Sarah Chiodi Politecnico di Torino
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Sarah Chiodi Politecnico di Torino [email protected]; [email protected] Teoria Città-campagna: abitare in-comune Abstract Abitare in città o abitare in campagna può identificare tipologie edilizie differenti e insediamenti morfologicamente contraddistinti, ma in senso sociologico la complessità del fenomeno dell’abitare è riconoscibile nell’ampia gamma delle differenze sociali presenti nell’universo urbano e porta con sé valori ed esigenze similari sia che si viva fuori o dentro la città compatta; tra queste emerge un certo “bisogno di comunità”. La questione dunque non è l’abitare in città o in “campagna”, che sembra non presentare connotati poi così chiaramente distinti, ma l’abitare in-comune in un contesto di “comunità sostenibile”. Laddove abitare in una “comunità sostenibile” significa pensare ad un nuovo modo di abitare in riferimento a quel tipo di società che intendiamo realizzare rendendo coerente lo sfruttamento delle risorse (naturali, umane, culturali, ecc.) con i bisogni attuali e futuri delle persone. Distinguere l’insediamento urbano da quello non-urbano, ovvero rurale, è oggi pressoché impossibile, sia da un punto di vista sociale che morfologico. Abitare in città o abitare in campagna non implica modelli distinti e caratterizzanti della facoltà dell’abitare: abitare fuori dai centri urbani compatti non significa abitare secondo un “modello rurale”, ma è un modo di abitare in uno spazio che rappresenta un altro modo di essere della città, che tuttavia non è più campagna. Il modello dell’insediamento urbano è venuto a generalizzarsi a tal punto che «gran parte della popolazione, ormai, vive in contesti che possono essere definiti “urbani” anche se (quanto meno per una parte di essi) non si può sostenere che essi producano una forma tradizionale della città e nemmeno quella che ha caratterizzato il modello della metropoli industriale» (Mela, 2007, p.53). Riconoscere fenomeni sociali non-urbani risulta sempre più difficile, e lo stesso fenomeno dell’abitare, pur come risultante dall’insieme di attività molto differenti e specifiche a seconda delle caratteristiche dell’individuo e del contesto sociale (locale e di appartenenza), manifesta modelli di comportamento, esigenze, aspirazioni, contraddizioni riconducibili ad un “modello urbano”. Dove per “modello urbano” dell’abitare si identifica «una nuova morfologia [sociale] dettata dalle ragioni del consumo e della negoziazione spazio-temporale di occupazioni flessibili» (Martinotti, 1999, p.44). Città e campagna sono sempre meno identificabili univocamente anche dal punto di vista della struttura morfologica. È da tempo evidente un processo di ridimensionamento della campagna (quale spazio a destinazione agricola prevalente) a favore di una nuova espansione urbana diffusa. È il cosiddetto fenomeno dello sprawl1 urbano, che si basa sull’espansione della città frammentata in complessi di abitazioni unifamiliari a bassa densità che si diffondono intorno alla città compatta. Lo sprawl non va inteso solo come sottrazione del suolo agricolo, ma anche come causa dell’allungamento crescente del costo e del tempo dei trasporti (legata sia alla riduzione della funzionalità di tutte le reti e dei servizi pubblici, sia alla necessità di ricorrere al trasporto privato), e come concausa della sottrazione al ciclo biologico di risorse insostituibili per l’equilibrio tra uomo e natura (attraverso l’impermeabilizzazione dei suoli); infine come fenomeno i cui effetti possono influire sull’indebolimento dei legami cui è affidata la coesione sociale (attraverso la distruzione di testimonianze preziose della storia e della cultura della nostra civiltà), oltreché provocare un rilevante danno estetico (si pensi all’aggressione alla bellezza dei paesaggi pesantemente guastati da certa squallida edilizia della “città diffusa”). Questa nuova espansione urbana, pur diffondendosi sul territorio agricolo, tuttavia non comporta un vero e proprio ritorno alla campagna: in realtà si tratta de «la creazione di insediamenti diffusi in cui le strategie di organizzazione della quotidianità si combinano con le esigenze della mobilità e con gli stili di vita domestica per produrre un sistema urbano complesso, assai diverso da quello della città tradizionale» (Martinotti, 1999, p.44). Abitare in città o abitare in campagna dunque può identificare tipologie edilizie differenti e insediamenti morfologicamente contraddistinti, ma in senso sociologico la complessità del fenomeno dell’abitare è riconoscibile nell’ampia gamma delle differenze sociali presenti nell’universo urbano e porta con sé valori ed esigenze similari sia che si viva fuori o dentro la città compatta; tra queste esigenze emerge un apparente “bisogno di comunità”. Questa rinascita dell’idea di comunità si sviluppa in alcune esperienze concrete di progettazione o riqualificazione degli spazi per l’abitare sulla base di una visione ricompositiva e solidale della frammentazione sociale che caratterizza la società contemporanea. (cfr. Magnaghi, 2000, p.108-109). Manca la comunità perché manca la sicurezza - sostiene Bauman (2001) -, manca quella sicurezza “ontologica” che porta oggi gli uomini a vivere in una condizione di “incertezza esistenziale”; molte volte manca la capacità delle istituzioni di far fronte alla domanda dei cittadini, spesso mancano sistemi efficienti ed adeguati di trasporto che favoriscano la mobilità, ovunque vige la frenesia e sembrano disperdersi le identità. A queste tendenze dissolutive che caratterizzano la società contemporanea le pratiche dell’abitare quindi rispondono producendo alcune forme territoriali che alludono in senso compensativo all’immagine della comunità, ma secondo accezioni molto differenti tra loro2. 1 Sprawl letteralmente si traduce “adagiamento disordinato”, ma la sua traduzione più appropriata è quella di “dispersione insediativa”. Esistono numerose varianti lessicali e altre traduzioni del termine (spread city, ville eclatèe, città dispersa, ecc.), ma sostanzialmente con sprawl si identifica il fenomeno della deconcentrazione della popolazione dalla città compatta verso localizzazioni diffuse sul territorio. 2 Si osserva che questi fenomeni territoriali comunitari rispondono per lo più ad un fattore culturale “di scelta” legato a precise pratiche di progettazione e premeditazione, e che dunque non hanno nulla a che vedere con quei processi comunitari spontanei originati da condizioni “di necessità” che non sono mai preceduti da un disegno urbano e/sociale. 2 Alcune sono «originate dal desiderio di singoli, gruppi e famiglie di sperimentare luoghi di condivisione di una socialità altra da quella comunemente condivisa. Queste forme neocomunitarie caratterizzate da un forte ethos di solidarietà, sia nelle relazioni interne, sia in quelle di partecipazione a comunità scelte, contrastano le tendenze dissolutive estremamente pervasive e diffuse nelle società dopomoderne» (Rossi, 2009, p.11). Il riferimento è alle comunità-famiglia e gli eco-villaggi, e alle forme di co-housing. Altre invece sono caratterizzate da un fattore di innovazione istituzionale e di autoorganizzazione sociale di tipo privato che tende a mettere in discussione il ruolo dello stato come garante delle regole d’uso del suolo e dei servizi pubblici territoriali. Queste forme di comunità, definite da Brunetta e Moroni (2008) “associazioni comunitarie”, non sono tanto legate ad un significato sociale e filosofico dell’abitare (come nel primo caso), quanto piuttosto a ragioni politiche ed economiche che possono rendere vantaggioso l’abitare in-comune secondo alcune specifiche tipologie di aggregazione volontaria a base territoriale.3 Le comunità-famiglia, gli eco villaggi e le forme di co-housing. In termini assoluti non c’è nulla di originale nell’idea dell’abitare in-comune, ma la comparsa di un vero e proprio “movimento comunitario” di tipo residenziale si può far risalire intorno agli anni ’70, in preciso momento di riflessione critica della struttura societaria contemporanea, che in parte riproponeva un nostalgico ritorno all’agricoltura in un’epoca di industrializzazione diffusa (così come in parte fu nelle comunità utopiche ottocentesche). Questo movimento nasce come protesta culturale: si critica la società nel suo complesso, in quanto struttura diseguale e fondata sulla famiglia intesa come luogo di oppressione e di gestione del potere autoritario e conservatore. Sono gli anni della contestazione giovanile connessa alla diffusione di un pensiero radicale di sinistra, anni cruciali di lotta ed opposizione al “regime”. In questo contesto si sono sviluppate vere e proprie esperienze di vita in-comune, le cosiddette “comuni”, che proponevano un nuovo modello di società-micro parallelo alla società istituzionalizzata, ma fondato su valori “autentici” di reciprocità, solidarietà ed uguaglianza. In Italia si sono diffuse soprattutto comuni-familiari e comuni-villaggio autosufficienti, ovvero comuni intese come «modelli di socializzazione per sperimentare nuove forme di organizzazione socio-economica basata sulla cultura e l’egualitarismo; partecipazione collettiva ai processi decisionali, rapporti interpersonali basati sul superamento dei ruoli maschili e femminili tradizionali; allevamento cooperativo dei figli» (Francescato, 1974, p.76). In particolare le 3 Le associazioni comunitarie, secondo i due autori, sono riconducibili alla categoria più ampia di “comunità contrattuali” e possono comprendere anche altre tipologie quali la “comunità proprietaria” o la “cooperativa residenziale”. Questi due modelli sono esemplificati rispettivamente: dagli shopping mall, che esulano dalla categoria “spazi residenziali” e dunque esulano dal’oggetto di questo lavoro; e da proprietà immobiliari (singoli edifici), possedute da una cooperativa, legate ad una visione spaziale limitata che non mette in evidenza legami specifici tra l’abitare secondo questo modello e la realtà territoriale di riferimento (urbana o extra-urbana), quindi di nuovo fuori da questo campo di interesse. 3 comuni familiari si caratterizzano come progetti politici di alternativa radicale alla famiglia monogamica tipica borghese. Il modello più stabile delle comuni in Italia è quello ad ispirazione religiosa. Il desiderio di rinnovamento sociale in questo caso passa attraverso la logica evangelica dando risposta ai bisogni più radicali degli uomini e riscoprendo un vivere cristiano delle origini con una specifica vocazione al matrimonio e alla famiglia, in opposizione ai modelli socio-culturali dominanti. Oggi riscontriamo molteplici insediamenti residenziali urbani di matrice comunitaria, anch’essi originati da un fattore culturale prevalente di reazione alla struttura socio-economica contemporanea. La scelta di una vita in-comune in queste realtà è legata ad esigenze di socialità e di economia (si in termini di accessibilità che di gestione del quotidiano). In molti casi queste esperienze sono segnate da una cultura ambientalista più o meno forte, che non di rado è capace di generare rilevanti risparmi energetici. La paura dell’isolamento sociale e la solidarietà come valore dominante caratterizzano le sporadiche4 esperienze di co-abitazione nei cosiddetti condomini solidali o comunità di famiglie. Si tratta di singoli condomini urbani o cascine ristrutturate/gruppi di case in campagna dove un insieme di persone/famiglie decide di vivere accanto alle altre in maniera sostenibile (socialmente, economicamente e dal punto di vista ambientale). Come si legge sul sito dell’Associazione M.C.F.5: «la comunità di famiglie non si costituisce sulla fusione, ma sul vicinato solidale, non sulle norme, ma sulla fiducia reciproca […] sono persone che ricercano uno stile di vita sobrio, essenziale nei consumi, ma anche nelle idee, non inseguono l’accumulo e lo sperpero dei beni, ma cercano di investire sulle relazioni con le persone nel rispetto dell’ambiente». La fiducia reciproca è tale che queste famiglie arrivano a condividere i propri stipendi in una cassa comune, dalla quale vengono emessi assegni in bianco da compilare secondo le esigenze economiche di ciascun componente. Gli eco-villaggi6 sono una realtà sociale diffusa in tutta Europa che si fonda sulla decisione spontanea di un gruppo di persone di vivere insieme secondo modalità non convenzionali secondo un ostile di vita “ecologico” basato su una particolare attenzione al rapporto uomo-natura e volto al raggiungimento di un’autosufficienza alimentare. Le risorse, il cibo, la cura dei bambini (laddove presenti), la vita sociale, gli spazi di vita quotidiana, i processi decisionali, sono tutti variamente condivisi dai partecipanti. Questi gruppi solitamente abitano in cascine e villaggi ristrutturati fuori dalla città metropolitana. Da tutto questo deriva l’utilizzo di fonti di energia rinnovabili, di tecnologie appropriate, il riciclaggio dei rifiuti come risorse. Spesso inoltre le costruzioni vengono edificate o ristrutturate con materiali e forniture locali, interagendo così con le reti corte. 4 Al momento sono concentrate in poche regioni italiane: Lombardia, Piemonte, Toscana, Friuli. Mondo, Comunità e Famiglia: associazione di promozione sociale (www.comunitaefamiglia.org). 6 http://www.mappaecovillaggi.it 5 4 Gli eco-villaggi recepiscono in modo evidente alcuni elementi tipici del clima di protesta degli anni ’70: l’avversione al mercato libero e la necessità di un ritorno alla natura con lo scopo di ristabilire un equilibrio perduto oltre che una sorte di autonomia alimentare (attraverso la formazione di vere e proprie cooperative agricole). Il Leitmotiv del fenomeno del co-housing è ancora l’elezione del vicinato. Si tratta di comunità residenziali a servizi condivisi spesso accompagnate da veri e propri progetti immobiliari svolti in forma partecipata7. Chi sceglie di vivere in questo tipo di comunità cerca un “buon vicinato” a cui potersi rivolgere in caso di aiuto e con cui condividere alcuni spazi e servizi, diminuendo così i costi della vita (in virtù delle economie di scala) e riducendo la complessa gestione del quotidiano. Ad esempio vengono condivise sale collettive, micro-nidi condominiali, hobby-room, il car-sharing. Anche in questo caso l’obiettivo generale dei progetti di co-residenza è il favorire la socialità tra i suoi membri. Diversamente dai due casi precedenti però il coinvolgimento attivo degli abitanti al progetto, in linea teorica, non è vincolato da principi ideologici, religiosi o sociali; inoltre la condivisione di spazi e servizi non implica la comunione radicale dell’intimità o degli stipendi, come spesso avviene nei condomini solidali. L’esperienza del co-housing nasce nel nord Europa nel corso degli anni ’60, e ad oggi è diffusa specialmente in Danimarca, Svezia, Olanda, Inghilterra, Stati Uniti, Canada, Australia e Giappone. In Italia, in seguito ad un ricerca8 svolta a Milano nel 2005, si è riscontrato un forte interesse al fenomeno, e in tempi recentissimi si stanno realizzando alcuni progetti9; ma in termini quantitativi il fenomeno resta comunque marginale. In generale il co-housing rappresenta dunque un elemento della cultura contemporanea dettato dall’esigenza di riscoprire i legami comunitari entro realtà urbane, all’insegna della sostenibilità economica ed ambientale10. 7 Ad esempio l’associazione italiana Cohousing Ventures promuove e realizza (anche con operatori immobiliari privati e cooperativi) progetti immobiliari di co-housing che vengono definiti in forma partecipata con i futuri residenti. (www.cohousing.it) 8 Politecnico di Milano, Dipartimento Indaco, Il vissuto e l’immaginario dell’abitare a Milano, ricerca svolta in collaborazione con l’agenzia per l’innovazione sociale Innosense Partnership. I dati sono reperibili su http://cohousing.it/content/view/6/6 9 Si citano: “Cosycoh Ripamonti”, “Urban Village Bovisa 01”e “Corti di Nerviano” tra Milano e vicinanze, “Colonia” (Marina di Pisa). 10 Sebbene questa esperienza vari molto a seconda dei contesti specifici, secondo l’associazione americana di co-housing sono sostanzialmente sei le caratteristiche di tali realtà: 1. la progettazione partecipata: i futuri abitanti partecipano direttamente alla progettazione del “villaggio” in cui andranno ad abitare scegliendo i servizi da condividere e come gestirli; 2. il design e gli spazi per la socialità: il design degli spazi può favorire i rapporti di vicinato ed incrementare il senso di appartenenza al luogo e alla comunità stessa; 3. i benefici economici: la condivisione di costi beni comuni, la riduzione degli sprechi, il ricorso a servizi esterni, ecc.; 4. la gestione locale: le comunità sono amministrate direttamente dagli abitanti, si in termini di manutenzione che di gestione degli spazi comuni; 5. la struttura non gerarchica: le decisioni sono prese sulla base del consenso e nessuno esercita la propria autorità sugli altri membri; si definiscono 5 Le associazioni comunitarie. La formazione di “associazioni comunitarie” a base territoriale è un fenomeno (già presente in misura modesta negli anni ’70) che sta riprendendo oggi a svilupparsi soprattutto negli Stati Uniti, ma che in Italia ha un peso limitato.11 La letteratura tende ad etichettare queste esperienze come “gated communities”, ma solo una parte di esse sono “gated” in senso fisico12. Non si tratta di aree necessariamente fortificate da cancelli, ma di fatto portano all’isolamento di gruppi sociali formati da membri omogenei per lo più appartenenti a ceti benestanti in “fuga dalla città”, uniti dal riferimento a standard di consumo elevati più che da vincoli neocomunitari. (cfr. Ciaffi, Mela, 2007, pp. 27-28). Più opportunamente si potrebbero dunque definire “planned communities”: insediamenti residenziali costruiti su bisogni specifici e frequentemente su orientamenti di razza, sessuali, sportivi, e soprattutto di ceto, «una ragionata, solida e lungimirante operazione di mercato […] per tutti i gusti e per ogni tasca» (Romani, 2006). Il modello della “associazione comunitaria” (Brunetta, Moroni, 2008) prevede che un gruppo di individui stipuli un contratto associativo in virtù del quale acquista una singola unità immobiliare all’interno di un complesso residenziale vincolata da regole fondamentali di convivenza (contenute nella “carta costitutiva”)13 e dal versamento di una quota associativa destinata ad un fondo comune per l’approvvigionamento dei servizi collettivi. Queste restrizioni nell’uso degli immobili, note come “convenants” sono solidamente legate all’unità abitativa anche per gli acquirenti successivi e la loro esistenza è generalmente in grado di elevare e mantenere nel tempo il valore delle unità immobiliari. Chi vive in questo tipo di quartiere ha dunque la garanzia di comprare una casa “sicura” secondo una duplice accezione: «sicurezza come incolumità della propria persona e delle proprie cose e sicurezza come garanzia di un investimento immobiliare redditizio» (Savoldi 2006, p. 96). Le associazioni comunitarie sono per lo più progettate a priori e molto difficilmente viene riunito un gruppo di cittadini che già si trovano a vivere nella città consolidata. Il developer propone un pacchetto di regole precostituito e costruisce il quartiere in un’area libera (o riconvertita) quasi sempre situata nelle frange del peri-urbano (dove sono presenti le poche aree vuote dal costruito). collettivamente e democraticamente ruoli di gestione degli spazi, responsabilità e risorse condivise; 6. l’ autonomia economica la comunità non è una fonte di reddito per i suoi membri, tuttavia la comunità di co-housers può decidere di pagare uno dei suoi residenti per svolgere un lavoro specifico, ma di solito questo contributo è offerto in nome di una condivisione reciproca delle responsabilità. 11 I dati sono messi in evidenza in Brunetta, Moroni (2008, pp. 133-148, in appendice: “Dati rilevanti su alcune dinamiche in atto”). 12 La caratterizzazione “gated” (recinzioni e controlli all’ingresso da parte di guardie e sistemi elettronici) di alcuni villaggi residenziali americani è del tutto marginale negli esempi italiani: i mezzi pubblici e i pedoni ad esempio hanno libero accesso nella comunità, seppur recintata, di San Felice a Segrate (Mi). 13 Le prescrizioni variano dagli orari di visita ammessi, alle qualità arboree piantate nei giardini, fino alle scelte progettuali e architettoniche. 6 Definire questi spazi “campagna” è quanto mai inadeguato, ma in un certo senso questi quartieri tentano di proporre un paesaggio non-urbano, che si rifà all’idea del borgo rurale più che della città. Il successo e l’interesse per queste realtà residenziali di tipo comunitario non è legato al valore di solidarietà sociale che possono essere in grado di favorire, bensì è motivato dal fatto che «molti individui che scelgono di vivere in un’associazione comunitaria non fanno altro che esercitare le proprie libertà di contratto e associazione se ciò è loro permesso, alla ricerca di ambienti di vita di buona qualità e di servizi collettivi più adatti alle loro esigenze, di maggiore sicurezza e valorizzazione nel tempo del proprio investimento immobiliare, di forme di coinvolgimento diretto nella gestione e nella cura del proprio quartiere, etc.» (Moroni, 2009, p.47). Il contrasto nello stile di vita tra le “comunità contrattuali”e le altre forme residenziali di tipo comunitario che abbiamo visto in precedenza è macroscopico. Il senso della comunità passa dal primo caso al secondo dall’idea di un «prodotto che si può acquistare» liberamente sul mercato a «qualcosa che si deve contribuire a creare» (Rifkin, 2001, p. 165). In uno sembra di seguire il sogno immaginario della comunità perfetta di The Truman Show14 viziato da una patina surreale, nell’altro traspare un modello utopico di vita ideale che arriva quasi a negare l’identità del singolo in nome del “bene comune”. In entrambi i casi ad ogni modo ci si richiama ad un immaginario lontano dal mondo reale che invoca un significato “originario” e ormai perduto di comunità. Le comunità che abitano in questi spazi residenziali corrispondono più da vicino all’accezione tradizionale del termine: sia in ragione dello stretto legame che instaurano con il luogo di residenza, sia per il loro atteggiamento di segregazione e di distacco tra chi è “dentro” (unito da un legame “di sangue e di spirito”) e chi è “fuori” (in termini spaziali, attraverso confini e differenziazioni più o meno marcate con il resto del territorio, e in termini sociali, come status symbol e senso di appartenenza, omogeneità culturale, ecc.). Vengono dunque proposti e valorizzati elementi molto “locali”, al limite dell’isolamento sociale e/o fisico, in risposta ai fenomeni “globali” della società contemporanea. Tutti questi esempi richiamano un senso metaforico della comunità che è caratterizzato da un atto di volontà e di rifugio dall’insostenibilità della vita metropolitana. È stato evidenziato come questa ricerca sia spesso camuffata dietro una certa “voglia di comunità” (Bauman, 2001): comunità blindate, comunità in rete, comunità di acquisto solidale, comunità d’interesse, ecc. 14 Il villaggio in cui è ambientato lo Show/il film tra l’altro è realmente esistente, ed è stato progettato da Duany e Plater-Zyberk, esponenti principali del movimento New Urbanism. Questo movimento nasce come reazione all’urbanesimo anonimo dei suburbi americani a bassa densità (tipici degli anni ’50 e ’60) e si sviluppa negli anni Ottanta in tutti gli Stati Uniti. Il New Urbanism in Italia ed è stato divulgato a partire dal 1992 ad opera del movimento architettonico Rinascimento Urbano per iniziativa di Maurice Culot, Léon Krier e Gabriele Tagliaventi. Esso si presenta come una strategia efficace per combattere la diffusione insediativa delle periferie urbane degli anni ’70 e la dispersione insediativa del paesaggio attraverso la realizzazione di nuovi ambienti urbani compatti, alla scala umana, in equilibrio con l’ambiente e orientati a favorire l’uso del sistema di trasporto pubblico. 7 Oggi di fatto si può appartenere ad un numero illimitato di comunità: quelle che Emma Finocchiaro (1985) chiama “comunità multiple”, e che possono essere addirittura di tipo virtuale. Ma cosa cerchiamo aggrappandoci a queste numerose forme di comunità “grucce” di sostegno del nostro quotidiano? Spesso si tratta di forme di protezione, di sicurezza, di identità, di riconoscimento, di inclusione, di rispetto: valori che si possono rintracciare anche nella progettazione di questi modelli abitativi. Ma anche se non c’è un rapporto sempre verificabile e significativo tra l’ordine spaziale dei modelli residenziali che sono stati brevemente descritti e i processi sociali che li accompagnano, tuttavia la progettazione urbanistica può interferire in modo rilevante sul modo in cui questi spazi appaiono, significano e sono compresi dagli abitanti. In conclusione dunque ci domandiamo: che valore hanno queste rappresentazioni sociali di una “comunità fantasmagorica” [Bonomi, 2006]15 nella progettazione degli spazi dell’abitare? I principi comunitari che stanno dietro a questi progetti sono rilevanti innanzitutto in termini sociali, poiché mettono in evidenza alcune delle esigenze ontologiche legate alla condizione di spaesamento dell’epoca post-moderna (cfr. La Cecla, 2000; Vattimo, 1985; Bauman, 1999). E la capacità dell’urbanista di attribuire una certa qualità (anche sociale) agli spazi urbani può parzialmente contribuire a dare risposta a quella domanda di “comunità” che si pone a fronte delle sfide quotidiane imposte dalla globalizzazione e dalla crisi dello stato nazionale16. La questione quindi non è l’abitare in città o in “campagna”, che sembra non presentare connotati poi così chiaramente distinti, ma l’abitare in-comune in un contesto di “comunità sostenibile”, o meglio direi “durabile”17. La sostenibilità qui non è intesa solo in termini ambientali (di risorse naturali), ma anche in relazione alle esigenze sociali degli abitanti (di qualità della vita) e ad un corretto approccio allo sviluppo urbanistico e del territorio. Abitare in una “comunità sostenibile” significa quindi pensare ad un nuovo modo di abitare in riferimento a quel tipo di società che intendiamo realizzare rendendo coerente lo sfruttamento delle risorse (naturali, umane, culturali, ecc.) con i bisogni attuali e futuri delle persone. Questo paradigma si fonda sul concetto di “comunità inoperosa”: motto coniato dal filosofo francese J.L.Nancy (2003). Egli definisce la comunità come la condizione ontologica dell’essere, ovvero l’essere in comune come condizione imprescindibile di ogni essere umano: «la comunità significa, quindi, che non c’è essere singolare senza altro essere singolare e che esiste dunque ciò che impropriamente si potrebbe chiamare una ‘socialità’ originaria o ontologica, la quale, nel suo principio, va ben 15 Aldo Bonomi [Intervista del programma radiofonico Rai 3 Mondo, puntata del 7 giugno 2006] parla di comunità fantasmagoriche in riferimento a tutte quelle forme “artificiali” di comunità portate da questa recente “voglia di comunità” conseguente all’esplosione delle comunità territoriali (di paese, di lavoro, di famiglia) del periodo fordista e pre-fordista; tra queste forme di mutualismo dal basso si possono annoverare anche le pratiche di co-abitazione. 16 Il significato del forte richiamo alla comunità che si evince nella società contemporanea è stato riconosciuto da più autori (cfr. Villa, 2005; Fistetti, 2003) come il segnale di un bisogno di identità delle persone a fronte della condizione socio-politica della nostra epoca, segnata appunto dal fenomeno della globalizzazione e dalla crisi dello stato nazionale. 17 Impiego il termine francese per “sostenibile” perché ritengo che traduca in maniera più efficace l’idea complessa e temporale di sostenibilità, che nel linguaggio comune tende ad essere assimilata con la sola dimensione ambientale e a trascurare il suo valore intergenerazionale. 8 oltre il semplice esser-sociale dell’uomo (lo ζώον πολιτικόν è secondo rispetto alla comunità)» (Ibidem, p. 66). Ogni essere-singolare quindi si trova in una condizione immanente in-comune-plurale, in comunanza con chi e cosa gli sta intorno (dell’ambiente), ma senza per questo costituire un ordine superiore trascendente: «l’essere-in-comune non indica un grado superiore di sostanza o di soggettività che assuma i limiti delle individualità separate» (Ibidem, p. 64). L’essere in-comune, secondo l’interpretazione del filosofo, non è un fatto di volontà (il progetto di un destino comune, o la scelta selettiva di appartenere ad un gruppo caratterizzato da un determinato orientamento culturale - comunità gentry, comunità di artisti, comunità ambientaliste, comunità virtuali di vario genere, comunità gay, ecc.), ma è una questione di desiderio: il desiderio debole18 dello stare insieme che si contrappone all’idea di un progetto o di un’intenzione programmata: il “comune” di questa comunità non è mai un fattore dato o volontario in ragione del quale si cerca di costruire una comunità perduta, infranta o di nuova fondazione, ma è una condizione inoperante e indissociabile dell’essere (in comune) che caratterizza tutta la durata della vita. La “comunità inoperosa” (o meglio inoperante) è una relazione, non è un ente che può essere messo in opera, perciò non possiamo progettarla: la “comunità” non è determinata dalla forma dello spazio fisico in cui vivono i suoi membri, né si compie attraverso l’azione collettiva di un gruppo. Tuttavia si possono realizzare insediamenti residenziali che rispettino quella comunità-mondo che è l’essere in comune; pertanto non si progetta questa forma di comunità, ma si possono costruire degli insediamenti che ne rispettino e ne preservino l’esistenza secondo il principio di sostenibilità. La questione si sposta così in termini etici piuttosto che entitativi. In quanto condizione ontologica inoltre l’idea di “comunità sostenibile” non è di tipo territoriale perché non presenta forme di radicamento locale: l’essere incomune appartiene ad ogni essere umano in ogni luogo, senza rivendicare alcuna specificità. Questo tuttavia non significa che il progetto di uno spazio residenziale di questo tipo debba essere indifferente alle caratteristiche del territorio in cui viene inserito. Per riuscire a comprendere questo bisogna distinguere questa idea di comunità, che è di tipo “temporale”, dalla forma fisica del progetto, che è sempre “locale” (ovvero localizzata in un luogo specifico): le forme spaziali del disegno urbano restano un fattore locale, mentre i valori sociali che il progetto sostenibile intende esprimere sono di tipo globale. Il concetto di “durabilità” dunque non si pone in relazione allo spazio, ma in relazione al tempo; si tratta di una sorta di comunità universale che caratterizza tutta l’umanità ma che rischia di essere compromessa se non se ne preserva nel tempo la condizione comune adoperando criteri d’azione sostenibili per le generazioni future. Secondo questa logica dunque, chi progetta agisce in ordine ad un “Principio di Responsabilità”19 stabilito nei confronti di quella comunità-mondo, perchè «una 18 Dico desiderio debole in contrapposizione al desiderio forte - come suggerito dallo stesso J.L. Nancy durante un’intervista svolta da me medesima a Strasburgo nel settembre 2008 che per esempio lega una comunità religiosa, o come può essere quello che caratterizza una passione forte o la sessualità. 19 Il Principio di responsabilità - titolo dell’opera omonima di Jonas (1979) - parte da una riflessione sull’etica tradizionale (che aveva a che fare con il qui e l’ora) per spostare l’attenzione nei confronti del potere dell’uomo sulle conseguenze (un tempo inimmaginabili) a lungo termine del suo agire. La civiltà tecnologica ha ampliato a tal 9 tale presenza deve essere, e cioè deve essere tutelata, facendone un dovere per noi20 che la possiamo mettere in pericolo» (Jonas, 2002, p. 54). La condizione esistenziale dello stare l’uno con l’altro pone dei problemi a vari livelli: non solo in ordine ad un’agire quotidiano “sostenibile” dell’essere singolare-plurale nel rispetto di un’etica globale (si pensi ad esempio a tutte le forme di consumo critico sviluppatesi di recente), ma tocca da vicino anche la responsabilità specifica del nostro agire (in quanto tecnici) nell’ambito della progettazione urbanistica. Al di là dei catastrofismi naturali, che pure hanno rilievo, la sostenibilità della progettazione è quindi una questione etica per l’urbanista. Egli ha la responsabilità di costruire spazi residenziali “comuni” che preservino la possibilità di quella presenza, ovvero dell’«essere singolare plurale: l’essere come essente l’uno-conl’altro» (J.L.Nancy, 2001, p. 47), nel rispetto di “communia spatia” dove si cerchi di non interrompere quella continuità relazionale uno-altro. punto il potere dell’uomo sulla natura da comprometterne l’esistenza, e con essa quella dell’uomo che della natura è parte. L’etica del futuro deve partire dall’acquisizione anticipata degli effetti a lungo termine che l’azione dell’uomo può recare sull’ambiente e dunque ha innanzitutto una responsabilità ontologica verso l’uomo. 20 Il riferimento del “noi” qui è all’umanità in genere, ma sono noti certi “disastri” compiuti da noi urbanisti attraverso la messa in pratica di talune politiche di quartiere che hanno dato vita a periferie-dormitori. 10 Bibliografia Bauman Z. 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