PDF - Spaghetti Writers
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1 Porta scorrevole Bianca Bertazzi 2 Davanti a me ho questa signora con i capelli bianchi corti, leggerissimi. Ha un caschetto perfetto, stirato e lucente, mi ricorda il pelo di quei gatti morbidi che si vedono nelle pubblicità delle crocchette per animali. Viene sempre a far la spesa il sabato mattina, compra un bel po’ di cose, le ripone con ordine nei due sacchi di tela che si porta in borsa. Poi prende il portafoglio, apre la piccola cerniera che separa le monete dalle banconote e conta con precisione tutti gli spiccioli. Fa tremare le dita attorno ai soldi sgualciti, mi sorride e mi dice che spera siano giusti. Non so come si chiami, ma anche oggi è tornata a comprare, mentre fuori la città si scioglie sotto la pioggia, oltre le vetrate a scorrimento di questo supermercato. Le do il resto e lei infila le ultime confezioni nei sacchetti di tela, poi esce, si butta sotto l’acqua con una strana naturalezza. Quando mi chiedono che lavoro faccio e rispondo che sono una cassiera, la gente cerca di sorridere, mi dice che sono in gamba, che mi do da fare, che insomma ho trovato un lavoro nonostante questi tempi amari. Poi non vedono l’ora di porre fine a quella conversazione, noto che sono a disagio, che fare la cassiera è un brutto lavoro e basta. Una cosa da poveri, senza prospettive. Quando posso li aiuto, cambio discorso, mi attacco a qualche sciocchezza, gli domando come se la passano. Allora vedo i volti distendersi, smettono di rovistare nelle tasche in cerca di qualcosa, e quando ci salutiamo nell’aria non è rimasto nulla. Ogni tanto al lavoro mi mettono a smistare la merce nei vari scaffali, è una cosa che mi diverte, perché richiede meno attenzione e posso pensare ai fatti miei, non ci sono scontrini da srotolare e sorrisi da dispensare. Ma questa mattina sono cassiera e ho ancora un’ora di sorrisi. «Mi dà un paio di punti per la collezione del mese?» Oltre la cassa c’è un signore alto e grassoccio, ha la pelle del viso rosea, sbarbata. Infila nervosamente la spesa nella borsa di plastica e raccoglie i bollini che gli ho posato sul banco. Ha qualcosa di familiare: quelle persone che ti ricordano qualcos’altro; la sensazione netta di un contorno sfocato. Mentre faccio passare la spesa del cliente successivo percepisco uno sguardo su di me, mi volto per dare un’occhiata al signore sbarbato ma niente, armeggia con i sacchetti, non sembra prestarmi attenzione. Fuori continua a piovere, c’è acqua dappertutto. Ho le scarpe da ginnastica che mi aspettano nello spogliatoio, sono già fradice da stamattina, stasera sarà come andare in giro a piedi nudi. «Ventidue euro e sette centesimi, vuole un sacchetto?» Quando piove così forte mi viene in mente la storia che mi aveva raccontato mia zia, la storia di questa signora allergica all’acqua. L’ascoltavo stretta al divano, le gambe incollate alla la coperta di pile che puzzava un po’ di cane, insieme col suo barboncino annoiato, Ettore. Lei si era messa a stirare, con quella magnifica precisione tipica di ogni suo gesto, raddrizzava le pieghe. Mi aveva detto che questa donna non poteva proprio toccare l’acqua, che per andare in giro con la pioggia era un vero problema. «Chi te l’ha detto zia?» Le avevo domandato. Nessuno, l’aveva letto su una rivista scientifica. Quel giorno non era piovuto per niente, ma io mi sentivo bagnata dalla testa ai piedi a furia di pensare a questa signora allergica all’acqua. In giro avevo raccontato quella vicenda, mi sembrava una cosa straordinaria, bisognava che lo sapesse tutta la via almeno. «Scusi ma la lattuga non era in offerta?» Negli anni questa signora non l’ho mai dimenticata, l’ho cercata negli androni dei palazzi, tra i cortili e nelle chiese. Non ho neanche mai dimenticato mia zia, che un giorno mi ha detto, adesso sei grande, ti ci vuole un ombrello che ti copra tutta. Non è servito a niente, mi sono bagnata sempre. La gente pensa che i clienti peggiori siano gli anziani, con quella lentezza pesante, la spesa piena di sedano e quel vago odore di lana vecchia. Lo pensavo anch’io prima, evitavo le file in cui erano davanti in coda, negli uffici pubblici, al supermercato, ovunque. Poi ho iniziato a lavorare qui, e ho capito che il peggio sono le madri, le madri con figli al seguito. Le madri non hanno tempo, non hanno mai minuti da perdere. Sono stanche e allora ti parlano sopra, mentre tu sei lì che cerchi di spiegargli che lo sconto è solo sul secondo prodotto in acquisto, che ha letto male e ti dispiace. A loro non dispiace nulla invece, tirano su castelli di polemiche dal niente, per quelli hanno sempre qualche secondo da impiegare. In corsia sono distratte, fanno cadere la merce, la spostano, la mollano dove gli capita. Non salutano quasi mai e fanno scorrazzare le loro creature dappertutto, seminando il panico tra i pensionati, impegnati a consumare le ultime energie nell’afferrare quella confezione di carta igienica, sull’ultimo ripiano in alto. Quando arrivano alla cassa, sono stremate ma determinate. Il figlio si attacca a qualche confezione di 3 merendine. Sono lì, alla loro altezza, in posizione strategica, esistono affinché qualcuno ne compri a bizzeffe. Le madri sono pronte a tutto pur di mostrare la loro risolutezza, afferrano la massima concentrazione e proclamano un No! Deciso, definitivo, una negazione assoluta che pesa come una boccia sul campo di gioco. Se il bambino è educato a obbedire, la risposta materna provocherà un breve conflitto, con la vittoria schiacciante della madre, con il viso disteso, fiera del proprio trionfo. Ma se il figlio è capriccioso, può scoppiare il finimondo. La madre comincia a scaraventare i prodotti sulla banda scorrevole della cassa, muove le mani nervosamente cercando di distrarre il bambino, che persevera chiedendo perché, perché lui no e gli altri si. In una prima fase la madre lo ignora: pensa che il figlio demorderà, che può farcela ad arrivare all’uscita. Quando subentra la seconda fase, il piccolo bipede si irrigidisce, assume una certa aria di sfida, agguanta quel cioccolato ricoperto di nocciole invisibili e lo pone sulla cassa. A fronte di questa deliberata provocazione, la madre lo fulmina con uno sguardo. Ripete che no, non se ne parla nemmeno, che i dolci a casa ci sono, che adesso la deve finire. Di norma, il bambino esplode e comincia a piangere. In quel momento so che la porta scorrevole non è poi così lontana. Le allungo un paio di sacchetti, mentre il figlio modula le vocali in forme dissonanti, carica il respiro per disperarsi con più persuasione. La testa mi sta per scoppiare, ma in questi primi sei mesi di lavoro mi sono allenata al silenzio, posso gestire tutto fingendo allegria, guardando oltre l’entrata del negozio. Quando escono ho già davanti la merce del cliente successivo, è un gioco di resistenza. Mentre continuo a consumare le mani sopra ai pacchi degli sconosciuti, do una sbirciata alla porta scorrevole. Fuori sembra grandinare Un paio di persone si sono radunate davanti all’uscita, nessuno crede possa durare molto, questo cielo che disgrega ogni cosa. «Marti ti do il cambio adesso che oggi ho bisogno di uscire.» Dietro di me c’è Clelia, la mia collega. Sta raccogliendo in una coda i suoi lunghissima capelli biondi, mi ha raccontato che non li taglia da cinque anni, ne va molto fiera, così non le ho detto che secondo me dovrebbe accorciarli. Clelia ha le braccia coperte di tatuaggi, le spuntano come serpenti oltre le maniche della divisa. Fa sfoggio di un sorriso abbozzato, poi prende il mio posto e in un attimo sono in piedi, con le gambe di marmo e il sedere con la forma della sedia girevole. Mi mettono a prezzare alcuni prodotti nuovi, ci sono gli sconti del fine settimana e la gente non capisce più nulla, riempie i carrelli di plastica e il pavimento d’acqua. Vedo di nuovo il signore grassoccio e sbarbato, sta fermo davanti al reparto formaggi, in mano ha il cestello quasi vuoto. Quando si volta mi guarda con aria disorientata, gli sorrido per educazione. I suoi occhi mi mettono in imbarazzo. Mi viene incontro, il cestello che penzola dalla sua mano, il volto accaldato. «Senta mi scusi ma qui il Comtè non lo tenete?» Non so di cosa stia parlando. Intravedo i suoi occhi acquosi, stanchi. Mi vengono in mente le sere in cui faccio chiusura, ma oggi esco prima, volo a casa sotto la pioggia con le mie scarpe già zuppe. «Non ho capito scusi, cosa sta cercando?» Lui posa il cestello per terra, dentro ha un paio di yogurt e un sacchetto di banane. «Il Comtè. Il formaggio francese, quello con l’etichetta rossa e verde, sa.» No, non lo so, ma adesso ho capito tutto. Ora che è davanti a me, col suo corpo rotondo e compresso, immagino che quella porta scorrevole smetta di aprirsi, chiuda fuori tutta l’acqua e ci lasci esplodere in silenzio. Ho la lingua incollata al palato. Si può urlare con gli occhi? Gli rispondo qualcosa, non so che cosa perché non l’ho sentito, ho continuato a farmi assalire dal suo inferno lento: il margine che separa la sua vita dalla mia. Sono di nuovo sola, davanti ho le passate di pomodoro e un paio di confezioni di acredine. Sono lì ferme, attendono una collocazione. Mentre volto le spalle al resto, continuo a prezzare la merce, uno sconto dopo l’altro, un respiro dopo l’altro. Quando ero piccola, quell’età incerta tra la libertà e la dipendenza, mia madre mi metteva dentro al carrello della spesa, a me piaceva da matti e lei lo sapeva, non diceva nulla, mi tirava su e mi sedeva tra i pacchi di pasta e il latte scremato. Un giorno è tornata a casa, ha posato la spesa, si è abbandonata sulla sedia della cucina e ha iniziato a piangere. Quel giorno avrei voluto mi rimettesse nel carrello e basta. Lo penso anche ora, vorrei che qualcuno mi accompagnasse mentre sono nel suo carrello. 4 Dopo una pausa che non ho fatto perché ho lo stomaco chiuso come una saracinesca, mi rimetto alle casse. Non c’è quasi nessuno a quest’ora, sono tutti a consumare i minuti da qualche altra parte. La signora con i capelli bianchi corti è tornata, penso che abiti qui vicino, arriva con le chiavi in mano insieme a un ragazzo che le assomiglia vagamente. Prendono uova e farina, poi oltrepassano la porta scorrevole, lui le tiene il sacchetto, quello di tela solito. Quando finalmente esco, la pioggia ha cessato di allagare le strade. Oltre la porta si apre un cielo latteo, stremato dalla furia del giorno. Arrivo alla fermata del tram e non so quanto dovrò attendere prima che passi il mio numero. Mi siedo sulla panchina, poi squilla il telefono. Dall’altra parte c’è mia madre, la voce aspra di quando è stanca, quel tono che rende difficile ogni cosa. Mi parla della lavatrice, della spesa e della cena, non riesco a sentirla, non so come dirle che ho visto quell’uomo sbarbato e grassoccio, ho le parole ferme tra i denti. «Mamma oggi ho visto mio padre.» Il silenzio che segue è tombale. Certe cose non hanno modi giusti per essere dette, restano comunque sospese in aria. «Vieni a casa Martina.» Davanti a me ci sono un paio di ragazzini che hanno preso a passarsi una palla da tennis. La fanno rimbalzare senza sosta. Lei non lo sa che l’estate scorsa ho trovato una foto di mio padre da giovane, il fisico arrotondato dal sole e gli occhi sfuggenti, lo sguardo teso altrove. «Vengo quando passa il tram.» Ho impressa quell’immagine nella pelle, ogni millimetro di colore sbiadito. La pallina continua a rimbalzare, per terra, in aria, per terra, in aria. «Ti aspetto qui allora.» Sento la voce di mia madre chiudersi, l’umido dell’acqua che si è rovesciato per strada. Metto il cellulare in borsa e appoggio la schiena alla panchina. La pallina è caduta in una pozzanghera, si è tinta di marrone sporcando le scarpe dei due ragazzini. Forse meglio fare come la signora allergica all’acqua, penso, meglio aspettare che torni il sole. 5