autologhi (dallo
in molti casi scongiurare
stesso paziente) o con
per tutta la vita l’estramateriali sostitutivi d’oszione.
so, oppure con tecniche
La moderna implantolo- implantologiche specifigia e le nuove tecniche che per le zone atrofiche
chirurgiche di rigenera- e cioè con gli impianti zizione ossea ci permetto- gomatici o con gli efficano di riabilitare con una cissimi “impianti a lama”
dentatura fissa qualsia- ideati ben 40 anni fa dal
si paziente. Le protesi Prof. Lincao e ripensati in
mobili dovrebbero esse- chiave moderna dal Prof.
re considerate da tutta Pasqualini.
la categoria dei dentisti
Quali sono i principali vancome obsolete e comuntaggi dell’implantologia?
que applicabili solo per
La protesi fissa su imbrevi periodi.
pianti permette l’integrale ripristino della
capacità masticatoria,
che torna identica a
quella dei denti naturali,
a differenza di quanto
avviene con una protesi mobile o col classico
ponte. Inoltre viene assicurato il mantenimento della struttura ossea
105
delle mascelle.
La Sanità Pubblica aiuta
i pazienti ad accedere a
tali prestazioni?
Si. Perché il problema non
è solo estetico ma anche
funzionale. Il servizio
sanitario
nazionale
ammette il ripristino
della struttura ossea.
Infatti presso il day surgery della struttura in cui
opero in convenzionamento con il S.S.N è possibile effettuare tali interventi in convenzione.
C’è rischio di un rigetto?
No, perché il titanio è biocompatibile: un eventuale insuccesso è imputabile ad altre cause. Si tratta
tuttavia di una ristretta
percentuale di casi (limitata al 3%) e comunque
tali pazienti possono essere nuovamente operati.
Nella nostra esperienza
abbiamo potuto constatare che la maggioranza dei
nostri pazienti con difetti
molto ampi che si erano
presentati pensando di
ricorrere ad una protesi convenzionale, sono
stati tutti suscettibili di
intervento chirurgico con
risultati affidabili a lungo
termine (mb).
*Day Hospital 06 98875721, www.clinicasiligato.it
COSTUME
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È nata la filmtherapy
...quando film ci aiutano a stare meglio!
di Marina Bartella
È stato recentemente presentato per i tipi di Armando Editore
il volume “Filmtherapy” di Vincenzo Maria Mastronardi, autorevole criminologo clinico titolare
della Cattedra di “Psicopatologia
forense” e di Monica Calderaro
(foto in basso), docente di Grafologia e Filmografia.
Gli Autori hanno monitorato la
scelta di oltre 3000 film mirati
alla Filmtherapy, nonché di oltre
300 serie televisive, relativamente all’evoluzione sociologicocriminologica dagli anni ’70 ad
oggi.
Che il cinema ci possa aiutare a
stare meglio lo testimonia una ricerca iniziata nel 1989, dalla quale il volume trae ispirazione, sulle
ripercussioni emozionali della visione di 1500 film su pazienti in
terapia e su un campione di persone comuni, classificati per tematica psicologica a ciascuno dei
quali è stata associata la relativa
prescrizione terapeutica, incluse
le modalità psicologiche con cui
approcciarsi al singolo film.
Problemi di comunicazione di
coppia, stress lavorativo, adolescenza e passaggio nell’età
adulta, conflitti familiari, modelli
di riferimento e aumento delle
proprie sicurezze, disturbi fobicoossessivi sono soltanto alcune
delle voci di questa “enciclopedia
psicofilmica” rivolta a tutti.
Ogni lettore potrà ritrovare argomenti legati alla necessità del
nostro vivere quotidiano, non
raramente causa di disagi e di
perplessità intrapsichiche e interpersonali.
Il volume contiene infine una sezione dedicata alla figura dello
psichiatra nella storia del cinema.
FORUM - GIUGNO/10
Una nuova tecnica chirurgica
consente la deambulazione nella
stessa giornata dell’intervento
posizione le correzioni ottenute senza
l’uso di mezzi di sintesi all’interno. Il
paziente deambula subito adoperando una particolare scarpa con suola
rigida per 4/5 settimane e sottoponendosi a controlli per la sostituzione
del bendaggio stesso.
Alluce valgo
Le frontiere della chirurgia vanno
sempre più aprendosi a tecniche che
rispettino il paziente e le sue attività relazionali, tra cui notevole è la
chirurgia percutanea che consente
di aggredire le strutture deformate
con piccole incisioni, riportando gli
assi nelle giuste direzioni, attraverso
strumenti di alta precisione.
La tecnica nata negli Stati Uniti e diffusa in Europa grazie all’esperienza
praticata in Spagna ha raggiunto anche in Italia una notevole affidabilità.
In special modo è ormai il gold standard nell’approccio dell’alluce valgo:
un problema di non semplice soluzione, spesso invalidante e doloroso,
per il cui trattamento negli ultimi 100
anni sono state presentate molte decine di metodiche.
“Grazie ad alcuni stages sulla Mini
Invasive Surgery (M.I.S.) frequentati
in Spagna a cura del Dott. Eduardo
Nieto e della Dott.ssa Leonor Ramirez
Andres – ci dice il Dott. Nicola Caccavella* (foto sotto) – nel 2004 ho introdotto presso la Clinica Sanatrix in
Napoli tale tecnica per il trattamento
delle patologie dell’alluce valgo. I risultati
sono stati lusinghieri
sia nella clinica sia nel
gradimento del paziente con la netta diminuzione della sintomatologia dolorosa e
la possibilità di eliminare immobilizzazioni
107
Diminuiscono così le problematiche
legate ad infezioni o ai rischi di complicanze vascolari o a intolleranze per
l’anestesia generale.
all’arto con possibilità di riprendere
subito la deambulazione.”
L’iter terapeutico è semplificato al
massimo: il paziente pratica l’intervento in Day surgery, l’anestesia è
con tecnica tronculare o addirittura “locale” e cioè attraverso piccole
punture sul piede. ”Una metodologia che ricorda quelle praticate negli
studi odontoiatrici da cui – ricorda
il Dott. Caccavella - abbiamo preso
in prestito anche lo strumentario:
motori con alta coppia di forza per
triturare l’osso con minimo sforzo e
l’utilizzo di piccole frese.” Il risultato
è che attraverso piccoli fori si procede all’asportazione della tanto odiata
esostosi (bunion) e si praticano osteotomie degli assi ossei deformati secondo particolari inclinazioni.
I gesti chirurgici sono controllati con
l’ausilio della scopia
radiografica per limitare i rischi di imprecisioni.
Il piede viene poi fasciato con un particolare bendaggio il
cui scopo è quello di
mantenere in buona
“Non bisogna però dimenticare delle
regole generali di buon monitoraggio
– conclude il Dott. Caccavella- perchè comunque il paziente si è sottoposto ad un intervento chirurgico:
la ripresa delle normali abitudini di
vita deve essere graduale, il paziente
deve deambulare proprio per evitare
gonfiori legati all’immobilità ma senza esagerare proprio nei primi giorni
post operatori.Il controllo del medico operatore è indispensabile e solo
dopo un mese si permette l’utilizzo di
scarpe comode.Inoltre il trattamento
è completato da un attento esame
dell’appoggio del piede per rieducare
l’appoggio plantare. Utilissimi sono
inoltre l’attuazione di massaggi linfodrenati per il recupero della buona
mobilità delle dita per un eventuale
irrigidimento delle strutture capsulari.
Da sottolineare infine che la chirurgia
del piede, indipendentemente dalle
tecniche usate, non può assicurare
che non vi siano complicanze o ricadute: comunque proprio per la metodica mini invasiva attuata sarà più
facile riprendere un gesto chirurgico
di correzione.” (m.b.)
*Dott. Nicola Caccavella
Responsabile U.F. Ortopedia
Clinica Sanatrix- Napoli
[email protected]
COSTUME
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