MEDIUM by P. Priorini
Transcript
MEDIUM by P. Priorini
2 anno nono N° GIUGNO 2010 ATTUALITÀ Il senso della vita? Cosa dobbiamo aspettarci dalla biogenetica? (pag. 6) La speculazione all’attacco dell’euro Perché serve una vera politica comunitaria. (pag. 12) Declino e morte dell’ideologia rinascimentale Come i Piemontesi riscrissero la Storia. (pag. 22) Mafia, Camorra e n’Drangheta I più indovinati prodotti dell’Unità Nazionale. (pag. 34) Caravaggio bisex I suoi modelli, le sue passioni. (pag. 96) MAGAZINE fondato da Lorenzo Paolini DI STORIA, ARTE, CULTURA SOCIETÀ, COSTUME, SALUTE STORIA San Pietro? Mai messo piede a Roma! Come nacque nel II secolo d.C. il mito che legittimò il Papato. (pag. 60) Nerone, angelo o demone? Seconda parte. (pag. 42) PSICOLOGIA Il segreto del velo Sessuofobia: ormai una patologia per i maschi islamici. (pag. 80) COSTUME 2 FORUM - GIUGNO/10 EDITORIALE 3 Centocinquanta anni fa Garibaldi aveva appena preso Palermo, ingenerando aspettative che appena sei anni dopo erano già state amaramente deluse. Ne parliamo in questo numero con la convinzione che in un momento in cui molti degli ex “liberatori” auspicano una separazione, sia utile ricordare loro che le cose non andarono proprio come i libri di storia ci hanno sempre indotto a credere... FORUM vi augura... buon centocinquantenario!!! Abbiamo promesso di essere obiettivi e super partes e se possiamo riuscirci dobbiamo ringraziare Internet che ci consente di poter parlare a migliaia di lettori ad un costo tendente allo zero. Nella precedente vita di Forum per poter parlare liberamente di cose talvolta scomode dovemmo accettare qualche contribuzione (ahimé carta e tipografia costano!) da politici che ci chiedevano in cambio (giustamente, per carità!) alcune di quelle che in gergo definiamo “marchette”. Ora che ci sentiamo totalmente liberi possiamo affrontare qualsiasi tema senza il timore di offendere nessuno, con un unico obiettivo: raccontare il vero (o quantomeno ciò che in buona fede riteniamo lo sia). Quest’anno ricorre un anniversario importante: sono 150 anni che questo Paese ha iniziato ad unirsi. I risultati, come appare lampante, non sono straordinari, ma io sono convinto che ciò dipenda dal nostro DNA e che malgrado tutto questo sia un luogo bellissimo dove vivere ed amare. Ecco perché in questo e nei prossimi numeri vogliamo ricordare tante verità che oggi molti sembrano non conoscere: che il Nord, ad esempio, ha un grande debito con quel Sud di cui vorrebbe liberarsi e che ha occupato quasi con la forza, spogliandolo di enormi ricchezze. Che la criminalità organizzata è oggi così forte ed invasiva non perché i meEdito da “FORUM della SOCIETÀ CIVILE ONLUS” Associazione di Volontariato culturale ed intellettuale, apolitica, senza scopo di lucro e con fini di utilità sociale. Via di San Donato di Ninea 24, Roma ridionali “sono tutti mafiosi”, ma perché i “liberatori” hanno commesso tali e tanti errori da creare un fertile terreno di coltura per chi si arrogava il diritto di difendere la povera gente dall’arroganza e dalle prepotenze dei “forestieri”. In questo numero parliamo anche di un’altra verità scomoda che in genere si preferisce ignorare: negando la venuta di Pietro a Roma non intendiamo eseguire un mero esercizio filologico, ma ripercorrere quel lungo processo attraverso il quale i Vescovi di Roma si sono arrogati il diritto di rappresentare Dio su questo umile pianeta. Ovviamente ammiriamo ed apprezziamo l’insostituibile attività che la Chiesa Cattolica svolge nelle parrocchie, nelle missioni, negli ospedali e, come la maggior parte dei laici, abbiamo plaudito al mai troppo rimpianto Giovanni XXIII nel suo sforzo, attraverso il Vaticano II, di portare la Chiesa nel terzo millennio. Tuttavia nessuno può negare che la svolta reazionaria dei suoi successori abbia spesso provocato tensioni e conflitti con le istituzioni laiche e determinato scelte da molti non condivisibili. Sapere dunque che la Cattedra da cui spesso provengono dure critiche, quando non anatemi, non è del tutto legittimata a pronunciarli può togliere qualche peso dalle coscienze di quei cristiani che talvolta confondono la Fede in Gesù con l’obbedienza ad una Curia dalla quale spesso dissentono. (lp) magazine [email protected] - www.forum2.it Aut. Tribunale di Roma N° 332/2002 Fondato da Lorenzo Paolini e Marina Bartella Presidente: Lucio Macchia Direttore Editoriale Lorenzo Paolini 4 Mani che stringono troppo forte. Mani che sfiorano e non solo. Mani armate. Mani che spingono in strada, mani che costringono in casa. Mani “che grandi mani che hai”. Mani che scendono. Mani all’improvviso. Mani dalle carezze nascoste. Mani che offrono. Mani che dovrebbero rimanere fra le mani, in tasca, in catene. Mani che ogni giorno cerchiamo di fermare. www.casadomenor.org FORUM - GIUGNO/10 5 IN QUESTO NUMERO ATTUALITÀ STORIA Il senso della vita di Giuseppe De Vita pag. 6 Nerone: angelo o demone? di Lorenzo Paolini pag. 42 C’era una volta il Golem di Marina Bartella pag. 10 Politica contro speculazione o deficit di politica europea? di Massimo Ortolani pag. 12 San Pietro? Mai messo piede a Roma. di Lorenzo Paolini pag. 60 PSICHE Il segreto del velo di Piero Priorini pag. 80 Declino e morte della ideologia risorgimentale di Gianni Cara pag. 22 Mafia, Camorra e n’Drangheta i più riusciti prodotti della Unità Nazionale di Vito Lo Scrudato pag. 34 SALUTE Una bocca sana e alla portata di ogni tasca di Lucio Macchia pag. 104 È nata la filmtherapy pag. 106 ARTE Caravaggio: erotismo e passione di Gabriella Pesa pag. 96 La nuova chirurgia dell’alluce valgo pag. 107 di Marina Bartella LINGUAGGIO Parole, parole, parole... di Lorenzo Paolini pag. 94 COSTUME 6 La nuova scoperta di Craig Venter apre nuovi orizzonti alle biotecnologie, avvicinando l’uomo alle fonti della vita. Si tratta di una tappa esaltante nel percorso della civiltà e della conoscenza, eppure c’è chi lo vede come un fatto inquietante. Il senso della vita di Giuseppe De Vita* *Psichiatra, psicoterapeuta, docente di Psicologia Dinamica C.A. dell’Università degli Studi Roma Tre [email protected] Direttore gentilissimo, lettori carissimi vorrei condurvi in un luogo fitto di misteri dove proverò a farvi intravedere “meravigliosi giochi” della mente, alla portata di ognuno di voi. La scienza è come un corpo di ballo che, nel tempo, ha privilegiato far esibire alcune ballerine, tutte importantissime e affascinanti: la fisica, la chimica e la matematica. Oggi sul palcoscenico la prima ballerina è la genetica. L’onore della cronaca tocca a lei grazie a Craig Venter. FORUM - GIUGNO/10 Ma prima di addentrarmi nei particolari della sua meravigliosa scoperta, che già alcuni considerano come “la creazione della vita” debbo chiarire una cosa: la vita non esiste. È solo l’esperienza espressa da un “concetto” circondato da molti dogmi e zeppo di prosopopee. Esistono invece “gli esseri viventi” dotati di un insieme di “qualità” che chiamiamo vita. Gli esseri viventi… (che spettacolo variegato, straordinario…) sono dotati di forme sorprendenti: i batteri, i tigli, i leoni, gli elefanti, le spugne. Essi hanno alcune proprietà in comune che permettono di distinguerli dal mondo inanimato, non vivente. La prima delle sei proprietà caratteristiche della vita o degli esseri viventi è: - Un livello di organizzazione molto complesso: molecole semplici (Carbonio C, Idrogeno H, Ossigeno O, Azoto N, Zolfo S, Fosforo P) si uniscono a formare macromolecole con struttura e funzione specifica “della vita” dell’organismo di cui fa parte. Alcune macromolecole combinate insieme formano il corpo di un organismo; altre, non combinate, attivano processi essenziali per dare continuità “alla vita” di quell’organismo. Le restanti cinque caratteristiche dell’organismo sono: - I viventi hanno una organizzazione fisico-chimica molto diversa dall’ambiente esterno in cui sono collocati. Codesta organizzazione, pur formata e funzionante con gli stessi atomi e molecole dell’esterno, mantiene il proprio “interno” costante. Questo fenomeno fisiologico (omeostasi) serve a favorire l’oscillazione dei parametri vitali entro valori che permettono la crescita dell’organismo vivente. - I vegetali, attraverso la fotosintesi (autotrofi), gli animali e i saprofiti (i parassiti) mangiano le piante o gli altri animali (eterotrofi), hanno la capacità di prendere, trasformare e usare energia dall’ambiente esterno. - Tutti i viventi rispondono, in maniera percettibile e misurabile, agli stimoli meccanici, fisici, chimici. - Tutti gli organismi viventi si possono (non si “devono”) riprodurre. - I viventi hanno la capacità di adattarsi all’ambiente. Noti gli organismi viventi come distinguere i viventi dai non viventi? Nella maggior parte dei casi dalla capacità dei viventi di “autoprodurre movimento”. Infatti, da alcuni esperimenti fatti da Paul Bloom (psicologo clinico) nel 2009, sembra che la distinzione fra viventi e non viventi si 7 basa “solo” su un’idea “intuitiva di tipo dualistico”. Dice Bloom che noi umani, indipendentemente da fedi o dottrine distinguiamo viventi e non viventi “d’emblée” senza vagliare minimamente ciò che abbiamo intuito. Ancora più sorprendente è che la maggior parte degli uomini e delle donne sono certi che c’è un “qualcosa” che sopravanza la morte del corpo. Sempre per il nostro “dualismo intuitivo”. Non finisce qui lo stupore. Anzi aumenta. L’area cerebrale degli umani che si occupa di rilevare ciò che è vivo è in tutti “ipertrofica” sviluppatissima. Ora è più facile capire perché spesso vediamo facce nelle nuvole, volti sulle macchie dei muri; udiamo voci nei ronzii della radio e diamo scopi ad oggetti inanimati: probabilmente per una funzione di adattamento evolutivo. È stato ed è più prudente meno dispersivo ipotizzare un “nemico agente” per attivare meccanismi di difesa piuttosto che indagare eventi casuali di oggetti inanimati. È troppo inverosimile e pauroso pensare che sia il vento a muovere le foglie. È molto meglio credere che ciò dipenda da un movimento, dal suono di un nemico così posso cercare di fuggire, di trovare rifugio ed agire con prudenza. COSTUME 8 A questo punto si capisce che da qui al soprannaturale (angeli, demoni, dei…) il cammino è breve. L’esistenza è piena di “agenti invisibili” che andrebbero riconosciuti, indagati, studiati. Troppo articolato, complesso. Meglio per noi credere che pensare. Ecco che il “senso della vita” si blocca di fronte alle credenze e allora la maggior parte degli umani è convinta che “qualcosa” sopravanzi la morte cosa mai può interessare che il senso vero, unico della vita (finalmente ci sono arrivato!) è la conoscenza, sia pur con tutti i suoi limiti e le frustrazioni. Credere, molto meglio credere “intuitivamente” che capire. Ma noi non molliamo e fiduciosi guardiamo verso l’ignoto senza paura convinti che il tantissimo che non conosciamo sia una sfida ma un patrimonio a disposizione dell’umanità. ...ma torniamo a Venter Sino al 2009, il “senso della vita”, - già era proprio di questo che vi volevo parlare - era dato da geni (piccole unità che si replicano in ogni essere vivente, composte di una base azotata, uno zucchero e una molecola di acido fosforico) che individuiamo come capitoli nel grande libro della vita: il genoma. Fino a ieri indagare geni e genoma rappresentava un’analisi della natura e del significato dei diversi genomi. L’indagine sulle molecole della vita (DNA -RNA) e sulla vita all’improvviso si ferma, c’è una sospensione. Un vuoto. Craig Venter decide di smettere di analizzare, ma va oltre, vuole progettare e costruire genomi. Su misura. È una rivoluzione? Non ancora. Craig Venter Venter decide di inserire queste sequenze di geni sintetici in cellule che funzionano, vivono con questo DNA sintetico. Per ora è solo un batterio, ma funziona. “Sintetico” sa di “finto”, di “bassa lega”. Non è così. Sintetico è l’aggettivo – perdonate la prolissità - del sostantivo “sintesi”. Cosa ha pensato e poi fatto Graig Venter? Si è detto “provo ad assemblare in laboratorio gli elementi chimici semplici (Carbonio C, Idrogeno H, Ossigeno O, Azoto N) e compongo come nel gioco dei lego questi elementi chimici inerti sino a formare le quattro basi azotate (cinque con l’uracile del RNA) le unisco al desossiribosio (zucchero a cinque atomi di carbonio a forma di pentagono mentre il glucosio è a sei atomi di carbonio a forma di esagono) e li dispongono in sequenza di triplette (ogni tripletta è un codone). Fatto ciò lo inserisco in un batterio e vediamo cosa succede”. Straordinario! Il batterio sequenza il DNA di sintesi, lo inserisce nel suo patrimonio genetico. Strepitoso! Lo fa suo! Il batterio è guidato dal DNA inserito: è un DNA artificiale. Ora ci proverà con la cellula, più articolata e complessa di un batterio. Cosa vuole Venter? Solo formattare batteri che facciano ciò che è più utile fare: 1) Pulire l’aria; 2) Purificare il suolo; 3) Produrre energia (combustibile) da alghe sintetiche “Su bravo, proviamoci!» Ma non dovevamo parlare del senso della vita? Si certo. E sappiamo FORUM - GIUGNO/10 quanti ci vorrebbero zittire. forse questa volta ci siamo riusciti - a “piegare” i geni a nostro van“Arroganti, presuntuosi! Chi vi taggio dopo millenni di ignoranza credete di essere?» e superstizione. Con il DNA-RNA artificiale possiaQuello che or ora abbiamo appremo indurre batteri e cellule a funso creerà nuovi problemi, ma non zionare in modo tale da fare ciò è con il rifiuto, l’ignoranza, la fede che è meglio. ad oltranza che si trovano le soNon ciò che è perverso. luzioni. Il nostro patrimonio è la conoscenza. Bene, cerchiamo di Mi spiego: Se una cellula embriovalorizzare tutte le nostre risorse, nale vira verso un tumore, una senza sensazionalismi, ma dicenpatologia grave, perché una sedo le cose come stanno. quenza di codoni e dei suoi complementari anticodoni obbliga a Insomma quello straordinario produrre una proteina che, a ca- scienziato che è Craig Venter è riscata, stimola un gruppo di cellule uscito veramente a produrre un malate a produrre cancro o altre organismo che si riproduce i cui malattie, perché dobbiamo stare “genitori” sono le sue idee e un a guardare “la volontà della natu- computer. ra” e non intervenire? Graig ha preso un batterio dalle Noi inseriamo sequenze genetiche capre “mycoplasma mycoides” sintetiche che “sappiamo” essere e ha ottenuto un altro batterio il capaci di bloccare la vita “cance- “micoplasma laboratorium” perrogena” della cellula/e che vanno ché in esso ha inserito il genoma verso la distruzione. Induciamo sintetico. un blocco, anzi, un cambio di proÈ da anni che la biologia e la gespettiva. netica sintetica producono moleLa vita non è “qualcosa di specia- cole in vari campi (farmacologico, le”, è una duplicazione che, quan- agricolo…), creano nuovi matedo rispetta la sequenza giusta, riali, (combustibili); sviluppano produce benessere: merce rara. circuiti bio-elettrici, bio-sensori... ma ora è il tempo di un ulterioÈ così semplice “il senso della re avanzamento (vero grande vita”. Eppure tanti non tollerano Bion?). quello che ho espresso in queste poche frasi. Disprezzano quello Ora ci servono nuovi paradigmi che ho affermato senza porsi le utili al “fare” per il bene dell’umadomande giuste, senza verificare, nità e per nuovi dialoghi anche col senza capire. Stiamo cercando – e mondo religioso. 9 Certo che la biologia e la genetica sintetica sono a doppio uso: può produrre molecole utili e molecole “patogene”, ma è l’umanità che deve dare le risposte giuste. Con l’esempio, il saper fare. Certo vanno elaborate norme, codici nuovi, ma sarà sempre l’etica – non la morale - che ci spingerà verso il futuro. La ricerca fa capire a tutti che “non si gioca a fare DIO. Ma quanti sono i religiosi che, non si sa bene a quale titolo, si sentono “padroni del verbo di Dio” e con ignoranza ed arroganza entrano in un merito che spesso non gli compete? Tanti, ma davvero tanti. Un’ultima riflessione: la vita è combinazione pertinente di elementi secondo modelli di combinazione efficaci anche se complessi. Le ultime scoperte sono “una ribellione” alla natura per garantire a tutti i viventi una qualità migliore dell’esistenza. Utilizziamo bene tutto questo e ne verranno buone ricadute su tutto: politici, società, mondo intero. COSTUME 10 C’era una volta il Golem... di Marina Bartella Craig Venter, in un’intervista rilasciata al quotidiano britannico Guardian, ha annunciato di aver creato la prima vita artificiale: «Creare la vita è una prerogativa di Dio», scrive l’Economist annunciando al mondo la scoperta di Venter «e ora appare come uno choc apprendere che comuni mortali sono riusciti a fabbricare la vita artificiale»1. Uno choc, relativamente nuovo, «un passo filo- visto che da sempre sofico cruciale l’uomo sogna di poter dare la vita ad per la storia del- una sua creatura fatta in casa. la nostra spe- Quella del Golem, ad esempio, fu una legcie: passiamo genda medioevale ebraica molto popolare dalla lettura del che terrorizzava grandi e piccini: attraverso codice genetico arti magiche e formulando parole cabalistialla capacità di Venter è lo scienziato padre di scoperte sensascriverlo. Que- 1 Craig zionali: dalla lettura del genoma alla creazione della vita artificiale. Fu il primo a ricostruire il genoma sto ci dà la caumano nel 2007, e nel 2009 aveva eseguito il primo pacità ipotetica trapianto di Dna trasferendo il genoma (naturale) da un mycoplasma ad un altro. di fare cose mai prima cellula sintetica è dunque una cellula in sé contemplate in La naturale ma regolata artificialmente: siamo ormai nella fantascienza, unendo i due procedimenti, gli precedenza». scienziati hanno trapiantato il Dna sintetico caricandolo, come si fa con un programma del computer, in una cellula batterica privata del suo Dna naturale. La cellula vive. Non dobbiamo tuttavia dimenticare le enormi polemiche di cui Venter e la sua multinazionale, la Celera Genomics, sono stati oggetto: accusati fra l’altro di voler brevettare parte dei geni del DNA umano. che un sapiente poteva fabbricare il Golem, un gigante di argilla di straordinaria forza e cieca obbedienza, da impiegarsi come servo per svolgere lavori pesanti o come difensore del popolo ebraico dai suoi persecutori. Il Golem era tuttavia incapace di pensare, di parlare e di provare qualsiasi tipo di emozione, perché era privo dell’anima. Ogni versione della leggenda implicava però delle controindicazioni: in una i Golem diventavano sempre più grandi, finché diveniva impossibile servirsene, in altre essi sfuggivano al controllo fino a distruggere tutto ciò che incontravano, in quasi tutte al termine della storia Dio interveniva ad ammonire gli uomini a non servirsi più di queste creature innaturali. E siamo dunque tornati al punto: è così contrario alla natura che la scienza dell’uomo possa arrivare ad essere talmente avanzata da poter far scoccare la scintilla della vita in un essere da lui creato, che divenga così capace di funzionare, nutrirsi, crescere, riprodursi? Oppure possiamo essere autorizzati a pensare che la creazione sia una catena infinita di creatori-creature, al termine della quale c’è un principio desti- FORUM - GIUGNO/10 11 nato a rimanere inconoscibile e sconosciuto? Ma innanzitutto, cos’è la vita? Cos’è quella scintilla che mette in moto il meccanismo e che cessa di scorrere quando questo si ferma definitivamente. Allo stadio attuale delle conoscenze nessuno può avanzare ipotesi scientifiche, eppure su una materia così misteriosa tutti vogliono basare un sistema etico che, tuttavia, rischia di essere diverso a seconda delle diversità fra le idee delle persone. In realtà la biologia, la chimica, perfino la genetica, credendo di rispondere alla domanda “cosa è la vita” ci dicono solo cosa “fa” la vita e quali sono le sue caratteristiche minimali. Mentre da ogni fazione si raccomanda, di fronte all’avanzare della biogenetica, di far crescere di pari passo un sistema etico adeguato, tali raccomandazioni in realtà nascondono soltanto la voglia di imporre le regole delle proprie fedi. L’attuale papa, che non brilla per progressismo, ha in proposito affermato: “l’attuale società “post-moderna” è particolarmente caratterizzata dagli effetti prodotti dagli sviluppi della “tecnoscienza” che si accompagnano alla crescita del “relativismo etico”. Questa battaglia contro il relativismo ha caratterizzato fin dagli inizi l’azione apostolica di Ratzinger che ha così continuato: “se quello sviluppo - che già di per sé tende a favorire l’illusione di una onnipotenza dell’uomo non si accompagna ad una adeguata crescita della nostra “coscienza etica” il pericolo può divenire enorme. Ed è proprio ciò che si sta verificando, in quanto agli sviluppi della tecnoscienza non corrisponde una salutare crescita della nostra “coscienza etica” bensì si va verso una deriva relativista, dando così luogo ad una pericolosa miscela”. In realtà il problema non risiede in questa “deriva”, ma nel fatto che le priorità etiche alla base delle scelte del mondo laico, sono diverse da quelle cattoliche, che partono dal presupposto che le proprie regole siano “vere”, condannando le laiche come false. In realtà entrambi i sistemi di pensiero sono in buona fede in quanto tendenti al bene in coerenza con i propri principi. Questa discrasia è, a ben pensarci essa stessa una sorta di “relativismo”, e ripropone il dilemma sulla scelta delle priorità alla base di un sistema etico. Ritengo che, con l’avanzare delle scoperte in biogenetica, le problematiche etiche cresceranno in maniera esponenziale ed il nocciolo del problema si sposterà verso un dilemma di difficile soluzione. Non si tratterà infatti di “far crescere la nostra coscienza etica”, (che sottintende la speranza che tutti si convertano sulla via di Damasco, abbandonando la “deriva relativistica”) ma di trovare la maniera di mediare tra le convinzioni dei cattolici e quelle della società laica. Senza questa quadratura del cerchio assisteremo impotenti ad un’interminabile battaglia fra Gog e Magog a tutto vantaggio delle multinazionali che continueranno a brevettare geni ed a produrre OGM a danno dell’ambiente e dei più poveri. ATTUALITà 12 Il caso Grecia, ed i successivi interventi anti-speculazione della UE, descrivono a chiare tinte la gravità della crisi sistemica che ci ha investiti, in parte generata da una carente politica di stabilizzazione dell’area Euro. Politica contro speculazione o deficit di politica in area Euro? di Massimo Ortolani* Le sventurate vicende finanziarie della Grecia hanno di recente proposto all’opinione pubblica una serie di quesiti che trascendono di gran lunga il solo problema di come è stata definita l’exit strategy per questa nazione, la prima dell’area Euro ad essere bersagliata dal tiro incrociato della cosiddetta finanza senz’anima, unicamente vocata al profitto da trading speculativo sui titoli di stato di paesi con gravi problemi di bilancio pubblico. Il successivo downgrading del debito di Portogallo e Spagna, l’immediata reazione della Commissione e della BCE, unitamente agli accordi con il FMI, infine le immediate quanto tardive misure di risanamento dei conti predisposte dai paesi interessati inducono a riflettere su alcuni importanti fattori. Il primo è individuabile nella cronistoria e nel timing degli attacchi speculativi, il secondo nelle modalità e negli strumenti di difesa approntati per salvare non tanto la Grecia od il Portogallo o la Spagna, ma l’area Euro nel suo complesso, come lasciano intendere le proposte di riduzione deficit/PIL avanzate anche da paesi UE non PIGS. Le pagine della stampa economico-finanziaria hanno riportato come un fatto di cronaca politica l’andamento al ribasso delle quotazioni dei titoli pubblici della Grecia, a cui hanno fatto eco e sponda, temporalmente parlando, le decisioni delle agenzie di rating di procedere nelle operazioni di downgrading, sino ad eguagliare alcuni titoli del debito pubblico greco al rango di titoli spazzatura. Come mai solo ora? Se è vero come è vero che da anni si sapeva che i dati del debito pubblico greco erano truccati (grazie anche al probabile coinvolgimento di una importante banca di investimento ed advisoring anglosassone), e giacché i dati della debolezza degli altri paesi PIGS (Portogallo e Spagna in particolare) erano noti da tempo e reperibili su una molteplicità di fonti ufficiali, perché si è arrivati ad attaccare il debito greco e quello di tali paesi con una veemenza e quantità di risorse così concentrate temporalmente e quantitativamente? E perché i fondi asiatici ed americani che sembra siano gli occulti attori di tali attacchi speculativi non si sono anche concentrati su due nazioni che presentano anch’esse evidenti segni di debolezza sul piano sia del deficit che del debito rispetto al PIL, vale a dire USA e UK. *Economista finanziario La risposta che danno gli economisti in proposito è che si tratta di nazioni con potenzialità e rapidità di sviluppo economico molto più ele- FORUM - GIUGNO/10 vate dei PIGS che sono finiti sotto tiro, condizioni macroeconomiche che consentirebbero maggiori gradi di liberà alle politiche di aggiustamento fiscale. Ma la migliore risposta in tal senso è quella fornita dall’economista P. Krugman, quando sostiene che, “siccome il Dollaro è la principale valuta di riserva, un mondo dove l’America va in default non è pensabile”. 13 Anche se ormai sembra palese che gli speculatori conoscono meglio e prima delle istituzioni le reali situazioni di rischio di default ci permettiamo di dubitare, a questo proposito, della tesi dietrologica del complotto ordito nei confronti dell’Euro. Sebbene non esistano prove incontrovertibili che ATTUALITà COSTUME La speculazione necessita di concentrare attacchi ingenti proprio per generare quegli specifici effetti di panico massmediatico che creano quellaeco ingigantita necessaria ad ingenerare le condizioni finanziarie per realizzare ingenti ed immediati profitti. 14 portino ad escluderla1, ancorché sia risaputo che alcuni principali azionisti della società di rating sono importanti gruppi finanziari notoriamente coinvolti nel trading della finanza speculativa, ed ancorchè sia noto che il segreto professionale di chi opera all’interno di una società di rating risulterebbe difeso da sguardi ed orecchie amiche dalle potenti Chinese Walls di natura organizzativa, istituzionale e normativa che i vertici di tali società dichiarano di avere approntato nell’intento di sventare ogni possibile occasione di alimentare conflitti di interesse palesi o latenti. Ma crediamo che la speculazione abbia bisogno di concentrare ingenti risorse finanziarie proprio per generare quegli specifici effetti di panico massmediatico che creano una eco ingigantita necessaria ad ingenerare le condizioni finanziarie per un reddito da speculazione, e che non 1 Sulla stampa si è letto dell’interesse di una superlobby angloamericana interessata a rafforzare il Dollaro per rilanciare gli investimenti in USA, da cui la congiura contro l’Euro architettata a Manhattan l’8 febbraio scorso dai capi dei grandi “hedge funds”. si otterrebbero diluendo la concentrazione2. Come mai troppo tardi? È bene ricordare che, nel caso Lehman Brothers3, una delle tre sorelle4 ha continuato a mantenere la tripla A su tale banca sino a tre settimane precedenti la dichiarazione di fallimento. Al fine di evitare dunque che il comportamento oligopolistico delle tre sorelle continui a dispiegarsi se2 Per comprendere la portata di questo fenomeno basti pensare a quanto accaduto al Portogallo. È infatti successo che, per consentire al Portogallo di associarsi alla cordata dei paesi difensori dell’Euro e della Grecia, si è dovuta inserire una clausola che permettesse di sottrarsi al prestito di aiuto se il tasso di interesse da applicare (5% nel caso greco) risultasse inferiore a quello che nel frattempo il paese avrebbe dovuto pagare sul mercato per approvvigionarsi dei relativi fondi 3 Secondo il N. Y. Times - che è entrato in possesso di un documento classificato come strettamente confidenziale – la Lehman è riuscita ad occultare pubblicamente la sua reale situazione finanziaria avvalendosi degli interventi di una scatola societaria “Alter Ego” ad essa collegata, ma mai iscritta in bilancio, di nome Hudson Castle. sarebbe stata la J P Morgan, socia in affari della Lehman, a scoprire per prima il meccanismo con il quale Alter Ego operava al fine di occultare. 4 Standard and Poor’s, Moody’s, e Fitch condo criteri non plausibili sul piano della razionalità economica, sarebbe opportuna una legge - applicabile a livello europeo - che imponga alle società di rating che emettano giudizi su titoli del debito pubblico o quotati, nonché ai principali operatori di mercato (hedge funds in particolare) che agiscono nelle compravendite di tali titoli, di fornire in automatico alle autorità di controllo delle Borse europee predefiniti set di informazioni. Ciò dovrebbe avvenire all’atto della emanazione del downgrading o al compimento di operazioni definibili di natura “speculativa” secondo schemi di analisi comportamentali anch’essi predefiniti da un apposito comitato integrato da rappresentanti di dette autorità, della BCE, del FSB nonché, anche se può apparire azzardato, dei servizi segreti dei principali paesi UE. La reale portata degli aiuti immediati. È evidente come l’importo dei fondi che è stato annunciato come disponibile per tamponare gli effetti degli attacchi speculativi sia in- FORUM - GIUGNO/10 gente: 750 Miliardi di Euro. Dei quali 60 Miliardi saranno messi a disposizione dalla commissione (con le regole degli aiuti UE/FMI caso Grecia). A questi si aggiungeranno 440 Miliardi sotto forma di garanzie messe a disposizione attraverso lo Special Purpose Veichle (SPV) destinate al sostegno specifico della moneta unica, mentre il FMI aggiungerà almeno la metà del contributo europeo, quindi 250 Miliardi. Si tratta di un “fino a 750”, quindi di disponibilità ingenti che dovrebbero scoraggiare nuovi attacchi all’area Euro anche senza arrivare ad attivare l’intero importo, anche perché la compagine delle fonti lascia intendere che non si tratta di una difesa del perimetro europeo da parte dei soli stati membri, poiché l’intervento del FMI coinvolge anche quelle della FED, con le linee di concambio di USD. E c’è da tenere inoltre conto della forte preoccupazione espressa dallo stesso presidente Obama sulla tenuta dell’Euro, dato che un Dollaro troppo forte, come ora sta avvenendo, non è vantaggioso per l’economia USA. Ma sul piano tecnico non è ancora chiara la configurazione legale-societaria di tale SPV e le condizioni operative alle quali potrà agire se non in presenza di uno statuto, di un Joint Operating Agreement e di un man- 15 ATTUALITà 16 Cosa sono i derivati lizza assicurativa o copertura per il quelli sulle valute, sulle obbligaSono strumenti finanziari che non vivono di vita propria, in pratica sono scommesse a termine sull’andamento di un’attività da cui dipendono (che può essere un titolo, un mutuo, una materia prima...): azzeccando la scommessa si può guadagnare molto, ma in alcuni casi si può perdere più del capitale investito. Sono utilizzati, dagli investitori professionali, soprattutto come una forma di assicurazione contro i rischi dei mercati. Per esempio, i fondi comuni che hanno grossi investimenti azionari, in periodi di particolare incertezza delle Borse, assicurano il portafoglio titoli acquistando derivati al ribasso. Se la Borsa scende, i guadagni realizzati con i derivati compensano la perdita. CDS e CDO I Credit Default Swap (CDS) sono i prodotti derivati maggiormente utilizzati per la copertura dei rischi connessi alla negoziazione di rischi sovrani. Si tratta di uno swap che ha la funzione di trasferire l’esposizione creditizia di prodotti a reddito fisso tra le parti. È il derivato creditizio più usato. È un accordo tra un acquirente ed un venditore per mezzo del quale il compratore paga un premio periodico a fronte di un pagamento da parte del venditore in occasione di un evento relativo ad un credito (come ad esempio il fallimento del debitore) cui il contratto è riferito. Il CDS viene spesso utilizzato con la funzione di po- sottoscrittore di un’obbligazione. Tipicamente la durata di un CDS è di cinque anni e sebbene sia un derivato scambiato sul mercato overthe-counter (non regolamentato) è possibile stabilire qualsiasi durata. zioni e sulle azioni. Nella Borsa italiana ci sono future sull’andamento dei Btp (Buoni poliennali del Tesoro), denominati Mif, e future sull’andamento dell’indice di Borsa Mib30, denominati Fib. Il CDO, invece, è un contratto in base al quale una controparte, detta acquirente di protezione, trasferisce all’altra, il venditore di protezione, il rischio di default relativo ad un terzo soggetto che ha emesso un’attività creditizia (Reference Entity) di cui l’acquirente di protezione è titolare. Ciò che rende i future molto rischiosi è l’obbligo di risarcire all’intermediario l’eventuale perdita del valore del capitale oltre alla somma investita. Nel caso in cui si verifichi l’evento di default (credit event) il venditore di protezione è tenuto ad acquistare dalla controparte il titolo di debito al valore stabilito ad inizio contratto (cosiddetto phisical settlement). Le opzioni e i warrant sono invece, contratti con i quali si può perdere, al massimo, il denaro impiegato. Si tratta anche in questo caso, di scommesse sull’andamento futuro di un’attività quotata (un’azione, un indice, una valuta, un paniere di titoli, o altro ancora). In sostanza il contratto, che ha un costo, dà il diritto di ritirare l’attiIl prezzo di rimborso, in genere, è vità sottostante entro una data la differenza tra il valore di mercato prefissata a un prezzo prefissato (il iniziale e il valore di mercato postcosiddetto strike price). default del credito oppure un ammontare fisso. L’acquirente di pro- Se il prezzo dell’attività sottostantezione a fronte della cessione del te alla data di scadenza sarà surischio creditizio è tenuto a pagare periore al prezzo prefissato, chi ha alla controparte un premio unico sottoscritto il contratto incasserà versato anticipatamente oppure, la differenza. Se invece, il prezzo più frequentemente, un premio dell’attività sottostante sarà pari o periodico versato fintanto che non inferiore allo strike price, il derivato si verifichi l’evento di default o, in non avrà più alcun valore. caso contrario, fino alla scadenza naturale del contratto. Hedge Funds Trattasi di fondi aperti – a differenFuture, warrant e opzioni. za dei fondi di Private Equity – che I future sono i derivati più rischio- prevedono il riscatto dell’investisi. Ci sono quelli sul prezzo del mento e che investono su qualunsucco d’arancia o della pancetta que titolo negoziabile sia sui mer(trattati nella famosa Borsa merci cati regolamentati che non, con di Chicago, ricordate “una poltro- una ottica generalmente di natura na per due” con Eddy Murphy?), speculativa. FORUM - GIUGNO/10 dato da parte dei governi. Nel frattempo la situazione di tensione ancora palpabile, sembra aver dissuaso la Polonia dall’adesione all’Euro nei termini concordati. Probabilmente si sta esagerando nei timori sulle conseguenze economicomonetarie di tale piano di difesa, sia da parte di qualche stato membro dell’area Euro (Germania in particolare) che di qualche altro ancora in attesa di entrarne a fare parte. Innanzitutto va segnalata la validità delle scelte della BCE (nella foto, l’Eurotower, la sede della banca Centra- a di acquistare – in collaborazione con le banche commerciali e le banche centrali nazionali - i titoli a basso rating da emettere da parte dei paesi sotto attacco vendendone altri in portafoglio a ben più elevato rating, accompagnando tali scelte con altre azioni idonee a sterilizzare ogni aumento della base monetaria europea che ne conseguirebbe per non ingenerare spinte inflazionistiche. le Europea a Francoforte) Ma a parte il fatto che, come già osservato da altri, le aspettative di inflazione implicite nei prezzi dei ti- toli indicizzati all’inflazione hanno comunque iniziato a crescere leggermente, rimane da gestire il coordinamento delle istituzioni tra loro indipendenti. In quanto la BCE intende acquistare i titoli di nuova emissione solo dopo che avrà valutato positivamente il piano di risanamento predisposto dal paese interessato, che dovrà essere stato anche concordato con la commissione e gli altri stati membri. Mentre il ricorso al FMI rimarrà un’opzione solo autonomamente attivabile dal paese in difficoltà, ed il FMI valuterà anch’esso, secondo suoi autonomi criteri, la solidità e la credibilità dello stesso piano di stabilizzazione. Per tornare alla Grecia, dunque, gli operatori di mercati si interrogano ora se, dopo essere riuscita a piazzare in qualche modo i propri bonds con scadenza a tre anni, questa nazione sia in grado di onorare gli impegni finanziari che l’aspettano a tale scadenza, pur se i recenti crolli di borsa sembrano confermare che il mercato non crede alla Grecia e, facendo crollare il prezzo dei relativi titoli di stato, indebolisce il patrimonio degli organismi finanziari che li possiedono, con potenziali di impatti negativi sulla capacità di credito del sistema. Questa esperienza già ci insegna che, se alla fine di un triennio non ci si vuol ritrovare con una banca centrale piena di titoli di stato privi di valore emessi dagli stati PIGS, o tossici, sarebbe sin d’ora conveniente che la stessa emettesse prime piccole trances di bonds UEM a garanzia solidale da parte dei paesi partecipanti al capitale della stessa. Mentre la liquidità in tal modo ricavata, ed i relativi oneri finanziari, potrebbero essere suddivisi tra gli stessi secondo criteri di solidarietà ed opportunità politica, piuttosto che procedere con prestiti bilaterali come ora si è fatto. Questo quesito sposta l’analisi del problema dagli argomenti propri dell’economia finanziaria a quelli dell’economia reale, che non investono solo i paesi UE più deboli ed attualmente oggetto di assistenza solidale, ma tutta l’area Euro. La Germania al di la delle contingenze elettoralistiche, come tutti gli altri paesi solidali, devono ora fare accettare ai propri cittadini 17 L’esperienza greca ci insegna che, se alla fine di un triennio non ci si vuol ritrovare con una banca centrale piena di titoli di stato privi di valore emessi da stati “tossici”, sarebbe sin d’ora conveniente che la stessa emettesse prime piccole trances di bonds UEM a garanzia solidale da parte dei paesi partecipanti al capitale della stessa. COSTUME Appare certamente inevitabile la riscrittura del Trattato in tema di aiuti di stato, vista la situazione alla quale si è giunti con le attuali limitazioni, prevedendone una loro utilizzazione solo nei casi di riforme strutturali nei paesi beneficiari. 18 gli oneri e le conseguenze attuali e prospettiche, in termini di manovre di bilancio, connessi con interventi di aiuto e fare prendere loro coscienza di una condizione che fino ad oggi non appariva, quella di una Europa duale con dislivelli di reddito e di produttività elevati, che l’Euro sembrava non disvelare nella loro gravità. È noto che l’utilizzo della moneta unica, se da una parte ha livellato verso il basso le tendenze inflazionistiche in tutti i paesi, non si è accompagnato a misure di politica monetaria della BCE sufficientemente diversificate territorialmente, in grado di contrastare localmente i perniciosi effetti dell’abbassamento dei tassi d’interesse, quali la bolla immobiliare in Spagna e l’aumento del debito pubblico in Grecia. Si tratta quindi di creare le condizioni per una nuova politica economica europea, maggiormente integrata fra i vari mercati nazionali, e maggiormente guidata centralmente. Le possibili opzioni in tal senso devono essere di varia natura, ma appare certamente inevitabile la riscrittura del Tratta- to in tema di aiuti di stato, vista la situazione alla quale si è giunti con le attuali limitazioni, prevedendone una loro utilizzazione solo nei casi di riforme strutturali nei paesi beneficiari. Sul piano microeconomico andrebbero ad esempio diversificati i benefici economici a favore dei paesi più bisognosi, ritraibili dalle grandi opere infrastrutturali infra-europee, favorita l’attrazione di investimenti da parte di investitori extraUE, sia con contributi che con una maggiore liberalizzazione dei mercati, incentivate maggiormente le produzioni ed i servizi a più elevato valore aggiunto così come quelle che favoriscano il riequilibro della bilancia commerciale, stabilito un percorso di favore per le sovvenzioni ad investimenti per l’innovazione tecnologica realizzate in paesi UE più deboli rispetto a quelle acquisibili investendo in aree extra-UE. Queste ultime potrebbero essere anche eliminate. Già intravediamo l’immediata obiezione di chi controbatte che le sovvenzioni alleviano i problemi nel breve periodo senza risolverli. Ma se tutti gli interventi di riequilibrio venissero coordinati e monitorati a livello centrale si sarebbe in grado: - in primo luogo di pilotarne gli effetti in modo tale che nel medio-lungo i prezzi nei paesi deboli beneficiari tendano ad allinearsi alla produttività media UE più di quanto avverrebbe senza siffatti interventi, e quindi lasciandone il coordinamento all’arbitrio di governanti, come lo sono stati quelli greci in odore di frode, ed in più calati in un contesto temporale di necessaria drammatica riduzione della spesa pubblica; - in secondo luogo di assistere gli investimenti con forme di tutoraggio economico intertemporale al precipuo scopo di consolidare – e non disperdere - nel tempo i benefici della sovvenzione. Si tratterebbe pertanto di operare avvalendosi di un organismo di nuova istituzione a durata temporale limitata e che affianchi la Commissione. Si può pensare ad un’Authority assimilabile sul piano funzionale ad un ministero delle finanze UE in Andreas Gursky - Chicago Board of Trade, 1999 nuce, con l’esclusiva missione istituzionale di porre in atto penetranti controlli non solo a livello macroeconomico sul mantenimento degli impegni di spesa e di entrate fiscali, ma anche e soprattutto sulla specifica implementazione delle politiche dirette al sostegno dell’economia reale. Tale schema funzionale risulterebbe pienamente conforme con il criterio operativo di applicare “il governo dove necessario ed il mercato dove possibile”. Va da se che, al termine del periodo di verifica delle politiche di riequilibrio come quello sopra ipotizzato per tutti i paesi dell’area UEM e per quelli ne che dovranno fare parte nel prossimo futuro (si consideri il caso Ungheria in proposito), sarebbe davvero legittimo chiedersi se si possa ancora procedere con un solo Euro, ovvero se non sia necessario accettare un’Europa a due velocità. Gli interventi aggiuntivi in atto e quelli prospettici Come noto alcuni paesi dell’area UEM hanno unilateralmente FORUM - GIUGNO/10 19 messo in atto provvedimenti di natura normativa regolamentare al fine di porre un primo argine di natura istituzionale all’operato della speculazione. Ma le misure adottate dalla Bafin, l’agenzia tedesca di controllo dei mercati finanziari, che ha vietato la vendita allo scoperto di alcuni generi di titoli, hanno avuto, come si ricorderà, una immediata e forte eco nel calo dei mercati borsistici europei. Da qui l’ancor più sentita esigenza di muovere i passi in forma coordinata tra gli stessi paesi aderenti all’unione economica e monetaria, evitando ad COSTUME 20 un tempo restrizioni che possano risultare di ostacolo all’efficienza dei mercati nella misura in cui generino od alimentino fattori di concorrenza sleale sul piano della regolamentazione intra-UEM. A ciò ha fatto seguito l’accordo Ecofin sugli Hedge Funds (Vedi riquadro alla pagina precedente), che ha definito gli orientamenti generali per questi fondi di investimento alternativi che intendano operare in ambito UE.Si è trattato di individuare criteri normativi relativi a vincoli prudenziali, requisiti di capitale, obblighi di informazione delle Autorità di vigilanza sulle politiche di investimento e limiti all’uso della leva di indebitamento. Misure analoghe stanno per essere emanate con riferimento alle agenzie di rating, sottoponibili ad una stringente supervisione europea circa le loro valutazioni, che si prospettano in futuro controllate dalla nascente ESMA (Agenzia Europea per i Titoli e i Mercati). Nel fermento di iniziative indirizzate in tal senso va poi citata la previsione dei ministri Ecofin in tema di modifiche al Patto di stabilità, ovverosia di applicare sanzioni finanziarie e non finanziarie (negazione del diritto di voto) ai paesi che non sviluppino piani di rientro credibili ovvero non siano in grado di mantenere impegni presi in tema di rientro da deficit di bilancio o di riduzione del debito pubblico. Manovre per il riequilibrio dei conti pubblici che sono peraltro già iniziate anche nei paesi non PIGS: si consideri il caso esemplare dei tagli alla spesa pubblica fatti approvare dalla Cancelliera tedesca, che a questo proposito dovrebbero costituire un benchmark per le politiche di riduzione del debito pubblico. E comunque sottolineamo con piacere, visto quanto da noi proposto, la scelta di istituire un meccanismo “stabile” per la gestione delle crisi in ambito Ecofin. Conclusioni Non si può non concludere questa breve analisi senza accennare alla finanza spietata, che fa ampio uso di strumenti virtuali in operazioni sofisticate e che non intendono sentire parlare di limiti alla loro libertà di movimento in quanto dettato, secondo loro, dal solo intento di chi vede in anticipo ciò che sta per accadere. Ma è di tutta evidenza che così operando possono arrivare a destabilizzare l’economia di intere nazioni, con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di disoccupazione, nuove forme di povertà, aumento del malessere generale e di perdita della coesione sociale. Ma l’argine che si cerca di porre a tali forme di “invadenza” delle economie nazionali e del corpo sociale, non può sostanziarsi nel solo rafforzamento del patrimonio degli intermediari “sistemici” e nell’emanazione di nuove regole di Basilea 3, in quanto misure atte si a migliorare le difese di liquidità del sistema, ma la cui efficacia dipende comunque dalle mutabili sensibilità o percezioni del rischio nel tempo, e perché FORUM - GIUGNO/10 non idonee a contrastare il rischio riferibile alla casistica cosiddetta del “cigno nero”. E sarebbe opportuno valutare allora se il rispetto di un parametro sulla composizione dei rischi di portafoglio degli organismi finanziari (tra rischi da trading o da investimento finanziario della liquidità, rispetto ai rischi generati dai impieghi nell’economia reale) non possa meglio riflettere la sensibilità di tali organismi all’insorgere di siffatti rischi sistemici da mercato finanziario globalizzato. Tale invadenza deve essere necessariamente frenata dall’instaurazione di paletti istituzionali molto rigidi, che siano in grado di creare ostacoli molto forti alla catena delle aspettative razionali - od irrazionali verrebbe da dire - che presso gli operatori finanziari generano l’effetto domino di cui siamo stati spettatori. Ed in tal senso non possono che essere fatte vale regole globali di controllo come quelle cui si è ispirato il recente vertice ministeriale dei paesi OCSE, mirate a rendere sempre meno inaccettabili automatismi di comportamento propri del pensiero finanziario unico e sempre più severe verso comportamenti non etici. Laddove quindi si ritenga che il benessere sociale sia un bene pubblico, da privilegiare a determinate condizioni rispetto alla cosiddetta efficienza dei mercati finanziari, si potrebbero implementare politiche volte a ridurre lo spazio tecnico-operativo per tali organismi. Sono già state portate all’attenzione dei media proposte di natura normativa quali la trattazione dei derivati solo su mercati con controparti centrali e sui mercati regolamentati e il divieto di scommettere sul trading proprietario, di vendite allo scoperto, ovvero di fare scommesse con i soldi altrui. Riteniamo che interventi di tal genere genererebbero benefici più indiretti che diretti in tema di attacchi speculativi, rendendo sicuramente molto più rischiose, ad esempio, le azioni per cui Goldman Sachs e Morgan Stanley sembra siano oggetto di indagine da parte della SEC statunitense secondo il Wall Street Journal, vale a dire la vendita alla clientela di loro prodotti derivati legati ai mutui subprime, su cui a volte avrebbero scommesso contro. Siamo invece dell’avviso che una misura più efficace contro siffatta speculazione, e che non imbavaglierebbe sul piano gestionale tali operatori, andrebbe ricercata non nella applicazione di una Tobin tax generalizzata sui mercati borsistici, bensì in misure mirate di prelievo fiscale, qualora fosse ammissibile colpire isolatamente i profitti dal trading speculativo di determinati titoli di stato di una predefinita lista di paesi “vittima”. Ma sicuramente la misura fiscale più efficace in tale contesto dovrebbe essere la non imposizione fiscale delle plusvalenze che si originassero sugli assets illiquidi - e senza prezzo di mercato al momento attuale - che fossero riceduti dalla BCE agli organismi finanziari con i quali può operare. Se tutto andasse in linea con le previsioni dei policy makers dell’area UEM, tali assets dovrebbero inevitabilmente rivalutarsi nel medio periodo Da ultimo perché non accennare anche alla provocante proposta di chi vorrebbe una corte di giustizia internazionale chiamata a giudicare i politici responsabili di frodi nella gestione dei conti pubblici tali da ingenerare ingenti danni sociali. 21 Perché non pensare ad una corte di giustizia internazionale chiamata a giudicare i politici responsabili di frodi nella gestione dei conti pubblici tali da ingenerare ingenti danni sociali? STORIA 22 “Battaglia al ponte dell’Ammiraglio” di Renato Guttuso -1955.Olio su tela 300 x 500 Non è stato semplice “fare” gli italiani. In mancanza della TV i Padri della Patria trovarono più semplice riscrivere la Storia. Declino e morte dell’ideologia risorgimentale di Gianni Cara Giusto centocinquant’anni fa i Mille sbarcavano in Sicilia: iniziamo da questo numero a celebrare, con obiettività, quell’Unità che, pur restando un grande valore, dovrebbe essere intesa nella sua essenza reale. Proprio per costruire finalmente, nella diversità, un grande Stato moderno. «Ideologia Risorgimentale» non è sinonimo di Risorgimento. Essa è il «codice» etico-politico della classe dirigente nazionale dopo la costituzione dello Stato unitario, è il «credo» politico di coloro che si identificano con l’unità e hanno un evidente interesse ad assicurarne il buon funzionamento. Per comprendere come tale ideologia si sia concretamente formata non serve risalire alle radici storiche e culturali del Risorgimento e attribuire agli antenati ciò che fu spesso immaginato o inventato dai loro discendenti. Conviene coglierne la nascita nella fase formativa dello Stato, quando essa divenne indispensabile alla sua esistenza e gestione. FORUM - GIUGNO/10 Ma il 9 Ottobre Bettino Ricasoli, presidente del Consiglio dopo la morte di Cavour, estese per decreto a tutto il Paese la legge con cui Urbano Rattazzi aveva applicato alla Lombardia, nell’Ottobre del 1859, il regime amministrativo, fortemente centralizzato, delle province piemontesi. Fu istituito il Prefetto, rappresentante del governo nelle province del regno, fu abbandonato il modello inglese e adottato, con una radicale inversione di fronte, il modello francese. Moriva, ancor prima di nascere, lo Stato decentrato che Minghetti aveva prefigurato nei decreti del marzo precedente, e nasceva al suo posto lo Stato napoleonico. Che cosa era accaduto fra il marzo e l’ottobre del 1861 perché il paese imboccasse improvvisamente una strada così radicalmente diversa da quella che il partito vincente aveva immaginato per il futuro? L’architettura dello Stato centralizzato e il regime prefettizio Il breve intervallo fra ordine vecchio e nuovo, durante il quale lo Stato italiano fece le scelte che ne avrebbero fissato i caratteri e segnato l’evoluzione, durò dal gennaio all’ottobre del 1861. Fedeli alla loro ideologia liberale e all’ispirazione inglese della loro cultura politica, gli uomini della destra concepirono per le nuove province del Regno un sistema politico-amministrativo che avrebbe rispettato e valorizzato le tradizioni locali, le identità regionali e i vecchi patriottismi municipali. Al governo centrale sarebbero rimaste alcune competenze unitarie: gli esteri, la difesa, i trasporti, le poste. Era morto Cavour, era scoppiata la guerra del brigantaggio, era emersa con evidenza la precarietà nazionale ed internazionale dello Stato Unitario. Dopo avere miracolosamente raggiunto traguardi che nessuno si era prefisso, il governo dovette improvvisamente misurarsi con l’ostilità del clero, l’indifferenza di una larga parte dell’opinione pubblica delle regioni annesse, la diffidenza di alcune grandi potenze, la distanza economica e civile fra il nord e il sud, le condizioni dell’ordine pubblico meridionale. La risposta del governo alle minacce che insidiavano il nuovo Stato fu il regime prefettizio; una scelta frettolosa e necessaria, imposta da problemi di cui nes- 23 STORIA 24 Il plebiscito del 1860 a Napoli suno, nei mesi precedenti, aveva immaginato la complessità e la grandezza. Il rapido susseguirsi di due strategie amministrative così profondamente diverse conferma che l’unità nazionale non fu il risultato di un disegno preordinato. Nessuno, se non le frange radicali del movimento garibaldino e mazziniano, aveva immaginato negli anni precedenti l’improvvisa scomparsa di tutti gli Stati italiani. E nessun ministro piemontese aveva nei propri cassetti, alla fine del 1860, un dossier politico-amministrativo sull’unificazione della penisola. li e che l’Inghilterra, fingendosi indifferente e neutrale, avrebbe perfidamente incoraggiato la loro morte, essi crollarono su sé stessi. Il fattore decisivo non fu la L’unificazione Quando fu chiaro che l’Austria pressione esterna degli «unitari», Ci ritrovammo uniti fra il Settem- non avrebbe potuto difender- che furono complessivamente La Banca Nazionale degli Stati Sardi nacque dalla fusione tra la Banca di Torino e la Banca di Genova, come società privata, nel 1849. Grazie alle pressioni di Cavour, che aveva forti interessi personali nel capitale della Banca, venne autorizzata ad emettere cartamoneta pur essendo di proprietà privata, esercitando anche le funzioni di Tesoreria di Stato. bre e il Novembre del 1860 perché gli stati pre-unitari, e in particolare il regno delle Due Sicilie, si rivelarono infinitamente più fragili di quanto Torino avesse previsto. piemontese fosse ormai carta straccia. La Banca, ormai divenuta, il braccio finanziario di Cavour, ancor più esausta dopo le spese per la campagna del 1860, divenne “Banca d’Italia” dopo la proclamazione del Regno d’Italia e provvide ad inglobare il Banco delle Due Sicilie, che aveva in circolazione proprie monete d’oro e d’argento per un valore di oltre 1 Il Piemonte era l’unico Stato della Peni- miliardo e duecento milioni di lire! sola ad emettere carta moneta, contra- Al Banco delle Due Sicilie (diviso poi in riamente al Banco delle Due Sicilie che Banco di Napoli e Banco di Sicilia) era coniava monete d’oro e d’argento. La stato precedentemente impedito di rariserva aurea piemontese ammontava a strellare dal mercato le proprie monete 20 milioni di lire, ma a causa della fame d’oro per trasformarle in carta moneta di denaro dei Savoia generata dalle con- secondo le leggi piemontesi, poiché in tal tinue spese belliche la carta moneta in modo i Banchi avrebbero potuto emetcircolazione era di oltre 60 milioni. Ciò tere carta moneta per un valore di 1200 fece sì che negli anni ‘50 la carta moneta milioni e sarebbero potuti diventare pa- droni di tutto il mercato finanziario italiano. Quell’oro piano piano passò nelle casse piemontesi. Tuttavia, nonostante tutto quell’oro rastrellato al Sud, la nuova Banca d’Italia risultò non avere la maggior parte di quell’oro nella sua riserva. Evidentemente aveva preso altre vie, che erano quelle del finanziamento per la costituzione di imprese al nord operato da banche, subito costituite per l’occasione, che erano socie (!) della Banca d’Italia: Credito mobiliare di Torino, Banco sconto e sete di Torino, Cassa generale di Genova e Cassa di sconto di Torino. L’emissione incontrollata della carta moneta ebbe come conseguenza un decreto di “corso forzoso”: a partire dal 1866 la lira carta non poté più essere cambiata in oro. FORUM - GIUGNO/10 una piccola minoranza. ordineranno e condurranno gli elettori alle urne della Nazione in gruppi o in file più o meno numerose, ma sempre disciplinate e procedenti in buon ordine. In testa sarà la bandiera italiana; ciascuno deporrà nell’urna la propria scheda, poi si ritirerà e in un punto determinato il gruppo si scioglierà con quella calma e quella dignità che proviene dalla coscienza di avere compiuto un alto dovere». Decisivi furono, in Sicilia, i vecchi rancori del patriottismo isolano contro la dominazione di Napoli e, altrove, il rapido dissolversi delle strutture amministrative, militari e sociali che avevano assicurato l’esistenza degli Stati pre-unitari. Decisivo, in altre parole, fu l’immediato voltafaccia di una parte delle classi dirigenti-funzionari dello Stato, militari, liberi professionisti - che corse a ingrossare le Se questi furono i nuovi batfila del partito risorgimentale. taglioni dell’Italia unitaria, la nuova classe dirigente avrebCome spiegare altrimenti i be dovuto rendere rispettoso plebiscitari (1.312.366 contro omaggio, nel momento in cui 10.302 nelle province continenassumeva la direzione del nuotali, 432.053 contro 667 in Sicivo Stato, agli ostinati difensori lia) con cui i sudditi di Francesco borbonici di Messina, Civitella «chiesero di diventare sudditi del Tronto, Gaeta, e avrebbe di Vittorio Emanuele»? Persino dovuto aggiungerne i nomi al in Toscana ed in Emilia, dove il «ruolo degli eroi» di cui veneramovimento nazionale poté conre la memoria. tare sulla guida autorevole di Ricasoli e Farini, i referendum Come gli svizzeri alle Tuileries furono una manifestazione di nel 1792, quegli uomini si batfeudale lealtà per i leader loca- terono perché avevano giurato li piuttosto che un atto di fede fedeltà al loro re e non meritanella monarchia sabauda. Ecco vano l’oblio a cui li ha condancome Ricasoli, in Toscana, or- nati la leggenda risorgimentale. ganizzò la partecipazione popoMa nessuno può permettersi il lare al referendum: lusso di scrivere una storia che « (…) gli intendenti agricoli a non tenga conto delle proprie capo dei loro amministrati, il più esigenze e non favorisca la reainfluente proprietario rurale a lizzazione dei propri obiettivi. capo degli uomini della sua parAnziché raccontare l’unità come rocchia, il cittadino più autoreeffetto di circostanze impreviste vole a capo degli abitanti di una e di opportunistiche adesioni, la strada, di un quartiere, ecc. (…) nuova classe dirigente nazionale fu costretta a raccontarla come il risultato di un grande sforzo unitario e di una forte volontà collettiva. Fu taciuto il ruolo delle navi inglesi davanti al porto di Marsala, furono taciuti l’opportunismo e il doppiogiochismo delle classi dirigenti locali, fu ignorato o dimenticato l’eroismo di coloro che tentarono un’ultima difesa contro i piemontesi e i garibaldini. Proprio perché scaturito da circostanze impreviste, lo Stato unitario ebbe quindi immediatamente bisogno di una forte ideologia dominante1. Un’ideologia strumentale per “fare” gli italiani L’opera nata per caso finì per condizionare i suoi involontari creatori e per orientarne la strategia politica. Per consolidare il proprio potere ed acquisire legittimità morale, la classe dirigente dovette credere fermamente nella necessità della propria esistenza e realizzare il mandato di cui si vide improvvisamente investita. L’ideologia risorgimentale non è 1 Indro Montanelli, sicuramente molto più obiettivo di tanti pseudointellettuali, scriveva: “L’Italia è finita. O forse, nata su plebisciti-burletta come quelli del 1860-61, non è mai esistita che nella fantasia di pochi sognatori, ai quali abbiamo avuto la disgrazia di appartenere”. 25 STORIA 26 11 maggio 1860. Sbarco dei Mille a Marsala. Dal disegno di un ufficiale di marina preso da bordo di una nave inglese. Nulla ha giovato alla nascita di una nazione francese quanto le grandi guerre di espansione e conquiste, da Luigi XIV a Napoleone. Nulla ha «fatto» la Germania quanto la grande insurrezione antifrancese del 1813 e le due guerre degli anni ‘60. Nulla Improvvisamente proiettata al ha «fatto» la Santa Madre Rusvertice di uno Stato imprevisto, sia quanto Poltava e la «guerra essa deve proclamarne la nepatriottica» del 1812. cessità, il fondamento storico, la missione morale. Ma deve an- Non v’è nazione in Europa che che realizzare il più rapidamente non abbia definito la propria possibile ciò che avrebbe dovu- identità e creato il proprio territo, in buona logica, precedere torio senza lottare per la propria l’unificazione e giustificarne l’av- esistenza. La riscrittura romantica della storia italiana può servento. Deve «fare gli italiani». vire a puntellare le pretese della Assistiamo così sin dall’inizio a classe dirigente, ma non può souna sorta di sdoppiamento delstituire la storia vera. Lo voglia o la ideologia risorgimentale e alla no l’Italia ha bisogno, per esistenascita, in seno alla classe dire, di guerre e di sangue. rigente, di due partiti. Il primo pensa che gli italiani debbano Il secondo partito non nega l’utifarsi «col ferro e col fuoco» nel lità delle guerre, ma ne valuta vivo dell’azione, nel crogiolo del- più attentamente i costi e i perile guerre e delle battaglie. Lo coli. Sa che la guerra del 1859 è rafforza in questo convincimento stata prevalentemente francese, il ricordo e lo spettacolo di altri che la spedizione di Garibaldi in Stati nazionali europei. Sicilia non basta da sola a proquindi l’antefatto ideale e morale dello Stato unitario. È la somma delle convinzioni, delle certezze, degli obiettivi e dei metodi con cui la classe dirigente conferisce a sé stessa il diritto di governare. vare le virtù guerriere del popolo italiano, che la guerra del 1866 è stata vinta in Boemia, non in Adriatico e nel Veneto. Sa soprattutto, per diretta esperienza, che le guerre costano molto denaro e pesano per molto tempo sul bilancio dello Stato. Per «fare gli italiani» occorre quindi tentare una strada diversa, più graduale, meno rischiosa. Occorre unificare il territorio e le istituzioni, promuovere l’educazione dei cittadini creare fra essi i vincoli della convivenza economica e della comunità culturale. Vorrei poter dire che queste due famiglie dell’ideologia risorgimentale corrispondono alle tradizionali denominazioni degli schieramenti politici, che la prima è di destra, la seconda di sinistra. Ma l’affermazione sarebbe del tutto infondata. Durante la prima generazione unitaria è vero, piuttosto, il contrario: la Sinistra è Volontarista, aggressiva, nazionalista, mentre la Destra è cauta, poco incline ai colpi di testa e alle avventure militari. FORUM - GIUGNO/10 27 Più tardi la distinzione fra le due famiglie attraverserà in diagonale tutta la società politica italiana raggruppando in ciascuno dei campi, fianco a fianco, progressisti e conservatori. Accadrà persino che gli stessi uomini politici - Crispi (a sinistra, nella foto), Giolitti (a destra), Sonnino, persino Mussolini - passino da un campo all’altro perseguendo strategie diverse in momenti diversi della loro vita politica. Per semplificare dirò schematicamente che Crispi, Salandra, Sonnino e Mussolini cercarono di «fare gli italiani» con la guerra, mentre Spaventa, Sella, Minghetti, Depretis, Giolitti e altri leader minori cercarono di «fare gli italiani» con le riforme, le infrastrutture, la scuola, lo sviluppo economico. L’uomo che dette alla seconda famiglia la sua politica estera più efficace e coerente fu probabilmente Emilio Visconti di Venosta (foto a fianco), sette volte ministro degli esteri tra il 1863 e il 1901. tra le cause della prima guerra mondiale, è certamente lecito sostenere che essa contribuì largamente a creare i quadri interventisti della primavera del 1915. Entrammo quindi in guerra nel maggio di quell’anno, per «fare gli italiani». Accade spesso nella storia che le grandi strategie Che questo fosse il principale «fine di guerra» delpolitiche siano fondate sull’esito, talora casuale di un lo Stato Italiano è dimostrato dalla spregiudicata indifferenza con cui le élite nazionali presero in episodio. considerazione le due alleanze possibili. Il governo Fare la guerra italiano era onnivoro, cioè pronto ad espandersi sia per “fare” gli italiani verso il Mediterraneo orientale sia verso il MediterLa sconfitta di Adua ebbe l’effetto di mettere fuori raneo occidentale, perché la guerra era anzitutto un gioco per parecchi anni il partito del «ferro e fuoco», mezzo per «forgiare» l’unità nazionale. Per entrare ma la guerra di Libia, che Giolitti cercò inutilmente di in guerra, tuttavia, una delle famiglie risorgimentali declassare a «fatalità storica», ebbe quello di esten- dovette sbarazzarsi dell’altra con un colpo di mano. dere la voglia di sangue e di cimenti che continuava Dopo essere stata una monarchia parlamentare, ad agitare gli animi di una parte delle élite nazionali. l’Italia divenne improvvisamente per qualche settiSe è assurdo sostenere che la guerra italo-turca fu mana, nella primavera del 1915, un Reich tedesco e Il mito risorgimentale di Cavour “tessitore” integerrimo dovrebbe essere integrato da una visione molto più “prosaica” della sua figura. Fu infatti soprattutto un ricco e potente uomo d’affari che seppe sfruttare la politica per aumentare a dismisura il suo potere finanziario. Debuttò in politica facendo approvare un grosso aumento dei dazi doganali sui concimi chimici, men- tre era azionista di una fabbrica di fosfati. Come azionista dei mulini di Collegno, fece incetta di grano durante un periodo di carestia e per questo il suo palazzotto fu assaltato dalla popolazione affamata. A seguito di questo episodio, John Daniel, ambasciatore americano a Torino, nella sua relazione al Governo U.S.A., cosí lo descriveva: «… totalmente privo di scru- poli … Ama il denaro e, mentre si occupa degli affari della nazione, si è costruita un’ingente fortuna privata. Ama appassionatamente il potere, che non può mai indursi a dividere con altri, né sopporta la minima opposizione …». Dell’interesse di Cavour nella Banca Nazionale degli Stati Sardi e di come favorì questo Istituto, si è detto sopra STORIA 28 Salandra una sorta di cancelliere. Ma non si trattò di colpo di Stato. Lo scontro fu tra le due famiglie dell’ideologia risorgimentale e il duello fu arbitrato dal Re che buttò il peso della monarchia nel campo degli interventisti. Il “metodo Mussolini” Mussolini si presentò al re, sin dalla prima udienza, il 30 Ottobre del 1922, come l’esponente più radicale e intransigente del volontarismo risorgimentale. Le parole «vi porto l’Italia di Vittorio Veneto», con cui dichiarò di essersi indirizzato a Vittorio Emanuele, indicavano che egli avrebbe, per l’appunto, «fatto» gli italiani col ferro e col fuoco. In realtà, come alcuni dei suoi predecessori, tentò strade diverse, a seconda delle circostanze, e non esitò a fare in alcuni momenti, sia pure con linguaggio sprezzante e tracotante, la politica guardinga della Destra storica. Ma il successo della guerra etiopica, l’ascesa di Hitler e la docilità con cui le democrazie accettaro- no tutti i colpi di mano del Fűhrer, dalla occupazione della Ruhr alla spartizione della Cecoslovacchia, dovettero convincerlo che le sorti del paese erano a un bivio: buttarsi nella mischia per fare gli italiani o starsene fuori e rinunciare all’obiettivo. L’idea che l’Italia potesse restare neutrale non gli passò mai per la FORUM - GIUGNO/10 testa. Considerata nella logica del volontarismo risorgimentale l’ipotesi, del resto, era del tutto irrealistica. I tre maggiori esempi europei Svizzera, Belgio, Svezia - dimostrano che la neutralità incute rispetto e produce i risultati desiderati soltanto quando è sostenuta alle spalle da coesione, fermezza, comunanza di valori e principi, un esercito forte e temuto, vale a dire tutto ciò che ancora faceva difetto «all’Italia di Vittorio Veneto». Furono queste in gran parte le ragioni per cui funzionò bene in Svizzera e Svezia, male in Belgio. Sino a quel momento si erano combattute in Parlamento, si erano scomunicate a vicenda e una di esse, il fascismo, aveva perseguitato l’altra con misure di polizia. Ma durante gli ultimi due anni della seconda guerra mondiale i nipoti del Risorgimento passarono alle armi e si uccisero. Fu questo l’aspetto più tragico di quella vicenda: il Risorgimento diviso in due campi contrapposti, un’Italia non ancora fatta e già Paradossalmente potrebbe dirsi che l’Italia avrebbe potuto essere neutrale soltanto il giorno in cui qualcuno, finalmente, avesse fatto gli italiani. Una guerra civile? Sappiamo che cosa accadde fra il 1940 e il 1943 e sappiamo ormai, grazie al libro di Claudio Pavone, che anche la storiografia progressista ammette essersi combattuta in Italia dal 1943 al 1945 una guerra civile. L’espressione è particolarmente calzante. Più che di guerra tra fascisti ed antifascisti si trattò infatti di uno scontro mortale tra le due famiglie dell’ideologia risorgimentale. lacerata da un insanabile contrasto fra due rami di una stessa famiglia. La vittima più illustre di questa lotta intestina fu l’uomo che ne comprese meglio di altri il carattere «familiare» e che fece il possibile per interporsi fra i combattenti. Giovanni Gentile fu certamente ucciso dai gappisti di 29 Firenze davanti alla sua villa del Salviatino, ma avrebbe potuto cadere sotto i colpi del fascismo radicale. Così muore Antigone quando cerca di contrapporre le leggi della pietà a quelle della forza. Vinse come sappiamo la «Famiglia» risorgimentale che voleva fare gli italiani con l’educazione civile e con il progresso economico. Per le condizioni in cui si era combattuto un paese sconfitto e diviso dopo una lunga dittatura, gli orrori di una guerra mondiale, una lotta spietata fra nemici «terminali» - la guerra fu necessariamente un fratricidio e amputò l’ideologia risorgimentale di un suo membro. Non basta. Quella del partito risorgimentale vincente fu una vittoria di Pirro perché il campo dei vincitori fu dominato durante la lotta da due forze - i comunisti e in misura minore, i cattolici - che non appartenevano alla tradizione del Risorgimento e avevano altri ricordi, altri obiettivi. Si delinea così sin dall’inizio dello Stato repubblicano un contrasto tra coloro che vorrebbero tenere viva l’idea del Risorgimento e coloro che vorrebbero - esplicitamente i comunisti, implicitamente i cattolici negarne il valore morale, svelarne le ipocrisie, sottolinearne i fallimenti e cancellarne il ricordo. Al centro del dibattito fu spesso STORIA 30 l’Italia aveva bisogno per sopravvivere di una nuova ideologia e che soltanto «l’idea d’Europa» come Chabod intitolò in quei mesi le sue lezioni di Milano, poteva dare un senso all’esistenza del paese sconfitto. Fu questa la ragione per cui, contrariamente a Croce, accettò senza esitare la ratifica del trattato di pace: per liquidare un passato fallimentare ed evitare che il paese si attardasse inutilmente nella contemplazione delle proprie frustrazioni. Credo che le ricerche degli storici futuri sul crepuscolo del Risorgimento dovranno concludersi con la fine degli anni ‘60. la Resistenza che i «Risorgimentisti» - Saragat, ad esempio - cercarono di accreditare come ultima «guerra d’indipendenza» e che i comunisti esaltarono invece come lotta di liberazione sociale, insurrezione di popolo, promessa di rivoluzione. A chi vorrà fare la storia dell’idea di Risorgimento durante la prima generazione dello Stato repubblicano propongo alcuni temi di ricerca: i manuali di storia nelle scuole, le discussioni provocate dal libro di Rosario Romeo su Risorgimento e capitalismo e da quello di Mack Smith sulla storia d’Italia, i discorsi presidenziali di Saragat, la graduale scomparsa del 20 Settembre dagli annali delle feste nazionali e infine, il dibattito sull’europeismo. L’europeismo L’europeismo fu infatti, negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, la preoccupazione dominante di coloro che erano maggiormente consapevoli della precarietà dell’ideologia risorgimentale. Einaudi fu tra i primi a rendersi conto che la guerra perduta colpiva a morte non soltanto il partito «del ferro e del fuoco», ma l’intero Stato nazionale. Sin dall’esilio in Svizzera giunse alla conclusione che Da quel momento in poi lo studioso troverà probabilmente sulla sua strada temi più modesti: il socialismo tricolore, il culto garibaldino e i pellegrinaggi a Caprera di Bettino Craxi, la pietà risorgimentale di Giovanni Spadolini, le stanche discussioni provocate dalle invettive antirisorgimentali di Vittorio Messori e del cardinale Biffi. La morte dell’ideologia risorgimentale L’agonia dell’ideologia risorgimentale si protrae nel tempo, ma a chi esige, per periodizzare la storia degli italiani, una data di morte propongo il 1976. L’anno in cui il 73,1% degli italiani dà il proprio voto Il Trattato di Roma, istitutivo della CEE firmato il 25 marzo 1957 alla Democrazia Cristiana e al Partito Comunista se si deducono dal resto i voti di Democrazia Proletaria, della Sűdtiroler Volkspartei e della Union Valdotaine, alle due vecchie famiglie dell’ideologia risorgimentale rimane il 24,9%, di cui il 6% al Movimento Sociale Italiano e il resto diviso fra socialisti, socialdemocratici, liberali, repubblicani e radicali. diventa presidente del Consiglio, Amintore Fanfani (foto in basso) presidente del Senato e Pietro Ingrao presidente della Camera, gli italiani risorgimentali sono ormai minoranza e vivono nel loro paese in una condizione intellettuale analoga a quella che caratterizzava gli orleanisti e i bonapartisti dopo l’avvento della Terza Repubblica. Nell’anno in cui Giulio Andreotti Si potrebbe naturalmente sostenere che l’emergenza di forze nuove non comporta necessariamente la fine degli ideali risorgimentali. Perché non riconoscere che il partito comunista e la Democrazia Cristiana hanno accettato il retaggio del Risorgimento e tentato di «fare gli italiani»? Perché non riconoscere che i cattolici furono sin dall’inizio fervida- FORUM - GIUGNO/10 31 mente europeisti e che i comunisti divennero tali nella prima metà degli anni ‘70? Non avevano gli stessi ricordi e le stesse tradizioni, ma si proposero di realizzare, con la solidarietà, la giustizia sociale e l’Europa, ciò che i partiti risorgimentali non erano riusciti a compiere nelle generazioni precedenti. La Cassa del Mezzogiorno e gli insediamenti industriali nelle province meridionali furono certamente un tentativo per unificare il paese dando agli italiani eguali possibilità di lavoro, di educazione e di promozione sociale. Ma lo sciagurato risultato di quella politica è sotto i nostri occhi. Il giudizio sulle responsabilità spetta agli storici del futuro, ma non è necessario attendere il loro responso per constatare che la STORIA 32 prassi della democrazia consociativa - risorse contro consenso, favori contro voti - ha accentuato le differenze tra le diverse parti della penisola e che la strategia della Cassa del Mezzogiorno è complessivamente fallita. In un momento in cui una parte del territorio nazionale ancora sfugge al controllo giudiziario, poliziesco e fiscale dello Stato unitario, la distanza fra il sud e il nord è più forte, paradossalmente, di quanto non fosse all’epoca in cui l’Italia era, come scrisse Croce, «divisa in due». Gli anni felici tra il 1850 e il 1860, quando gli intellettuali napoletani e siciliani, lavoravano fraternamente a Torino con i loro amici piemontesi, liguri, lombardi e veneti per preparare un futuro comune, ci appaiono terribilmente lontani. Occorre risalire alla guerra contro il brigantaggio, ai moti di Palermo del settembre 1866 e ai fasci siciliani per ritrovare l’estraneità che caratterizza oggi i rapporti fra le due parti della penisola. L’estraneità fra Nord e Sud Questo fenomeno è andato accentuandosi col passare del tempo, ma può farsi risalire, simbolicamente, a due catastrofi naturali: il terremoto in Friuli del 1976 e quello nelle province meridionali del 1980. Se le elezioni nazionali del 1976 registrarono il brusco declino delle forze politi- che risorgimentali, i quattro anni che corrono fra i due terremoti segnano nella vicenda dell’Italia unitaria l’inizio del processo di scissione morale fra le due parti della penisola. Per la prima volta gli italiani videro «in diretta», grazie alla televisione, gli effetti in diverse regioni di uno stesso avvenimento naturale: al nord una regione ansiosa di riparare i guasti e ricominciare a lavorare, al sud la macchina perversa di un assistenzialismo senza progetti e prospettive. Non basta. Quei due avvenimenti produssero, sotto gli occhi degli italiani, conseguenze radicalmente diverse; in Friuli un processo modernizzatore che ne ha fatto in pochi anni una delle più intraprendenti regioni mitteleuropee; nelle province meridionali un processo di criminalizzazione che ha sottrat- to una larga parte della penisola all’impero della legge. Gli stessi denari che hanno permesso al Friuli di costruire nuove infrastrutture e nuove imprese hanno creato in Campania, nella migliore delle ipotesi, opere fittizie, nella peggiore una vasta rete di «intermediari» che ha barattato il denaro dello Stato contro i voti delle clientele elettorali. Alla spaccatura orizzontale fra le regioni settentrionali e meridionali si aggiunge un’altra spaccatura, non meno pericolosa. Il fallimento dell’ideologia risorgimentale nella sua duplice versione militare e civile ha trasformato l’Italia in uno Stato senza fondamenta etico-politiche. Un neo-corporativismo Questo non significa che la sua unità sia in forse; gli interessi comuni prevalgono sulle divergenze. Significa tuttavia che il paese è progressivamente divenuto nel corso di questi ultimi anni una costellazione di grandi corporazioni tribali o professionali, ciascuna delle quali è preoccupata, anzitutto, dalle proprie prerogative e dalla propria autotutela: i giudici, la Banca d’Italia, i giornalisti, le forze dell’ordine, la Commissione episcopale e le organizzazioni che ne dipendono, le Forze Armate, le nomenklature accademiche, gli apparati burocratici dei partiti e dei sindacati, le clientele della FORUM - GIUGNO/10 criminalità organizzata e giù sino alle corporazioni minori dei commercianti, dei farmacisti, degli edicolanti, dei tabaccai, dei tassisti. Non tutte le corporazioni hanno la stessa rilevanza. La loro compattezza e coesione dipende dal livello di partecipazione. La corporazione è forte quando il socio si identifica totalmente con essa e trae grandi benefici dalla sua tutela. È debole quando l’identificazione dipende da occasionali interessi di categoria o il socio, per ragioni personali o familiari, divide la propria lealtà fra corporazioni diverse. Ma è la corporazione-tribù ormai la vera patria degli italiani, l’istituzione attraverso la quale essi trattano con lo Stato. Non esistono più cerimonie pubbliche, in Italia, in cui la comunità nazionale celebra se stessa. Esistono cerimonie corporative in cui la corporazione celebra il diritto di autoelogiarsi e a cui lo Stato rende omaggio con la propria presenza. Si va all’Altare della Patria il 4 Novembre per compiacere la corporazione delle Forze Armate, si va all’inaugurazione dell’anno Giudiziario per compiacere i magistrati, si mandano telegrammi ai meeting di Comunione e Liberazione per rendere omaggio a una particolare tribù della famiglia cattolica, si è votato il lunedì 28 marzo 1994 (e non soltanto domenica 27) per compiacere la nomenklatura dell’ebraismo italiano a cui non era permesso, in linea di principio, votare nel giorno di una propria festività religiosa. La fine dell’ideologia non comporta necessariamente la fine dei riti risorgimentali. Gli uomini politici continueranno a salire i gradini del monumento a Vittorio Emanuele, a deporre corone d’alloro, a visitare gli ossari della prima guerra mondiale e quello di El Alamein, a celebrare ricorrenze dimenticate, a commemorare martiri di cui nessuno ricorda più di quando e perché siano morti. Così fece Giuliano l’Apostata negli anni in cui i suoi connazionali avevano già smesso di credere agli dei dell’Olimpo. Il vuoto ideologico postrisorgimentale L’establishment politico-amministrativo continuerà a parlare il 33 linguaggio del Risorgimento anche per nascondere il vuoto ideologico della repubblica. Ma è difficile immaginare che il nuovo Stato italiano possa costituirsi sulla base di ideali così duramente provati dalla realtà storica e così fortemente minoritari. Nascerà, se i suoi cittadini non riusciranno a dargli un’anima nuova, sulla base di un pragmatico patto di convivenza fra popoli che parlano la stessa lingua, vedono la stessa televisione, partecipano allo stesso campionato di calcio e hanno un evidente interesse a non pregiudicare, con gesti avventati o decisioni emotive, le prospettive della loro comune prosperità. La storia dell’Italia risorgimentale si è conclusa. Quella degli anni ‘80 e della crisi presente appartiene ad un libro nuovo che potremmo chiamare, per meglio marcare, la cesura col passato, «dell’Italia post-risorgimentale». STORIA 34 Mafia, Camorra e ‘n’Drangheta: i più indovinati prodotti dell’Unità Nazionale di Vito Lo Scrudato Risorgimento, sistema Parlamentare e Stato fortemente centralistico hanno definitivamente dirottato l’evoluzione storico-sociale delle Regioni del Mezzogiorno verso il modello deteriore e sottosviluppato che conosciamo. Non solo il Meridione era dotato di maggior ricchezza e mezzi produttivi poi inesorabilmente liquidati, ma con l’Unità Nazionale cambiò profondamente il rapporto del cittadino con le Istituzioni dello Stato. Non sarebbe corretto far partire la storia della criminalità organizzata dall’Unità d’Italia, perché prima di allora già esistevano nella struttura feudale del Meridione modesti germi di quella sanguisuga che avrebbe dissanguato l’Italia Unita succhiandole, costantemente e fino ad oggi, una gran fetta di PIL. Ma si trattava di costumi arcaici che, anziché scomparire con quella struttura, vennero rinforzati dal processo unitario, soprattutto per l’incoscienza e l’incompetenza dei nuovi governanti piemontesi e dei loro metodi oppressivi. È appunto in quel momento storico che si evidenzia il conflitto palese tra questa criminalità e il nuovo Stato, con conseguente appoggio della popolazione più umile alla “Mafia”, che inizia a crescere e ad organizzarsi in modo rigido. Quella che oggi conosciamo col nome di Mafia altro non fu che lo strumento FORUM - GIUGNO/10 35 Di Vito Lo Scrudato è appena uscito il volume “Varsalona, l’ultimo brigante. Nel latifondo siciliano tra ‘800 e ‘900” Vittorietti, Palermo 2010. Vi si realizza un bilancio negativo per la Sicilia, a 150 anni dall’Unità Nazionale. di potere delle classi dominanti, dei proprietari, ricchi borghesi o famiglie col blasone con terre al sole e ramificazioni dentro le alte cariche dello Stato e degli Enti Locali.1 Questi nella mafia trovavano il mezzo per difendere ed ampliare i loro interessi, accrescere le fortune economiche e, col controllo sulle popolazioni soggezionate, accrescere anche la fetta di gestione politica e di potere. E si trattava, allora come oggi, di finalità razionalissime che prevedevano 1 L’Unità d’Italia rafforzò nel Mezzogiorno un processo di fine della struttura feudale delle campagne, nel momento in cui l’economia veniva integrata, seppure faticosamente, a quella del resto del Paese. Come è già stato accennato, il nuovo governo piemontese si sovrappose infatti ad una struttura sociale meridionale già per molti aspetti affermata in modo originale nel tessuto sociale, senza riuscire ad interagire positivamente con essa. Conseguenza di questi cambiamenti fu che nelle campagne i grossi latifondisti, che avevano detenuto interamente il potere fino a quel tempo, cominciarono ad aver bisogno sempre più di qualcuno che garantisse loro un controllo effettivo delle proprietà, sia per difendersi dal brigantaggio, sia per resistere alle nascenti pretese delle classi contadine per una più equa distribuzione del prodotto del loro lavoro. Questo ruolo, che in altri paesi ed anche in altre zone d’Italia fu tipicamente un compito affidato alla classe borghese imprenditoriale, aiutata nella sua affermazione dallo stato liberale, venne assunto da alcuni personaggi che presero il nome di “campieri” (perché controllavano i campi) o “gabelloti”, in quanto riscuotevano, per conto del padrone, le “gabelle”. Quindi, fin dal principio, la mafia si delinea come un’organizzazione che assume dei ruoli pubblici per eccellenza, che altrove sono di competenza dello Stato (Clemente Russo, “Storia della mafia nel Mezzogiorno d’Italia). l’impiego di metodologie e di mezzi approntati e selezionati con cura. A cominciare dal personale reclutato e dal suo livello d’impiego: quello militare, quello finanziario e quello destinato alla gestione del potere pubblico in funzione privata. Avevano torto quegli autori che nei primi decenni di Unità Nazionale pensavano alla mafia come ad un fenomeno senza contorni, quasi uno stato d’animo. Una definizione fuorviante fornì ad esempio il deputato Romualdo Bonfardini alla Commissione d’inchiesta parlamentare sulle condizioni della Sicilia, nominata nel 1875: “La mafia non è una precisa società segreta, ma lo sviluppo ed il perfezionamento della prepotenza, diretta ad ogni scopo di male.» Sappiamo che non è così: la mafia è una precisa società segreta alla quale si aderisce in piena coscienza, addirittura attraverso arcani rituali d’iniziazione. Anche sull’affermazione la mafia essere diretta ad ogni scopo di male, ci fu una presa di posizione critica espressa da Napoleone Colajanni: “spessissimo il mafioso è persona assai laboriosa, che ci tiene a trarre i mezzi di sussistenza dal proprio lavoro (...) il furto, la rapina, lo scopo economico del delitto sono proprio di una mafia degenerata.» È falso anche questo: oggi si ha coscienza che la finalità primaria della I Borboni, immeritatamente vituperati da persistente propaganda politica, rilanciata ancora oggi da tanta storiografia di parte, erano circondati da consenso e condivisione, i Savoia al contrario rimasero lontani, tirannici, parassitari, incapaci di capire l’identità culturale dei nuovi cittadini italiani, in definitiva mandanti di azioni di repressione e di guerra brutali ed eccessive contro istanze che rilette oggi si presentano plausibili e giustificate. Campieri e mafiosi (foto di Luigi Marinaro) STORIA 36 La nostra storia repubblicana ha protratto, in alcuni casi addirittura aggravato, gli errori della prima fase unitaria. La mafia rozza e violenta e una parte considerevole della classe dominante siciliana, hanno sempre retto il gioco e offerto gli strumenti per il lavoro sporco, alle “menti raffinatissime” dello Stato centrale. Gli intrighi più devastanti ed insidiosi sono nati nei santuari del potere politicoeconomico di Roma e di Milano e non certamente a Palermo. mafia è l’interesse economico e l’acquisizione del potere assoluto sulle comunità sulle quali intende avere competenza territoriale. Certo, la mafia, nella ricerca di una sua legittimità spendibile, ha fatto credere di essere stata in origine un fenomeno sano e positivo. “La mafia di una volta, quella sì...» è detto ancora oggi in Sicilia da alcuni anziani. Ma è un inganno al quale concorre la stessa mafia, in cerca di legittimazione e addirittura di consenso. Nel latifondo la mafia era rappresentata tout court dai soprastanti, più spesso dai campieri e dai loro picciotti. Quando c’erano briganti, la mafia faceva in modo di allearseli con lo scopo di accrescere la sua potenza e disporre di un ulteriore braccio esecutivo per consumare vendette, ridurre e mettere fuori gioco rivali e nemici. I picciotti venivano reclutati tra i villani, ma la scelta ricadeva solo su chi dava prova di saper delinquere con temerarietà e coraggio. I picciotti erano spesso l’anello di congiunzione tra mafia e brigantaggio perché talvolta non erano dei semplici mafiosi, bensì dei latitanti. I picciotti erano un altro problema per i contadini - si trattava di dovere sfamare anch’essi, - ma nel contempo costituivano un modello, una stretta via d’uscita dalla condizione d’irreversibile miseria. Altra soluzione praticata per sfuggire alla durezza del latifondo era l’emigrazione a Tu- nisi o in America. Diventare picciotto, affiliato cioè di mafia, nel gradino più basso, non era facile, occorrevano dei titoli e delle caratteristiche professionali. I titoli si acquisivano sul campo dimostrando di possedere tre qualità: pettu (coraggio), tuba o panza (saper tenere i segreti) ed essere amico dei briganti. Di un buon campiere poi si diceva che aveva già uno o due cuoi al sole, aveva cioè già ucciso una o due persone. I campieri si ponevano al centro di una mediazione tra mondo agricolo della produzione, proprietari e gabellotti, e il variegato mondo della latitanza, picciotti e briganti veri e propri. Il brigantaggio fu un fenomeno discontinuo, sorto e sviluppatosi in determinate condizioni storiche: ha conosciuto vere esplosioni di grande impatto e periodi di diminuzione e addirittura di scomparsa. Alla stessa stregua della mafia, anche il brigantaggio trasse linfa dalla rivoluzione garibaldina. La mafia, che non esisteva prima dell’Unificazione, ebbe una rapida e generalizzata diffusione soprattutto nella Sicilia occidentale. Attraverso l’adesione ad essa si conseguiva la ricchezza, non si doveva rinunciare a permanere nell’ambiente di sempre e la stessa violenza esercitata non era rivolta contro le Istituzioni, la mafia cioè non aveva finalità eversive o rivoluzionarie. “Il tratto distintivo della violenza mafiosa fin dal suo primo sorgere era ap- FORUM - GIUGNO/10 punto questa capacità di operare all’interno del sistema e di porsi al servizio di interessi dominanti, ricevendone in compenso protezione e servizio.»2 Come si vede l’uso politico, lucido e determinato, della mafia era già stato collaudato. Diverso invece era il discorso relativo al brigantaggio dove si coagulavano istanze che avevano una confusa pulsione politica e ribellistica ad opera delle sole classi subalterne. Le bande nate nei decenni dopo il 1860 avevano due modelli organizzativi: ce n’erano di associate permanentemente e di quelle che si riunivano solo per il tempo sufficiente per portare a termine i delitti, i furti, le rapine, gli abigeati, i sequestri, gli assalti alle diligenze, gli assalti ai monasteri, le vendette. Il fenomeno fu talmente vasto e ramificato da connotarsi come scontro oltre che militare, anche sociale, tra popolazione isolana e Stato, in modo del tutto assimilabile al banditismo che si sviluppo nel ‘900 dopo le due guerre mondiali. Si suole collocare l’epoca di maggior virulenza del brigantaggio postunitario nel quindicennio di governo della Destra storica, individuando poi la sua “epoca d’oro nel primo quinquennio degli anni ‘70. In effetti il banditismo postunitario cessò di essere un 2 Francesco Renda fenomeno diffuso ed organizzato a cominciare dal 1877. Va specificato che il banditismo siciliano, ancorché legato ad istanze di tipo larvatamente politico rivoluzionario, si diversificò in modo netto dal restante banditismo dell’Italia Meridionale che si presentava più centralizzato nella direzione e dov’erano presenti e più spiccati i motivi del legittimismo borbonico. In Sicilia lo scontro con il nuovo Stato unitario avvenne soprattutto sul piano della renitenza alla leva, incomprensibile per i contadini, per i quali la distrazione di braccia dai lavori agricoli significava un ulteriore peso economico. E poi il governo si prendeva i giovani contadini avvezzi al duro lavoro e li restituiva - questo veniva affermato con convinzione dai vecchi - oziosi e incapaci di riadattarsi ai vecchi ritmi di lavoro. E comunque il problema oltre che culturale era certamente anche sociale, ma lo Stato Sabaudo non seppe andare ad una composizione, preferendo lo scontro. E lo scontro fu durissimo a partire dalle stesse cifre della renitenza: nel 1863 i renitenti in Sicilia furono 26.225. A ben vedere si trattò dell’organico di un esercito e anche se le cifre ad una successiva stima risultarono gonfiate, si può ben comprendere la gravità dello 37 scontro sociale in atto. Altre cause che fomentarono la ribellione al nuovo Stato furono l’estensione della Legge Pica, pensata quale strumento per combattere il brigantaggio dell’Italia meridionale (si ricordi l’allucinante ordine del mediocre e borioso generale piemontese Govone: punto questa capacità di operare all’interno del sistema e di porsi al servizio di interessi dominanti, ricevendone in compenso protezione e servizio.»3 Come si vede l’uso politico, lucido e determinato, della mafia era già stato collaudato. Diverso invece era il discorso relativo al brigantaggio dove si coagulavano istanze che avevano una confusa pulsione politica e ribellistica ad opera delle sole classi subalterne. Le bande nate nei decenni dopo il 1860 avevano due modelli organizzativi: ce n’erano di associate permanentemente e di quelle che si riunivano solo per il tempo sufficiente per portare a termine i delitti, i furti, le rapine, gli abigeati, i sequestri, gli assalti alle diligenze, gli assalti ai monasteri, le vendette. Il fenomeno fu talmente vasto e ramificato da connotarsi come scontro oltre che militare, anche sociale, tra popolazione isolana e Stato, in modo del tutto assimilabile al banditi3 Francesco Renda STORIA 38 1866: la ribellione di Palermo allo Stato Unitario “Una tinta mattinata del settembre 1866, i nobili, i benestanti, i borgisi, i commercianti all’ingrosso e al minuto, i signori tanto di coppola quanto di cappello, le guarnigioni e i loro comandanti, gli impiegati di uffici, sottuffici e ufficiuzzi governativi che dopo l’Unità avevano invaso la Sicilia pejo che le cavallette, vennero arrisbigliati di colpo e malamente da uno spaventoso tirribllio di vociate, sparatine, rumorate di carri, nitriti di vestie, passi di corsa, invocazioni di aiuto. Tre o quattromila viddrani, contadini delle campagne vicino a Palermo, armati e comandati per gran parte da ex capisquadra dell’impresa garibaldina, stavano assalendo la città. In un vìdiri e svìdiri, Palermo capitolò, quasi senza resistenza: ai viddrani si era aggiunto il popolino, scatenando una rivolta che sulle prime parse addjrittura indomabile. Non tutti però a Palermo furono pigliati di sorpresa. Tutta la notte erano ristati in piedi e viglianti quelli che aspettavamo che capitasse quello che doveva capitare. Erano stati loro a scatenare quella rivolta che definivano “repubblicana”, ma che i siciliani, con l’ironia con la quale spesso salano le loro storie più tragiche, chiamarono la rivolta del “sette e mezzo”, ché tanti giorni durò quella sollevazione. E si ricordi che il “sette e mezzo” è magari un gioco di carte ingenuo e bonario accessibile pure ai picciliddri nelle familiari giocatine di Natale. Il generale Raffaele Cadorna, sparato di corsa nell’Isola a palla allazzata, scrive ai suoi superiori che la rivolta nasce, tra l’altro, “dal quasi inaridimento delle risorse della ricchezza pubblica”, dove quel “quasi” è un pannicello caldo, tanticchia di vaselina per far meglio penetrare il sostanziale e sottinteso concetto che se le risorse si sono inaridite non è stato certamente per colpa degli aborigeni, ma per una politica economica dissennata nei riguardi del Mezzogiorno d’Italia”. (Andrea Camilleri, Biografia del figlio cambiato, Edizioni Rizzoli - La Scala) Palermo, la quarta città d’Italia, che aveva accolto Garibaldi come un liberatore dopo solo 5 anni di governo unitario, si ribellò. 5 anni che avevano provocato in tutta la Sicilia una feroce crisi economica, dovuta principalmente alla difficoltà del passaggio forzoso e troppo rapido da una economia campagnola di tipo feudale, al capitalismo. Inoltre tutta la sinistra che aveva creduto in Garibaldi e nelle sue idee repubblicane, aveva subito una tal delusione dall’avvento di una nuova monarchia, per di più “straniera”, da divenire intransigente ed estremista. Dopo il colorato prologo descritto, con la solita genialità, da Camilleri, e di cui gli studenti italiani nulla hanno mai saputo dai libri di scuola, i ribelli riuscirono a sollevare l’intera popolazione. La ribellione fu imponente, fonti governative parlano di 35-40 mila uomini armati il cui malcontento venne presto incanalato da alcune forze politiche che sfruttarono la situazione economica disastrosa e la debolezza dello Stato savoiardo che, dopo le sconfitte di Custoza e di Lissa, sembrava dovesse perdere quella che poi venne chiamata la terza guerra d’indipendenza Nella rivolta di Palermo insorsero contemporaneamente e di concerto sia l’opposizione di estrema destra che quella di estrema sinistra. Obiettivo dei nobili e del clero era la restaurazione borbonica e clericale, con il recupero dei vecchi privilegi, mentre la sinistra estrema tendeva ad instaurare uno stato repubblicano di tipo mazziniano. Tale strano connubio si concretizzò in una giunta rivoluzionaria con un presidente borbonico, il principe di Linguaglossa, ed un segretario mazziniano, Francesco Bonafede. Non sapremo mai come sarebbe finito questo “inciucio” perché la repressione delle forze del Regno d’Italia fu feroce e la rivolta fallì dopo sette giorni e mezzo, durante i quali Palermo restò in mano ai rivoltosi (da qui il nome “sette e mezzo”). Ma grazie ai 40.000 soldati e ad un cannoneggiamento a tappeto ordinato dal generale Cadorna, i sabaudi ebbero ragione dei rivoltosi. Morti e prigionieri furono molte migliaia e fu subito chiaro che la situazione era critica e l’unità nazionale in pericolo. Malgrado ciò i Savoia non cambiarono atteggiamento: dopo aver soffocato la rivolta andarono avanti con la repressione e lo sfruttamento. L’odio iniziò a montare, divenne abitudine, con i risultati che ancor oggi paghiamo. Lo Stato maggiore delle truppe piemontesi, comandate da Raffele Cadorna, che dopo la rivolta di Palermo del 1866, entrarono in città imponendo il coprifuoco e facendolo rispettare a fucilate. FORUM - GIUGNO/10 39 Legge Pica, pensata quale strumento per combattere il brigantaggio dell’Italia meridionale (si ricordi l’allucinante ordine del mediocre e borioso generale piemontese Govone: “Arrestare tutti quelli che si incontrano per la campagna all’età apparente del renitente o col viso dell’assassino, circondando i paesi e facendo perquisizioni di massa” smo che si sviluppo nel ‘900 dopo le due guerre mondiali. Si suole collocare l’epoca di maggior virulenza del brigantaggio postunitario nel quindicennio di governo della Destra storica, individuando poi la sua “epoca d’oro nel primo quinquennio degli anni ‘70. In effetti il banditismo postunitario cessò di essere un fenomeno diffuso ed organizzato a cominciare dal 1877. Va specificato che il banditismo siciliano, ancorché legato ad istanze di tipo larvatamente politico rivoluzionario, si diversificò in modo netto dal restante banditismo dell’Italia Meridionale che si presentava più centralizzato nella direzione e dov’erano presenti e più spiccati i motivi del legittimismo borbonico. In Sicilia lo scontro con il nuovo Stato unitario avvenne soprattutto sul piano della renitenza alla leva, incomprensi- bile per i contadini, per i quali la distrazione di braccia dai lavori agricoli significava un ulteriore peso economico. E poi il governo si prendeva i giovani contadini avvezzi al duro lavoro e li restituiva - questo veniva affermato con convinzione dai vecchi - oziosi e incapaci di riadattarsi ai vecchi ritmi di lavoro. E comunque il problema oltre che culturale era certamente anche sociale, ma lo Stato Sabaudo non seppe andare ad una composizione, preferendo lo scontro. E lo scontro fu durissimo a partire dalle stesse cifre della renitenza: nel 1863 i renitenti in Sicilia furono 26.225. A ben vedere si trattò dell’organico di un esercito e anche se le cifre ad una successiva stima risultarono gonfiate, si può ben comprendere la gravità dello scontro sociale in atto. Altre cause di ribellione al nuovo Stato furono l’estensione della e la Legge di Polizia con l’abusato impiego dell’istituto dell’ammonizione e del domicilio coatto. Per fare un esempio nella sola provincia di Palermo nel 1866 gli ammoniti erano in numero di 5.000. Il brigantaggio isolano fu così fomentato per un lungo periodo da un circolo vizioso: lo Stato alimentava il brigantaggio mentre lo combatteva. Tuttavia l’affermazione che nel 1877 il banditismo cessò di essere un fenomeno diffuso, con rilevante valenza sociale, e che con l’avvento della sinistra al governo del giovane Regno sia stato debellato, si scontra con la constatazione che nel decennio di maggiore gloria di Francesco Paolo Varsalona, autentica stella del brigantaggio siciliano, oltre che lui operavano nello stesso territorio o in posizione appena contigua altri illustri e valenti professionisti della latitanza: tra questi Melchiorre Candino, il famigerato Mirto e la banda Collotti. STORIA 40 Non vi è dubbio che molte aspettative furono deluse prestissimo, ne fanno fede la rivolta e la feroce repressione di Bronte, i moti del 1866, l’esplosione dei fasci dei lavoratori del 1892/93 e lo stesso brigantaggio, che anche se non era consapevole di esercitare una resistenza politica, pure era il prodotto di un’evidente incapacità gestionale dello Stato sardopiemontese. Il centralismo attuato con subitanea brutalità fu uno dei fattori scatenanti del brigantaggio e della mafia che gli sopravvisse per la sua insidiosa natura trasformistica e filogovernativa. Il brigantaggio e perciò anche la mafia trasse linfa e innumerevoli adepti dalla decisione garibaldina di introdurre subito dopo l’unificazione la chiamata obbligatoria di leva, ignorando secoli di consuetudine diversa. L’imponenza del fenomeno è altresì testimoniato da grandi processi, che si celebrarono ancora nei primi anni del nuovo secolo, la verità essendo dunque che il brigantaggio dopo il 1877 preferì adottare il modello della piccola banda mobile che si scioglieva finito lo scopo dell’assembramento. Non era cioè più praticabile, né conveniente, organizzare il grande assembramento stabile avvistabile negli spostamenti e perciò obbligato a scontrarsi in campo aperto con le squadriglie mobili degli agenti di Pubblica Sicurezza, di Reali Carabinieri e di reparti dell’Esercito. Ma nonostante l’adozione di questa struttura leggera il brigante era in grado di reggere il territorio come un monarca che emanava leggi e imponeva tributi, creando così un vero stato nello stato. Quanti dei problemi sorti all’indomani della rivoluzione garibaldina sono stati affrontati e risolti dallo Stato Unitario? Era noto che la Sicilia godeva di antichissimo privilegio dell’esenzione dalla coscrizione, perciò la sua soppressione doveva essere quantomeno graduale. Gli eccessi a tal riguardo non mancarono e furono dettati nella maggior parte dei casi dal pregiudizio secondo cui la missione dei Reali Carabinieri e dell’esercito piemontese era di asservire la Sicilia alle rigide direttive centrali nel modo più brutale ed insensato. Capitò che - nella totale sfiducia nelle buone ragioni dei siciliani - le autorità sanitarie e militari dell’Ospedale Militare di Palermo infliggessero ad un giovane sordomuto ben “centocinquantaquattro bruciature di ferro rovente” nel tentativo di farne una recluta. La sofisticata terapia tentò di smascherare quello che fu creduto un caso di simulazione; ovviamente quando i perspicaci e tenaci medici del reclutamento si arresero fu troppo tardi: il corpo del coscritto Antonio Cappello si presentava penosamente ricoperto di ustioni. L’enormità dell’atto sembrò agli stessi medici con le stellette difficilmente confessabile e così diagnosticarono delle improbabili revulsive superficiali volanti. FORUM - GIUGNO/10 Nella coscienza dei siciliani dunque cresceva un atteggiamento di insofferenza nei confronti dei nuovi arrivati man mano che diveniva chiaro che anche gli eccessi commessi dagli stessi Carabinieri - che pure all’inizio erano stati accolti con rispetto e ammirazione - non venivano mai puniti, agendo questi in regime di sostanziale impunità. Le inciviltà dei militari vennero con forza denunziate in Parlamento dall’ex Ministro del Re Filippo Cordova. Successivamente analoga e più incisiva denuncia fece il parlamentare Diego Tajani che sarebbe diventato Ministro di Grazia e Giustizia. Con passione e coraggio Tajani fece scoppiare un caso in Parlamento. Era l’11 Giugno del 1875 e Tajani diede da subito la sensazione di avere più di un sassolino nelle scarpe, perché lui stesso era stato vittima di decisioni maldestre e di uomini corrotti: “Dal 1860 al 1866 fu un continuo offendere abitudini secolari, tradizioni secolari, suscettibilità, anche puntigliose, se vuolsi di popolazioni vivaci, espansive e che erano disposte a ricambiare con un tesoro di affetti un governo, che avesse saputo studiarle e conoscerle... alla Sicilia è stata aperta la via ad ogni maniera di arricchire, se si voglia, ma le si è spianata la via verso la propria corruzione. Le si è imbellettato il viso, lasciate che io lo dica, ma le si è insozzata l’anima!» Altrettanto invisa ai siciliani fu la questione tributaria, nuovi balzelli e infiniti scandali che davano la misura della corruzione possibile, tollerata e addirittura commissionata dal nuovo Stato. A proposito della rivolta del 1866 l’Onorevole Tajani all’interno dello stesso discorso parlamentare denunciò: “Dopo la rivolta vi fu un diluvio di disposizioni cozzanti tra di loro; vennero i tribunali militari, i quali fecero sterminato numero di processi e quando la posizione era compromessa e che la giustizia dei tribunali civili doveva riuscire difficilissima, se non impossibile, si annullarono ad un tratto i tribunali militari ed i tribu- 41 nali civili ne rimasero imbarazzati; e così ne rimase esautorata la giustizia militare e la giustizia civile!» La constatata paralisi della giustizia indusse il governo a praticare una scorciatoia: mandare ancora un generale, il generale Medici che “per restaurare l’imperio della legge violò tutte le leggi; per restituire la fiducia nella giustizia affidossi all’iniquità.» Scorretto fu dunque l’approccio dei nuovi governanti, inadeguata la risposta del Mezzogiorno e della Sicilia sia nelle sue componenti popolari, scusabili per l’arretratezza sociale e culturale, che nelle sue classi dominanti (scarsamente dirigenti), dominati per diritto di nascita feudale o per appartenenza di cosca, di “camerilla”, come appunto dicevano quegli autori, contemporanei del brigante del quale ci siamo proposti di ricostruire la vicenda, che s’intrecciò con quella di altri briganti direttamente coinvolti negli intrallazzi della politica. Del brigante Candino si sapeva che fu “la principale forza elettorale governativa in qualche collegio della provincia di Palermo,» mentre del “mafioso Petrilli si diceva che “con trentadue processi era al servizio della polizia.» STORIA di Lorenzo Paolini 42 Tra le figure che nella storia hanno mutato immagine a seconda dello spirito dei tempi in cui li si raccontava, quella di Nerone detiene il record di condanne e rivalutazioni. Ma, oggettivamente, chi era costui? to con un DNA non splendido da parte paterna, afflitto dalle angosce di un infanzia precaria ed infelice, tormentato dalle insicurezze di una posizione diseconda parte nastica quantomeno traballante, si trova all’improvviso totalmente libero delle sue azioni, ma Incubi e rimorsi contemporaneamente privo dell’appoggio e Agrippina venne cremata la sera stessa delle risorse che fino a poco tempo prima la del suo omicidio, (aveva appena 44 anni), madre gli aveva assicurato. senza una degna sepoltura e neppure una Burro tentò di convincerlo che ciò che era lapide, mentre il Senato si dava un gran da stato fatto si “doveva” fare. Nerone scapfare per cancellarne ovunque la memoria e pò a Napoli dove trovò la forza di scrivele tracce delle sue gesta. re al Senato per informarlo del tentativo di Ma l’unico luogo dal quale non poté essere Agrippina di attentare alla sua vita. estirpata fu la psiche del ventiduenne impeLa reazione era scontata: Agrippina era staratore, che iniziò a rifiutare il cibo e a torta troppo odiata perché la sua morte non mentarsi, restando quasi inebetito. Incubi e venisse accolta con gioia, ma l’idillio fra rimorsi iniziarono a tormentarlo, facendolo Nerone ed il popolo romano andava ormai piombare in un grave stato di depressione. incrinandosi, anche perché le cattive notizie Periodo fondamentale per comprendere che stavano arrivando sia dalla Britannia la vera natura del ragazzo: equipaggiache dall’Oriente richiedevano l’azione di un Nerone, angelo o demone? “Il rimorso di Nerone” di J. W. Waterhouse, 1878. FORUM - GIUGNO/10 43 imperatore capace e deciso: e lui non era né l’uno né l’altro. Al suo ritorno a Roma Nerone si sentì per la prima volta libero di fare qualsiasi cosa volesse e dette sfogo alle sue grandi passioni: i cavalli ed il canto. “Era sua vecchia passione guidare la quadriga, unita all’altra mania, non meno spregevole, di cantare, accompagnato dalla cetra, per dare spettacolo. Ricordava che gareggiare nella corsa dei cavalli era pratica di re e di antichi capitani, e materia del canto dei poeti e consacrata a onorare gli dèi. Il canto poi era sacro ad Apollo, divinità importantissima e signore della profezia, che proprio con la cetra veniva figurato non solo nelle città greche, ma anche nei templi di Roma. Non si riusciva a frenarlo, e allora Seneca e Burro, perché non la spuntasse in entrambi, scelsero di cedere su un punto: venne recintato, nella valle del Vaticano, uno spazio, in cui guidasse i cavalli senza dare spettacolo a tutti”1. Ma ora che poteva ciò che voleva aprì le porte alla folla ed iniziò a godere del successo e della popolarità, rendendosi conto che la cosa che più lo inebriava era il consenso delle masse e se ne eccitava sempre di più. Presto si circondò di una corte di rampolli 1 Tacito, Annali XIII, 14 delle famiglie più nobili, insieme ai quali si abbandonò a gozzoviglie e turpitudini di ogni genere, manifestando quel lato violento e intemperante della sua indole che lo porterà alla rovina. Ecco come Svetonio ci descrive le sue scorribande notturne: “Manifestò impudenza, libidine, lussuria, avidità e crudeltà dapprima gradualmente e di nascosto e come se si trattasse di errori giovanili, ma in un modo tale che anche allora nessuno aveva dubbi che quei vizi fossero di natura e non di gioventù. Subito dopo il crepuscolo, calzato un berretto o una parrucca, entrava nelle osterie e vagabondava per le strade in vena di scherzi, d’altronde non inoffensivi, giacché era solito picchiare persone che ritornavano da una cena e ferire e buttare nelle fo- gne chi opponeva resistenza, sfondando porte e saccheggiando botteghe. In risse di questo genere rischiò gli occhi e la vita e una volta fu ferito quasi a morte da un senatore, alla cui moglie aveva messo le mani addosso. Perciò, in seguito, non si azzardò mai più a quel tipo di uscite senza la scorta di alcuni tribuni, che lo seguivano di lontano e con discrezione. Anche in pieno giorno, fattosi trasportare di nascosto in teatro su una lettiga, assisteva dall’alto del proscenio alle liti dei pantomimi, nel contempo come vessillifero e come spettatore, e una volta, poiché si era venuti alle mani e si lottava a colpi di pietre e di pezzi di sgabelli, ne gettò anch’egli sulla gente, ferendo gravemente un pretore alla testa”2. 2 Svetonio, Vita di Nerone 26 STORIA 44 Thomas Couture “I romani della decadenza” 1847, Parigi, Musèe d’Orsay lezza del principe e alla sua voce epiteti divini: e, come se lo dovessero a meriti particolari, vivevano godendosi fama e onori”3. Ormai Seneca aveva iniziato ad allontanarsi da lui. Del resto anche Nerone vedeva lui e Burro come due scomodi grilli parlanti che in qualche modo vantavano il diritto di limitare i suoi eccessi ed indirizzare la sua azione. La passione per Poppea, infine, morta Agrippina, poteva finalmente manifestarsi alla luce del sole. Gli Iuvenalia La Gravitas romana, tuttavia, imponeva dei limiti: per non abbassarsi fino all’esibizione in un pubblico teatro, Nerone, sempre teso ad imitare modelli grecizzanti, pensò di istituire dei giochi chiamati Iuvenalia, cui si iscrisse gente di ogni provenienza. “Costrinse anche noti cavalieri romani, con doni cospicui, a promettere di dare spettacolo nell’arena: ma se il compenso viene da chi può dare ordini, diviene un obbligo. Tuttavia non la nobiltà, l’età, le cariche ricoperte impedirono loro di esercitare anche l’arte degli istrioni greci o latini, fino a scendere a gesti e atteggiamenti non virili. Non basta: matrone famose si esibivano in parti oscene; e presso il bosco di cui Augusto contornò il lago riservato alle naumachie sorsero luoghi di convegno e taverne e si potevano comprare strumenti di lussuria. ... Infine Nerone salì sulla scena, accordando con molto impegno le corde della cetra e provando il tono giusto con maestri di canto al suo fianco. Erano intervenuti la coorte pretoria, i centurioni, i tribuni e Burro, affranto ma prodigo di lodi. Fu allora che, per la prima volta, vennero reclutati tra i cavalieri romani, col nome di Augustiani, dei giovani, selezionati per l’età e il fisico aitante, alcuni di insolente presunzione, altri sperando di acquistare potere. Costoro, in un continuo scrosciare di applausi giorno e notte, davano alla bel- Poppea Sabina Aristocratica, bellissima, affascinante, ambiziosa, di classe4 Poppea aveva messo gli occhi su Nerone fin da quando era sposata con Rufrio Crispino, capo della guardia pretoriana sotto Claudio5. Appena Agrippina fu imperatrice, fece giustiziare Crispino sostenendo che questi aveva favorito Messalina nei suoi intrighi. Vedova ed in disgrazia presso Agrippina, a Poppea non restò che sposare Marco Salvio Otone, amico di Nerone e suo compagno di gozzoviglie, certamente 3 Tacito, Annali, XIV, 20 4 Tacito descrive Poppea con questa frase meravigliosa, degna di Woody Allen: “Essa ebbe ogni pregio femminile, tranne l’onestà”. 5 Poppea gli aveva dato un figlio dallo stesso nome, che dopo la morte della madre sarebbe stato affogato in una battuta di pesca dall’imperatore Nerone. “Poppea”, Museo archeologico di Olimpia nel segreto intento di usarlo per aggiungere il suo vero obiettivo: l’imperatore Nerone. “Otone, reso imprudente dalla passione, non cessava di elogiare all’imperatore la bellezza della moglie; o forse voleva accendere la bramosia di lui, pensando che, quando avessero posseduto la medesima donna, questo nuovo vincolo gli avrebbe accresciuto potenza”6. Frequentando la corte e sfoderando la sua seduttività, ne divenne ben presto l’amante, mai immaginando in quel momento che suo marito sarebbe divenuto imperatore a sua volta, sia pure per soli quattro mesi. Comunque Otone, uomo di mondo, invitato da Nerone a partire per governare la Lusitania, accettò di buon grado di sparire dalla scena lasciando a Nerone campo libero con sua moglie. Agrippina aveva visto un grande pericolo nel fascino che Poppea esercitava su Nerone ed aveva ostacolato in ogni modo la loro relazione, ottenendo solo che l’odio e l’insofferenza di Nerone verso di lei aumentassero fino all’esasperazione ed all’omicidio. Con Agrippina fuori scena, l’influenza di Poppea sull’imperatore divenne tale che questi iniziò a considerare di divorziare dalla povera Ottavia, ormai relegata ai margini della vita pubblica, ma che godeva ancora di grande rispetto presso il popolo quale figlia del defunto imperatore Claudio ed ultima discendente diretta di Augusto ancora in vita. Problemi in Britannia e coi Parti Chi ha montato un cavallo in corsa o guidato un carro trainato da una pariglia al galoppo sfrenato sa 6 Tacito, Annali XIII, 46 FORUM - GIUGNO/10 45 quanto coraggio e quanta freddezza di nervi occorrano per uscirne vivi. Dunque definire Nerone un pavido sarebbe quantomeno superficiale. Quindi la scarsa propensione di Nerone ad impegnarsi in prima persona nella guida dell’esercito ed in qualsiasi attività militare non è facilmente comprensibile. Paura di non essere all’altezza? Incapacità di rinunciare alle sue abitudini fatte di agi, bagordi e performances artistiche? Pigrizia? Disinteresse per ogni gloria che non venisse dal palcoscenico? O più semplicemente, orrore per la volgarità della violenza e del sangue. Non è un caso che Nerone non amasse i ludi gladiatori e che, quando tutto fu perduto, non riuscì a compiere da sé il gesto tipicamente romano di trafiggersi col gladio. Fatto sta che Nerone non condusse mai un esercito in battaglia, avendo peraltro la fortuna di disporre di uno dei migliori generali del suo tempo: Gneo Domizio Corbulone, già vincitore di Frisii e Cauci sotto Claudio. Quando l’impero dei Parti rinnovò le sue pretese di controllo sull’Armenia, regno cliente di Roma, Nerone decise che era tempo di vendicare l’onta subita dall’esercito di Roma oltre un secolo prima. Nel 53 a.C., infatti, il triumviro Crasso era stato sconfitto pesantemente, perdendo la vita e le aquile nella disastrosa battaglia di Carre. Le guerre civili fra Cesare e Pompeo, prima e fra Ottaviano ed i cesaricidi poi, avevano impedito a Roma di intraprendere azioni militari contro la Partia. Azione che, peraltro, Cesare stava organizzando quando la sua grande vita venne stroncata alle idi di marzo del ‘44 a.C. STORIA 46 Gneo Domizio Corbulone Grazie all’impiego di una potente cavalleria pesante7 e di mobili arcieri a cavallo, la Partia si era rivelata ormai da tempo il più formidabile rivale dell’impero romano, quindi le sue pretese sull’Armenia dovevano essere arginate. Dopo un adeguato periodo di preparazione Corbulone iniziò l’offensiva contro i Parti nel 58 ottenendo buoni successi e rimettendo sul trono di Armenia il re Tigrane, fedele a Roma. Purtroppo nel ‘62 la situazione si era ribaltata: scelte strategiche infelici portarono il console di quell’anno, Lucio Cesennio Peto, ad una pesante sconfitta a Rhandeia, ed al conseguente ritiro dall’Armenia. notizia l’altra, di pochi mesi precedente, riguardante la ribellione della Britannia8, guidata dalla regina Boudicca9, per la quale oltre settantamila fra romani ed alleati erano morti, si può comprendere che il clima politico a Roma era molto agitato. La metamorfosi del ‘62 Mentre a Roma imperversava la crisi e alle frontiere crescevano 7 I celebri Catafratti che, grazie all’uso di selle avvolgenti e staffe, operavano vere azioni di sfondamento tali da mutare le strategie militari dell’antichità, ponendo le basi per l’avvento delle “Cavalleria” medievale. 8 Mentre il proconsole romano Gaio Svetonio Paolino stava conducendo una campagna contro i druidi dell’isola di Anglesey (Galles settentrionale), gli Iceni e i loro vicini, i Trinovanti, si ribellarono sotto la guida di Boudicca, in precedenza spodestata. Dopo alcune vittorie, fra cui la conquista di Londinium, (cioè Londra), abbandonata a sé stessa da Paolino, che non aveva sufficienti truppe per affrontare i ribelli. Riorganizzate le truppe, Paolino si scontrò con Boudicca e, benché con forze inferiori di numero, la sconfisse grazie alla sua superiorità tattica. Boudicca si avvelenò. Ammiano Marcellino così descrive queste truppe: “Tutti i loro cavalieri sono ricoperti di metallo e ogni parte del loro corpo è rivestita di spesse placche, perfettamente aderenti alle loro membra. I loro volti metallici sono così perfettamente modellati sulle loro teste che le frecce che cercano di colpirli, poiché i loro corpi sono interamente ricoperti di metallo, riescono a penetrare solo nelle strette fessure che utilizzano per vedere o in quelle del naso da dove respirano un po’d’aria”. 9 Cassio Dione Cocceiano la descrive così nella sua Storia Romana, (62, 2) “Era una donna molto alta e dall’aspetto terrificante. Aveva gli occhi feroci e la voce aspra. Le chiome fulve le ricadevano in gran massa sui fianchi. Quanto all’abbigliamento, indossava invariabilmente una collana d’oro e una tunica variopinta. Il tutto era ricoperto da uno spesso mantello fermato da una spilla. Mentre parlava, teneva stretta una lancia che contribuiva a suscitare terrore in chiunque la guardasse”. Se si aggiunge a questa brutta Boudicca i pericoli, Afranio Burro morì. Era stato colto da una malattia alla gola che gli provocava un enorme gonfiore e, su ordine di Nerone, i medici per lenire il suo dolore gli spalmavano il cavo orale di uguenti. Quando Nerone si recò al suo capezzale Burro, sospettando di essere stato avvelenato, gli volse le spalle. “La morte di Burro compromise il potere di Seneca, perché la sua positiva influenza, ora che era sparita l’altra, possiamo dire, guida, non aveva più la presa di prima, e Nerone si lasciava attrarre dai peggiori. Costoro prendono di mira Seneca con accuse di vario tipo: che aumentava ulteriormente le sue enormi ricchezze, eccessive per un privato; che intendeva concentrare su di sé le simpatie dei cittadini; che superava, quasi, il principe nella raffinata bellezza dei giardini e nella sontuosità delle ville. Gli rinfacciavano anche di volersi accaparrare tutta la gloria dell’eloquenza e di aver intensificato la produzione di versi, da quando Nerone vi si era appassionato. Lo dicevano scopertamente avverso agli svaghi del principe, Prefetto del Pretorio e guardie pretoriane FORUM - GIUGNO/10 47 pronto a sprezzare la sua abilità nel guidare i cavalli e a schernire la voce, quando cantava. E fino a quando si doveva credere che nell’impero non ci sarebbe stato niente di buono che non provenisse da lui? Senza dubbio, l’infanzia di Nerone era trascorsa ed egli era nel pieno vigore della sua giovinezza: si togliesse dunque di dosso quel precettore ora che poteva valersi dei suoi avi, come veri e preziosi maestri”10. Seneca si rese conto che era solo lui a frapporsi fra Nerone e la libertà totale e, temendo per la sua incolumità, chiese di essere congedato come ricompensa ai suoi servigi lasciando all’imperatore tutte le sue ricchezze. Al rifiuto di Nerone ed ai suoi abbracci Seneca ringraziò, ma si affrettò a cambiare le sue abitudini ritirandosi a vita più che privata. Morto Burro, Nerone nominò come Prefetto del Pretorio Gaio Sofonio Tigellino11, un siciliano rozzo e crudele, di umili origini, che condivideva con lui la passione per i cavalli: aveva infatti gestito ippodromi in Puglia ed in Calabria. Il sodalizio fra i due fu ulteriormente cementato dalla 10 Tacito, Annali XIV, 52 11 «...di Tigellino (Nerone) apprezzava l’inveterata spudoratezza e la pessima fama”. (Tacito, Annali, XIV, 51) propensione di entrambi agli eccessi sessuali: ben presto Tigellino, manovrandolo con insinuazioni e calunnie, divenne la “mano sinistra” del giovane imperatore, che anche in questa scelta dimostrò non tanto la sua incapacità, quanto la sua dissolutezza. Una mano che iniziò a colpire, duramente, insinuando dubbi sulla fedeltà di Rubellio Plauto e Cornelio Silla, gli unici due patrizi che potevano ancora vantare un legame con la discendenza di Augusto, ora che - morta Agrippina - Nerone poteva essere considerato un semplice Domizio Enobarbo. L’incubo dell’insicurezza dell’imperium, che Nerone pensava di aver esorcizzato con l’assassinio di Britannico, ritornò a popolare le notti di Nerone, rendendo inevitabili nuove epurazioni. Tigellino fece assassinare Cornelio Silla, già in esilio in Gallia, dopo aver convinto Nerone che questi stesse tramando per far ribellare le legioni del Reno. I sicari inviati da Tigellino lo colsero d’improvviso, mentre era a pranzo, e in capo a sei giorni la sua testa venne portata a Nerone, che ne trovò molto comica la calvizie precoce. Più complicato fu l’assassinio del giovane Plauto che, ricco e potente, avrebbe potuto veramente raggiungere Corbulone, ormai di stanza in Siria e preparare una rivolta. Malgrado da Roma fossero giunti diversi messaggi per metterlo in guardia, Plauto non si mosse, forse per tema d rappresaglie verso sua moglie ed i suoi figli. Venne trucidato mentre, nudo, faceva della ginnastica. Alla vista della sua testa Nerone STORIA 48 scoppiò a ridere facendosi beffe delle dimensioni del suo naso. Tigellino continuò le epurazioni avvelenando i liberti più potenti: Doriforo, accusato di aver osteggiato le nozze con Poppea, e Pallante, il vecchio amante di Agrippina, perché non si risolveva, alla sua età, a lasciare le sue immense ricchezze. Questo clima di calunnie e delazione indusse Gaio Calpurnio Pisone, convinto di essere il prossimo oggetto delle attenzioni di Tigellino, ad iniziare a tramare per rovesciare Nerone. Contemporaneamente, per accumulare denaro, si iniziò il saccheggio sistematico dell’Italia, si spremettero le province, gli alleati e le città libere. Il ‘62 è dunque l’anno in cui Nerone si libera dalle spoglie del ragazzo mite, amante dell’arte e animato da sentimenti di giustizia e dal rispetto per le istituzioni e ritrova la sua natura irascibile e violenta, trasformandosi pubblicamente in un tiranno. Molti storici giustificano questa svolta come il segno di un carattere congenitamente crudele e dissoluto che finalmente si libera di ogni freno: la madre, Burro, Seneca. Altri, invece, sostengono che il ragazzo istintivamente pacifico, che detestava sangue e guerre iniziò a comportarsi da tiranno quando vide che tutto era perduto. Paolo di Tarso L’anno precedente, poco prima della morte di Burro, era arrivato a Roma per essere giudicato, Paolo di Tarso, un ebreo cittadino romano che si era appellato, com’era suo diritto, alla giustizia dell’imperatore. Io propendo per una visione intermedia. Nel ‘62 nulla era perduto e la posizione di Nerone era ancora forte. E non riesco a vedere afPortato di fronte fatto Nerone a Burro, questi come un raPossibile identikit di Paolo di Tarso realizzato da un non lo trovò colgazzo mite nucleo della polizia scientifica tedesca nel febbrapevole di alcun e represso, io 2008 sulla base delle descrizioni contenute nelle più antiche fonti storiche, con la commissione e reato e lo lasciò ma come consulenza dello studioso Michael Hesemann. libero. una persona di indole collerica e violenta, af- Iniziava quindi l’apostolato di flitta da patologie psichiche (vedi Paolo nell’Urbe, che dava l’avvio FORUM N°1: “l’imperatore che ad un capitolo decisivo nella stonon voleva essere abbandona- ria dell’umanità: la fondazione di to”) aggravate dai complessi di una religione - il Cristianesimo colpa per l’omicidio della madre, - che se da un lato avrebbe creato nei tre secoli successivi seri oggetto di odio-amore. problemi alla cultura della romaNel ‘62 tutto si sublima, il limite nitas, dall’altro fu l’unica forza in è ormai oltrepassato e da questo grado di traghettarne la fiaccola momento tutto diventa possibile. della civiltà attraverso i tempi bui Non si intravede in Nerone una del medioevo. qualsiasi etica ispirata al senso dello stato, alla coscienza della Nessuno può affermare con suffigrandezza della sua missione, o ciente storicità la consistenza nupiù semplicemente a valori misti- merica della comunità cristiana a Roma all’inizio degli anni ‘60. co religiosi. Nerone, a mio avviso, dopo il ‘62 si rivela come un narcisista insicuro, profondamente egoista, disancorato dalla realtà dell’amministrazione del principato. Superata dall’analisi storica l’ipotesi di un primo viaggio di Pietro a Roma nel ‘51 (per approfondire, vedi l’articolo “Pietro: mai messo piede a Roma” a pag. xx) pos- Gli ebrei tentano di linciare Paolo fuori dal tempio di Gerusalemme FORUM - GIUGNO/10 49 Quando Claudio, che definiva la diaspora ebraica “una peste comune a tutto il mondo”, ascese alla porpora, si trovò alle prese con il problema dell’“aumento di una minoranza etnica compatta, impermeabile ed inassimilabile, capace di costituire una forza unitaria in seno alla popolazione della grandi città e di turbare, eventualmente, l’ordine pubblico”13. Ordinò dapprima di tenere separate le varie sinagoghe insieme per il culto, per evitare grandi assembramenti, poi nell’anno 49 ordinò un’espulsione generale degli ebrei da Roma: “Iudaeos impulsore Chresto assidue tumultuantes Roma expulit”14. siamo immaginare che fin dagli anni ‘40 qualche giudeo cristiano dedito ai commerci possa essersi stabilito a Roma ed abbia iniziato a predicare presso gli ebrei quella che a quei tempi era solo una variante della legge Mosaica. La comunità ebraica, seppur protetta, non era ben vista dal popolo romano che disprezzava cor- dialmente il giudaismo. Tuttavia una consistente diaspora verso l’Urbe era iniziata fin dai tempi di Cesare che, in ringraziamento dell’aiuto offertogli dal re giudeo Antipatro (futuro padre di Erode il Grande) nella guerra contro Pompeo, aveva concesso grandi privilegi agli ebrei12. 12 Come l’esonero dai tributi ogni sette anni per riguardo alla legge ebraica dell’anno sabbatico; l’esclusione di vessilli militari recanti l’effigie dell’imperatore in territorio giudaico per non violare le prescrizioni della Legge Mosaica; le requisizioni militari in natura e le leve di persone; l’esenzione dal servizio militare in ossequio al riposo ebraico del Sabato anche per i giudei della Diaspora. Inoltre la religione ebraica era dichiarata “religio licita”, ed ufficialmente protetta da Roma. 13 Marta Sordi in “Il cristianesimo e Roma” 14 “espulse da Roma i Giudei che, sotto la spinta di Chresto, tumultuavano continuamente” Svetonio “Vita di Claudio” 25, 4. Da notare che tale espulsione non è menzionata in nessun’altra fonte, neppure in Tacito o in Giuseppe Flavio che non avrebbe potuto ignorare un evento di tale importanza. Alcuni storici pensano che si tratti di un inserimento posteriore in Svetonio o di una espunsione dalle “Antichità Giudaiche” di Giuseppe Flavio. STORIA 50 Tale espulsione trova riscontro negli Atti degli Apostoli15, dove si cita un incontro avvenuto nella città di Corinto, intorno all’anno 50, tra l’apostolo Paolo ed una coppia di giudei di nome Aquila e Priscilla che vi si erano rifugiati dopo l’espulsione da Roma. Se il termine “Chrestus” indicasse un leader messianico che viveva a Roma o che si riferisse alla nuova setta ebraica emergente dei Cristiani è argomento che interessa solo marginalmente questa trattazione, malgrado sia da molto tempo al centro di un appassionato dibattito tra coloro che vedono nei contrasti religiosi giudaico-cristiani la causa dei tumulti e coloro che ritengono che l’espulsione non riguardasse in alcun modo la nascente comunità cristiana16. Qualunque sia stata la realtà, è evidente che i contrasti all’interno della comunità ebraica fra gli ortodossi e i seguaci delle idee di Gesù17 furono molti e, soprattut15 Atti 18, 1-2 16 Di sfuggita faccio rilevare che il termine “Cristiani” per definire i seguaci di Gesù appare molto più tardi e che, come abbiamo già visto, il vocabolo greco Christos era usato dagli ebrei per indicare “l’unto del Signore, il Messia” e poteva essere attribuito a qualsiasi personaggio che si rendesse credibile per tale ruolo. 17 ...che definire “cristiani” sarebbe ancora improprio, in quanto il termine nasce molti decenni dopo ed indica dei gruppi in cui la maggioranza è formata da to in questo primo periodo, legati alla pretesa di convertire i gentili, cosa non facile in quanto la Legge di Mosè prescriveva come non lecito per un Giudeo unirsi o incontrarsi con persone di un’altra razza18. Aprire a chiunque avrebbe significato per gli ebrei tradizionalisti far entrare la corruzione nel loro mondo religiosamente immacolato, poiché i non circoncisi erano considerati persone spiritualmente impure in quanto non osservanti la Legge Mosaica. Abbiamo dunque solo due fonti attendibili che ci indicano la presenza di seguaci di “Cristo” nell’Urbe: il passo di Svetonio e quello degli “Atti”. Che in una ventina di anni gli adepti di quella che fino ad allora era solo l’ennesima setta ebraica fossero diventati qualche centinaio è dunque plausibile. Ancor più probabile è che Paolo, con l’energia e l’irruenza che gli erano proprie, dal 62 al 64 abbia esteso la sua opera di persuasione anche a molti romani, preparando il terreno all’incidente che avrebbe portato all’incriminazione di molti di essi come incendiari. Quasi impossibile, invece, è sostenere storicamente la tesi che Pietro abbia mai visitato Roma. Questa la situazione negli anni ‘60, confermata dalla frase di Svetonio, che fra le benemerenze di Nerone come amministratore, dopo aver elogiato le sue misure antincendio e in favore dell’ordine pubblico, afferma: “furono inviati al supplizio i Cristiani, genere di uomini dediti a una nuova e malefica superstizione”19 C’è da notare un punto che amplierò più avanti: Svetonio non mette in relazione i cristiani con l’incendio, l’unica fonte che stabilisce un rapporto di causa-effetto è Tacito e, come vedremo, si tratta di un passo sulla cui autenticità molti storici sollevano dubbi. Occorre stabilire tre punti fermi: - nel 64 i cristiani avevano già raggiunto una consistenza numerica significativa (molte centinaia? Un migliaio?) - la loro litigiosità con gli ebrei (probabilmente più potenti e quindi tollerati, se non protetti) turbava la morale comune e l’ordine pubblico - la loro attività di proselitismo e le loro critiche al modo di vivere romano aveva già iniziato a dar fastidio alla gente comune che reagiva sparlando della nuova religione, addebitandole ogni nefandezza. non-ebrei. 18 Atti 10:28 19 Svetonio, Vita di Nerone, 16 FORUM - GIUGNO/10 Le nozze con Poppea Poppea, bella e capricciosa com’era, doveva essere una vera piantagrane. Svetonio ci racconta delle frequenti recriminazioni e dei sarcasmi con cui assillava il principe perché la sposasse: “lo definiva un pupillo, perché, sottomesso agli ordini altrui, non solo non controllava l’impero, ma neppure la sua libertà personale. Perché allora rimandare le nozze? Non gli piaceva la sua bellezza e sdegnava i suoi antenati, coperti di trionfi, non credeva alla sua fecondità e ai suoi sentimenti sinceri? O temeva che, divenuta sua moglie, gli aprisse gli occhi sui soprusi commessi da Agrippina nei confronti dei senatori e sull’avversione del popolo contro la superbia e l’avidità di sua madre? E se Agrippina non poteva sopportare come nuora altri che una donna ostile a suo figlio, la lasciasse tornare a essere moglie di Otone: preferiva andarsene in qualsiasi parte del mondo, dove sentir raccontare gli affronti rivolti all’imperatore, piuttosto che averli sotto gli occhi, coinvolta nei pericoli da lui corsi”20. Nel 62 le continue pressioni indussero Nerone a divorziare da Claudia Ottavia che, dapprima esiliata, venne poi messa a morte, sotto l’imputazione di adulte20 Tacito, Annali XIV, 1 rio; l’accusa era così impudente e calunniosa che all’istruttoria tutti i testimoni si ostinarono a negare e Nerone dovette costringere Aniceto ad autoaccusarsi di aver abusato di lei con uno stratagemma. Ottavia fu incatenata ed esiliata a Ventotene. Trascorsi pochi giorni le venne recato l’ordine di morire: le furono aperte le vene sia ai polsi che alle caviglie, ma poiché per la paura il sangue usciva troppo lentamente, fu immersa in un bagno caldissimo. La testa le fu troncata e fu portata a Roma per essere mostrata a Poppea. Aveva 22 anni. 51 verato aspramente una sera che era rincasato tardi da una corsa di carri. Due anni di eccessi Può darsi che Svetonio esageri nell’elencare le pretese malefatte di Nerone a partire da questo periodo, tuttavia anche se solo il 10% di esse fosse vero ne uscirebbe il quadro di un individuo quanto meno poco adatto a gestire le responsabilità che dovevano gravare sulle sue spalle: sregolatezze con giovani ragazzi, relazioni con donne sposate, arrivò addirittura a violentare una vestale. Roba quanto meno da impeachment! Inaugurando anzitempo una moda oggi fiorente, fece evirare un fanciullo di nome Sporo, lo acconciò da donna e tentò di sposarlo con una cerimonia regolare, con tanto di corteo e velo color fiamma. Svetonio ci racconta una battuta che girava fra il popolo: “Che fortuna per l’umanità se suo padre Domizio avesse avuto una simile moglie!» E ancora: Undici giorni dopo il divorzio da Ottavia, Nerone sposò Poppea, che amò più di tutto, e che tuttavia uccise con un calcio, perché, incinta e malata, lo aveva rimpro- “Prostituì il suo pudore ad un tal punto che, dopo aver insozzato quasi tutte le parti del suo corpo, ideò alla fine questo nuovo tipo di divertimento: coperto dalla pelle di una bestia feroce, da una gabbia si lanciava sugli organi geni- STORIA 52 “Le rose di Heliogabalo” - Sir Lawrence Alma Tadema, 1888 Nella sua mania per l’ellenismo e per ogni forma di arte e raffinatezza Nerone da tempo progettava un debutto sulle pubbliche scene e scelse Napoli, città greca, per esibirsi: un debutto sfortunato perché il teatro crollò durante la sua performance! Svetonio sostiene che l’augusto cantore non se ne diede troppa pena, visto che continuò a cantare la sua canzone fino al finale. tali di uomini e di donne, legati ad un tronco, e, quando aveva imperversato abbastanza, per finire, si dava in balia del suo liberto Doriforo; da costui si fece anche sposare, come lui aveva sposato Sporo, e arrivò perfino ad imitare i gridi e i gemiti delle vergini che subivano violenza”21. Svetonio sottolinea che il ragazzo amava talmente lo sperperare il denaro che affermava di ammirare suo zio Gaio soprattutto perché in poco tempo aveva fatto fuori le immense ricchezze lasciate da Tiberio. Aveva anche il vizio del gioco: ai dadi giocava al tasso di quattrocentomila sesterzi a punto! L’estate del 63 portò una lieta notizia a Nerone, subito funestata da una disgrazia: in quella villa 21 Svetonio, Vita di Nerone, 27-30 al mare nella quale anch’egli era nato Poppea partorì una femmina: tutta la nobiltà ed il Senato vennero ad Anzio per festeggiare con celebrazioni e giuochi. “Purtroppo fu cosa effimera, ché la bambina al quarto mese morì. Nerone fu senza freno nel dolore, come nella gioia”.22 Con queste lapidarie parole Tacito ci conferma il carattere instabile e violento di Nerone, per il quale passare dall’euforia alla rabbia era questione di attimi e che era capace di perdonare, deridendolo, un console vigliacco ed incapace come Peto23 e un’attimo dopo ordinare ad un patrizio come Torquato Silano24 di aprirsi le vene. 22 Tacito, Annali, XV, 24 23 Lucio Cesennio Peto, console nel 61, sconfitto disonorevolmente a Rhandeia e poi fuggito di fronte ai Parti. 24 A D. Giunio Torquato Silano, console Nel 64 Nerone festeggiò la primavera con la famosa orgia lacustre descritta da Tacito25. “Sullo stagno di Agrippa26 fece dunque costruire uno zatterone e disporre su di esso l’apparato del nel 53, forzato a suicidarsi perché Augusto era il suo trisavolo. Suo fratello Lucio era stato fatto avvelenare da Agrippina. 25 Tacito, Annali, XV, 37 26 “Si pone concordemente presso la Chiesa di S. Andrea della Valle, siccome si deduce dalla denominazione che ebbe tale luogo per la valle evidentemente rimasta dallo scavo fatto. In tale località sembra, dalla disposizione che ivi conserva il moderno fabbricato, che questo lago dalla parte rivolta verso il circo Agonale avesse la forma semicircolare; ed infatti si racconta dal Venuti che nel fabbricarsi la casa dei Marchesi Massimi, posta verso la porteria del convento di S. Pantaleo, vi furono trovati grandi massi di travertino ornati di scorniciamenti e lavorati in porzione di circolo, i quali, non potendo appartenere alla parte curvilinea del nominato circo Agonale, giacché questa doveva stare nel lato opposto, è di necessità credere, che avessero fatto parte del circuito semicircolare che doveva circoscrivere il suddetto lago”. Luigi Canina, Indicazione topografica di Roma antica, 1831 «“L’incendio di Roma”, Robert Hubert (1733–1808) convito, in modo che potesse venir rimorchiato da navi incrostate d’oro e d’avorio. I rematori erano giovani viziosi, distribuiti secondo l’età e l’esperienza nella libidine. Da terre remote e fin dall’Oceano aveva fatto venire uccelli e bestie selvatiche e animali marini. Sulle rive del lago sorgevano postriboli pieni di nobildonne, e di fronte si mettevano in mostra meretrici ignude. Dapprima furono atti e movenze oscene; poi, man mano che le tenebre avanzavano, tutti i boschi e gli edifici all’intorno risuonarono di canti e risplenderono di lumi. Nerone s’era macchiato ormai d’ogni illecito piacere, e si sarebbe pensato che non rimanesse alcuna turpitudine a farne più vergognosa la vita, se pochi giorni dopo non avesse celebrato un matrimonio solenne con uno di quel branco di depravati, di nome Pitagora. All’imperatore fu messo il flammeo27, furono tratti gli auspici, e poi dote, talamo, faci nuziali, insomma venne esibito tutto ciò che la notte cela, pur quando la sposa è femmina”. L’incendio di Roma E arrivò l’estate: un luglio caldo ed afoso come quelli che anche i romani di oggi conoscono molto bene. Nerone ha creduto di trovare rifugio alla calura nella 27 Il velo rituale della sposa, detto così perché di colore rosso porpora. brezza di ponente che spira costante sulle terrazze della sua villa di Anzio. Lo immaginiamo pigramente sdraiato su morbidi cuscini, circondato da schiave, liberti, cortigiani, mentre ascolta dei versi o pizzica la cetra, in attesa della visione del tramonto, che da quella terrazza è splendido. All’improvviso arriva, inatteso, un pretoriano di corsa, inviato da Tigellino. Ansima, ha coperto al galoppo in poco più di un’ora gli oltre cinquanta chilometri della Via Ardeatina, probabilmente cambiando cavallo un paio di volte alle mutationes del cursus publicus: “Roma brucia... è un’incendio colossale, come non se n’è mai visto uno!» FORUM - GIUGNO/10 53 Nerone rientra immediatamente: l’incendio, iniziato presso il Circo Massimo, sembra sia stato alimentato dal vento e dalle merci delle botteghe, per poi estendersi rapidamente all’intero edificio, risalendo poi sulle alture circostanti e infine diffondendosi con grande rapidità senza trovare impedimenti. I soccorsi sarebbero stati ostacolati dal gran numero di abitanti in fuga e dalle vie strette e tortuose. Ora è quasi arrivato alla sua domus sul Palatino, che in poche ore brucia completamente, così come brucia tutta Roma, dal Circo Massimo alla Suburra, dal Celio all’Aventino. Nerone fa aprire alla folla in fuga STORIA 54 gli spazi verdi dove l’incendio non può alimentarsi: il campo Marzio, i suoi giardini sul colle Vaticano e perfino gli horti di Mecenate28 sull’Esquilino dove ha in progetto di costruire la sua nuova domus. Sulla torre che sovrasta gli horti Nerone crea il quartier generale per coordinare i soccorsi e le operazioni di spegnimento: da lì può vedere tutta Roma e lo spettacolo che gli si presenta è terribile nella sua grandiosità. Delle quattordici regioni che compongono la città, tre (la III, Iside e Serapis, attuale colle Oppio, la IX, Circo Massimo, e la X, Palatino) sono totalmente distrutte, mentre in altre sette si registrano enormi danni. I morti sono migliaia, i senzatetto oltre duecentomila. 4.000 insulae e 132 domus, oltre ad edifici pubblici e monumenti, sono ormai cenere. Dopo sei giorni l’incendio sembrava domato, ma i cittadini stremati non fecero in tempo a riprendersi, che scoppiarono altri incendi in altre zone ricche di templi e portici. La gente, disperata, notava che le fiamme partivano dalle proprietà di Tigellino. 28 L’amico e consigliere dell’imperatore Augusto aveva trasformato in una sontuosa residenza la zona che oggi coincide con il Colle Oppio, Via Merulana, Santa Maria Maggiore, fino ad allora destinata a necropoli, bonificandola con un alto interro. Passati nel demanio imperiale, i giardini costituirono in età neroniana un prolungamento della Domus Aurea. Sulle cause dell’incendio i tre autori di cui ci sono pervenuti gli scritti sono quasi completamente d’accordo: il mandante dell’incendio fu Nerone, che ne ebbe anche il movente. Svetonio e Dione Cassio lo accusano apertamente, Tacito esprime il beneficio del dubbio, ma poi elenca particolari che inducono il lettore a credere nella sua colpevolezza. «...si era sparsa la voce che, mentre la città bruciava, Nerone fosse salito sul palcoscenico del palazzo ed avesse cantato la caduta di Troia, raffigurando nell’antico disastro le presenti sciagure29» “Adducendo a motivo che quegli antichi edifici così irregolari e quei vicoli stretti e storti non gli piacevano punto, diede a bella posta alle fiamme la città in maniera così evidente, che la maggior parte degli ex consoli, a cui accadde di sorprendere, nelle proprie tenute, camerieri dell’imperatore con stoppa e fiaccole accese, non li arrestarono; e alcuni granai nei pressi della Domus Aurea, della cui area fabbricabile desiderava massimamente venire in possesso, li fece abbattere e dare alle fiamme con macchine da guerra, perché erano costruiti in pietra. Per sei giorni e sette notti durò la distruzione operata dall’immenso 29 Tacito, Annali, XV, 39 rogo, mentre la plebe era costretta a cercare rifugio nei monumenti e nelle tombe. Allora, oltre un numero incalcolabile di insulae, andarono distrutte anche le case di antichi condottieri, ancora adorne delle spoglie nemiche, ed i templi degli dei promessi in voto o consacrati dai re e quelli dell’epoca delle guerre puniche e galliche… Henryk Siemiradzki : “Le torce di Nerone” - 1876. (Cracovia, Polonia, Museo Nazionale) Godendo dall’alto della torre di Mecenate dello spettacolo dell’incendio e rallegrato, come diceva, dalla bellezza delle fiamme, indossò il costume di teatro e cantò “La presa di Troia”30. Che l’incendio fosse spontaneo o di natura dolosa, alcuni saggi 30 (scritta da lui). Svetonio, Vita di Nerone, 38 contemporanei31 tendono ad assolvere Nerone adducendo a discolpa l’odio che scrittori come Svetonio e Tacito avevano per la tirannide. Altri, invece, continuano ad accusare Nerone tout court, semplicemente per la sua fama di primo persecutore dei 31 Cfr. Massimo Fini, “Nerone - duemila anni di calunnie”, Mondadori, 1993”, Roberto Gervaso, “Nerone”, Bompiani, 1990 FORUM - GIUGNO/10 55 cristiani. Posizioni che, entrambe, non mi trovano d’accordo perché l’unico Nerone che conosciamo e possiamo conoscere è quello che vediamo emergere dall’analisi delle fonti che abbiamo, filtrate dalla conoscenza del contesto storico, dei costumi, delle abitudini ed arricchite dalle moderne conoscenze sulla psicologia e sulla neuropsichiatria. STORIA 56 Lo stesso procedimento che si dovrebbe tentare di seguire per la conoscenza del Gesù storico. La prima cosa che rileviamo è che tutte lo fonti ci raccontano che Nerone è colpevole. D’accordo, è possibile che mentano o che tendano ad accettare l’opinione dominante, visto che è quella che fa loro comodo. Tuttavia non conosciamo una sola riga utile a discolparlo. Non solo: se la domanda “cui prodest”, che ogni detective si pone mentre cerca il colpevole di un delitto, ci deve aiutare ad alleggerire le responsabilità di Nerone, ebbene ci rendiamo conto che, nella fattispecie, ci indica il contrario: grazie all’incendio Nerone può finalmente costruire la sua “Domus Aurea”, che occupa l’intera superficie del Colle Oppio, degli horti di Mecenate e della valle su cui oggi sorge il Colosseo. Infine: il sogno di Nerone di trasformare Roma in una città di marmo, dai grandi viali e dalle grandi aree pubbliche finalmente potrà compiersi. Concludendo: non ci sono prove né di innocenza, né di colpevolezza, solo qualche indizio, ma certamente Nerone non fu un personaggio da ammirare. Ad Anzio l’attuale sindaco ha fatto apporre dei cartelli all’ingresso della cittadina, in cui si esibisce Jean-Léon Gérôme, 1863-1883 “L’ultima preghiera dei martiri cristiani” la scritta “Anzio, città di Nerone” come se ciò fosse un titolo di merito: mi sembra una iniziativa del tutto fuori luogo. A meno che non si volesse plaudire ad una eventuale azione di Nerola, se mai si appellasse come “città del Mostro”!32 Nerone e i cristiani Nerone fu un individuo particolarmente violento e depravato, portatore di patologie odiose, ma non si comportò diversamente dai suoi predecessori quanto ad omicidi, intrighi ed eccessi sessuali. Tiberio e Caligola non furono certo degli stinchi di santo! Eppure è lui che la storia ci tramanda come il mostro per eccellenza. Credo che la maggior parte della sua pessima fama gli sia derivata dalla propaganda cristiana che ce lo ha tramandato come il primo persecutore. L’ironia della faccenda sta nel fatto che di persecuzione non si trattò e che la religione con l’evento non ebbe nulla a che fare! Fatto sta che sulla bocca di ogni romano, plebeo o aristocratico che fosse, correva la voce che 32 Tra il 1944 e il 1947 numerosi viaggiatori sparirono tra Roma e Rieti, all’altezza del chilometro 47 della via Salaria. I loro corpi martoriati furono ritrovati nell’“orto degli orrori” di Ernesto Picchioni, un contadino di Nerola che aveva escogitato questo sistema per rubare le biciclette, i soldi e i motorini dei viandanti. indicava in Nerone il mandante dell’incendio. L’imperatore, Poppea, Tigellino, la corte tutti erano preoccupati da ciò che il popolo, esasperato, denutrito, senza più nulla da perdere avrebbe potuto fare. C’era chi giurava di aver visto i cubiculari di Nerone ostacolare le operazioni di spegnimento, FORUM - GIUGNO/10 chi sosteneva che le demolizioni sull’Esquilino non erano state fatte per arginare le fiamme, ma per liberare aree edificabili per la domus imperiale. Insomma, c’era da aver paura e occorreva riversare l’odio che si andava accumulando su dei colpevoli. Perché proprio i cristiani? Intanto va notato che né Svetonio né Plinio parlano del supplizio dei cristiani come conseguente all’incendio. Solo Tacito ne parla, mentre Svetonio cita un generico: “Sotto il suo principato furono comminate condanne rigorose, 57 furono prese misure repressive, ma furono anche introdotti nuovi regolamenti: si impose un freno al lusso, si ridussero i banchetti pubblici a distribuzioni di viveri, fu vietato di vendere nelle osterie cibi cotti, ad eccezione dei legumi ed erbe commestibili, mentre in precedenza si serviva ogni ge- STORIA 58 nere di pietanza, furono inviati al supplizio i Cristiani, genere di uomini dediti a una nuova e malefica superstizione...»33. dunque di un provvedimento di ordine pubblico: vennero giustiziati come incendiari, non per aver praticato una qualsiasi religione. Questa differenza fra le fonti ci indica tre cose: - che nel 64 il gruppo cosiddetto dei “cristiani” era differenziato dai giudei ortodossi, che certamente lo avversavano. - che la quasi totalità di coloro che vennero arrestati non aveva la cittadinanza romana, visto che le pene che ci sono note furono quelle riservate agli stranieri o agli schiavi. - che fra la popolazione di Roma si era già diffuso l’odio verso gli appartenenti a questa nuova setta che doveva essere di turbativa all’ordine pubblico ed al mos maiorum. I cristiani dalla vox populi erano infatti da diversi anni accusati di praticare ogni genere di “flagitia”, in parte per i comportamenti anomali in tema di sessualità, continenza, moderazione e soprattutto per la loro incessante opera di proselitismo. Odiati dal popolo, “venduti” alla polizia pretoriana dagli ebrei che anelavano a distinguersene34, 33 Svetonio, Vita di Nerone, 16 34 I numerosi privilegi riconosciuti agli ebrei da Cesare (esenzione dal servizio militare, benefici fiscali, liceità della loro “religio”, ecc.) erano stati ridimensionati da Tiberio e da Claudio. Tuttavia le loro attività finanziarie erano preziose per senatori e cavalieri. Ciò suggeriva Graffito (fine II sec. inizio III sec. d.C.) ritrovato sul Palatino raffigurante la caricatura di un uomo crocifisso con testa d’asino, con ai suoi piedi un altro uomo in atto di adorazione, il tutto accompagnato dalla scritta: “Alessameno adora il suo Dio furono il capro espiatorio ideale per Nerone e finirono per pagare – innocenti – le conseguenze del grande incendio. Durante il processo fu probabilmente impossibile provare la loro responsabilità nell’incendio, tuttavia emerse il loro fanatismo ed il loro “odio per il genere umano” che venne giudicato un buon movente per aver tentato di distruggere la “novella Babilonia” e fu per questo che vennero condannati35. Si trattò agli ebrei, recentemente reintegrati nei loro diritti, di tenere un “profilo basso” che l’atteggiamento esibizionista dei cristiani (che i romani non distinguevano da loro) minacciava di vanificare. 35 In alternativa alla versione tradizionale, lo storico Carlo Pascal (L’incendio di Roma e i primi Cristiani, Torino, E. Loescher, 1900) espose l’ipotesi secondo la quale avrebbero potuto essere effettivamente i cristiani ad appiccare il fuoco a Roma, allo scopo di dare seguito ad una profezia apocalittica egiziana, secondo cui il sorgere di Sirio, la stella del Canis Major, avrebbe indicato la caduta della grande malvagia città. Malgrado la mitologia formatasi non meno di due secoli dopo, l’apostolo Paolo non era presente a Roma nel 64 e non fu fra coloro che vennero giustiziati in quell’occasione. Gli storici hanno prospettato due diverse ipotesi, per le quali Paolo avrebbe fatto un altro viaggio prima di tornare a Roma: la prima possibilità è che nel 65-66 fosse dapprima ad Efeso e poi in Macedonia e Grecia la seconda (meno probabile) è che si trovasse in Spagna. Le prime avvisaglie della grande rivolta ebraica del 66 lo trovano a Nicopoli, donde scrive la sua epistola ai Cretesi. Nel 67 si traghetta a Brindisi per poi tornare a Roma dove viene arrestato e condannato a morte per qualche reato che non conosciamo, ma che immaginiamo connesso al suo pessimo carattere e alla veemenza della sua predicazione che, come mille altre volte gli era successo, dovevano aver creato turbativa dell’ordine pubblico. Quanto a Pietro, la sua venuta a Roma è talmente improbabile e mancante di una qualsiasi prova storicamente accettabile da doversi considerare mitologica36. 36 Per approfondire cfr. il mio libro “Gesù non era Cristiano”, di prossima pubbli- FORUM - GIUGNO/10 59 dominio. La Domus Aurea Nerone provvide immediatamente alla ricostruzione, progettando strade ampie ed edifici in pietra, ben allineati e limitati in altezza. Vennero emanati provvedimenti di rimborso per la ricostruzione, pagabili solo se essa fosse compiuta in un certo termine. Le macerie vennero trasportate con chiatte alla foce del Tevere e furono utili per riempire le paludi di Ostia. Tali provvedimenti furono apprezzati, ma subito il popolo di Roma ebbe una nuova delusione: Nerone aveva volto a suo vantaggio gli effetti dell’incendio, giacché aveva iniziato la costruzione di una domus di 80 ettari nella quale “destavano meraviglia non tanto le pietre preziose e l’oro, sfoggio ormai solito e divenuto comune, ma le piantagioni e gli cazione. specchi d’acqua, e di qua parchi a somiglianza di foreste vergini, di là spazi aperti e belvederi: opera immaginata e diretta da Severo e da Celere, la cui ardita genialità creava coll’artificio quanto non era stato concesso dalla natura e si sbizzariva coi grandi mezzi dell’imperatore”. Il quale, quando la vede terminata, commenta: finalmente una casa degna di un uomo! La Sala del trono, simbolo del dominio di Nerone sull’universo, era coperta da una volta che girava su sé stessa giorno e notte, così come nel cielo girano in cerchio il sole, la luna, i pianeti. Una statua colossale dell’imperatore rappresentato come il dio Sole, alta 25 metri, si ergeva al centro del padiglione porticato della villa, e sottolineava questo La Domus Aurea fu un tale spreco di spazio e di denaro pubblico da necessitare, per il suo finanziamento, di risorse straordinarie che, in aggiunta a quelle impiegate nella ricostruzione, provocarono una crisi economica senza precedenti. L’improvvido e capriccioso ragazzino imperiale, affetto da una megalomania patologica non trovò altro mezzo che la rapina sistematica dell’Italia e delle province. Per reperire oro Nerone non esitò a spogliare i templi degli Dei dalle offerte votive, arrivando perfino al sacrilegio, facendo rubare in Grecia ed in Asia le statue degli Dei fatte in materiale prezioso. Mentre nel mitico “quinquennium felix” Nerone aveva creduto di trovare la soddisfazione della sua carenza affettiva nel consenso popolare, per ottenere il quale aveva tentato di promulgare provvedimenti che oggi definiremmo “di sinistra”, ormai la vera natura del personaggio, altalenante fra delirio di onnipotenza e mania di persecuzione, emerge nella sua realtà. Il popolo non lo approva più e l’aristocrazia, pur temendolo, sente che occorre reagire. Inizia il tempo delle congiure e delle vendette. Che affronteremo nel prossimo numero. STORIA 60 San Pietro? Mai messo piede a Roma! Il mito del soggiorno di Pietro a Roma nacque tardivamente, almeno 150 anni dopo la morte di Gesù, e venne costruito a tavolino per affermare il traballante primato del Vescovo di Roma sulle altre diocesi dell’Impero. Articolo tratto dal libro di prossima pubblicazione “Gesù non era cristiano” di Lorenzo Paolini Malgrado per secoli nessuno abbia mai osato mettere in dubbio l’effettiva venuta a Roma di Pietro, chiunque voglia usare il metodo storico e la filologia sperimentale, non potrà che ammettere che non esistono prove che ne attestino la presenza nell’Urbe, che tutta la tradizione che ha tramandato tale venuta si è formata oltre un secolo dopo i fatti e che sussistevano interessi forti ad appropriarsi dell’autorevolezza che tale venuta avrebbe conferito al capo della comunità cristiana di Roma che, non detenendo ancora alcun primato gerarchico conclamato sulle altre comunità dell’Impero, non era che un “par inter pares”. Come spiegare allora un fatto dato per certo dalla totalità dei cattolici? Semplicemente approfondendo la questione del primato del vescovo di Roma. Nella pag. prec. “Crocefissione di S.Pietro” di Caravaggio, 1600, Olio su tela, 230 x 175 cm. Cappella Cerasi, Santa Maria del Popolo, Roma. Sotto: “Liberazione di Pietro” Bernardo Strozzi (1635) Art Gallery of New South Wales Partiamo da una premessa sostanziale: fino al medioevo non esisteva un “papa” ma solo “vescovi 1. Il concetto di “papa” come lo conosciamo noi nasce al tempo dei Franchi, tra il 700 e l’800. Per legittimare la sovranità sulla cristianità ed il potere temporale la Chiesa fabbricò addirittura un falso: “la donazione di Costantino”2. Il vescovo, nel cristianesimo, è il responsabile (pastore) di una diocesi ed è considerato successore degli apostoli. La parola viene dal greco επίσκοπος, che significa “supervisore”, “sorvegliante”. Nel IV secolo Costantino dette ai vescovi lo “status” di funzionari dello Stato romano, attribuendosi lui stesso il titolo di “supervisore/vescovo per gli affari esterni alla chiesa cristiana”. Nel cattolicesimo l’episcopato è il primo e più alto grado del sacramento dell’Ordine. Gli altri due, in posizione subordinata all’episcopato, sono il presbiterato (sacerdoti) ed il diaconato. La chiesaedificio da cui un vescovo esercita il suo magistero è detta cattedrale. 1 Il “Constitutum Constantini”, è un documento apocrifo conservato in copia nelle Decretali dello Pseudo-Isidoro (IX secolo) e, come interpolazione, in alcuni manoscritti del Decretum di Graziano (XII secolo), che pretende di riprodurre un editto emesso dall’imperatore romano Costantino I e risalente al [313]. Con esso, l’imperatore concederebbe al papa Silvestro I e ai suoi successori il primato sui cinque patriarcati (Roma, Costantinopoli, Alessandria d’Egitto, Antiochia e Gerusalemme) e attribuirebbe ai pontefici le insegne imperiali e la sovranità temporale su Roma, l’Italia e l’intero Impero Romano d’Occidente. La donazione venne utilizzata dalla Chiesa nel medioevo per avvalorare i propri diritti sui vasti possedimenti territoriali in Occidente e per legittimare le proprie mire di carattere temporale ed universalistico. Nel 1440 l’umanista italiano Lorenzo Valla, sulla scia delle pesanti perplessità già espresse pochi anni addietro dal filosofo Nicola Cusa- 2 Nel I, II e III secolo in tutto il mondo civilizzato le religioni, ebraismo e cristianesimo inclusi, erano gestite localmente. Come non esisteva un capo assoluto che avesse autorità su tutti templi di Iside, o di Cibele, o di Apollo sparsi per l’Impero, non esisteva alcun vescovo cristiano che avesse autorità sugli altri vescovi. È innegabile però che l’auctoritas del capo della comunità cristiana dell’Urbe promanava da quella dell’Urbe stessa e poteva rappresentare un faro unitario che potesse difendere una dottrina comune dalle numerose eresie che sorgevano ai quattro angoli dell’impero: fu per questo che i vescovi romani, mentre tentavano di imporsi agli altri vescovi, dovettero trovare qualcosa in grado di legittimare quella che, per i tempi, era una vera e propria rivoluzione: l’istituzione di una gerarchia piramidale. Eresia e giurisdizione erano in realtà due facce della stessa medaglia: gerarchia e dottrina unica ed omogenea furono i due fattori indispensabili per costruire il potere temporale della Chiesa di Roma, che tuttavia necessitava di essere fondato su un’eredità “reale”. no, dimostrò in modo inequivocabile come la donazione fosse un falso. L’argomento è ulteriormente approfondito a fine articolo. FORUM - GIUGNO/10 61 Ma come fu possibile consolidare una convinzione così fondante se non esistevano prove serie che l’apostolo Pietro fosse venuto a Roma, e se le numerose argomentazioni di tipo deduttivo rendono tale venuta altamente improbabile. Ad esempio: la tradizione cattolica vuole che Pietro sia venuto una prima volta a Roma nel 42, sotto Claudio. Tradizione che gli esegeti (che in questo caso fanno davvero onore al loro nome, andando a briglie sciolte nell’arte dell’interpretazione!) pretendono di confermare interpretando “Babilonia” come “Roma”. Ma negli Atti si afferma che Pietro, dopo essere stato arrestato da Erode, viene liberato da un angelo. “Egli allora, fatto segno con la mano di tacere, narrò come il Signore lo aveva tratto fuori del carcere, e aggiunse: «Riferite questo a Gia- STORIA 62 como e ai fratelli». Poi uscì e s’incamminò verso un altro luogo”3. prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. 13 E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, al punto che anche Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. 14 Ora quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei”6? Gli esegeti di cui sopra interpretano questo “altro luogo” come Roma. Il mese successivo Erode Agrippa, muore d’infarto: “Nel giorno fissato Erode, vestito del manto regale e seduto sul podio, tenne loro un discorso. Il popolo acclamava: «Parola di un dio e non di un uomo!». Ma improvvisamente un angelo del Signore lo colpì, perché non aveva dato gloria a Dio; e roso, dai vermi, spirò”4. La storia, quella vera, ci dice che Erode Agrippa morì qualche settimana dopo la Pasqua del 44. Dunque come avrebbe fatto Pietro ad arrivare a Roma, soggiornarvi durante l’imperium di Claudio per il tempo necessario a fondare la comunità e a tornare a Gerusalemme nel 50, in tempo per partecipare al famoso concilio? Non solo: da un attenta lettura dell’epistola ai Galati, Pietro risulterebbe essere fra il 45 e il 48 ad Antiochia, dove si scontrò con Paolo: “Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto. 12 Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo5, egli Gli Atti, oltre a non parlare mai di una presenza di Pietro a Roma, ci mostrano Pietro come figura preminente nel gruppo giudaico – cristiano, ma sempre in posizione subalterna a Giacomo, il fratello di Gesù. Nel concilio citato, Pietro introduce la questione dell’accettazione dei gentili nella comunità dei cristiani senza che essi passino per la conversione all’ebraismo, sintetizzata e simboleggiata nella circoncisione, ma chi conclude e decide è Giacomo. Se Pietro fosse già stato riconosciuto come capo della nascente Chiesa, perché il Concilio di Gerusalemme, pietra angolare di tutte le scelte che sarebbero state fatte da quel momento in avanti, venne convocato e presieduto da Giacomo e non da lui?7 Atti 12, 17 3 Atti 12, 21 mentre Pietro fu solo un subalterno. 4 Un ennesimo esempio che era Giacomo il capo della comunità giudeo-cristiana, 5 Quando poi si tratta di portare l’annuncio cristiano in Samaria, gli Atti sono espliciti nel descrivere Pietro in chiave subalterna: “Ora gli apostoli che erano a Gerusalemme, quando seppero che la Samaria aveva ricevuta la parola di Dio, mandarono loro Pietro e Giovanni…»8 La tradizione poi vuole ancora Pietro a Roma dopo il 55, dove lo farà morire crocifisso a testa in giù nel 64, durante la persecuzione neroniana. Altro argomento sostanziale: che motivi avrebbe avuto Pietro di venire a Roma? Ebreo di umili origini e di credenze semplici, che mai avrebbe voluto contaminare le sue usanze e le sue tradizioni contaminandole con quelle dei “gentili”, aveva combattuto una battaglia lunga oltre 10 anni contro le idee di Shaul-Paolo che poi aveva dovuto accettare obtorto collo, di dividere la sfera di evangelizzazione: a Paolo i gentili, al gruppo di Gerusalemme gli ebrei. Cosa mai avrebbe dovuto fare a Roma? Ed ancora: mentre sappiamo tutto sulla geografia e la tempistica dei viaggi di Paolo, perché non sappiamo nulla di quelli di Pietro? Ma soprattutto: conoscendo le difficoltà enormi incontrate da Paolo, cittadino romano, nel suo Gal 2, 11-14 6 Vedi capitolo III, par. 2 7 At 8, 14 8 FORUM - GIUGNO/10 lungo e pericoloso viaggio verso Roma (oltretutto a spese del governo), ci domandiamo come un pescatore ebreo ignorante e semianalfabeta abbia potuto trovare i mezzi per affrontare ben due viaggi del genere. Stanti tali fatti, perché gli Atti non menzionano neppure di sfuggita tali spostamenti di Pietro, di cui si parla diffusamente per tutti i capitoli? E, soprattutto, perché Paolo nella sua “epistola ai Romani” del 58 (e in nessuna altra epistola) non fa alcun riferimento a Pietro e alla sua attività a Roma? Nel Concilio Vaticano I (1870) il vescovo di Diakovar in Croazia Joseph Georg Strossmayer, nell’intento di contestare il dogma sull’infallibilità papale che un Pio IX con l’acqua alla gola e i bersaglieri alle porte stava per promulgare, affermò nel suo discorso “L’apostolo Paolo non menziona in nessuna delle sue lettere il primato di S. Pietro. Se tale primato esisteva, se in una parola la chiesa aveva nel suo corpo un capo supremo, infallibile nell’insegnamento, avrebbe il grande apostolo dei Gentili trascurato di farne menzione? Ma che dico! Avrebbe dovuto scrivere una lunga lettera attorno a questo importantissimo soggetto. Quando veniva eretto l’edificio della nostra Dottrina poteva essere dimenticato il fondamento, l’architrave?... Né negli scritti di S. Paolo e di S. Giovanni né in quelli di S. Giacomo ho trovato traccia o germe del potere papale. S. Luca, lo storico dei fatti missionari degli apostoli tace su questo importantissimo punto di cui, pure, se così come voi pretendete, avrebbe anche lui dovuto per forza trattare. Il silenzio di questi santi uomini, i cui scritti sono nel canone delle Scritture ispirate da Dio, qualora S. Pietro fosse stato papa, m’è sembrato insostenibile e impossibile, e tanto ingiustificabile quanto sarebbe se il Thiers, scrivendo la storia di Napoleone, avesse omesso il titolo di imperatore...»9 Infine, come mai nelle due lettere attribuite a Pietro egli non fa mai alcun riferimento a Roma, ad ambienti romani, a personaggi o situazioni romane? Il silenzio delle fonti fino al 180 d.C. Non c’è nessuna testimonianza attendibile anteriore al 180 d.C. della presenza di Pietro a Roma ma, contestualmente è assordante il silenzio su tale presenza in testimoni come Giustino di Nablus, di cui abbiamo molti scritti e perfino gli atti del suo processo da parte romana, nel 168. Disponiamo invece solo di testimonianze di terza e quarta battuta come quelle dell’inizio del terzo “Il papato alla luce della storia e della Scrittura”, p. 8, Ed. Sentieri diritti, Roma 1981 9 63 secolo (Origene e Tertulliano) che poi esplodono dopo la rivoluzione di Costantino attraverso tutta la letteratura promossa da Eusebio di Cesarea al fine di fondare e dare organicità ad una dottrina univoca. Chiunque legga le argomentazioni che la maggior parte dei teologi utilizzano per dimostrare che Pietro ha subito il martirio a Roma, si renderà conto che essi citano come prova fonti del IV secolo: scritte da vescovi che erano CERTI di tale venuta, perché (se proprio vogliamo accreditarli di buona fede) ne sentivano parlare come di cosa vera da oltre centoventi anni! La mitologia su Pietro Le numerose leggende sugli eventi relativi alla permanenza di San Pietro a Roma, come ad esempio quella di “S.Pietro in vinculis” 10 o quelle sulla sfida di fronte a Nerone tra San Pietro e Simon Mago, nascono dopo il 400, quando la presenza di Pietro a Roma è ormai un fatto assodato 10 Sotto il pontificato di Sisto III (432440), l’imperatrice Augusta Eudossia, moglie dell’Imperatore d’Oriente Valentiniano III (425-455), donò le catene della prigionia di San Pietro a Gerusalemme al Papa San Leone Magno (440-461). Questi, accostando tali catene a quelle della prigionia di San Pietro a Roma, al carcere Mamertino, fu testimone di un fatto prodigioso: le due catene si fusero in un’unica catena, ancora oggi visibile. STORIA 64 San Pietro e la caduta di Simon Mago (1571). Affresco nella Cappella Foppa nella chiesa di san Marco a Milano. e sono legate alla grande importanza che le reliquie rivestivano per l’economia di quel periodo. Quanto a Simon Mago, tutto ciò che abbiamo di lui è in Atti, 9-20: V’era da tempo in città un tale di nome Simone, dedito alla magia, il quale mandava in visibilio la popolazione di Samarìa, spacciandosi per un gran personaggio. A lui aderivano tutti, piccoli e grandi, esclamando: «Questi è la potenza di Dio, quella che è chiamata Grande». Gli davano ascolto, perché per molto tempo li aveva fatti strabiliare con le sue magie. Dopo aver ascoltato le prediche del diacono Filippo, Simone decise di farsi battezzare. Successivamente, però, cercò di comperare da san Pietro il potere di conferire, con la semplice imposizione delle mani, lo Spirito Santo, incorrendo nelle ire dell’Apostolo. Da questo antico tentativo di commercio di cose sacre deriva il termine di simonia. Ulteriori testimonianze sulla sua vita sono pura agiografia, in quanto derivano da tardi testi apocrifi come gli Atti di San Pietro11 (posteriori alla compilazione dell’elenco dei primi papi da parte di Egesippo) o le Pseudo-clemen11Scritti intorno al 200 d.C. da un tal Leucio Carino, che si proclamava discepolo di Giovanni. In questi “Atti” si racconta anche la leggenda della crocefissione a testa in giù. tine12 che lo vogliono a Roma sotto Claudio e Nerone. Qui ottenne fama e gloria, ma fu sfidato ad un confronto pubblico da San Pietro e san Paolo. Sostenendo di poter essere seppellito per poi risorgere dopo tre giorni, morì nella prova. Un’altra leggenda afferma invece che, nel tentativo di mostrare a Nerone la sua capacità di levitazione, precipitò morendo 12 Alcune lettere attribuite a Clemente Romano, ma in realtà databili fra il secondo e il terzo secolo sul colpo grazie alle preghiere di Pietro e Paolo. Un’ulteriore prova di quanto le tradizioni non siano attendibili ce la fornisce la leggenda dell’impronta lasciata da San Pietro su un architrave del Carcere Mamertino, o “Tullianum”: il più antico carcere di Roma, risalente al VII secolo a.C. Come tutti sanno la pena detentiva era sconosciuta al diritto romano, pertanto tale carcere Clemente romano, monastero di San Clemente, Macedonia FORUM - GIUGNO/10 Ignazio, vescovo di Antiochia “Ma lasciando gli esempi antichi, veniamo agli atleti vicinissimi a noi e prendiamo gli esempi validi della nostra epoca. Per invidia e per gelosia le più grandi e giuste colonne furono perseguitate e lottarono sino alla morte. Prendiamo i buoni apostoli. Pietro per l’ingiusta invidia non una o due, ma molte fatiche sopportò, e così col martirio raggiunse il posto della gloria. Per invidia e discordia Paolo mostrò il premio della pazienza. Per sette volte portando catene, esiliato, lapidato, fattosi araldo nell’oriente e nell’occidente, ebbe la nobile fama della fede. di Cristiani venissero rinchiusi, in attesa della fine, nei sotterranei del circo stesso13. si riduceva a un ambiente relativamente angusto collegato ad un piano sottostante attraverso una botola. È noto che in questo “buco” vennero gettati prigionieri “illustri” come Vercingetorige e Giugurta, per esservi strangolati dopo aver sfilato in catene nel trionfo e che anche alcuni cittadini romani come Caio Gracco e, successivamente, i Catilinari vi subirono la stessa sciagurata sorte. Un luogo dove il gruppo numeroso dei cristiani, che dovevano essere nella peggiore delle ipotesi, alcune centinaia non aveva motivo giuridico di soggiornare, né ci sarebbe entrato fisicamente. Tacito ci racconta che Nerone offrì lo spettacolo del supplizio dei cristiani “nei propri giardini e celebrava giochi nel Circo”. Possiamo dunque supporre che i gruppi Le “prove” addotte Chiesa Cattolica 13 Ovviamente non sapremo mai se si trattasse del Circo Massimo o del circo privato che Seneca e Burro avevano fatto costruire per Nerone alle pendici del colle Vaticano. Ma la seconda ipotesi è improbabile, in quanto più che di un circo con infrastrutture e tribune si trattava di uno “spazio recintato”, giacché il suo scopo era proprio quello di impedire che Nerone si esibisse in pubblico alla guida dei suoi cavalli. databile forse al 96 14 Dopo aver predicato la giustizia a tutto il mondo, giunto al confine dell’occidente e resa testimonianza davanti alle autorità, lasciò il mondo e raggiunse il luogo santo, divenendo il più grande modello di pazienza”15. dalla La più antica prova che viene addotta dalla chiesa sulla venuta di Pietro a Roma è la “lettera ai Corinzi”14 di Clemente Romano (forse il Clemente che Paolo cita nella lettera ai Filippesi) che viene indicato come quarto nell’elenco dei Papi secondo l’elenco stilato nel 160 da Egesippo di cui parleremo (ed ampiamente!) fra poco. Vediamo cosa dice: 65 Qualcuno mi dovrebbe indicare in quale punto è nominata Roma. È ridicolo pensare come si possa citare questo passo come prova del soggiorno di Pietro a Roma, effettuando l’arbitraria deduzione che il “noi”, piuttosto che alla comunità dei seguaci di Gesù, si riferisse ai romani, per il semplice fatto che Clemente era romano e scriveva da Roma. La successiva “fonte” portata come prova è una lettera ai romani scritta da Ignazio di Antiochia, probabilmente nel 107 Prima lettera di Clemente Romano ai Corinzi, V 15 STORIA 66 Questo Ignazio fu il successore di Pietro alla guida della comunità di Antiochia16 ed era stato arrestato Un’altra considerazione sulla impossibilità della presenza a Roma di Pietro. Tutte le fonti indicano Ignazio come immediato successore di Pietro all’episcopato di Antiochia. Ora noi sappiamo che il cosiddetto “incidente di Antiochia” avviene immediatamente prima del Concilio di Gerusalemme che pone gli episodi fra il 49 e il 51 e che Pietro esce dalla storia con il suo discorso durante il Concilio di Gerusalemme: dopo quell’intervento gli Atti non parlano più di lui. Possiamo, quindi, fare soltanto delle ipotesi. Pietro non può tornare ad Antiochia che dopo il 52, giacché nel 51 furono Paolo, Barnaba, Giuda e Sila a recarvisi per riferire le decisioni prese. Ammettiamo che dal 52 divenga formalmente il “vescovo” di Antiochia e che abbia mantenuto tale carica per due soli anni, (un po’pochi per affermare una tradizione che in Oriente è invece viva e conosolidata) per poi intraprendere il suo viaggio che lo porterà a Roma nel 55. Tutto ciò premesso se ne deduce che Ignazio dovrebbe aver avuto l’investitura a vescovo di Antiochia nel 54. Quanti anni poteva avere? Anche se fosse stato molto giovane è difficile pensare che un vescovo abbia potuto essere un adolescente. Ipotizziamo che avesse 30-35 anni, età appena plausibile, anche perché le fonti ci dicono che non nacque cristiano e che si convertì da adulto. Considerato che è stato giustiziato nel 107 dovremmo dedurre che abbia affrontato poco meno che novantenne l’improbo viaggio di quasi 3.000 km. durante il quale fu così vitale da scrivere epistole come un grafomane! 16 Non è facile comprendere come mai Pietro, figura di secondo piano fra gli apostoli e chiaramente subordinata a Giacomo, emerse al punto da diventare il capo “della Chiesa fondata da Gesù” se prima non ci si domanda se Gesù intendesse davvero fondare una “Chiesa” per lo meno nell’accezione che conosciamo. Ma questo è un tema che esula dall’argomento di questo articolo. Tuttavia non si può negare come Pietro, sia nei Vangeli che negli Atti, evidenzi tratti nel carattere tutt’altro che positivi: nell’orto del Getsemani è l’unico a mettere la mano alla spada, contravvenendo alle disposizioni di Gesù, fino a tagliare un orecchio ad uno dei servi del Sinedrio non esitando a negare tre volte di esserne un seguace. sotto Traiano con capo di imputazione a noi sconosciuto. Inviato a Roma per il supplizio percorse per mare il tratto che dalla Siria lo portò in Panfilia; poi, per via di terra, attraversò la Caria e la Lidia (tutte province dell’Asia minore) e così giunse a Smirne e, da lì, per via mare, alla Troade. Arrivato a Roma, fu fatto dilaniare dalle fiere nel 107. Durante il viaggio, riuscì a comporre sette lettere: da Smirne scrisse alle comunità dell’Asia Minore (Efeso, Magnesia e Tralle) e poi ai Romani per impedir loro di intercedere in suo favore presso Traiano; da Troade scrisse alle comunità di Filadelfia e di Smirne e, infine, a Policarpo. “Scrivo a tutte le Chiese e annunzio a tutti che io muoio volentieri per Dio, se voi non me lo impedite. Vi prego di non avere per me una benevolenza inopportuna. Lasciate che sia pasto delle belve per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio. Sono frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere per diventare pane puro di Cristo. Piuttosto accarezzate le fiere perché diventino la mia tomba e nulla lascino del mio corpo ed io morto Negli Atti poi appare tutt’altro che caritatevole nell’episodio di Anania e Saffira: “un cert’uomo, di nome Anania, d’accordo con Saffira sua moglie, anche lui vendette un campo e, consapevole la moglie, si tenne per sé una parte del prezzo, portando il resto e deponendolo ai piedi degli apostoli.Allora Pietro disse: «Anania, come mai Satana t’ha così preso il cuore che tu cerchi di mentire allo Spirito Santo con frodare una parte del prezzo del campo? Anania, a udir queste parole, cadde e spirò. Dopo circa tre ore, entra la moglie di lui, che nulla sapeva e Pietro le si rivolse: «Dimmi, donna, è vero che avete venduto il campo per il tal prezzo?». E quella: «Sì, per tal prezzo». E Pietro a lei: «perché, dunque, vi siete accordati a tentar lo Spirito del Signore? Ecco stanno sulla porta i piedi di coloro che han sepolto tuo marito, e porteranno via anche te!». In quell’istante ella cadde a’suoi piedi, e spirò”. Se, come sostengono molti autori, la famosa frase “Tu sei Pietro e su questa pietra...» è un’interpolazione tardiva (tale frase appare solo in Matteo, 16-18, benché l’episodio del contesto sia narrato in tutti gli altri vangeli in modo simile), ci si domanda dunque “perché proprio Pietro?». L’unica risposta plausibile è che l’autore degli Atti nei primi 15 capitoli, centra su Pietro il proprio racconto nominandolo 61 volte, quasi sempre con ruoli esecutivi, citando spesso Giovanni (10 volte) e trascurando Giacomo che viene citato solo 3 volte nelle quali, tuttavia, svolge sempre le funzioni di capo della comunità. Sono gli Atti, dunque, ad aver consacrato la fama di Pietro e Paolo, che degli Atti è il vero ispiratore e protagonista (165 citazioni). “Consegna delle chiavi a san Pietro” Pietro Perugino (1481-82) Affresco, 335 x 550 cm. Cappella Sistina, Vaticano FORUM - GIUGNO/10 67 desse come uno che aveva “comandato”. Che la deduzione sia arbitraria lo dimostra anche il fatto che se per tale frase si dimostrava che Pietro era stato Vescovo di Roma avrebbe dovuto esserlo stato, automaticamente, anche Paolo. L’esegeta onesto deve affermare che questo testo non prova né che Pietro abbia comandato a Roma, né il suo contrario. Si tratta di una testimonianza del tutto irrilevante per il problema in questione. Mi permetto solo una brevissima annotazione sulla lunghezza, la difficoltà e le molte tappe (corrispondenti ad altrettante lettere) di questo viaggio “in vinculis” fino a Roma per sottolineare ancora una volta come esso fosse difficile e complesso e quanto improbabile sia l’ipotesi che Pietro abbia potuto compierne due (ciascuno con andata e relativo ritorno) in pochi anni e senza lasciarne traccia. non pesi su nessuno. Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo. Pregate il Signore per me perché con quei mezzi sia vittima per Dio. Non vi comando come Pietro e Paolo. Essi erano apostoli, io un condannato; essi erano liberi io a tuttora uno schiavo. Ma se soffro sarò affiancato in Gesù Cristo e risorgerò libero in lui. Ora incatenato imparo a non desiderare nulla”17. Assumere il “non vi comando come Pietro e Paolo” come prova di un comando diretto di Pietro come Vescovo di Roma è un’operazione al limite del raggiro. La locuzione può riferirsi ad un “comando” carismatico esercitato a tutta la comunità, ma non va dimenticato che Pietro era succeduto a Simeone come capo della comunità di Antiochia, quindi non è improbabile che il suo successore Ignazio lo veIgnazio di Antiochia, Lettera ai Romani, IV 17 Ugualmente tralascerò ogni testimonianza di cui non possediamo fonti di prima mano ma che esistono solo attraverso racconti o citazioni di Eusebio di Cesarea nella sua Storia Ecclesiastica, autore storicamente inattendibile, giacché ciò che scrive è strumentale agli scopi del disegno politico costantiniano: quindi ciò che lui afferma che abbiano scritto Dionigi di Corinto, Clemente Alessandrino e Papia di Gerapoli (scritti per noi perduti) non prova assolutamente nulla. Il processo a Giustino Giustino di Nablus fu un intellettuale e filosofo nato in Samaria intorno al 100 che dopo aver frequentato molte scuole filosofiche alla ricerca della Verità, si convertì al cristianesimo e si trasferì a Roma, dove venne arrestato e condannato a morte come cristiano sotto Marco Aurelio, intorno al 165. Come ebreo cristiano doveva ben conoscere la storia degli apostoli (vissuti fino a pochi decenni prima della sua nascita), e come cristiano della comunità STORIA 68 romana doveva essere al corrente delle gerarchie e della storia dei suoi correligionari. Ebbene, benché di lui ci siano rimaste sia le opere che i verbali del processo, egli non ha mai menzionato Pietro nelle sue opere, né tantomeno ne parla come del fondatore della c o m u nità cristiana di Roma. L’unica volta che lo cita è per ripetere ciò che era già scritto in Marco (3,16): “Uno dei discepoli, che prima si chiamava Simone, conobbe per rivelazione del Padre che Gesù Cristo è Figlio di Dio. Per questo egli ricevette il nome di Pietro”18. Nulla di più: neppure una riga sulla “missione papale” di Pietro, né alcun accenno ad una sua presenza a Roma. La prima testimonianza storica La prima testimonianza che attesta l’istituzione della chiesa di Roma da parte di Pietro e Paolo è quella di Ireneo, vescovo di Lione, ed è datata intorno al 180 “Ma poiché sarebbe troppo lungo in quest’opera enumerare le successioni di tutte le Chiese, prendiamo la Chiesa più grande e la più importante e conosciuta da tutti, fondata e istituita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo, e, mostrandone la tradizione ricevuta dagli apostoli e la fede annunciata agli uomini che giunge fino a noi attraverso le successioni dei vescovi, confondiamo tutti coloro che in qualunque modo, o per infatuazione o per vanagloria o per cecità e per errore di pensiero, si riuniscono oltre quello che è giusto. Con questa Chiesa infatti, per la sua più forte preminenza, è necessario che concordi ogni Chiesa, cioè i fedeli che da ogni parte del mondo provengono; con essa, nella quale da coloro che da ogni parte proven Dialogo 100, 4 PG 6, 709 C. In Dial. 106, 3 si rifà a Mc 3, 16 per dire che Gesù ha dato a un apostolo il nome di Pietro gono fu sempre conservata la tradizione che discende dagli apostoli”19 Si tratta di una vera affermazione non solo della fondazione della Chiesa di Roma da parte di Pietro e Paolo, ma soprattutto del suo primato su tutte le altre chiese. Come si spiega questa innovazione straordinaria che, all’improvviso, stabilisce una gerarchia fra le varie comunità, affermando di fatto quel primato della chiesa di Roma che ha condizionato e condizionerà l’intera storia del mondo occidentale? Cosa è accaduto fra il 160 e il 180 per determinare tutto questo? La costruzione del primato del vescovo di Roma Tutta la storia delle comunità cristiane fino alla tarda seconda metà del II secolo ci mostra l’importanza dei vari vescovi sparsi in tutto l’impero, dei loro contatti e delle loro dissertazioni dottrinali: le sedi di Antiochia, Smirne, Alessandria, Lione, Cartagine, Cesarea e così via espressero illustri teologi, ognuno dei quali proponeva una sua visione della figura del Cristo e del modo di rapportarsi a Dio. In questo contesto il vescovo di Roma non risulta godere di una particolare autorità, se non quella legata al prestigio dell’Urbe. Nell’anno 155 circa venne eletto a capo della comunità romana un siriano di nome Aniceto. Durante gli anni del ministero, terminato con la sua morte nel 166, accaddero degli eventi importanti che potrebbero darci una spiegazione del giallo legato all’origi- 18 Ireneo di Lione, Adv. haer. III, 2 19 FORUM - GIUGNO/10 ne del primato del papato. Il primo di tali eventi fu una visita illustre: da Smirne, all’età di 80 anni, nel 154 venne a trovarlo a Roma il vescovo Policarpo, l’ultimo discepolo diretto dell’evangelista Giovanni, su mandato di tutte le altre chiese d’Asia, per tentare di trovare un accordo sulla data di celebrazione della Pasqua. Con tale visita le chiese asiatiche riconoscevano esplicitamente il vescovo di Roma come portavoce delle chiese d’Occidente, stabilendo così un precedente importante20. Qualche anno dopo, sotto l’imperium di Marco Aurelio, esplose l’eresia montanista, con la sua svalutazione dell’autorità vescovile e del clero e la creazione di disordini, derivanti da una predicazione estatica estrema che induceva le folle ad esaltazione, che turbavano la relativa tranquillità che i cristiani si erano conquistata dopo Domiziano. dannati a morte e le persecuzioni ripresero a ritmi accelerati. Gli stessi Policarpo e Giustino furono suppliziati. Egesippo ed Aniceto Poco tempo prima era arrivato Roma dalla Palestina lo storico Egesippo21, un ebreo convertito che citava dall’ebraico, conosceva il Vangelo degli Ebrei e un Vangelo siriaco, ed era esperto delle tradizioni giudaiche non scritte. Fu certamente vicino ai vescovi di Roma che si succedettero in quegli anni: Aniceto, Sotero ed Eleuterio compiendo perfino una missione a Corinto per conto della chiesa di Roma. Ebbene Egesippo, forte delle sue conoscenze storiche e della sua perizia nelle lingue orientali, per primo scrisse: “Quando arrivai a Roma, ho scritto la successione dei vescovi fino ad Aniceto, e a Sotero Eleutero. E in ogni successione e in ogni città tutto funziona secondo le ordinanze della Legge, e i Profeti, e il Signore”. A causa di queste esagerazioni si fece di ogni erba un fascio confondendo cristiani e montanisti. Moltissimi vescovi furono con In Oriente si celebrava la Pasqua alla maniera ebraica, e cioè nel quattordicesimo giorno del mese di Nisan, indipendentemente dal giorno della settimana, mentre secondo la Chiesa Romana bisognava celebrare la Pasqua di domenica. Policarpo ed Aniceto non raggiunsero un accordo, ma si lasciarono in buoni rapporti.. 20 Egesippo (110 c.ca – 180 c.ca) ci viene descritto da Eusebio come un ebreo convertito, che citava dall’ebraico, conosceva il Vangelo degli Ebrei e un Vangelo siriaco, e citò anche delle tradizioni giudaiche non scritte. Sembra che sia stato a Corinto e a Roma, raccogliendo di volta in volta le dottrine delle varie chiese che visitava, e accertandosi che fossero in conformità con Roma. Scrisse una “Storia della Chiesa” e apologie contro le eresie, tutte oggi perdute. 21 69 Nell’elenco Egesippo attesta che Pietro fu il primo vescovo di Roma, contrariamente a tutte le fonti precedenti. Non mi è stato facile capire questo passaggio, anche perché ogni testo moderno che parli di Pietro inizia con frasi che richiamano quella, ingenuamente categorica, di Don Bosco nella introduzione alla sua opera su Pietro: “Mettere in dubbio la venuta di san Pietro a Roma è lo stesso che dubitare se vi sia luce quando il sole risplende in pieno mezzodì; perciò la sola ignoranza o mala fede può esserne cagione”. Non voglio né posso prendere una posizione o fare alcuna ipotesi su una contraddizione nata oltre 1.800 anni fa, e mi sono limitato a riportare fedelmente le fonti. Tuttavia non posso esimermi dal condividere con il lettore una scoperta in cui mi sono casualmente imbattuto durante i mesi di ricerche impegnate nel tentativo di trovare una spiegazione ad un problema storico che presentava troppe incongruenze. Fin dagli anni della mia infanzia nella biblioteca di famiglia esisteva una polverosa edizione in tre volumi, intitolata “Storia del Cristianesimo” di Ernesto Buonaiuti. Ho iniziato a leggerla con la sensazione che si trattasse di uno studio di grandissimo valore storico ed esegetico, mirabil- STORIA 70 mente scritta e piena di intuizioni interessanti. Incuriosito dalla biografia dell’Autore22 ho cercato di approfondirne la figura, scoprendo un gigante sfortunato che, pur avendo subito, oltre alla scomunica, anche una sorta di “damnatio memoriae” (infatti in tutte le mie ricerche storiche non ho mai trovato un rimando Vedi riquadro 22 Don Ernesto Buonaiuti (Roma, 24 aprile 1881 – Roma, 20 aprile 1946) fu un sacerdote, storico, antifascista, teologo, accademico italiano, studioso di storia del Cristianesimo e di filosofia religiosa, fra i principali esponenti del modernismo italiano. Scomunicato e ridotto allo stato laicale dalla Chiesa cattolica per aver preso le difese del movimento modernista, il movimento di riforma del cattolicesimo condannato nel 1907 da Pio X. Docente di Storia del cristianesimo alla Sapienza di Roma, nel tentativo di conciliare la religione con il pensiero moderno e i raggiunti traguardi scientifici predicò il ritorno ai valori della chiesa primitiva attraverso un’analisi critico-filologica del Vangelo. Nel 1926 gli venne inflitta la massima scomunica che impediva a ogni buon cattolico di avvicinarlo. Accusato dal Sant’Uffizio, attaccato dall’”Osservatore Romano” e dalla “Civiltà Cattolica”, usato come oggetto di scambio tra il regime fascista e la Santa Sede durante la stesura del Concordato del 1929, vittima di veri complotti ecclesiastici tesi ad allontanarlo dall’insegnamento, Buonaiuti rinunciò alla cattedra solo nel 1931, rifiutando di giurare fedeltà o una citazione alle sue opere) è rimasto talmente cattolico da scrivere, alla fine della sua vita, le seguenti parole: “Il Cristianesimo è l’unica democrazia possibile; perché in nessun’altra forma di vita religiosa, come in nessun’altra visione filosofica della vita, l’aggregato umano, il senso della solidarietà universale, la coscienza dell’unica famiglia del mondo hanno, come nel Cristianesimo, altrettanto rilievo e altrettanto inconsumabile peso”. Il Cristianesimo, dunque, non la gerarchia della Chiesa, lo splendore della Curia ed il suo talvolta sinistro potere. Il Cristianesimo dei missionari, dei buoni parroci, di Madre Teresa, dei devoti caritatevoli. Lutero e sulla Riforma protestante. L’opera da cui ho tratto ampi stralci è scritta con finalità apologetiche “per istituire il bilancio definitivo dell’azione cristiana nella storia, ora che da mille indizi si poteva facilmente e sicuramente arguire che il Cristianesimo si avvicinava ad un’ora di drammatico trapasso”. Ernesto Buonaiuti al regime con soli altri 13 docenti. Seminarista dell’Apollinare di Roma insieme ad Angelo Roncalli (il futuro Giovanni XXIII) iniziò a studiare il cristianesimo delle origini utilizzando gli strumenti scientifici e razionalisti del metodo positivista. L’opera di Buonaiuti è sterminata: ha lasciato circa tremilaottocento lavori scritti, fra i quali importanti una “Storia del Cristianesimo” in tre volumi, un testo sullo gnosticismo, l’autobiografia e gli studi su Gioacchino da Fiore, su Il Cristianesimo, nato come annuncio di palingenesi, veicolava un vastissimo programma sociale “che imponeva un progressivo arricchimento concettuale e un inquadramento disciplinare sempre più rigido. Per vivere e fruttificare nel mondo, il Cristianesimo fu condannato così a snaturarsi e a degenerare”. La sola salvezza per la Chiesa e per la società moderna è, per Buonaiuti, il ripristino dei valori elementari del Cristianesimo primitivo: l’amore, il dolore, rimorso, la morte. Buonaiuti si dichiara cattolico e dichiara di voler rimanere tale usque dum vivam, come scrisse alla facoltà di teologia di Losanna, la quale gli rifiutò la cattedra di storia del cristianesimo poiché egli non aveva accettato la condizione di aderire a quella Chiesa Evangelica. FORUM - GIUGNO/10 Buonaiuti ha avuto il coraggio, che ha pagato duramente sia alla chiesa che al fascismo, di scrivere – a differenza di altri che spesso hanno voluto trovare ciò che cercavano – ciò che aveva trovato. Lascio dunque alle sue parole il compito di concludere con un’ipotesi molto interessante la mia ricerca sulla improbabilità della venuta di Pietro a Roma e sulle cause primigenie del primato della sede apostolica romana. “La storia del costituirsi e dell’evolversi della Chiesa romana e dei suoi poteri primaziali è senza dubbio uno degli aspetti più romanzeschi e più sorprendenti della Storia del Cristianesimo. In questo campo più che negli altri di tale storia, la leggenda ha cosi profondamente investito i dati primordiali che vorrebbero essere il fondamento e la giustificazione di tali poteri, che gli storici più accorti e più scrupolosamente preoccupati della perfetta oggettività, riescono a fatica a svincolare la realtà dai rivestimenti che le hanno imposto la capacità fabulatrice della massa credente e l’interesse apologetico della autorità costituita. Quanto questo processo di elaborazione leggendaria fosse sollecito ad attuarsi nello sviluppo dell’antica organizzazione cristiana appare eloquentemente dal fatto che già all’alba del quarto secolo noi vediamo, nel momento del trapasso dell’Impero dalla professione pagana al riconoscimento pubblico del cristianesimo, profilarsi una concezione delle origini cristiane tutta avvivata da presupposti favolosi e mitici che ne fanno un processo stilizzato e difforme da qualsiasi concreta verisimiglianza. Il padre della storia ecclesiastica, Eusebio di Cesarea, è quegli che più validamente ha contribuito alla divulgazione della deformata visione delle origini cristiane. Quando egli nel 311, all’indomani dell’editto di libertà religiosa, con cui Galerio, imponendo un termine al regime persecutorio iniziato otto anni prima, gettava le prime basi della trasformazione religiosa dell’Impero, poneva mano alla sua grande storia del cristianesimo, questa grande storia aveva già un suo piano ideale. (…) Le prime manifestazioni del potere romano sulla Chiesa cristiana ecumenica sono incerte e titubanti. La lettera di Clemente Romano alla comunità di Corinto al tramonto del I secolo non è un documento che rispecchi una autorità di magistero e di governo palesemente consapevole di sé e nettamente basata su una inappellabile investitura sovrannaturale. Non si può dire neppure, sul terreno dei fatti e della chiara e spontanea significazione dei termini, che questa lettera possa validamente invocarsi come testimonianza aperta di una sicurezza della venuta di San Pietro a Roma e di una autorità primaziale, costituita da lui attraverso la sua venuta ed il suo martirio. Le raccomandazioni del documento romano sono tutte esortatorie e l’ap- 71 pello alla paziente sofferenza degli Apostoli è un appello generico ai personaggi più insigni, che nel primo momento della disseminazione evangelica hanno portato alla loro fede nel Cristo il contributo della loro devozione, della loro sofferenza e del loro amore di pace. Nella prima metà del secondo secolo la Cristianità romana ci si presenta come la palestra in cui i maestri delle varie interpretazioni cristiane cercano di esercitare il loro magistero, di guadagnare proseliti e di instaurare una certa egemonia intellettuale. Roma è la capitale di un immenso Impero ed anche dal punto di vista della spiritualità colta rappresenta il mercato centrale in cui tutti ambiscono di mettere a prova le loro virtù di proselitismo e di conquista. I maestri gnostici come i maestri dell’apologetica, Marcione come i rappresentanti dell’ispirazione profetica, che pretende tuttora di rappresentare l’unica continuazione logica, valida e accreditata del primitivo messaggio evangelico, tutti, dalle più lontane plaghe dell’Impero, affluiscono a Roma, non diversamente dai retori, come Elio Aristide e dai rappresentanti della cultura misteriosofica, come quel Filostrato che cercherà di accreditare alla corte sincretistica dei Severi la figura ambigua e leggendaria di Apollonio di Tiana. Ma si direbbe che è proprio in virtù della complessità eterogenea di queste correnti, quali si profilano nel seno della comunità cristiana del II secolo, che si viene avvertendo istintivamente STORIA 72 la necessità di un governo e di un magistero, che tra le varie correnti stesse istituiscano una cernita, che garantiscano l’autorevole e ufficiale interpretazione di un messaggio, che si è mostrato suscettibile delle più antitetiche interpretazioni. E questo magistero non uscirà dal travaglio puramente intellettuale delle scuole e delle conventicole colte; non sarà neppure il risultato di una valutazione comparativa dei differenti atteggiamenti concettuali e dogmatici; ma sarà piuttosto il trionfo delle esigenze della massa credente, sulle speculazioni avventurose e sugli orientamenti ultra-spirituali. Sarà in altri termini la vittoria di quei bisogni concreti della massa associata, che, per la disciplina collettiva, ha bisogno di un magistero infallibile e di una gerarchia canonizzata. da un tutt’altro punto di vista che quello politico, Marcione aveva voluto ricacciare l’Iddio d’Israele nel novero dei demiurghi inferiori. Noi non sappiamo in quale misura le condizioni ambientali hanno favorito la disseminazione del messaggio marcionita e la costituzione di comunità marcionitiche su tutto il territorio dell’Impero. (…) La propaganda antibiblica e antimosaica, paolinista a oltranza, di Marcione, era caduta in un momento di straordinaria tensione etnica nell’Impero Romano. Da più di mezzo secolo Roma aveva ingaggiato la lotta all’ultimo sangue contro l’ebraismo, perfettamente consapevole della difformità irreconciliabile che esiste fra ogni organizzazione politica assolutistica e lo spirito profetico, che la razza d’Israele si porta indistruttibilmente nel cuore. Una funzione di mediazione tra queste varie correnti e di eliminazione di tutto quello che poteva rappresentare uno sgretolamento della disciplina associata non poteva che costituire una mansione romana, una mansione cioè della comunità che, per il fatto stesso di vivere nella capitale dell’Impero, era automaticamente tratta ed autorizzata ad esercitare un ministero di preminenza. A quale dei vari elementi etnici che costituivano la comunità romana sarebbe in particolare caduta in sorte questa opera di preminenza e di governo? La Gerusalemme sacerdotale era morta nel 70. Adriano aveva annientato drasticamente, con un eccidio dalle vastissime proporzioni, le superstiti velleità insurrezionali della razza di Giuda. Partendo ceto presiedette ai fedeli che erano colà: sotto di lui Egesippo racconta di essere andato a Roma e di esservi rimasto fino all’episcopato di Eleutero»23. Quando Ireneo giunse a Roma quale ambasciatore dei «confessori»di Lione, Egesippo doveva ancora occupare in mezzo alla comunità romana una posizione preminente. Quanto meno doveva avervi lasciato una eredità delle più cospicue, se Ireneo si riporta a lui come ad una autorità indiscutibile, largamente riconosciuta. Lo gnosticismo rappresentava l’interpretazione del cristianesimo cara ai ceti colti della comunità; il marcionismo rappresentava un paolinismo portato alle sue ultime conseguenze. Tra poco, di contro all’uno e di contro all’altro, il montanismo cercherà di ripristinare l’effervescenza della primitiva esperienza messianica cristiana annunciando la prossima palingenesi e l’inaugurazione dell’età dello Spirito. C’è in Eusebio (…) una pista oscura e misteriosa che vale la pena di seguire. «A Roma, morto Pio, dopo un episcopato di quindici anni, Ani- Quale era di preciso questa eredità? Noi sappiamo da Eusebio che Egesippo aveva scritto certe Memorie, la perdita delle quali rappresenta per l’antica storia cristiana una perdita altrettanto grave che quella dei libri esegetici di Papia. I frammenti superstiti di queste Memorie, disseminati soprattutto nella grande opera storica eusebiana, sono ad ogni modo tali da rivelare una struttura logica ed una finalità di cui bisogna tenere il massimo conto nel definire il processo che portò alla costituzione della gerarchia episcopale e del primato romano nella seconda metà del secondo secolo. Questo Egesippo era un convertito dal giudaismo. Eusebio stesso ce lo attesta nell’atto stesso in cui raccoglie dall’opera del convertito, che egli aveva dinanzi agli occhi, i particolari autobiografici dell’autore. «Egesippo - così ci dice Eusebio (IV, 22, 8) - cita il Vangelo secon Eusebio di Cesarea. Storia Ecclesiastica, IV, 11 23 FORUM - GIUGNO/10 do gli ebrei e il Vangelo siriaco, e trae osservazioni e dati dalla lingua aramaica, documentando come egli sia venuto alla fede dall’ebraismo ed altre cose ricorda come provenienti dalla tradizione orale giudaica». (…) Possiamo facilmente immaginarci come, arrivando a Roma, Egesippo, neo-convertito dal giudaismo al cristianesimo, dovesse aver trovato l’ambiente ancor tutto sossopra per la propaganda marcionitica. Doveva essere stato un fatto sbalorditivo quello che si era svolto in quella comunità cristiana un trentennio prima! Un ricco armatore, passato al Vangelo, era venuto dal lontano Ponto per aggregarsi alla fraternità cristiana della metropoli e come primo suo gesto si era spogliato di tutto il suo avere per donarlo alla comunità. Marcione però non aveva voluto donare alla Chiesa soltanto i suoi beni, aveva voluto donarle anche il suo paolinismo a oltranza. E questo era molto meno assimilabile del pingue donativo in moneta sonante. Marcione era apparso come un dissemi-natore di scandalo e la comunità lo aveva respinto. (…)Egesippo aveva potuto constatare che se la propaganda del marcionismo si era effettuata sollecitamente, altrettanto sollecite e vaste erano le opposizioni. Non era un’impertinente audacia bistrattare la tradizione di Israele, antefatto profetico del cristianesimo, e portare la mano iconoclastica contro quei Vangeli ecclesiastici e contro quel testo corrente dell’epi- 73 stolario paolino che erano ormai ufficialmente riconosciuti e, quasi si sarebbe detto, canonicamente fissati? E non era un costituirsi correi della campagna antiebraica scatenata da decenni dall’Impero, insorgere contro il testo canonico dei Vangeli e di Paolo, in nome di presunte interpolazioni giudaizzanti? no ora delinearsi e pullulare nel cristianesimo. «Vi furono - egli aveva scritto - nel mondo della circoncisione, in mezzo ai figli di Israele, varie correnti contro la tribù di Giuda e contro il Cristo. Queste varie correnti furono: quelle degli esseni e dei galilei, degli emerobattisti e dei masbotei, dei samaritani, dei sadducei e dei farisei»24. Sebbene convertito al cristianesimo, Egesippo doveva sentirsi l’anima lacerata ed umiliata. E quaranta anni prima di Tertulliano egli avvertiva la necessità di contrapporre al dilagare delle novità marcionitiche la diga infallibile ed invalicabile di una prescrizione salutare. (…) Nella sua fantasia di giudeo palestinese, tutto saturo di reminiscenze nazionali, anche dopo l’eccidio di Gerusalemme e anche dopo la conversione al cristianesimo, è vivo e presente il fantasma del sacerdozio e del pontificato gerosolimitani, che Roma ha decisamente distrutto. Le eresie non sono una novità. Il giudaismo le ha conosciute anche nel tempo del suo massimo splendore. E le ha vinte appunto col suo sacerdozio e col suo pontificato. Se dunque, secondo Egesippo, la pulviscolare secessione delle eresie si rinnova nel seno del cristianesimo, come già aveva imperversato in seno al giudaismo, il cristianesimo, continuazione del giudaismo, doveva, per difendersi, seguire la prassi del giudaismo stesso, e fare ricorso ad un sacerdozio organizzato e ad un pontificato legittimamente legiferante e amministrante le realtà sacre. (…) “Come fare ora per resistere efficacemente e universalmente agli pseudo-cristi, agli «pseudoprofeti, agli pseudo-apostoli che hanno lacerato l’unità ecclesiastica, con discorsi dissolvitori contro Dio ed il suo Cristo?». (…)Secondo Egesippo non c’era che un mezzo valido e bene sperimentato. E questo mezzo era di cercare dovunque la trasmissione apostolica nella successione vescovile. Ed ecco dunque scoperto il metodo infallibile per la conservazione e la tutela fedele della trasmissione cristiana: la Diadoché costituirà la difesa invulnerabile della purezza e della immutabilità della Didaché. La Chiesa cristiana dovrà raccoglierne l’esempio e procedere, facendo ricorso ai medesimi sistemi ed ai medesimi metodi. Un frammento delle sue memorie conservatoci da Eusebio lascia chiaramente supporre che Egesippo si compiacesse straordinariamente di riscontrare nella tradizione religiosa del suo popolo i precedenti dei movimenti ereticali che si vedeva- Eusebio di Cesarea, Storia Ecclesiastica, IV, 22, 7 24 STORIA 74 Ne sarà anzi senz’altro il surrogato equivalente. Se noi ci indugiamo su questo apporto di Egesippo alla costituzione ed alla continuità dottrina le cristiana, è unicamente per l’enorme importanza che questo apporto ha avuto nello sviluppo della cristianità occidentale. Riferendosi alle memorie di Egesippo, Eusebio ci dice che il loro autore, nel suo viaggio verso Roma, aveva assiduamente tentato di stringere rapporti con numerosi vescovi, cercando di constatare presso di loro la incorrotta unità della dottrina. Roma però rappresentava la più assillante preoccupazione del suo spirito. Qual mai successo sarebbe stato quello di Israele se nella capitale dell’Impero che aveva abbattuto la città santa, che aveva innalzato nel Foro un arco di trionfo a chi aveva sovvertito il Tempio, e che con Adriano aveva ignominiosamente profanato il santo dei santi, fosse sorta una organizzazione religiosa analoga e conforme a quella che aveva avuto nel Tempio il suo centro e il suo palladio! Bisogna riconoscere che Egesippo non era uomo dai propositi timidi e dalle capacità circoscritte. Un frammento delle sue memorie ci mostra come, tornato in Palestina, egli si potesse vantare di quel che aveva fatto a Roma. Dice infatti: «Giunto a Roma redassi la tavola della successione apostolica fino ad Aniceto, di cui Eleutero era diacono. Dopo Aniceto, successore Sotero, dopo il quale Eleutero. In ciascuna delle successioni apostoliche e in ciascuna città, tutto si svolge come la legge insegna e come insegnano i profeti e il Signore». La Diadoché nella concezione di Egesippo è dunque una catena che risale alla legge di Mosè e scende fino ai continuatori del Signore. In nome di Paolo, Marcione aveva segnalato spietatamente tutte quelle che gli apparivano antitesi inconciliabili fra la legge di Mosè e il Vangelo del Cristo. Egesippo, ebreo convertito, aveva anche egli, come Marcione, traversato l’Impero col proposito inverso: reintegrare la perfetta continuità e l’assoluta coerenza tra la legge di Mosè e il messaggio del Dio buono. Questa continuità e questa coerenza erano raccomandate alla successione episcopale e dalla successione apostolica erano garantite. Ma su quali argomenti Egesippo fondava questa sua armonistica visione dell’opera del Verbo nel mondo? Eccoci dinanzi al punto più oscuro ed alla zona più delicata in tutto il processo di sviluppo dell’organizzazione cristiana nel secondo secolo. Ma non è azzardato tentare una soluzione dell’enigma, mercé una plausibile ipotesi di lavoro. Marcione aveva fatto fulcro per la sua propaganda del pensiero paolino. Al Paolo marcionita non poteva contrapporsi che Pietro. I due nomi erano già da lunga pezza abbinati nelle memorie romane. Egesippo, che si era fermato a Corinto, doveva ben conoscere la lettera che non molto meno di un secolo prima Clemente aveva diretto in nome della comunità romana alla comunità di colà. Venuto a Roma, Egesippo doveva avere raccolto tutte le tradizioni locali che legavano leggendariamente il passaggio di Pietro e Paolo, avviati verso Roma, con una lussuosa villa dell’Appia antica e individuavano al Vaticano e sulla via Ostiense il luogo del loro martirio e del loro sepolcro. Se nel pensiero di Egesippo la successione vescovile nelle grandi città dell’Impero costituiva la salvaguardia e la garanzia della immutabile integrità dottrinale, qualcosa veramente si sarebbe dovuto dire che mancasse alla riproduzione perfetta dell’organismo pontificale del Tempio gerosolimitano nell’ambito del cristianesimo, se la ecumenicità episcopale della nuova diaspora non avesse avuto anche essa un centro unico di irradiazione e di disciplina. Marcione aveva fatto di Paolo l’unico interprete genuino del Cristo, in quanto questi aveva abbattuto in radice la vecchia legge e le morte tradizioni mosaiche. A Marcione non importava affatto che il cristianesimo avesse degli antecedenti: quel che a lui premeva era piuttosto l’inconguagliabile originalità del messaggio della bontà e dell’amore. Paolo aveva detto qualcosa di simile: Marcione lo ripeteva a suo modo. Trattandosi di salvare invece la continuità sostanziale tra «la Legge, i Profeti, il Signore», non c’era a portata di mano che un mezzo: riabilitare e celebrare quel Pietro, col quale Paolo si era trovato così FORUM - GIUGNO/10 aspramente a conflitto. La bisogna era straordinariamente facile. O che forse non era stato Pietro quegli che, secondo i Vangeli così di Matteo come di Marco e di Luca, aveva riconosciuto per primo nei paraggi di Cesarea di Filippo che Gesù era il Cristo?25 Qui veramente Egesippo capitava in buon punto. Egli era privilegiatamente agguerrito per fare di quell’episodio la chiave di volta del sistema gerarchico dogmatico, quale egli lo sognava, sul modello del sistema gerosolimitano, argine efficace al dilagare anarchico dello spiritualismo marcionita. Nella sua redazione primitiva quale è quella conservataci intatta nei Vangeli di Marco e di Luca, l’episodio di Cesarea di Filippo tradiva uno schematismo semplice e lineare. Pietro vi professava apertamente, in nome di tutti i suoi compagni nella sequela di Gesù, la messianicità del Maestro. Gesù accoglieva la confessione solenne imponendo il segreto in argomento e contrapponendo al ri-conoscimento esplicito della sua messianicità l’annuncio dell’imminente tragico epilogo a Gerusalemme. Questo, puro e semplice, l’episodio nelle sue linee embrionali. Ma nello spirito di credenti avviati verso la costituzione organica della società uscita dalla delusa fede nell’imminente inaugurazione del Regno, quel riconoscimento solenne di Pietro non era cosa da la- Filippo26. Facendosi forte della sua grande maestria in fatto di lingua aramaica, forse subcoscientemente travagliato e sedotto dal fantasma della successione apostolica, Egesippo può avere egli stesso introdotto nel racconto matteano dell’episodio di Cesarea questo giuoco di parole che, con uno scambio di termini suggerito dal nome dell’Apostolo più rumoroso, finisce con l’investire Pietro di un potere di cui si sarebbero sempre più allargati e rafforzati i confini. sciarsi passare senza un adeguato corrispettivo. Oramai che Marcione aveva con così impertinente irriverenza scalzato in radice l’autorità dei Dodici, per fare di Paolo l’unico vero Apostolo e di quegli che era stato amico e medico di Paolo l’unico evangelista degno di fede, occorreva assolutamente ristabilire lo spezzato equilibrio, non solamente assicurando alla successione apostolica l’integro deposito della fede, ma ponendo anche Pietro al vertice della gerarchia e immaginandolo investito da Gesù di un imperituro potere primaziale. A Roma, in un momento criticissimo dello sviluppo disciplinare ecclesiastico, ai primi sentori della crisi montanistica, dovettero essere ben felici di scoprire il fondamento giuridico del potere di Pietro e dei suoi successori. Sulla base della testimonianza di Papia, il Vescovo millenarista di Gerapoli in Frigia, si sapeva nella comunità cristiana che Matteo aveva originariamente dettato il suo Vangelo in aramaico: ebraidi dialecto. Ma Egesippo era maestro in aramaico. Eusebio ci attesta questa perizia in aramaico di Egesippo con una frase straordinariamente significativa: I latino-africani, che dovevano costituire allora il nucleo più imponente e più accreditato della comunità romana, dovettero essere ben grati alla sapienza aramaistica di Egesippo che con le sue sottigliezze linguistiche riusciva a dare ad uno degli episodi salienti della narrazione evangelica una portata nuova ed una significazione preziosa27». «In particolare trae parecchie cose dalla lingua aramaica ». Saremmo legittimamente curiosi di sapere con esattezza quali sono queste parecchie cose che Egesippo trae «dalla lingua aramaica». E siamo naturalmente tentati di pensare che tra quelle parecchie cose debba essere compreso il giuoco di parole perfettamente aramaico che il Vangelo di Matteo suppone istituito da Gesù sul nome Cefas, al momento della confessione messianica nei paraggi di Cesarea di Quindici anni dopo il vescovo Dionigi di Corinto, nella sua lettera alla chiesa romana durante il pontificato di papa Sotero (165174) scriveva «Dovete quindi, con la vostra più Cfr. nota 41 26 E. Buonaiuti, “Storia del Cristianesimo vol. I” dall’Oglio, 1942 27 Mt. 16, 16; Mc. 8, 29; Lc. 9, 20 25 75 STORIA 76 vivida esortazione, riunire insieme i prodotti della semina di Pietro e di Paolo a Roma ed a Corinto. Poiché entrambi hanno seminato la parola del Vangelo anche a Corinto, e insieme lì ci hanno istruiti, nello stesso modo in cui insieme ci hanno istruiti in Italia ed insieme hanno patito il martirio» Neanche quaranta anni dopo Tertulliano affermava che la preminenza di Roma è legata al fatto che tre apostoli, Pietro, Paolo e Giovanni, vi hanno insegnato e i primi due vi sono morti martiri: «Si autem Italiae adiaces, habes Romam... Ista quam felix ecclesia cui totam doctrinam apostoli cum sanguine suo profuderunt, ubi Petrus passioni dominicae adaequatur, ubi Paulus Iohannis exitu coronatur, ubi apostolus Iohannes posteaquam in oleum igneum demersus nihil passus est, in insulam relegatur. 28». Era così nata e si era consolida Tertulliano, “De praescr. Haer.» 36. Il passo mostra chiaramente l’inattendibilità di Tertulliano, che evidentemente scriveva per “sentito dire”. Infatti egli confonde l’apostolo Giovanni con Giovanni evangelista e per far tornare i conti gli fa superare il supplizio dell’olio per poi rimetterlo al suo posto nella storia, con l’esilio a Patmos. 28 ta, dapprima timidamente e poi con più chiarezza, una verità che avrebbe legittimato per secoli il primato della chiesa di Roma su tutte le altre diocesi, conferitole dalle parole di Gesù a Pietro e dal suo magistero nell’Urbe. Al punto che Callisto, nel 220, una cinquantina di anni dopo Egesippo, applicandosi ai suoi testi, affermava di avere il potere di legare e sciogliere e quindi di accogliere nella Chiesa anche gli adulteri, in quanto la sua Chiesa “era vicina al sepolcro di Pietro”. Quanto a tale sepolcro, portato da molti come prova definitiva della presenza e del martirio di Pietro a Roma dopo le scoperte di Margherita Guarducci29, esso pre «Nei sotterranei della Basilica Vaticana ci sono i fondamenti della nostra fede. La conclusione finale dei lavori e degli studi risponde un chiarissimo sì: la tomba del Principe degli apostoli è stata ritrovata». Così papa Pio XII diede l’incauto annuncio, a conclusione del Giubileo del 1950, del riconoscimento della sepoltura di Pietro, di cui aveva ordinato le ricerche per soddisfare le volontà di Pio XI, che nel suo testamento aveva chiesto di essere sepolto “quanto più vicino fosse stato possibile alla Confessione di San Pietro”. 29 senta allo sguardo dello storico che considera come “vero” solo ciò che può essere provato con il metodo filologico sperimentale, lo stesso ironico stupore che dovettero suscitare agli stoici del IV secolo le reliquie portate a Roma da Elena, madre di Costantino. La tomba di Pietro Poiché da diversi secoli la cripta sottostante l’altare papale accoglieva le tombe dei papi scomparsi, Pio XII ordinò di risistemare l’area perché vi si potesse accogliere il sarcofago di Pio XI. Gli scavi vennero affidati al professor Enrico Josi, ai gesuiti Antonio Ferrua ed Engelbert Kirschbaum, all’architetto Bruno Maria Apollonj Ghetti e furono svolti sotto la direzione di monsignor Ludwig Kaas. Appena si iniziò a scavare fu chiaro che ci si era imbattuti in una “piccola Pompei” ricca di sepolture e resti di antichi muri, un’antica necropoli che sorgeva a nord del circo di Nerone con grandi stanze coperte a volta, ornate FORUM - GIUGNO/10 con pregevoli pitture, decorazioni a stucco e talvolta mosaici. In particolare sotto l’altare della Confessione venne ritrovato un piccolo campo funebre per tombe interrate, delimitato su un lato da un muro dipinto di rosso, databile al II secolo, circondato da un muro di protezione di era costantiniana con iscrizioni graffite che invocano Cristo e Pietro, oltre ad una scritta dubbiosamente interpretata in “PETRUS ENI” (vedi foto in testa di pagina). La tomba però era priva di resti umani. Si evitò di fare altra pubblicità e sull’intera faccenda calò il silenzio. Tre anni dopo l’illustre storica ed epigrafista cattolica Margherita Guarducci (nella foto) scese sotto l’altare papale a studiare i graffiti. “Mentre mi scervellavo – scriverà poi la Guarducci - per trovare una via dentro quella selva selvaggia, mi venne in mente che forse mi sarebbe stato utile sapere se qualche altra cosa fosse stata trovata nel sottostante loculo, oltre i piccoli resti descritti dagli scavatori nella relazione ufficiale”. Parlando col sampietrino Giovanni Segoni, costui confessò che dei resti umani erano stati trovati nel loculo da lui e Kaas (nel frattempo deceduto), ma erano stati asportati per poterli archiviare. In un magazzino della Reverenda Fabbrica della Basilica di San Pietro, dunque, la Guarducci rinvenne la cassa fatidica, opportunamente catalogata. Padre Ferrua, anche a nome degli altri tre protagonisti dello scavo, su pressante invito del sostituto mons. Giovanni Benelli, entrò in polemica con la Guarducci, facendo pervenire alla Segreteria di Stato un memoriale di 11 pagine in cui affermava ancora una volta che non s’era trovata alcuna reliquia di san Pietro. Tuttavia la Guarducci continuò a sostenere la sua tesi di fronte a Paolo VI, con una replica di ben 45 pagine. “La solita valanga di parole in mancanza di fatti precisi”, commentò Ferrua su «Civiltà Cattolica». Paolo VI, però, dette ragione alla Guarducci La contestata cassetta conteneva dunque le ossa di Pietro? La Guarducci era eccitata e convinta di aver trovato le reliquie dell’apostolo e le fece sottoporre ad esame antropologico che confermò trattarsi dello scheletro di un uomo anziano (60/70 anni), avvezzo alla fatica fisica. Tali ossa risultavano essere sporche della 77 terra del colle, e di frammenti dell’intonaco del muro rosso ed erano state avvolte, prima della deposizione, in un elegante panno di lana colorato di porpora e intessuto d’oro. Invece di pensare, come farebbe un normale uomo di scienza non accecato dall’appartenenza religiosa, che tutto quello che aveva dimostrato era che in quel punto era stato sepolto un ricco, anziano e robusto romano del II secolo, la Guarducci concluse che la scritta che “forse” recitava PETRUS ENI era la prova che quelle erano le ossa del giudeo del I secolo, apostolo di Gesù, e non forse che si trattasse di qualcuno che, magari per devozione ai vangeli, si fosse ugualmente chiamato Pietro. Quanto al fatto che i resti erano stati dimenticati, secondo la Guarducci si trattò di una somma di strane coincidenze: lo scavo era avvenuto in condizioni difficili, c’era la guerra e la consegna del silenzio era molto forte. Della Guarducci il vicepresidente del Senato Domenico Contestabile ebbe a scrivere: “La professoressa Guarducci (non voglio metterne in discussione la buona fede) è una archeologa che ha grandi ed illustri precedenti, Schliemann ed Evans: trova quello che ha deciso di trovare”. Il 26 giugno 1968 Paolo VI, durante l’udienza pubblica nella STORIA 78 Basilica Vaticana, con una certa impudenza, ma attento a perpetuare quel culto delle reliquie che tanti pellegrini ed offerte aveva portato in Vaticano da secoli, ebbe il coraggio di annunciare : «Nuove indagini pazientissime e accuratissime furono in seguito eseguite con risultato che noi, confortati dal giudizio di valenti e prudenti persone competenti, crediamo positivo: anche le reliquie di san Pietro sono state identificate in modo che possiamo ritenere convincente, e ne diamo lode a chi vi ha impiegato attentissimo studio e “Silvestro e Costantino” affresco (metà dell’VIII sec.) nell’Oratorio di San Silvestro, Roma lunga e grande fatica. Non saranno esaurite con ciò le ricerche, le verifiche, le discussioni e le polemiche. Ma da parte nostra ci sembra doveroso, allo stato presente delle conclusioni archeologiche e scientifiche, dare a voi e alla Chiesa questo annuncio felice, obbligati come siamo a onorare le sacre reliquie, suffragate da una seria prova della loro autenticità [...] e nel caso presente tanto più solleciti ed esultanti noi dobbiamo essere, quando abbiamo ragione di ritenere che siano stati rintracciati i pochi, ma sacrosanti, resti mortali del Principe degli apostoli». Poi ordinò di sigillare nel loculo le ossa, chiuse in scatole di plexiglas insieme ad una iscrizione in cui si dice che quei resti “si pensa” siano dell’Apostolo Pietro. Oggi tali resti sono nuovamente visibili dai fedeli, che si accostano trepidanti e devoti come facevano 1.700 anni fa con reliquie eleniane come i tre chiodi ed i frammenti della croce di Cristo. È singolare che ancora oggi, ignorando la dinamica dei fatti, ci siano un’infinità di cattolici che sostengono come quei resti FORUM - GIUGNO/10 e quella sepoltura siano la prova del soggiorno di Pietro a Roma!!! La definitiva consacrazione del primato di Roma Con il papa Leone I, detto Magno30 (440-461) il primato di Roma diviene legittimo ed ufficiale, perché sancito da un editto di Valentiniano III datato 8 luglio 445 in cui venivano appoggiate le misure prese del papa nei confronti di alcuni vescovi delle Gallie, e veniva solennemente riconosciuto il primato del vescovo di Roma sull’intera Chiesa31. Tale editto riconosceva che il primato del vescovo di Roma era basato sui meriti di Pietro, la dignità della città e il Credo di Nicea; ordinava, inoltre, che ogni opposizione alle sue decisioni, che avrebbero avuto forza di legge, doveva essere trattata come tradimento e che chiunque si fosse rifiutato di rispondere agli avvertimenti di Roma avrebbe dovuto essere ivi estradato da parte dei governatori provinciali. Questo titolo si rafforzò notevolmente nel 607 quando l’imperatore Foca, che aveva visitato Roma e la colonna commemorativa del quale ancora si erge nel Foro romano, per contraccambia Il Papa che andò incontro ad Attila, re degli Unni e ne scongiurò la marcia su Roma 30 Epist. Leonis, ed. Ballerini, I 642 31 re l’amicizia del vescovo di Roma, riconobbe la supremazia della “sede apostolica di Pietro su tutte le chiese” (caput omnium ecclesiarum) e vietò al patriarca di Costantinopoli di usare il titolo di “universale” che da quel momento doveva essere riservato solo al vescovo di Roma, Bonifacio III. Talmente era necessaria una legittimazione incontestabile su un primato papale che non era nel DNA del sistema religioso cristiano, sia per le rivalità delle diocesi, sia per le interferenze del potere secolare che voleva condizionarle per i propri scopi, che in epoca carolingia (tra il 750 e l’830) venne creato su mandato della Curia (ma non conosciamo esattamente sotto quale Papa) un falso, noto come la “donazione di Costantino” per avvalorare i diritti della Chiesa sui vasti possedimenti territoriali in Occidente e per legittimare le proprie mire di carattere temporale ed universalistico. Nel documento si attestava: «In considerazione del fatto che il nostro potere imperiale è terreno, noi decretiamo che si debba venerare e onorare la nostra santissima Chiesa Romana e che il Sacro Vescovado del santo Pietro debba essere gloriosamente esaltato sopra il nostro Impero e trono terreno. Il vescovo di Roma deve regnare sopra le quattro principali sedi, An- 79 tiochia, Alessandria, Costantinopoli e Gerusalemme, e sopra tutte le chiese di Dio nel mondo... Finalmente noi diamo a Silvestro, Papa universale, il nostro palazzo e tutte le province, palazzi e distretti della città di Roma e dell’Italia e delle regioni occidentali». Peccato che alla presunta data della donazione Costantinopoli non fosse ancora stata fondata! Comunque a tale documento si riferirono molti papi, il più scandaloso dei quali fu Alessandro VI Borgia, (nel 1.500!) che lo riesumò per giustificare il suo intervento nella disputa tra Spagna e Portogallo sul dominio delle Americhe. PSICHE 80 L’interpretazione falsata e deviante del Corano, sviluppatasi da poco più di un secolo, ha prodotto una vera patologia culturale nei maschi islamici: del tutto paradossale, perché sessuofobica da un lato e maniacale dall’altro. Il segreto del velo (articolo estratto dal libro “AfricAzonzo” di prossima pubblicazione) di Piero Priorini* Sono radicalmente convinto che ogni cultura possa essere compresa solo usando i parametri e i valori propri di quella stessa cultura, e i libri che scrivo sono una testimonianza di quanto io sia lontano dal considerare la civiltà alla quale appartengo la più evoluta, la “migliore possibile” e, dunque, quella dall’alto della quale sputare sentenze. Orribili mali dell’anima deturpano la società moderna occidentale, ma questo non dovrebbe esonerare nessuno, munito di oneste intenzioni, di studiare i mali degli altri. *psicoterapeuta. Devo fare una premessa fondamentale: non ho mai sopportato che un qualsiasi uomo, moderno occidentale, si permetta di emettere giudizi superficiali e sentenze gratuite su tradizioni e comportamenti di culture “Altre” e diverse dalla propria. Scrivo tutto questo perché la frase con cui avanzo dei dubbi sull’equilibrio psichico di molti maomettani potrebbe sembrare quanto meno una mia paradossale incoerenza, se non addirittura un giudizio superficiale, inopportuno e incompetente, fondato su una sorta di gratuita antipatia per certi costumi propri dell’Islam. Ma non è così. FORUM - GIUGNO/10 Un possente elemento maschilista, sessista e opportunista serpeggia nell’animo di molti musulmani, anche in quello dei più tolleranti, moderni e illuminati. Quando, molti anni fa – prima nel Bangladesh, poi in Egitto - mi accorsi delle assurde reazioni di concupiscenza che molti uomini esprimevano nei confronti della più piccola e insignificante provocazione femminile, seguite subito dopo da fastidio, intolleranza ed estrema violenza, compresi che, se volevo davvero capire di cosa si trattasse, dovevo immergermi spregiudicatamente nello studio della loro cultura e della loro religione. La frequentazione assidua di paesi di religione islamica, l’attenzione e il fascino discreto che avevo sempre provato verso molti dei loro costumi, facilitarono la mia determinazione: per tre anni dedicai tutti i miei sforzi allo studio particolareggiato dell’Islam. Mi sforzai di entrarvi dentro, di lasciarmene assorbire acriticamente, rimandando a poi il vaglio della ragione. Non posso sapere fin quanto in là mi sia spinto, ma certo non ho lesinato energie; e se oggi dico ciò che dico, non è certo per superficialità o ignoranza, bensì per modesto convincimento. Con un’unica pregiudiziale: ho sempre fatto lo psicoterapeuta, ho 81 una formazione clinica, ed è perciò possibile che una sorta di distorsione professionale infici la mia visione del mondo e della vita. Ne chiedo venia. Ciò detto: quando iniziai a studiare l’Islam, visto che davvero volevo capire come stavano le cose, iniziai dal principio. Con la vita del profeta Abu al-Qasim Muhammad e la sua Rivelazione. E, subito, rimasi sorpreso e affascinato! Perché Maometto, fino ai suoi 40 anni, epoca della Rivelazione, aveva vissuto una vita semplice, come pastore di dromedari, prima, e come commerciante-carovaniere poi, compensando in un qualche modo il fatto di essere del tutto analfabeta. Da tutti coloro che lo conoscevano era soprannominato al-Amin “l’onesto”, non solo per la correttezza dei suoi scambi commerciali ma, anche, per la moralità con cui conduceva la propria vita. Di costumi riservati e morigerati, era solito infatti dedicare molto tempo della sua giornata alla preghiera e alla meditazione. E fu proprio durante uno di suoi frequenti ritiri Sembrerebbe che un certo “bipolarismo clinico” sia insito nell’Islam come, d’altra parte, in tutte le religioni monoteiste “rivelate”, di origine patriarcale. PSICHE 82 sul monte Haira che, inaspettatamente, l’Arcangelo Gabriele si rivelò alla sua anima dettandogli le prime Sura di quella raccolta che sarebbe poi divenuta il Corano. La cosa però davvero straordinaria fu che un pastore, del tutto incapace di leggere e scrivere, iniziò a recitare versi di una bellezza impareggiabile. Versi che ancora oggi possono essere considerati una delle più alte espressioni poetiche che l’uomo abbai mai prodotto. L’Arcangelo rivelava. Maometto ricordava, grazie alla prodigiosa memoria per la quale gli arabi sono sempre stati famosi, e recitava poi a quanti volessero ascoltarlo. Più tardi, solo molto più tardi, man mano che la nuova religione si andò affermando, qualcuno più erudito e di buona volontà, si assunse l’onere di trascrivere i suoni melodiosi e celestiali di cui Maometto si era fatto portavoce. Così raccolte, in un ordine non corrispondente alla cronologia con la quale furono rivelate, bensì solo alla loro lunghezza decrescente, le Sura divennero Il Corano: che non era però inteso come un libro qualsiasi che contenesse la Parola di Dio, né come una qualche Sua occulta manifestazione. Bensì come Dio Stesso. Per l’Islam, infatti, il Corano è il Verbo Increato di Dio1, né più né meno di come, 1 Michael Cook “Il Corano”Ed. Einaudi, Torino 2001 per i cattolici, l’ostia consacrata durante la messa sia il corpo di Cristo. Ora, si potrà stare a discutere finché si vuole se i versi in questione siano o meno il corpo mistico di Dio. Resta però il fatto che una poetica sublime si sia manifestata in un uomo adulto, del tutto analfabeta, che mai e poi mai sarebbe stato in grado di articolarne la milionesima parte con forze autonome. La bellezza, la musicalità e l’armoniosa perfezione stilistica dei versetti coranici incantano l’orecchio, rapiscono lo spirito e rassicurano il cuore. Si potrà disquisire a lungo se il Corano sia stato un evento mistico, oppure magico, paranormale, psicopatologico o comunque incomprensibile; ma di certo non lo si può minimizzare né tanto meno ridurlo a fenomeno di scarso rilievo. Anche perché è proprio questa consustanziazione a determinare tutte le difficoltà di dialogo tra musulmani e nonmusulmani. È sempre molto difficile, infatti, riuscire ad ottenere anche dai più spregiudicati dei suoi studiosi, una qualche forma di ermeneutica, sia essa storica, linguistica o psicologica, perché chi oserebbe sottoporre ad analisi critica il Verbo di Dio? Per uno studioso imparziale, ma non condizionato dalla fede, le domande poste dall’esegesi del Corano sarebbero invero mol- teplici. Come ad esempio: data la complessità della lingua araba che, all’epoca, era appena all’esordio della sua strutturazione compiuta, quanti vocaboli potrebbero aver perso nella trascrizione il vero significato originale? Oppure ancora: l’epoca storica in cui le Sure furono rivelate quanto potrebbe aver influito sul significato profondo di alcuni vocaboli che oggi potrebbe invece essere inteso in maniera del tutto diversa? E per finire: ammesso – ma non concesso – il carattere di “strumento divino” assunto dall’anima di Maometto come profeta unico di Allah, si possono ignorare le trasformazioni e i mutamenti profondissimi intercorsi nella vita personale di quest’ultimo e non ritenerli invece, anche se solo in minima parte, responsabili di una certa qual inevitabile “distorsione soggettiva” ? Mi rendo ovviamente conto che queste mie osservazioni potrebbero essere tacciate di blasfemia, eppure sarebbe di estremo interesse poterne discutere con spregiudicatezza e così forse dirimere tutta una serie di incomprensioni profonde che oggi impediscono il colloquio tra uomini appartenenti a fedi diverse. Soprattutto per quello che riguarda la cosiddetta questione femminile. FORUM - GIUGNO/10 Ha senso, oggi, nel terzo millennio, irrigidirsi su: “Dio ha creato la donna per servire l’uomo!» senza nemmeno chiedersi che cosa questo potrebbe aver voluto davvero significare? Ha senso non riconoscere come, tra le Sura accolte da Maometto durante il matrimonio con la prima moglie (una donna adulta, vedova, ricca e indipendente), e quelle successive, quando Khadigia era morta e lui, uomo di 60 anni, volle sposare Aisha, che all’epoca aveva 10 anni, si sia verificato un radicale cambiamento nelle imposizioni richieste alle fedeli?2 Domande come queste sarebbero fondamentali per potersi orientare, oggi più che mai, tra paesi di religione islamica che, pur ottemperando ai codici coranici, rispettano la digni2 Nel mondo occidentale il cristianesimo è continuamente sottoposto a continue analisi e sulla figura del Gesù storico le discussioni sono iniziate fin dall’epoca illuminista, continuando oggi con particolare vitalità, anche per la nutrita audience di fedeli che hanno sete di risposte ai loro dubbi. Questo processo non si è ancora avviato nell’Islam, in cui la Fatwah di condanna è l’unico tipo di risposta ad ogni posizione dissenziente, come era accaduto nel mondo cattolico fino a tutto il XVII sec. (N.d.E.) 83 Paradossalmente, fra le tre grandi religioni monoteiste patriarcali, fu proprio l’Islam delle origini ad essere l’unico ad individuare il carattere metafisico della sessualità umana e a riconoscere lo strapotere esercitato in tal senso dall’essere femminile. tà sia dell’uomo che della donna, e paesi islamici in cui una arbitraria, distorta e abietta interpretazione alla lettera del Corano riduce le donne ad una condizione di vita sordida e subumana. “È uno scandalo intollerabile – scrive Ghaleb Bencheikh3, in un accorato testo a 3 Ghaleb Bencheikh “Che cos’è l’Islam?» Ed. Mondadori, Milano 2002 difesa dell’Islam – il vile silenzio con il quale i dirigenti musulmani di tutto il mondo si rendono complici della tragica condizione della donna afgana. E sarebbe auspicabile – continua l’autore – che gli stessi Talebani venissero riconosciuti, oggi, per quello che realmente sono: dei psicopatici, frustrati e ossessivi”. Coraggiose parole le sue. PSICHE 84 Jean Leon Gérome: “La danza di Almeh” - 1866. (Dayton Art Institute) Ma se ciò non avviene, mi permetto di credere, è perché un possente elemento maschilista, sessista e opportunista serpeggia nell’animo di molti dirigenti musulmani, anche in quello dei più tolleranti, moderni e illuminati. Perché come sostiene il prof. Abdelwahab Meddeb4, un certo “bipolarismo clinico” sembrerebbe 4 Abdelwahab Meddeb “La malattia dell’Islam” Ed. Boringhieri, Torino 2003 essere proprio dell’Islam come, d’altra parte, di tutte le rivelazioni monoteiste (e dunque patriarcali): in esse, dietro la mitezza, la pietà e la tolleranza, c’è sempre una parte guerriera, fanatica, violenta, temibile. tempo essa è ancora operante. Eppure, fra le tre grandi religioni patriarcali, l’Islam fu quella che, almeno alle origini, possedeva i migliori requisiti per stimolare un’autentica maturazione spirituale dei suoi fedeli, uomini o La Santa Inquisizione – come donne che fossero. Ombra del cattolicesimo – non Innanzi tutto perché il Corano è stato altro che un eccellente, allude esplicitamente ad una anscellerato esempio di tale doppia droginia originaria che si sarebbe natura, e la sua fine solo un fenosolo in seguito divisa generando meno storico. Dietro le quinte del FORUM - GIUGNO/10 via regia per sanare la ferita originaria e guarire gli esseri umani dal trauma derivato da questa innaturale divisione. Si potrebbe perciò sostenere che – almeno fra le tre grandi religioni patriarcali – l’Islam sia stato l’unico ad individuare il carattere metafisico della sessualità umana e a riconoscere lo strapotere esercitato in tal senso dall’essere femminile. Occorreranno secoli prima che l’occidente sfiori, con i suoi più illuminati rappresentanti (Balzac, Goethe, Novalis) tali occulte conoscenze. due creature di sesso diverso, ma aventi pari dignità di fronte a Dio. Secondo, perché non si trova il minimo accenno alla responsabilità della donna nella cacciata dal paradiso che, semmai, viene invece interamente attribuita ad Adamo. Terzo perché, su questo sfondo, l’attrazione affettiva e sessuale – anziché essere colpevolizzata e demonizzata (come ha inteso fare il cattolicesimo) – veniva piuttosto considerata la Di fatto la sessualità, nell’Islam originario, assurgeva così ad atto di devozione, di superamento della coscienza ordinaria e di vera e propria esperienza mistica. Era intesa come un travalicamento del Sé ordinario in grado di far assaporare ai due amanti la quinta essenza della beatitudine divina5. Perciò non dobbiamo stupirci se la società islamica dei primordi fosse una società edonistica che aveva in gran cura la sessualità e, dunque, per una sorta di necessità intrinseca, le arti della seduttività femminile. Se è lecito credere alla scrittrice Salwa Al-Neimi6, la letteratura araba classica pullula di erotismo a cui l’arabo, come lingua parlata, permetterebbe la 5 J. Evola “La metafisica del sesso” Ed. Mediterranee, Roma 1975 85 massima espressione. E la stessa Fatema Mernissi7, nelle sue ricerche, riporta la vivacità delle antiche corti islamiche dove, in un tripudio di arti come la musica, la danza e la poesia, donne di carattere, fiere e parzialmente incontrollabili, giostravano da pari a pari con i loro nobili amanti. Fu, quella, un epoca straordinaria durante la quale sensualità e ricerca interiore coincidevano. Un’epoca durante la quale lo stesso uso del velo era relativo: prima di tutto perché, contrariamente a quanto si crede, esso era già consueto in tutte le precedenti civiltà mediterranee (basta confrontare i reperti archeologici per accorgersi che già erano velate le nobildonne greche e persino quelle romane). In secondo luogo perché il suo uso era consequenziale a quella sottilissima sensibilità (oggi andata perduta) che permetteva agli uomini di un tempo di “percepire” il destarsi di una speciale energia, o “fluido” immateriale, anche al semplice accostarsi dei due sessi. Era sulla base di questa conoscenza occulta dell’Eros che veniva perciò vietata anche la semplice frequentazione a distanza dell’uomo e della donna: per evitare che “la forza” si destasse anche in assenza di quelle condizioni ottimali che avrebbero permesso la 6 Salwa Al-Neimi “La prova del miele” 7 Fatema Mernissi “L’Harem e l’occidente” Ed. Giunti, Firenze 2000 Ed. Feltrinelli, Milano 2008 PSICHE 86 funzione di trascendimento dell’io ordinario. In un qualche modo si intuiva che il sesso poteva assurgere indifferentemente ad una funzione sacra o invece profana. In terzo e ultimo luogo, infine, perché l’uso del velo, lungi dalla rigidità pudibonda che ha assunto ai nostri giorni, spesso assumeva i connotati del gioco seduttivo: con la trasparenza che nasconde ma lascia intravedere; con le forme leggere e volatili, che ricoprono ma anche alludono; con la seta che limita lo sguardo, ma anche sottolinea ed amplifica ciò che resta visibile: lo splendore della fronte, la linea del naso, il bagliore fulgido dell’occhio. Quei tempi sono andati perduti, ma resta il fatto che se il velo, oggi, può ancora essere considerato il simbolo esteriorizzato della “promessa e della assunzione di fede” di una giovane musulmana, il burka rappresenta invece la sua perversione. Uno strumento di tortura aberrante, degenerato, che solo il degrado dell’intelligenza, l’ignoranza e la stupidità hanno reso comune, perfino nei paesi più tolleranti come l’Egitto, il Marocco o la stessa Turchia. “La società islamica – scrive a tale proposito A. Meddeb8 – è passata da una tradizione edonistica, fondata sull’amore per la vita, a una realtà pudibonda piena di odio 8 Abdelwahab Meddeb, Ibidem verso la sensualità. La pruderie è diventata criterio di rispettabilità. ...La città organizza i suoi scenari per privare il corpo dei suoi diritti … Le strade, noiose nelle loro nuove costruzioni, irrispettose e negligenti rispetto alla favolosa memoria architettonica, diventano ancora più brutte quando sono attraversate da corpi balordi incuranti di sé; l’estetica venne meno quando fu abolita la seduzione nel rapporto tra i sessi. La cura della bellezza, come l’arte di metterla in valore, sono a loro volta scomparse.» Se l’integralismo è la malattia dell’Islam – continua l’autore la sua origine va rintracciata nel risentimento e nel fanatismo di tutti quei semiletterati che se ne sono fatti portavoce. Va ricercata nella fondazione del Wahhabismo, il movimento fondamentalista che, nell’attuale Arabia Saudita, ha realizzato un mostruoso connubio con l’americanizzazione dell’economia e della società. L’analisi di Meddeb è puntuale ed esaustiva da un punto di vista sociologico. Ma, come ho già apertamente dichiarato, io posseggo una visione psicologica del mondo e della vita; perciò ho voluto di più. Ho cercato di capire attraverso quali dinamiche psicologiche questa grave perversione dello spirito maschile si sia potuta realizzare e scaricare poi sul femminile. Ho letto. Ho studiato. Ho raffrontato… e, alla fine, credo di essere riuscito a comprendere. FORUM - GIUGNO/10 La costruzione delle identità di genere La costruzione dell’identità maschile e femminile nell’Islam poggia su due coppie di attributi: Il Namus e il Qeirat per l’uomo – traducibili grosso modo come il Desiderio Sessuale e l’Onore. Lo Hojb e l’Haya per la donna – traducibili, sempre grosso modo, come il Pudore e la Vergogna. Il Namus, nell’uomo musulmano, rappresenta dunque la corrente del desiderio sessuale che come tale è si sacra ma, nello stesso tempo, impura. Perciò è un tabù (vedremo presto perché) represso nel profondo di ogni moderno musulmano. Esso simboleggia l’interno, perciò deve essere protetto, nascosto, e restare al riparo dagli sguardi di tutti gli altri uomini. Per garanti ha la madre, la sorella, la moglie, la figlia… in pratica il corpo femminile. “Il velo è un riparo per il Namus – ci dice la scrittrice iraniana Chahdortt Djavann9 - per l’onore dell’uomo musulmano, e crea in quest’ultimo una dipendenza psichica; perché l’essenza dell’identità dell’uomo musulmano si radica sotto il velo femminile.» Il Qeirat simboleggia invece lo zelo, la determinazione, la capa9 Chahdortt Djavann “Giù i veli” Ed.Lindau Torino 2004 cità dell’uomo musulmano di preservare il proprio onore sessuale che ha come oggetto il corpo femminile. L’Hojb e l’Haya, il pudore e la vergogna della donna, oltre a fondare la sua propria identità, sono in sovrappiù i garanti dell’onore e dello zelo dell’uomo musulmano perché, come si è visto, la stessa identità maschile poggia su tali elementi. Prego ora i miei lettori di seguirmi molto attentamente in un passaggio delicato. Da un certo punto di vista possiamo considerare infatti straordinaria la percezione sottile con cui il pensiero orientale coglie il nesso metafisico tra il desiderio sessuale nell’uomo e l’immagine femminile. In occidente, una sorta di grossolanità psicologica individua nel maschio il portatore della sessualità e nella donna la portatrice dell’affettività. Ma le cose, almeno io credo, non stanno così. Nel senso che se anche è vero che nel corpo maschile giace una potenziale carica sessuale, essa si innesca nel preciso momento in cui l’immagine femminile l’attiva. È la donna, con la bellezza archetipale del suo corpo, con la grazia, il fascino e la morbidezza delle sue forme e dei suoi movimenti che accende la corrente del desiderio maschile. Più di quanto non accada al contrario. 87 Confessiamolo: chi di noi, maschietti, alla vista di una bella donna non viene sempre sopraffatto da un languore doloroso, da un impulso esplosivo, da uno spasmo lancinante del desiderio che, magari anche solo per un breve istante, ci lascia come storditi e tramortiti? Chi di noi negherebbe che, se soltanto potessimo, faremmo l’amore, subito, con tutte le donne che, anche inconsapevolmente, accendono tale desiderio? In pratica quasi con tutte quelle che incontriamo? Solo che abbiamo educato tale impulso. Indipendentemente dal fatto di riconoscerne o meno la natura metafisica, abbiamo imparato a trattenerlo, rimandarlo, sublimarlo (direbbe Freud) e a liberarlo poi nel gioco, nel corteggiamento, nel rapporto d’amore occasionale o, meglio ancora, in quello amoroso e, dunque, significativo. Nonostante 2000 anni di repressione e terrorismo cattolico, si può dire che la maggior parte degli uomini occidentali abbia davvero educato e raffinato la propria pulsione avvicinandola alla sacralità dell’eros. L’uomo musulmano, al contrario, pur avendo colto l’essenza ultima di questa dinamica, in un certo senso ci si è perso, rinchiudendosi nella rigidità della peggiore repressione. PSICHE 88 insicuri che, paradossalmente, scaricheranno poi le loro patologie appunto sulle donne, in una dinamis circolare di cui – come ho già detto - sarebbe vano oramai cercare l’origine o la fine. Perché? Come è potuto accadere? La descrizione della caduta in questa perversione collettiva è semplicissima e complessa nello stesso tempo perché, come si vedrà, si tratta di un fenomeno circolare del quale, come tale, sarebbe stolto mettersi a cercare un punto di inizio. Mi si voglia pertanto perdonare l’arbitrarietà della scelta e si immagini, una volta afferrato il quadro di insieme, come tutto questo possa essersi determinato gradualmente, a mano a mano che la società islamica andava perdendo quella supremazia culturale, scientifica ed artistica che per molti secoli l’aveva caratterizzata. Ciò nonostante, e anche se con una certa approssimazione, si potrebbe asserire che il processo si sia innescato nel momento storico in cui la società islamica cominciò a regredire dai fasti che aveva raggiunto, e il peggioramento delle condizioni economiche, culturali e religiose, come per una sorta di osmosi naturale, finì per traslare dagli uomini alle donne. Donne che, soggette ad un dominio sempre più forte da parte di uomini sempre più frustrati, ignoranti e inconcludenti, si indebolirono, favorendo cosi l’esercizio della tutela su se stesse10. Magari nel nome di una religione che nessuno era più in grado di ben interpretare, esse accettarono tacitamente di essere sempre più rinchiuse all’interno della casa, sorvegliate e protette, limitate nella propria libertà. Poi però, come per una sorta di perversa, inconscia compensazione, finirono per proiettare sui figli maschi la propria mancata realizzazione personale. Allevandoli come Principi Ereditari a cui qualunque capriccio sarebbe stato concesso. Crescendoli come despoti presuntuosi ed arroganti a cui qualunque donna, in futuro, si sarebbe dovuta sottomettere11. Inizierò dunque riportando una affermazione lapidaria di Qassim Amin citata nel suo celeberrimo libro - Tahrir al-mar’a - pubblicato nel lontano 1899. Affermazione che io oggi, come psicanalista, pur con certe attenuanti e limitazioni, mi sento però di confermare: Anche se da noi, in occidente, il fenomeno si presenta sotto forme molto più attenuate, tuttavia è ben conosciuto: madri non realizzate come donne, mancanti di una propria autonoma personalità, che allevano i propri figli maschi confermando la loro alterigia, la loro supremazia, la loro naturale arro“L’uomo adulto, altro non è che ciò che la madre ganza maschile. Donne i cui figli maschi rimarranno eterni bambini, viziati, capricciosi, presuntuosi, ne ha fatto nell’infanzia.» sfrontati, violenti… e sessualmente repressi. Prendendo tale asserzione alla lettera, sarebbero dunque proprio le donne musulmane, in quanto 10 Leila Ahmed “Oltre il velo” La nuova Italia, Firenze 1995 madri, a fare dei loro figli quegli uomini repressi e 11 Rita El Khayat “La donna nel mondo arabo” Ed. Jaca Book, Milano 1983 FORUM - GIUGNO/10 La madre con il velo “La madre con il velo. – intuisce la scrittrice C. Djavann12 – Il velo che ha l’odore della madre. La madre vietata. Il velo che la madre porta su di sé. Il velo che ha l’odore del peccato, l’odore della madre vietata. La madre oggetto del desiderio, il desiderio colpevole, represso dalle leggi ancestrali. … La forza viscerale del legame madre-figlio, questo legame di cui il velo materno è stato il tramite durante la prima infanzia e che proietta la sua ombra (l’ombra del proibito, dell’incesto e del desiderio) sulla donna agognata. Il velo che nasconde la donna è tanto detestato quanto desiderato dall’uomo musulmano. ... La pressione dei divieti non rafforza la pulsione dello sguardo? Il velo ricorda uno dei divieti principali dell’Islam, il corpo femminile. Ciò che si nasconde agli sguardi non fa che attizzare gli sguardi. … Impossibile ignorare gli sguardi insistenti, importuni, degli uomini nei paesi musulmani. Lo sguardo lascivo, lo sguardo illecito, lo sguardo in agguato, lo sguardo che penetra il velo. E le ragazze rimproverate, perché, malgrado il loro velo, il loro corpo coperto, hanno attirato gli sguardi illeciti. Il timore dello sguardo e dei pericoli che nasconde è inculcato dalle madri alle figlie. Dallo loro più tenera età, le ragazzine interiorizzano l’idea che la loro esistenza è una minaccia per il ragazzo e per l’uomo; che, alla vista di un pezzo della loro pelle o della loro chioma, questi ultimi possono perdere ogni controllo di sé. Le madri, negli ambienti più tradizionali, continuano a riprodurre gli stessi dogmi trasmessi di generazione in generazione.» Ho voluto riportare questo brano della scrittrice iraniana quasi per intero, perché ritengo 12 Chahdortt Djavann, Ibidem che contenga una delle sintesi più lucide della perversa spirale psico-dinamica in cui l’Islam è caduto, oramai da moltissimo tempo. Manca solo più un elemento, della cui assenza però la scrittrice non è certo imputabile, non essendo in definitiva una addetta ai lavori. Quello che manca è di ravvisare in questa dinamica anche la radice ultima di quella drammatica spaccatura psichica, tipica dell’uomo, per cui se da una parte c’è la Madre, come immagine del Femminile casto, puro e virginale, dall’altra ci sono tutte le altre Donne, ma come immagine del Femminile lascivo, impuro e peccaminoso. Il Femminile Originario, compagno di piacere e di resurrezione mistica, si scinde così, anche per l’uomo musulmano, nella Madre Vergine Santa e nella Grande Prostituta, né più né meno come per il cattolico, tradizionale o moderno che sia. Per questo negli stati islamici gli sguardi sono illeciti, lascivi, in agguato: perché l’impulso non è stato educato bensì represso. E la 89 psiche 90 sua forza, immensa, permane nell’inconscio e si dirige verso tutte “quelle puttane” che osano risvegliarlo, adularlo e tormentarlo senza tuttavia esaudirlo. Per questo non è raro che in alcuni tra i paesi islamici più intransigenti, in caso di violenza e stupro di giovani donne, siano poi le vittime ad essere punite con la lapidazione mentre gli aggressori se la possano sempre cavare con qualche “bacchettata” sulle mani. Raramente ho trattato nel mio studio casi di così grave repressione e frustrazione sessuale quanto quella di cui fanno invece bella mostra buona parte dei maomettani, ancorché moderni e liberali, e di cui i Talebani afgani – per assurdo - rappresentano solo l’espressione più coerente. L’altra, quella più in mala fede e vergognosa, è rappresentata dal comportamento consueto degli sceicchi sauditi o dai rampolli delle famiglie saudite più abbienti: in Arabia, infatti, le donne vivono sepolte in casa ad allevare figli, senza avere nemmeno il permesso di uscire se non accompagnate da un uomo. Ma da Parigi giungono continuamente voli diretti, pieni di prostitute di “altissimo bordo”, il cui compito è quello di sollazzare e soddisfare i desideri insaziabili di questi fedeli fanatici13. Come si può credere o sperare che chissà quali alti dirigenti musulmani potranno mai sconfessare (nel senso letterale della parola) la turpe incoerenza dei maggiori rappresentanti 13 Jean P. Sasson “Dietro il velo” Ed.Sperling & K., Milano 2004 - Carmen Bin Laden “Il velo strappato” Ed. Piemme Milano 2004 del popolo nella cui anima Allah scelse di rivelarsi e sul cui territorio, alla Mecca, scelse di edificare la propria dimora? Sarebbe come se qualcuno, da noi, trovasse il coraggio di denunciare l’omosessualità e la pedofilia che imperversano nei corridoi della Santa Sede della Santa Romana Chiesa Cattolica ed Apostolica. **** Alcuni giorni fa, mentre scrivevo questo capitolo, ho seguito un impulso: ho acceso Internet, tra i miei “Preferiti” ho cercato “candy camera sexy” e ci ho cliccato sopra. Sono comparse più serie di filmati ripresi di nascosto in cui giovani ed attraenti modelle, dopo aver “adescato” un uomo in una situazione qualsiasi, magari per far partire un motorino ingolfato, all’improvviso, come per un incidente, si ritrovano a perdere la camicetta o la gonna e a rimanere a seno scoperto o in mutandine. Bene! Un esame attento, al rallentatore, della gestualità e della mimica facciale degli uomini che ci cascano, rivela prima lo stupore, poi subito dopo l’imbarazzo e lo spasmo atroce di quel desiderio di cui prima ho parlato. FORUM - GIUGNO/10 iuscola, e hanno imparato perciò a controllare i loro impulsi. In un qualunque paese musulmano nessun filmato del genere potrebbe mai essere girato: l’attrice sarebbe come minimo violentata e subito dopo - perché no? - lapidata per aver osato turbare la falsa morale di tutti quei bambini fanatici, arroganti, ipocriti e presuntuosi che lo abitano. L’incanto del “nudo di donna” per un nanosecondo prende il sopravvento e sconquassa. Poi ancora, quasi sempre, arriva la risata liberatoria attraverso la quale, inconsciamente, si scarica il surplus energetico prodotto. Adoro guardare questi filmati. Quello che mi commuove, davvero, sono gli uomini. Dalle statistiche risulta che non sono quasi mai occorse violenze di alcun tipo contro le giovani attrici. Proprio perché la maggior parte degli uomini occidentali, almeno da questo punto di vista, sono uomini, con la U ma- Mi sono chiesto a lungo se fosse legittimo, da parte mia, diagnosticare una simile “patologia culturale”. Mi sono chiesto se non stessi commettendo lo stesso identico errore di quanti si permettono di giudicare determinati usi o costumi di altre culture usando i parametri validi solo nella propria. Ma alla fine mi sono assolto. Non solo perché mi sono sforzato di “ripensare” pensieri che già esponenti alla stessa cultura islamica avevano pensato. Ma, soprattutto, perché credo che nessun elemento - sia esso culturale, politico, economico o religioso - possa ancora giustificare il sopruso dell’uomo sull’uomo. E, ancora, perché sono convinto che le dinamiche archetipiche – se attentamente separate dalla loro componente storica - abbiano un valore collettivo universale. Mi permetto perciò di sostenere che l’onore di una persona, chiunque essa sia, riposi nella dignità del proprio vissuto e non può essere proiettato o attribuito ad altri che se ne facciano garanti. L’onore di un uomo dipende dalla sua stessa rettitudine, dalla sua stessa moralità e dalla sua stessa integrità interiore. Dipende dal coraggio con cui affronta le difficoltà della vita, dall’onestà che caratterizza le sue scelte e dalla autenticità con cui vive. Se anche una donna della sua famiglia si comportasse come una poco di buono, se – addirittura – decidesse di prostituirsi, essa denuncerebbe la propria 91 psiche 92 immoralità, la propria scelleratezza che, tuttavia, nulla toglierebbero alla moralità del padre, del fratello, del marito o del figlio. Che avrebbero ragione di addolorarsi per il comportamento della donna, ma non di ritenersene disonorati. So bene quanto radicato possa essere questo falso convincimento, le cui radici ancestrali inquinano tutte le religioni monoteiste patriarcali (e non solo l’Islam). Qualche traccia di tale fantasma si può rinvenire anche nella nostra tanto decantata società civile, come testimonianza del maschilismo patriarcale di cui ancora è impregnata. Ciò nonostante tale convincimento va denunciato ed estirpato dall’animo umano perché espressione di una indifferen- ziazione psicologica che contraddice la distinzione sacra tra individuo ed individuo. Va condannato per quello che è nella sua ultima essenza: la negazione della Alterità e della Libertà, che su questa si fonda. Così come vanno smascherate la paura, l’inquietudine e il dubbio che tormentano tutti quegli uomini che sentono la necessità di controllare, limitare e segregare la propria donna, rivelandone la radice unica: che non è altro se non una inconfessata e inconfessabile, vergognosa insicurezza di sé. Tuttavia, dietro il comportamento paradossale di molti maomettani - sessuofobico da una parte e maniacale dall’altro – si nasconde ben altro. Perché la repressione dell’impulso sessuale, come antitesi alla sua educazione, genera solo patologie nell’essere umano qualunque sia la sua estrazione culturale o la religione alla quale appartiene. Si possono studiare le dinamiche che le producono e parzialmente giustificarle: ma come tali non possono essere avallate, né più né meno di come la comprensione delle ferite psichiche subite dai pedofili durante il proprio sviluppo non possa per questo avallare la loro successiva violenza sui minori. E poi ancora: la schiavitù, di qualunque tipo, è un sopruso che come tale va condannato. L’amore è un dono. Sempre! Ci piaccia o meno… l’amore è un dono! L’amore è un regalo gratuito che qualcun altro ci fa in piena autonomia emotiva. FORUM - GIUGNO/10 Occorre meritarlo. Non può essere preteso con la forza, ne tanto meno difeso togliendo all’altro la propria libertà. Pena la perdita di ciò che fa dell’amore appunto l’amore. E solo la libera reciprocità amorosa, quale che sia la sua natura, giustifica l’accoppiamento dell’uomo e della donna. Nel passato come nel presente. Tutto il resto sarà sempre e soltanto stupro… o comunque violenza. Sono molto addolorato di dover scrivere queste cose, e non ne faccio una colpa specifica a nessuno. Ho viaggiato per 15 anni nel Nord Africa e nel Medio Oriente, e ho conosciuto musulmani con cui ho avuto scambi davvero toccanti. Con alcuni di loro, parlare di fede, è stata una esperienza umana inten- sa, profonda e commovente. Eppure, spesso, anche se non sempre, dentro di me c’era una attenzione angosciosa, una sorta di vigilanza latente, perché, se ero con la mia donna, non sapevo mai cosa sarebbe potuto accadere se un lembo della sua pelle si fosse improvvisamente scoperto. Scrivo con dolore queste parole, e in più con la consapevolezza che nel mio mondo, forse a causa di una violenta reazione al violento condizionamento delle coscienze operato dalla chiesa cattolica, i problemi tra uomini e donne sono speculari ed opposti a quelli presenti nell’Islam. Perdita di qualunque pudore, prostituzione facile in cambio di fama e notorietà, sesso superficiale come espressione narcisistica di potere o di affermazione di sé. Bisogna ammetterlo: anche noi occidentali non stiamo poi tanto bene. Un segreto si cela nella potenza dell’amore sessuale umano e, forse per paura di questo mistero, tutti ne fuggono: nella repressione alcuni e nella sua banalizzazione altri. Ma certo è che se nessuno, fin’ora, sembrerebbe aver realizzato quel giusto atteggiamento interiore che permetterebbe a uomini e donne di vivere l’amore sessuale come una autentica esperienza di reintegrazione spirituale, il cammino che separa oggi il mondo islamico da questo ipotetico traguardo sarà ben più lungo e tormentato del nostro. 93 LINGUAGGIO 94 Quante volte abusiamo di modi di dire di cui ignoriamo completamente le origini? Riflettiamoci un po’... gine colta della parola, è quella con una sola b (latino obiectum. Pertanto, anche “obiettare”). Lo stesso dicasi per qual è; qual era che i sostenitori dell’elisione scrivono con l’apostrofo. Parole, parole, parole... di Lorenzo Paolini Il mio precedente articolo sui modi di dire sembra aver avuto un certo successo, perché sono stata subissato di richieste: ecco la prima: “Per un punto Martin perse la cappa...» una frase celebre che si presta a molte interpretazioni. Ho indagato e qualcuno si è anche avventurato a scomodare Martin Lutero che, come tutti sanno, affisse sulla porta della cattedrale di Wittemberg le sue celebri tesi in 95 “punti”. Ma il padre della Riforma perse la cappa certamente per tutti i punti, non per uno solo. E allora? E allora la frase si riferisce ad un certo monaco Martino che non fu nominato priore dal Papa (e perse la cappa, cioè il mantello con cappuccio indossato dai priori) per lo scandalo creato dal suo sbaglio nel mettere un punto: doveva infatti far incidere sulla porta del convento questa frase: “porta patens esto, nulli claudatur honesto”. Cioè: “la porta aperta sia; a nessuna persona onesta si chiuda”. Nel trascriverla, mise per errore un punto dopo “nulli”: “porta patens est nulli. Claudatur hone- Ma torniamo a Martino e ricordiamo che un analogo gioco verbale fu celebre nell’antichità in relazione ai responsi della Sibilla: “Ibis, redibis, non morieris in bello” (partirai tornerai, non morirai in guerra). Spostando la virgola dopo “non” la profezia esprime esattamente il suo contrario ed il responso è tutt’altro che OK. sto”, cioè: “la porta aperta sia a nessuno. Si chiuda in faccia alla persona onesta”. Oggi questa espressione è diventata proverbiale e si usa a proposito di chi stava per raggiungere quello che desiderava e, a causa di un piccolo errore (che tuttavia produce gravi conseguenze), ha perso l’occasione di raggiungere il suo obiettivo. A proposito, molti scrivono tale lemma con due “b”: obbiettivo. Ebbene, anche se è brutto, debbo ammettere che è corretto. Tuttavia la forma più “elegante”, e più vicina all’ori- OK?! Sembra sia il lemma più usato nel mondo, ma il suo acronimo è oscuro... Qual’è (o qual è) la sua origine? Ci sono molte teorie ma la più accreditata è la seguente: durante la Guerra di secessione americana, nei bollettini dal fronte, sarebbe stata usata l’abbreviazione 0K, cioè “zero (che si può anche pronunciare “O”) killed”, “zero uccisi”. Una buona notizia, dunque, che ha dato origine al termine. Veniamo ora alle richieste dei lettori: il detto “Non c’è trippa per gatti” da dove viene? Lo ha spiegato di recente Walter Veltroni: “Fu Ernesto Nathan, leggendario sindaco di Roma nel 1907, ad annunciare così i primi tagli di bi- FORUM - GIUGNO/10 95 sommo sacerdote prendeva due capri: il primo veniva sgozzato e il sacerdote lo caricava, simbolicamente, di tutti i peccati suoi e del popolo; l’altro veniva mandato via perché si disperdesse nel deserto e non tornasse mai più. Il primo si chiamava capro espiatorio, il secondo capro emissario. Come si vede fin da molto tempo prima dell’invenzione della confessione l’umanità aveva escogitato sagaci espedienti per mettersi in pace con la propria coscienza! lancio, quando, alle prese con la necessità di risparmiare, cancellò con un tratto di penna la somma che il Comune stanziava per sfamare i felini che albergavano tra i ruderi di Largo Argentina”. A proposito di Largo Argentina, sapete perché se qualcuno non paga il biglietto “fa il portoghese”? Perché nel secolo XVIII l’ambasciata del Portogallo a Roma, per festeggiare un avvenimento, aveva indetto una recita al teatro Argentina per la quale non erano stati distribuiti i biglietti d’invito; per entrare bastava presentarsi come “portoghesi”. E perché se la cameriera che va a farci la spesa intasca il resto “fa la cresta”? Perché anticamente si chiamava agresto un condimento asprigno che si ricavava dall’uva poco matura che, quando era colta dai contadini per far l’agresto, dava luogo anche alla “distrazione” di un po’di uva buona che avrebbero invece dovuto portare al padrone; e si diceva far l’agresto per indicare questa piccola ruberia. In seguito, far l’agresto è diventato far la cresta. Infine mi è stato chiesto da cosa deriva la locuzione “far da capro espiatorio” per indicare una persona a cui si addossano tutte le colpe, anche quelle non sue. Gli Ebrei avevano anticamente una strana usanza (ma molto pratica ed utile!). Mosè aveva ordinato che ogni anno si celebrasse l’espiazione dei peccati. Nel giorno designato, il E a proposito di ovini e sacrifici sapete da cosa deriva la “standing ovation” con cui acclamiamo i nostri idoli? Dalla romanissima “Ovatio”, ovazione, una forma minore di trionfo, nella quale il condottiero vincitore veniva onorato col sacrificio di molte pecore! ARTE 96 Caravaggio: erotismo e passione la bella Fillide Melandroni, mentre l’anno prima era stato costretto a fuggire da Roma per aver ferito di spada un notaio che aveva mancato di rispetto alla sua amante Lena. in mostra a Roma alle scuderie del Quirinale Tuttavia non possiamo non notare che in tutte le opere giovanili (Caravaggio si trasferì a Roma dalla Lombardia a soli vent’anni) l’intenso erotismo che le pervade è riservato esclusivamente a giovani maschi efebici. di Gabriella Pesa Michelangelo Merisi fu uomo di intense passioni. Erotismo e violenza, collera e passione caratterizzarono la sua infelice vita, sempre sospesa fra le critiche dei benpensanti che non riconoscevano la sua arte e quelle degli invidiosi che non arrivavano al suo genio. La sua modesta nascita gli impedì di divenire il gentiluomo cui aspirava, il suo carattere lo portò alla rovina. Ma fu comunque il più grande del suo tempo. Veder riunite un così cospicuo numero di opere del Caravaggio è occasione da non perdere per chi, affascinato dalle sue luci, ha sempre inseguito - da Malta a Londra - l’estasi dell’incontro dal vivo col suo genio. mai versati fiumi di ... caratteri digitali, che vorrei parlare, quanto dell’intenso erotismo che traspare dalla maggior parte delle tele esposte. Un erotismo talmente indipendente dal sesso dei modelli da farci, anLa mostra in corso alle cora una volta, porre la Scuderie del Quirinale è domanda sulle tendenze dunque appagante e l’im- sessuali dell’autore. pianto espositivo (contraChe gli piacessero le donriamente a quanto accade ne è cosa indubbia: nel in altre aree espositive 1606 uccise in una rissa romane) del tutto dignitoRanuccio Tommasoni cui so. Ma non è della mostra, contendeva le grazie delsulla quale sono stati or- Malgrado il perbenismo di una certa critica che tendeva ad escludere l’ambiguità sessuale del Caravaggio1, difficilmente oggi se ne può prescindere. Al punto che, oltre al parere positivo di Bernard Berenson, anche un esegeta autorevole come Sgarbi, tutt’altro che bacchettone, ebbe a dichiarare nel 2001: 1 “In realtà la presunta omosessualità del Caravaggio, utile ad aggiungere un tocco al quadro del suo maledettismo, è probabilmente solo un abbaglio; e questo discende soprattutto da una discutibile interpretazione di alcuni quadri del primo periodo romano, che presentano figure effeminate o ritenute provocanti” (Maurizio Calvesi, Caravaggio, Art & dossier, aprile 1986, p. 14). FORUM - GIUGNO/10 «Caravaggio sopporta ogni tipo di lettura. (...) [anche] quella omosessuale: non m’importa conoscere la vita privata di Caravaggio (...) però mi colpisce la sua ambiguità. Mi colpiscono quei giovani modelli, i suoi Bacco e i suoi Giovanni Battista, allusivi e lascivi come i ragazzi fotografati da von Gloeden. Una omosessualità intinta di cattolicesimo, come quella di Pasolini e di Testori e di altri maledetti nostri contemporanei quali Fassbinder e Genet”. Vedo quindi di essere in buona compagnia nell’aver provato le sensazioni che mi hanno spinto a scrivere queste note! Debbo comunque osservare che la tendenza prevalentemente omosessuale si manifesta nel Caravaggio soprattutto nel primo periodo della giovinezza, quando la povertà e la precarietà di una vita di espedienti non gli consentirono esperienze femminili, se non con prostitute di basso rango. Non si può omettere di considerare che nell’ambiente artistico alternativo che Caravaggio iniziò a frequentare agli inizi del suo soggiorno romano, una moderata bisessualità facesse “tendenza” e che praticare una certa omosessualità rappresentasse una rottura degli schemi consolidati nel popolino della Roma papale. Quando a Roma Michelangelò avrà trovato, se non la tranquillità, quantomeno una certa copertura economica ed il riconoscimento del suo valore artistico, la sua natura prepotentemente erotica esploderà con amanti femminili di ogni natura e rango. Tuttavia le sue pulsioni verso i ragazzi non scompariranno mai del tutto. Anzi ritengo non sia azzardato ipotizzare che furono proprie le sue opere intensamente proiettate verso l’erotismo maschile ad affascinare il Cardinale Francesco Maria Del Monte, spingendolo a prendere il pittore sotto la sua protezione e nella sua casa. Nulla ci autorizza ad affermare che qualcosa ci fu fra il il pittore e il Cardinale2 ma è molto probabile che il comune sentire ed il contenuto delle opere 2 Di cui un contemporaneo, Theodorus Amayden (1586-1656) scrisse: “Era dotato di una singolare dolcezza di costumi, e si dilettava della frequentazione di giovanetti, non tanto, credo, per motivi illeciti, quanto per naturale affabilità. O forse è palese che si può concludere che prima dell’elezione di Urbano al soglio papale scaltramente celasse tutto ciò, per non dare nessun appiglio ai suoi oppositori, ma dopo l’elezione di Urbano, sciolto ormai dal freno della speranza di essere eletto papa, assecondava apertamente il suo gusto: già vecchio e quasi privo della vista, più simile ad un tronco d’albero che ad un uomo, e di conseguenza non più in grado di cedere alle tentazioni, ciononostante un giovincello fu da lui reso ricco. 97 ARTE 98 dovettero indirizzare quest’ultimo ad interessarsi del suo futuro protetto. Ma chi furono dunque questi ragazzi, questi modelli, che Caravaggio immortalò in tante sue opere? Il primo era un aspirante pittore siciliano e si chiamava Mario Minniti, più giovane di lui di sei anni, che nel 1593, a 16 anni posa per lui nel “Il fanciullo con canestro di frutta”, ma che riconosciamo anche ne “I Bari” (a destra in alto), nella “Buona ventura” (a destra in centro), nel “Concerto”, nel “Suonatore di liuto” (a destra in basso), nel “Ragazzo morso da un ramarro”, nella “Vocazione di san Matteo” e nel “Martirio di San Matteo”. Con lui il Caravaggio ebbe una sorta di relazione che durò fino al 1600, una relazione basata sulla sconfinata ammirazione del Minniti che, pur mancando del talento del suo Maestro, ne venne profondamente influenzato specie in relazione al realismo con cui Caravaggio intendeva descrivere la natura. Immagino le infinite discussioni, inframmezzate da momenti di passione, sul verismo di quella frutta, che doveva per Michelangelo includere addirittura i vermi e le foglie marcite! Fu una relazione ambivalente, perché nel frattempo il Caravaggio aveva iniziato a corteggiare Lena, mentre il Minniti intendeva sposarsi e se ne andò da Roma, pur conservando intatti la sua amicizia e la sua ammirazione: che Caravaggio ritroverà inalterate otto anni dopo quando, malato ed in fuga da Malta, l’amico gli offrirà riparo a Siracusa ed addirittura una commessa: “il seppellimento di Santa Caterina”. Ma Michelangelo non si limitò alla storia con il Minniti ed alla relazione con Lena: la sua natura impetuosa aveva bisogno di esplodere continuamente in una serie di “ambigui” rapporti con garzoni e modelli. Il quadro in basso nella pagina precedente, il San Giovannino Battista del 1602 è la prova della passione, a dir poco pedofila, suscitata in lui da Cecco, che FORUM - GIUGNO/10 ritrasse nudo in una posa che nulla aveva a che fare con il personaggio del Battista, ma che esaltava la voglia di provocazione del Maestro ed appagava il suo erotismo. Già lo aveva ritratto nell’angelo che sorreggeva Cristo nella prima versione della Conversione di Saulo (a destra in alto), dopodiché lo esibì in una posa a dir poco imbarazzante nell’“Amor vincit omnia” che appare nell’immagine a fianco del titolo di questo articolo. Cecco era il garzone di bottega di Caravaggio, viveva con lui, preparava e mischiava i colori, serviva come modello, apprendeva l’arte e inevitabilmente eccitava i sensi del pittore, da cui tuttavia ricevette in cambio moltissimo, in quanto da adulto acquisì un proprio prestigio come Francesco Boneri: sua è la “Cacciata dei Mercanti dal Tempio”, dipinto in età adulta (qui sotto). Parlare soltanto del suo lato ambiguo sarebbe ingeneroso nei confronti di Michelangelo Merisi, la cui grandezza artistica unita ad una sensibilità straordinaria non possono che valergli come giustificazione di una sessualità altrettanto fuori dagli schemi. 99 ARTE 100 Egli infatti, amò appassionatamente anche le donne e ne fu prova il suo rapporto violento e burrascoso con Lena, alias Maddalena Antonietti, cortigiana romana dalle amicizie altolocate, amante fra gli altri del cardinal Peretti, nipote di Sisto V. Caravaggio la trasforma nella “Madonna dei pellegrini” di Sant’Agostino e nella “Madonna dei Palafrenieri” (particolari in alto a destra nella pag. prec.). Gran frequentatore di taverne ed osterie del Campo Marzio insieme ad altri pittori e perdigiorno, Michelangelo presto dovette incrociare il cammino di altre due prostitute d’altro bordo. Si trattava di due amiche venute a Roma da Siena nel 1593: Anna Bianchini e Fillide Melandroni. La prima, «più presto piccola che grande» e dai «capelli rosci et lunghi» la conobbe in una sera d’aprile del 1597 quando, dopo una lite con altre colleghe, era entrata nell’osteria del Turchetto, suscitando un commento pesante da parte di Michelangelo: «Ecco qua l’Anna dal bel culo!», immediatamente rimbeccato da un «mi sa che il bel culo sei tu ad avercelo!». Probabilmente la frase voleva alludere al noto atteggiamento che Caravaggio aveva con i garzoni e lui la prese male. Volarono schiaffi, scoppiò una zuffa e arrivarono i gendarmi. Tutto questo risulta dai verbali di polizia e la povera Anna molto proba- bilmente finì alla gogna dopo aver subito la frusta. Fatto sta che i due fecero la pace, perché qualche mese dopo Caravaggio la ritrasse nella “Maddalena penitente” (a sinistra) in cui la ragazza appare contrita e dolente, forse per la punizione inflittale. C’è chi sostiene che il vasetto d’unguento ai suoi piedi fosse uno scherzo del pittore per ricordarle le piaghe delle frustate! Quando, pochi mesi dopo, il Cardinal Del Monte espresse il desiderio di avere un quadro che raffigurasse la conversione della Maddalena (qui sotto) da parte della sorella Marta (evidentemente il tema della peccatrice lo affascinava!). Michelangelo ne dovet- FORUM - GIUGNO/10 101 te parlare con Anna, che si presentò alla posa con l’amica Fillide: il pittore ne fu talmente affascinato che spogliò la povera Anna del ruolo della protagonista, relegandola di lato, nell’ombra, e riservando palcoscenico e riflettori all’altra! Fillide Melandroni, tenace, bellissima, arguta, dallo sguardo ironico lo affascinò a tal punto da essere scelta l’anno successivo come modella per la Santa Caterina (a destra), malgrado il decreto papale che vietava di ritrarre le prostitute. Ecco come la descrive Peter Robb nel suo libro “L’enigma di Caravaggio”: “L’elettrizzante duplicità della sua presenza, avvincente come simbolo di giovane donna impavida, seduttiva e sovversiva per se stessa, avviò irreversibilmente l’artista verso quella maniera drammatica che, non meno della sua tecnica di rappresentazione, di cui si è tanto più parlato, ne avrebbe fatto la grandezza di pittore. Una volta dipinta Fillide, Michelangelo non poteva più tornare indietro: né all’indolente sguardo di un Mario amabilmente annoiato, né all’affascinante ma puramente pittorica immobilità di gruppi come il Concerto di giovani, San Francesco in estasi o il Riposo nella fuga in Egitto. (...) Una volta che l’ebbe dipinta, tutto il resto passò in secondo piano: persino i suoi ritratti, persino le nature morte si volsero inesorabilmente in dramma. Fillide era la modella di Michelangelo, ma forse, nel riera probabilmente quella di Michelangelo, che qualche tratto successivo che egli le fece, giocò una parte la anno prima le autorità gli avevano trovato addosso e vita. L’artista era nella folla che aveva accompagnato l’ufficiale addetto alla confisca aveva brevemente deBeatrice Cenci al patibolo. C’era quasi tutta Roma, e scritto nel suo rapporto. quasi tutta Roma s’era appassionatamente identificata Il quadro fu semplicemente il ritratto di giovane donna con l’incantevole e intrepida giovane nobile schiacciata più bello che l’artista mai dipinse, il solo in cui giovidal regime. Nel 1599, l’anno stesso della tragedia Cennezza e bellezza femminili fossero l’unico oggetto d’atci, Michelangelo ritrasse Fillide per Del Monte nella tela tenzione. Fillide era ritratta come santa martire senza più grande e formale che avesse mai dipinto: un’imlabbra socchiuse, seni nudi o raggi di luce celeste. Il suo magine di Santa Caterina di Alessandria, incantevole sguardo franco era più virile di quello di qualunque dei e intrepida giovane nobile schiacciata da un più antiragazzi fino ad allora dipinti da Michelangelo, ma era co regime. Attorno a lei, gli strumenti di un’imminente uno sguardo interrogativo e adombrato da una vulneterribile morte. Nulla di trascendente emanava dall’agrabile e profondamente toccante incertezza”. giunta dell’aureola, dalla palma del martirio o dalla crudele ruota dentata. L’ancora più sinistra e professio- Negli anni successivi Michelangelo continuò la sua nale spada, lunga lama fatta per fendere e penetrare, vita fatta di risse, ubriacature, polemiche e liti giudi- ARTE 102 ziarie fra pittori, dividendo il suo erotismo fra Fillide e Cecco, mentre la Bianchini scomparve dalle sue opere. Ma non per sempre. La ritroviamo, penosamente, nel 1604 nella “Morte della Vergine”, commissionata dalla famiglia Lelmi per decorare la propria cappella gentilizia: Anna era appena stata ritrovata nel Tevere, annegata, con il volto tumefatto e Michelangelo, sempre ossessionato dal verismo, ma stavolta anche sopraffatto dalla pena, volle ritrarla un’ultima volta nel viso della Vergine morta. Naturalmente Roma era piccola anche allora e quando il committente seppe che come modella per la Vergine Michelangelo aveva usato una che tutto era tranne che vergine, rifiutò il quadro senza pagarlo. Ma forse una cortigiana dal carattere e dalle frequentazioni di Fillide era troppo per un pittore dal carattere ribelle e dal temperamento focoso, talmente orgoglioso da considerarsi “qualcuno”, senza comprendere appieno che nel suo tempo essere un grande artista ti guadagnava, sì, la protezione dei potenti, ma sempre con la riserva di una posizione poco più che servile. Caravaggio portava la spada e si atteggiava a gran gentiluomo ed alla fine, nella sera del 28 maggio 1606, avvenne il fattaccio. FORUM - GIUGNO/10 Fillide da sempre aveva un protettore, a capo di una banda di bulli filospagnoli, tal Ranuccio Tommasoni da Terni. Nell’ennesima rissa seguita a discussioni di osteria sulle fazioni pro o contro il Papa Borghese3, ma in realtà a causa della sorda rivalità per Fillide, di cui 3 Paolo V Borghese era stato eletto da meno di un anno con l’appoggio del Re di Spagna succedendo a Leone XI Medici, filofrancese che aveva regnato per soli 17 giorni, essendosi gravemente ammalato poco dopo la proclamazione. Caravaggio era protetto dal Cardinal Del Monte, imparentato con i Borbone di Francia. 103 Michelangelo era il cliente-innamorato, ma l’altro il protettore-padrone, il pittore ferì mortalmente il rivale. Ci fu un processo con un verdetto severissimo: Caravaggio venne condannato alla decapitazione, eseguibile sul posto da chiunque lo avesse riconosciuto. Iniziava il periodo della fuga e delle angosce, facilmente leggibili nei macabri autoritratti nei quali il pittore si raffigurava nella testa mozzata del condannato. SALUTE 104 Una bocca sana... e alla portata di ogni tasca Con l’evoluzione tecnologica nel campo della chirurgia dentaria oggi chiunque può tornare ad avere una bocca sana a costi del tutto ragionevoli, anche se i denti mancanti sono molti. Se poi il paziente necessita di ricostruzione ossea e gengivale (cosa che accade in gran parte dei casi) l’intervento, impianto incluso, è gratuito in quanto a carico del SSN. La riabilitazione del paziente edentulo per mezzo di impianti osteo-integrati è diventata oggi pratica comune, con risultati affidabili a lungo termine. La maggioranza dei pazienti che necessitano di una protesi convenzionale non hanno difetti così ampi e non richiedono interventi chirurgici complessi. Il problema è più articolato per i pazienti edentuli con grave stato di ipotrofia del tessuto osseo delle arcate dentarie mascellari e mandibolari che non è più idoneo a sostenere una protesi convenzionale. In questi pazienti, in virtù delle nuove tecnologie chirurgiche, e possibile praticare la ricostruzione ossea e restituire alle strutture ossee mascellari e mandibolari una nuova struttura idonea a ricevere gli impianti necessari per la riattivazione dei denti. o extra-orali (autologo), di banca o sostitutivo altresì l’inserimento diretto senza ricostruzione di fixture in titanio specifiche, cioè progettate per le zone particolarmente atrofizzate. A tal proposito abbiamo intervistato il responsabile del Day Hospital di Chirurgia Orale e Odontostomatologico della c.d.c Siligato* di Roma convenzionata con il Servizio Sanitario NazionaLe tecniche chirurgiche le, il Dr. Pasquale Frisina hanno lo scopo di ripristi- (nelle foto). nare il giusto volume osseo Cos’è l’implantologia? tramite innesti e ricostruzioni con osso prelevato È una tecnica con cui è dal paziente da sedi intra possibile inserire delle viti FORUM - GIUGNO/10 o più generalmente dei supporti in titanio nell’osso che riproducono una radice artificiale, su cui è possibile confezionare dopo un periodo di tempo variabile di guarigione la protesi fissa. Tutti ne possono usufruire? Assolutamente si. Spesso una cattiva informazione spinge i pazienti a diffidarne, ripiegando sulla classica dentiera, anche per colpa di alcuni dentisti che preferiscono un facile guadagno rispetto al faticoso training formativo a cui ci si deve sottoporre per effettuare un’implantologia, anche se solo di base. Quindi la dentiera può essere considerata un ricordo? La cultura dell’estrazione dei denti aggrediti dalla piorrea è di fatto la causa più frequente di edentuli- Questo dovrebbe essere un dogma nella professione odontoiatrica. Fanno eccezione solo i pazienti gravemente defedati e chi effettua radioterapia. Molto spesso si parla di mancanza d’osso. Cosa smo, quando invece con fare in questi casi? tecniche di rigenerazione La mancanza d’osso può è ormai possibile procraessere risolta con degli stinare la caduta denti e innesti autologhi (dallo in molti casi scongiurare stesso paziente) o con per tutta la vita l’estramateriali sostitutivi d’oszione. so, oppure con tecniche La moderna implantolo- implantologiche specifigia e le nuove tecniche che per le zone atrofiche chirurgiche di rigenera- e cioè con gli impianti zizione ossea ci permetto- gomatici o con gli efficano di riabilitare con una cissimi “impianti a lama” dentatura fissa qualsia- ideati ben 40 anni fa dal si paziente. Le protesi Prof. Lincao e ripensati in mobili dovrebbero esse- chiave moderna dal Prof. re considerate da tutta Pasqualini. la categoria dei dentisti Quali sono i principali vancome obsolete e comuntaggi dell’implantologia? que applicabili solo per La protesi fissa su imbrevi periodi. pianti permette l’integrale ripristino della capacità masticatoria, che torna identica a quella dei denti naturali, a differenza di quanto avviene con una protesi mobile o col classico ponte. Inoltre viene assicurato il mantenimento della struttura ossea 105 delle mascelle. La Sanità Pubblica aiuta i pazienti ad accedere a tali prestazioni? Si. Perché il problema non è solo estetico ma anche funzionale. Il servizio sanitario nazionale ammette il ripristino della struttura ossea. Infatti presso il day surgery della struttura in cui opero in convenzionamento con il S.S.N è possibile effettuare tali interventi in convenzione. C’è rischio di un rigetto? No, perché il titanio è biocompatibile: un eventuale insuccesso è imputabile ad altre cause. Si tratta tuttavia di una ristretta percentuale di casi (limitata al 3%) e comunque tali pazienti possono essere nuovamente operati. Nella nostra esperienza abbiamo potuto constatare che la maggioranza dei nostri pazienti con difetti molto ampi che si erano presentati pensando di ricorrere ad una protesi convenzionale, sono stati tutti suscettibili di intervento chirurgico con risultati affidabili a lungo termine (mb). *Day Hospital 06 98875721, www.clinicasiligato.it COSTUME 106 È nata la filmtherapy ...quando film ci aiutano a stare meglio! di Marina Bartella È stato recentemente presentato per i tipi di Armando Editore il volume “Filmtherapy” di Vincenzo Maria Mastronardi, autorevole criminologo clinico titolare della Cattedra di “Psicopatologia forense” e di Monica Calderaro (foto in basso), docente di Grafologia e Filmografia. Gli Autori hanno monitorato la scelta di oltre 3000 film mirati alla Filmtherapy, nonché di oltre 300 serie televisive, relativamente all’evoluzione sociologicocriminologica dagli anni ’70 ad oggi. Che il cinema ci possa aiutare a stare meglio lo testimonia una ricerca iniziata nel 1989, dalla quale il volume trae ispirazione, sulle ripercussioni emozionali della visione di 1500 film su pazienti in terapia e su un campione di persone comuni, classificati per tematica psicologica a ciascuno dei quali è stata associata la relativa prescrizione terapeutica, incluse le modalità psicologiche con cui approcciarsi al singolo film. Problemi di comunicazione di coppia, stress lavorativo, adolescenza e passaggio nell’età adulta, conflitti familiari, modelli di riferimento e aumento delle proprie sicurezze, disturbi fobicoossessivi sono soltanto alcune delle voci di questa “enciclopedia psicofilmica” rivolta a tutti. Ogni lettore potrà ritrovare argomenti legati alla necessità del nostro vivere quotidiano, non raramente causa di disagi e di perplessità intrapsichiche e interpersonali. Il volume contiene infine una sezione dedicata alla figura dello psichiatra nella storia del cinema. FORUM - GIUGNO/10 Una nuova tecnica chirurgica consente la deambulazione nella stessa giornata dell’intervento posizione le correzioni ottenute senza l’uso di mezzi di sintesi all’interno. Il paziente deambula subito adoperando una particolare scarpa con suola rigida per 4/5 settimane e sottoponendosi a controlli per la sostituzione del bendaggio stesso. Alluce valgo Le frontiere della chirurgia vanno sempre più aprendosi a tecniche che rispettino il paziente e le sue attività relazionali, tra cui notevole è la chirurgia percutanea che consente di aggredire le strutture deformate con piccole incisioni, riportando gli assi nelle giuste direzioni, attraverso strumenti di alta precisione. La tecnica nata negli Stati Uniti e diffusa in Europa grazie all’esperienza praticata in Spagna ha raggiunto anche in Italia una notevole affidabilità. In special modo è ormai il gold standard nell’approccio dell’alluce valgo: un problema di non semplice soluzione, spesso invalidante e doloroso, per il cui trattamento negli ultimi 100 anni sono state presentate molte decine di metodiche. “Grazie ad alcuni stages sulla Mini Invasive Surgery (M.I.S.) frequentati in Spagna a cura del Dott. Eduardo Nieto e della Dott.ssa Leonor Ramirez Andres – ci dice il Dott. Nicola Caccavella* (foto sotto) – nel 2004 ho introdotto presso la Clinica Sanatrix in Napoli tale tecnica per il trattamento delle patologie dell’alluce valgo. I risultati sono stati lusinghieri sia nella clinica sia nel gradimento del paziente con la netta diminuzione della sintomatologia dolorosa e la possibilità di eliminare immobilizzazioni 107 Diminuiscono così le problematiche legate ad infezioni o ai rischi di complicanze vascolari o a intolleranze per l’anestesia generale. all’arto con possibilità di riprendere subito la deambulazione.” L’iter terapeutico è semplificato al massimo: il paziente pratica l’intervento in Day surgery, l’anestesia è con tecnica tronculare o addirittura “locale” e cioè attraverso piccole punture sul piede. ”Una metodologia che ricorda quelle praticate negli studi odontoiatrici da cui – ricorda il Dott. Caccavella - abbiamo preso in prestito anche lo strumentario: motori con alta coppia di forza per triturare l’osso con minimo sforzo e l’utilizzo di piccole frese.” Il risultato è che attraverso piccoli fori si procede all’asportazione della tanto odiata esostosi (bunion) e si praticano osteotomie degli assi ossei deformati secondo particolari inclinazioni. I gesti chirurgici sono controllati con l’ausilio della scopia radiografica per limitare i rischi di imprecisioni. Il piede viene poi fasciato con un particolare bendaggio il cui scopo è quello di mantenere in buona “Non bisogna però dimenticare delle regole generali di buon monitoraggio – conclude il Dott. Caccavella- perchè comunque il paziente si è sottoposto ad un intervento chirurgico: la ripresa delle normali abitudini di vita deve essere graduale, il paziente deve deambulare proprio per evitare gonfiori legati all’immobilità ma senza esagerare proprio nei primi giorni post operatori.Il controllo del medico operatore è indispensabile e solo dopo un mese si permette l’utilizzo di scarpe comode.Inoltre il trattamento è completato da un attento esame dell’appoggio del piede per rieducare l’appoggio plantare. Utilissimi sono inoltre l’attuazione di massaggi linfodrenati per il recupero della buona mobilità delle dita per un eventuale irrigidimento delle strutture capsulari. Da sottolineare infine che la chirurgia del piede, indipendentemente dalle tecniche usate, non può assicurare che non vi siano complicanze o ricadute: comunque proprio per la metodica mini invasiva attuata sarà più facile riprendere un gesto chirurgico di correzione.” (m.b.) *Dott. Nicola Caccavella Responsabile U.F. Ortopedia Clinica Sanatrix- Napoli [email protected] COSTUME 108 Se avete apprezzato Forum e il modo in cui l’avete letta, registratevi per ricevere la nostra newsletter: vi invieremo una mail ogni volta che il nuovo numero sarà on line. Se avete commenti da fare, volete scambiare opinioni con i nostri autori, aprire dei dibattiti con gli altri lettori, ottenere risposte a vostre domande o suggerirci argomenti o modifiche, potrete accedere al forum... di Forum dalla home page del sito, dal menu “dialoghi con gli autori”. www.forum2.it A presto! Il prossimo numero sarà on line ai primi di settembre.