Il nuovo terrorismo Con Habermas e oltre Habermas Giovanni

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Il nuovo terrorismo Con Habermas e oltre Habermas Giovanni
Il Trimestrale. The Lab's Quarterly, 1, 2008
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Il nuovo terrorismo
Con Habermas e oltre Habermas
Giovanni Sabatino
Abstract
Nei numerosi scritti volti a delineare le prospettive sui conflitti del mondo odierno, Jürgen Habermas disegna uno scenario planetario di complessiva instabilità. All’interno del proprio quadro di riferimento, le trame che contribuiscono
a tratteggiarlo hanno come snodo nevralgico gli effetti prodotti dalle politiche
postcoloniali e dal riemergere dei nazionalismi all’interno dell’Europa. La
grammatica generativa delle prime risiede nei conflitti interculturali ed interetnici causati dall’artificiosità degli stati colonizzati - creati a tavolino sulla base
degli interessi delle potenze coloniali - e all’incapacità dei governi postcoloniali
di gestire gli stessi in ragione del loro peccato originale – l’essere soggetti con
autorità priva di autorevolezza. Questo stato di impotenza delle amministrazioni
statali è dovuto all’aver acquisito riconoscimento e sovranità esterna prima che
mettessero radici all’interno come organizzazioni legali e culture politiche in
grado di superare le divisioni etnico-tribali, poi, “cronicizzatesi” in guerre civili.
I nuovi nazionalismi all’interno dell’Europa, invece, derivano principalmente
dalla disgregazione dell’Unione Sovietica, che interrompendo il lungo equilibrio
governato militarmente, ha fatto emergere, nei paesi balcanici e dell’Est europeo, quei conflitti nazionalistici su basi etniche, linguistiche e religiose, connessi
alla convinzione che l’identità e il valore della nazione – e il grado di cittadinanza – sia riconoscibile sulla base dell’omogeneità linguistica, culturale e religiosa.
Lo scenario descritto ruota su ciò che può esserne considerato il perno principale: il ruolo dall’Assemblea delle Nazioni Unite, sostanzialmente passivo, non
solamente perché condizionato tanto dall’ostilità di molti paesi membri responsabili di violazioni della Carta quanto dal disinteresse per i diritti umani da parte di alcune delle nazioni firmatarie più attente ai propri interessi particoli che a
dar risorse economiche e militari e legittimità politica alla giurisdizione dell’ONU; ma anche dal discredito della Commissione dei Diritti Umani, a seguito
dell’assunzione della carica di presidenza da parte della Libia e delle membership – nel ciclo delle rotazioni – di regimi autoritari come lo Zimbawe, il Congo
e il Sudan. In questo scenario di impotenza politica e di fragilità culturale si è infiltrato da oramai due decenni il nuovo terrorismo a matrice religiosa fondamentalista sulla cui comprensione si misura l’adeguatezza delle categorie interpretative dell’Autore e, in generale, di gran parte dei nostri uomini di governo.
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1. Globalizzazione e religione
Per individuare un punto di partenza adeguato all’elaborazione di una
teoria che interpreti nella giusta prospettiva l’argomento dell’instabilità
globale, occorre partire dalla globalità del mondo contemporaneo e, ancor
meglio, dallo stadio di sviluppo che lo ha preceduto. Se, inoltre, il terrorismo fondamentalista è nella globalizzazione, la “globalizzazione del terrore” ha avuto, la propria investitura ufficiale, l’undici settembre – il giorno
del terribile attentato alle Torri Gemelle. Un aspetto significativo della rete terroristica di Al Qaeda riguarda le modalità operative che caratterizzano le sue azioni, le quali hanno evidenziato una straordinaria capacità di
organizzazione e di strategia militare, ma, soprattutto, un eccezionale spirito di sacrificio – di vocazione al martirio –, dei suoi affiliati che mai si
potrebbe verificare se non sulla base di fortissime motivazioni personali.
Al riguardo, si dischiude un primo interrogativo: com’è possibile che un
gruppo di persone decida di immolare la propria vita? Ma ancora: si sono
sacrificate più per odio verso l’occidente opulento o per amore verso la
propria religione? La prima risposta, da considerare come prologo alla riflessione che deve scaturirne, potrebbe risiedere nel domandarsi in cosa
unisce o divide, oggi, il mondo. È “unito” nella produzione e negli scambi,
nel rischio climatico, nel pericolo nucleare, nella minaccia che la vita
scompaia dal pianeta, nell’istantanea trasmissione di notizie e immagini,
nella rapidità dei trasporti, nell’organizzazione del crimine. È “diviso” dalle differenze (spesso drammatiche) delle condizioni materiali di vita, dalla
caotica frammentazione delle responsabilità e dei poteri, delle culture,
delle rivalità dei paesi, delle loro aspirazioni di dominio e d’indipendenza. È “diviso”, più che di ogni altra cosa, dall’assenza di strumenti per impedire che le tensioni tra “diversi” degenerino in conflitti economici, politici e culturali. Per certi versi, è “diviso”, paradossalmente, dalla globalizzazione, dalla sua forza totalizzante ed omologante che produce risposte
di tipo centrifugo, scatenando pulsioni identitarie, rivendicative, indipen-
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dentistiche, di orgoglio, odio, violenza. In questo sfondo, la religione assume in modo cruciale la sua funzione etimologica di religare, di “tenere
insieme”. La politica la utilizza come risorsa strategica agendo strumentalmente sulla storia per costruire una memoria antropologica che giustifichi una comune identità, inoculando il virus dell’“altro” come pericolo,
come minaccia per la propria etnia, cultura, lingua e integrità nazionale.
La religione diviene il software delle subsocietà, conferendo l’ultimo residuo di sicurezza, senso di appartenenza e storia condivisa. Per l’islamismo
è il codice genetico della “Jihad” contro il “Grande Satana” americano e i
suoi alleati. In nome della religione - per la conquista del potere del mondo musulmano contro gli occidentali infedeli - si può, e ci si può, uccidere.
2. Globalizzazione e incertezza.
Nella lunga intervista intitolata Sulla Guerra e Sulla Pace (2003), rilasciata E. Mendieta, Habermas sviluppa la sua analisi sul terrorismo fondamentalista, essenzialmente, attraverso due argomenti, sottolineando la
differenza, non solo concettuale, tra la rete del terrore di Al Qaeda dal terrorismo delle organizzazioni politico nazionalistiche, e tematizzando il significato di quel mostruoso crimine, quale è l’undici settembre del quale
occorre chiedersi se possa essere considerato un atto politico sensato.
È opportuno precisare, sin da subito, che contrariamente a quanto afferma il sociologo tedesco, io ritengo che l’attentato delle Twin Towers sia
un mirabile atto di strategia politica nell’ambito della politica della strategia del terrore in quanto esso ha minato il quotidiano della nostra vita
comune rendendo ancor più incerta la già incerta società dell’incertezza.
Come sottolinea Raffaello Ciucci in La Sicurezza come Sfida Sociale
(2004): «la società dell’incertezza genera e riproduce insicurezza in quanto non riesce a garantire percorsi sociali prevedibili e controllabili: un lavoro relativamente stabile, un’abitazione adatta alle disponibilità di reddi-
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to e alle esigenze di mobilità, un sistema di protezioni sociali sanitarie e
previdenziali capace di tutelare gli individui di fronte all’irrompere di eventi negativi e una rete di relazione sufficientemente affidabili nell’arco
dei corsi di vita sempre più lunghi e ad un tempo sempre meno “lineari”.
A fronte di queste carenze di sistema che vanno consolidandosi, l’individuo si trova con una crescente libertà di scelte e decisioni, che tuttavia
invece di conferire sicurezza genera ansia e condotte difensive. La vulnerabilità è una condizione di esposizione strutturale all’instabilità lavorativa, istituzionale, relazionale di individui formalmente sempre più liberi,
privi cioè di quei vincoli che tuttavia offrivano in passato meccanismi di
garanzia e protezione. Il sentimento collettivo di insicurezza riesce difficilmente a coniugarsi con il riconoscimento del complesso di mutamenti
che hanno investito le nostre società negli ultimi decenni. La consapevolezza dei quadri strutturali dell’incertezza resta sfuocata e l’insicurezza,
non riuscendo ad individuare le cause che l’hanno prodotta e continuamente la riproducono, tende a cercare risposte rivolgendosi a istituzioni
con funzioni rassicuranti d’ordine, esaltando le virtù di ristretti gruppi in
cui possono ancoroggi essere soddisfatte le esigenze di “riconoscimento” e
di protezione, oppure tende a scaricarsi su figure ed eventi collettivi
che assumono la funzione vicaria di “espiazione” (come avviene, per esempio, nei confronti della popolazione immigrata). Il bisogno di certezza
non ricondotto alla sua matrice strutturale – cioè al venir meno di quei
fattori economici, istituzionali, relazionali capaci di generare “fiducia
attiva” - trasforma la sicurezza in problema di “ordine”, cerca rifugio
e identità in “comunità illusorie” e procede ad un’impropria imputazione
di responsabilità verso particolari categorie di soggetti individuati sulla
base di ben noti processi di discriminazione fondati sul “pregiudizio».1
1
R. Ciucci, Rischio, Vulnerabilità e Sicurezza, in Cazzola F. - Coluccia A - Ruggeri F. (eds.),
La Sicurezza come Sfida Sociale, Milano, Edizioni Franco Angeli, 2004, pp. 19-20.
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Se a questa fotografia della “società dell’incertezza” aggiungiamo gli effetti che l’undici settembre ha provocato nell’immaginario collettivo, se ne
ricava il quadro d’insieme delineato dall’ex ministro Padoa Schioppa:
«L’irruzione della tragedia storica nella vita individuale è esperienza che
quasi ogni essere umano compie almeno una volta nell’arco dell’esistenza,
restandone segnato per sempre. E’ per lo più, esperienza della guerra. La
grandissima maggioranza delle persone oggi viventi ha meno di trent’anni
e, attraverso la televisione, ha molte volte visto una guerra da vicino. In
passato, di essa si sentiva parlare, ma il suo orrore lo vedevano quasi solo
i soldati al fronte, spesso neppure gli alti comandanti militari. E tuttavia,
sebbene la guerra in diretta sia da anni parte di un quotidiano telegiornale, le immagini dell’attacco alle torri (pur assai false perché nessuno ha visto ciò che accadeva dentro le torri, dentro gli aerei bomba) conserveranno, per chi vive nei paesi del benessere e della democrazia, una drammaticità senza uguale, perché pochi avevano ritenuto concretamente possibile
la distruzione del proprio ambiente di ogni giorno, della casa, dell’ufficio,
della strada che percorrono tutte le mattine. Vietnam, Iran, Kuwait, Kosovo, Palestina erano nomi lontani. Improvvisamente, l’undici settembre
2001, è caduta la certezza che la casa, la scuola e l’ufficio siano al riparo
dalla distruzione, l’illusione che il loro crollo e il loro incendio minaccino
solo persone e luoghi remoti. L’irruzione della tragedia storica nella vita
individuale trasforma la vita stessa, fa percepire la morte come un evento
che non riguarda solo la cerchia dei propri affetti e impone di chiedersi
quale sia il compito della singola persona di fronte alla storia. Se la storia
invade la nostra vita, che cosa dobbiamo fare noi nella storia, come
possiamo, nel nostro piccolo, entrarvi a nostra volta? Per chi abbia avuto
già consuetudine con questi interrogativi
l’ingresso della storia nella
sua vita individuale muta il modo di affrontarli e, spesso, modifica le risposte; a chi non li avessi incontrati prima, impone di considerarli con la
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stessa urgenza con cui si affrontano le questioni che ci riguardano direttamente; negli uni e negli altri può determinare scelte di vita nuove».2
L’undici settembre ha avuto lo straordinario effetto di potenziare tra la
popolazione la percezione di paura sociale che sul piano politico, riproduce effetti di fondamentale rilevanza. Il sentimento è prodotto dalla percezione di un atmosfera filtrata dal linguaggio dei circuiti mass-mediatici, i
quali oltre a rilanciare immagini di morte, dolore e distruzione, ripropongono in parallelo i loro proclami di minacce di altri lutti in nome della “fede”; bilanciati, in una spirale infinita, da nostri corrispondenti impegni a
combattere il terrore con politiche di difesa e missioni di peace keeping.
In termini di politica interna, ciò conferisce energia alla politica di repressione, che viene, di fatto, legittimata a procedere con legislazioni speciali quali il Patriot Act degli U.S.A e, per restare al caso italiano, con il
“decreto Pisanu” del Luglio 2005. Sul piano della politica estera, questa
situazione consente le missioni militari di pace, talvolta recepite da una
parte della popolazione dei paesi destinatari come una ingiustificata occupazione di tipo neocoloniale di matrice affaristica (pozzi petroliferi, agenzie di security, business della ricostruzione, etc.), facendo si che in
quei territori, il “terrorismo religioso”, ritenuto l’unica risposta possibile,
allarghi sensibilmente le sue aree di influenza, proselitismo e azione.
3. Dal globale al locale
La globalizzazione e la sua paradossale capacità di “dividere unendo” si
manifesta non solamente tra i popoli dei diversi continenti ma anche tra
la popolazione di una stessa regione o città, determinando discriminazione e segregazione. Infatti, come scrivono Castells e Borja: «negli ultimi
anni del novecento, la globalizzazione dell’economia e l’accelerazione dei
processi di urbanizzazione hanno aumentato la varietà etnica e culturale
2 T. Padoa Schioppa, Dodici Settembre. Il mondo non è al punto zero, Milano, Rizzoli, 2002,
pp. 8-10.
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delle città tramite i progressi migratori nazionali ed internazionali, che
hanno portato alla penetrazione di popolazioni e di modi di vivere differenti all’interno delle differenti aree metropolitane del mondo. Il globale
si localizza in una società segmentata e spazialmente segregata, tramite
movimenti umani provocati dalla distruzione dei vecchi metodi produttivi
ed alla creazione di nuovi centri di attività. La differenziazione territoriale
dei due processi – di creazione e di distruzione – accresce la disuguaglianza dello sviluppo di regioni e paesi e conduce a una crescente varietà
nella struttura sociale urbana». 3 Questo determina delle disuguaglianze,
ancora spiegate da Castells e Borja: «In tutte le società le minoranze etniche soffrono di discriminazioni economiche, istituzionali e culturali, che
portano a una loro segregazione all’interno dello spazio urbano. La disuguaglianza del reddito e le pratiche discriminatorie nel mercato immobiliare con-ducono a una sproporzionata concentrazione delle minoranze
etniche in determinate zone. Anche la reazione difensiva e la specificità
culturale rafforzano la segregazione spaziale, poiché ogni gruppo etnico
tende a utilizzare questa concentrazione spaziale come una forma di
protezione, di reciproco aiuto e di affermazione della propria natura».4
A tale riguardo, è utile riflettere sulle ricorrenti rivolte violente delle
banlieue parigine acutizzatisi nell’autunno del 2005, i cui bagliori prodotti dagli incendi divampati nel corso degli scontri tra gli immigrati maghrebini di seconda generazione e la polizia francese, hanno “illuminato”
le coscienze di tutti i cittadini e dei governanti dei diversi paesi europei alle prese con il fenomeno, relativamente nuovo, dell’immigrazione. Primo
fra tutti, e non solo per vicinanza geografica, l’Italia. All’interno delle possibili strategie di cittadinanza, il caso francese potrebbe essere considerato un modello paradigmatico di integrazione fallita. E per capirne le cause
possiamo ricorrere alle parole di alcuni intellettuali arabo-musulmani.
3
4
Borja J. – Castells M., La Città Globale, Roma, Edizioni De Agostini, 2002, p. 77.
Borja J. – Castells M., La Città Globale, Roma, Edizioni De Agostini, 2002, p. 86.
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Lafif Lakhdar – giornalista tunisino con base a Parigi, autore di libri
sull’Islam e di articoli sull'educazione scolastica nel mondo arabo –
nell’intervista Mal di Francia rilasciata a Il Foglio (10.11.2005) spiega
che un immigrato è integrabile in un paese in quattro modi: la scuola,
il lavoro, il sindacato e il luogo di culto. La Francia avrebbe fallito in tutto
poiché nelle scuole delle banlieue, il numero degli stranieri è superiore
a quello dei madrelingua; solitamente gli immigrati non hanno una
professionalità definita e, di conseguenza, una notevole quota degli stessi
è disoccupata; e le moschee sono egemonizzate dagli integralisti, i suoi
frequentatori più assidui gravitano nell’orbita dei Fratelli Musulmani,
il famoso sodalizio sunnita che promuove fatwe contro la legittimità
dei matrimoni misti. Ma l’intellettuale tunisino va oltre, sostenendo che
larga parte della seconda generazione degli immigrati, pur avendo
nazionalità francese si sente culturalmente maghrebina. Chiama i loro
connazionali, francesi da diverse generazioni, gauri, parola d’origine berbera per indicare gli infedeli, definendoli anche “mangiatori di maiale”.
Secondo l’opinione informata di Lakhdar, i tumulti parigini sono opera
di ragazzi disagiati, che esercitano lavori saltuari, non si sentono francesi,
non sanno parlare l’arabo, o al massimo lo parlano male, hanno perso la
cultura dei loro genitori sentendosi così emarginati sia in Francia sia nel
loro paese di origine. Secondo l'intellettuale tunisino, peraltro, la repressione – necessaria a mantenere lo “stato di diritto” nel paese - è inutile e
destinata a fallire se non è accompagnata da una politica d'integrazione.
Abd Al-Rahman Al-Rashed, – vice direttore dell'emittente Al-Arabiya
ed editorialista del quotidiano Asharq Al-Awsat – nell’articolo “La rivolta
dei teppisti”, pubblicato il 7.11.2005, ricorre alla seguente metafora:
«Queste persone erano come fiammiferi in una scatola pronti a prendere
fuoco». A sostegno della sua tesi, egli afferma che la politica francese
ha fallito l’obiettivo non risolvendo dei nodi rimasti aggrovigliati con la
fine del colonialismo. Per il giornalista saudita è, infatti, inconcepibile che
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nel paese della libertà e della democrazia, il Parlamento, che dovrebbe
rappresentare la totalità della società, non abbia dei deputati appartenenti
alla minoranza araba: i principali partiti politici francesi, infatti, non
hanno inserito nei loro quadri esponenti delle comunità arabe e musulmane. Scrive Al-Rashed: «La banlieue aveva pertanto bisogno soltanto
di un pretesto per infiammarsi, divampare e sfidare tutta la società». Il
giornalista saudita afferma che, certamente, nel loro modo di agire quei
rivoltosi possono apparire come la “feccia” della popolazione francese –
un termine utilizzato dall’allora Ministro dell'Interno Nicolas Sarkozy – e
coloro che guidano le rivolte abitualmente come dei veri e propri teppisti.
Si devono però separare i casi dai problemi irrisolti. Nonostante la vergogna per tali azioni, occorre comprendere che i rivoltosi non avrebbero avuto tanto appoggio, se non fosse stato per la percezione dell’ingiustizia
da molti sofferta. Al-Rashed prosegue scrivendo: «Davanti alle società europee c'è un problema, che appartiene a milioni di cittadini, che non possono ignorare come se abitassero in un paese lontano. I problemi degli
immigrati non sono irrisolvibili. È necessario però iniziare dall’inserimento dei figli nella società attraverso l’istruzione e l’impiego. Se ciò non
sarà fatto, queste frange povere e discriminate continueranno a essere
scintille che minacciano di far divampare un incendio in ogni momento».
4. Terrorismo e religione: il “nuovo terrorismo”.
Il terrorismo religioso, di qualsiasi matrice sia, cristiano, ebraico, musulmano, è comunemente definito con l’appellativo di “nuovo terrorismo”.
Nel periodo contemporaneo esso è prevalentemente associato alla strategia Jahdista ma esistono varianti di terrorismo religioso in ambito cristiano5, ebraico6, ma considerando il conflitto in Sri Lanka, tra le etnie
5 La “Christian Identyti”. Una setta religiosa ultracristiana per la supremazia della razza bianca, fortemente antisemita ed ostile ad omosessuali e stranieri. Il suo esponente di spicco è Eric
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Cingalesi e Tamil, rispettivamente di religione buddista e indù, potremmo anche indicare le LTTE7. Questa materia è estremamente complessa,
sotto tutti i punti di vista, sociologico, teologico, culturale, politico,
giuridico ed investigativo. La definizione “nuovo terrorismo” racchiude,
dunque, un concetto molto controverso, è infatti una rappresentazione
mentale influenzata da vari fattori, politici, culturali, storici, religiosi e
anche ideologici. Ma prima di tutto occorre chiarire cos’è “il terrorismo”.
A mio giudizio, la definizione più efficace che ho trovato nel corso della
mia esperienza professionale è quella che indica il terrorismo come una
strategia che si sostanzia nel compimento di atti violenti - dettati da ragioni politiche tese al rovesciamento di ordinamenti e/o regimi, eliminazione e/o attenuazione di condizioni avvertite come sofferenze di una nazione e/o di gruppi in essa compresi - diretti contro degli obiettivi di valore simbolico al fine di incutere timore ad un “pubblico” riconducibile ad
un più ampio contesto sociale ed istituzionale. La “qualità” - che lo differenzia dalla mera violenza politica - è che gli autori degli atti violenti operano in regime di clandestinità e/o muovendosi nell’ambito territoriale
delle società in cui agiscono in condizioni di mimetismo e/o copertura.
Dopo aver definito il concetto di terrorismo, chiediamoci: perché “nuovo”? Se pensiamo al movimento degli Zeloti la convinzione che il terrorismo di matrice religiosa sia “nuovo” diviene, di certo, storicamente molto
Robert Rudolph nato a Merritt Islanda (Florida) il 19.09.1966, terrorista statunitense responsabile dell'attentato alle Olimpiadi di Atlanta del 1996 e di altre azioni terroristiche compiute nel
sud degli States per supportare campagne contro aborto e omosessualità. Complessivamente
Rudolph è ritenuto responsabile di almeno 3 uccisioni e 150 ferimenti, cosa che, sino al momento della sua cattura, avvenuta nel 2003, lo ha portato a comparire nella lista dei 10 latitanti più
ricercati degli USA. Nel 2005 è stato condannato a cinque ergastoli, in seguito ad una confessione e al patteggiamento che gli ha evitato la pena capitale.
6 Ad esempio i gruppi Kach e Kahane Chai inseriti dal
governo USA nella lista dei
gruppi terroristici. La stessa uccisione di Yitzachak Rabin nel 1995, è da alcuni considerata atto
terroristico, anche se, a onor del vero, è ancora vivace la discussione se debba essere considerato come l’opera di un singolo individuo - Ygal Amin, l'esecutore materiale, oppure di un sodalizio, visto che lo stesso era organicamente inserito nell’organizzazione Eyal , un gruppo derivato da Kach.
7 “Tigri per la liberazione della nazione Tamil”, ala militarista che combatte con atrocità per
rivendicare l’autonomia e la creazione di uno stato indipendente nel nord est dello Sri Lanka.
Tra le fila delle tigri, sono presenti numerosi bambini e adolescenti, arruolati, spesso forzatamente, e addestrati ad uccidere e a farsi uccidere.
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discutibile. L’etichetta – ad uso mass-mediatico - deriva dal fatto che, con
la fine della Guerra Fredda, i vari “terrorismi interni”, salvo qualche rigurgito, hanno subito un deciso rallentamento cedendo a quello di conio
religioso le luci della ribalta.8 La peculiarità del “nuovo terrorismo” è
l’eccezionale capacità di trasformazione, dovuta al fatto che lo stesso consta nella interazione di fattori politici e religiosi che, pur manifestandosi
in modelli differenti, hanno quale denominatore il fatto che la politica, o
la religione, servono per legittimare atti di violenza. Infatti, a volte, si osserva l’adattamento di teorie e metodi politici a problemi religiosi; altre
volte, invece, il contrario: teorie e metodi religiosi – mediante l’utilizzo
della retorica religiosa - vengono adattati a questioni di natura politica,
determinando, sul piano pratico, il fatto che alcune organizzazioni possono elevare il carattere religioso diminuendo, conseguentemente, quello
politico o viceversa. Questo difficile passaggio concettuale è cruciale per
poter individuare il confine secolarismo-religiosità – spesso molto
mobile – e quindi la definizione degli scopi del sodalizio e la sua dimensione, intuendone le tendenze al cambiamento (riallineamenti di finalità,
modifiche di strategia, di assetti interni di potere, di alleanze, di aree
di influenza etc.) che, conseguentemente, ne determinano la potenzialità.
Come è ragionevole immaginare, al parti di altri fenomeni sociali, il terrorismo religioso varia, in realtà, in funzione del territorio in cui opera
ma sul piano strategico complessivo è la prevalenza della componente religiosa e/o di quella secolare che ha valenza decisiva. E’ evidente che un
aumento del processo di secolarizzazione indebolisce sia l’elemento motivazionale degli affiliati che la capacità di attrazione nei confronti della
popolazione, depotenziandone notevolmente l’organizzazione criminale.
8 Negli anni della “Guerra Fredda” il clima politico alimentava gruppi terroristici di sinistra
in organizzazioni ideologizzate di stampo marxista-leninista e rivoluzionarie, oppure gruppi etno-nazionalisti separatisti tipici dei movimenti di liberazione post-coloniali dei tardi anni 1960 e
primi 1970.
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5. Come e perché si diventa un terrorista religioso?
Dopo aver definito il “terrorismo religioso” è necessario ricostruire il
percorso individuale che conduce una persona a identificarsi con esso.
Il primo fattore di attrazione è il più facile da spiegare. A tale riguardo,
ci aiuta la cronaca: giornali, radio e televisione quotidianamente danno
notizie di attentati in Iraq, Israele, Palestina, Pakistan, Afghanistan, Cecenia etc., ma di solito l’attentatore rimane sullo sfondo del tema in una
specie di limbo informativo. L’opinione pubblica commenta il fatto, ne
misura la portata dell’impatto e l’efferatezza delle modalità, ma sembra
che voglia rimuoverne l’autore. Una reazione di difesa; come se la morte
potesse bilanciare il dolore da lui disseminato e, perché no, anche esorcizzare la possibilità di poterselo trovare un giorno sulla propria strada.
In realtà il “terrorista religioso” non è solo una persona, è soprattutto
un “ruolo”, una sorta di perno coassiale di un meccanismo complesso che
ha bisogno di tale “funzione” per potersi muovere armonicamente. Viene
scelto tra coloro che si sentono culturalmente, socialmente o politicamente alienati, che ritengono di non potere in alcun modo influenzare gli aspetti della società in cui vivono.9 Per certi versi, essi sono dei veri e propri “sconfitti”. E proprio questo rende il “terrorismo religioso” – contrariamente a quanto ritenuto dal senso comune – razionale, perché il nuovo
affiliato si convince di poter risolvere tutti i suoi problemi esistenziali
attraverso il suicidio fatalistico, intrinsecamente altamente pericoloso
poiché implica un concetto di vittoria basato, di fatto, su una sconfitta.
La prospettiva del “suicidio fatalistico” conferisce all’attentatore, infatti, un ruolo ed una funzione all’interno della storia, infondendogli autostima e rendendolo partecipe di un progetto concepito, ideato e pianificato da un’organizzazione che, operando in regime di segretezza, esalta la
9 Lo stesso Mohammed Atta, il capo del commando dei dirottatori dell’attentato dell’undici
settembre, egiziano, laureato in Architettura all’Università del Cairo, ha lavorato e studiato molti anni in Germania ed altri paesi europei.
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dimensione mistica ed esoterica. Il “terrorista religioso” considera la violenza un dovere divino, giustificandola “moralmente” come necessaria alla realizzazione del volere di Dio. La sua impostazione psico-sociologica e
culturale, inoltre, poggia su forti motivazioni derivanti dal fatto che, alla
cieca devozione per la sua religione, associa un’inter-pretazione del messaggio divino distorta da indurlo a considerarsi un eroe obbligato alla violenza, a portare a termine un mandato, negato dalla volontà prevaricatrice
degli “infedeli”, incluso, direttamente o indirettamente, nei sacri testi.
A ciò va aggiunto che i designati per azioni terroristiche di tipo suicida
sono intimamente convinti di essere “prescelti” direttamente da Dio, il
quale, per il loro atto, li ricompenserà con gratificazioni celesti. A tale
scopo è significativo evidenziare il linguaggio semplice, metaforico, mutuato dall'immaginario di tipo biblico che, garantendo forti radici e connessioni alla propria tradizione, costituisce una delle molle decisive
dell’ingranaggio motivazionale del “martire”. Emblematica, al proposito,
la lettura del testamento attribuito a Mohammed Atta, alla guida del
commando dei dirottatori aerei dell’undici settembre10: «Nel nome di Dio,
il più misericordioso, il più compassionevole. Nel nome di Dio, di me
stesso e della mia famiglia. Ti prego, Dio, perdona tutti i miei peccati e
concedimi di glorificarti in ogni modo possibile. Ricorda la battaglia del
profeta contro gli infedeli, quando cominciò a costruire lo stato islamico».
Nella terza pagina sono descritti tutti i momenti precedenti all'attentato: «L'ultima notte. Ricordati che in questa notte affronterai molte sfide,
ma dovrai affrontarle e capirle al cento per cento. Ubbidisci a Dio, al suo
messaggero e non ligate tra voi quando diventate deboli, siate saldi, Dio
10 Cinque pagine manoscritte, in arabo, anticipata dal quotidiano "Washington Post" la lettera
è stata poi resa pubblica dall’allora ministro della Giustizia Usa John Ashcroft nel quadro delle
indagini post attentato. La stessa è stata trovata nella valigia che non era salita sul volo
dell’American Airlines schiantatosi contro la torre nord del WTC a New York. Altre Fotocopie
del documento furono sequestrate oltre che in una delle vetture utilizzate dai dirottatori e ritrovata nel parcheggio dell’aeroporto Dulles di Boston, anche fra i rottami dell’aereo schiantatosi
in Pennsylvania.
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starà con coloro che rimangono saldi. Devi impegnarti in queste cose, devi
pregare, devi digiunare. Devi chiedere consiglio a Dio, devi chiedere aiuto
a Dio. Continua a pregare durante tutta la notte. Continua a recitare il Corano. Purifica il tuo cuore e liberalo da ogni cosa terrena. Il tempo del divertimento e dello spreco è finito. Il tempo del giudizio è arrivato. Dobbiamo quindi usare queste poche ore per chiedere perdono a Dio. Devi essere convinto che queste poche ore che ti sono rimaste nella tua vita sono
davvero poche. Dopo, comincerai a vivere una vita felice, il paradiso infinito. Sii ottimista. Il profeta era sempre ottimista. Ricorda sempre i versetti che desidereresti la morte prima di incontrarla se solo conoscessi la
ricompensa che esiste dopo la morte. Tutti odiano la morte, temono la
morte, ma solo i credenti che conoscono la vita dopo la morte e la ricompensa dopo la morte saranno quelli che cercano la morte. Ricorda il versetto che se Dio ti sostiene, nessuno potrà sconfiggerti. Mantieni una
mente molto aperta, mantieni un cuore molto aperto a ciò che stai per affrontare. Entrerai in paradiso. Comincerai la vita più felice che esiste, la
vita infinita. Tienilo a mente quando sei afflitto da un problema e da come
risolverlo. Un credente è sempre afflitto da problemi. Non entrerai mai in
paradiso se non hai avuto un grande problema, ma solo coloro che rimangono saldi lo supereranno. Controlla tutte le tue cose - la tua valigia, i tuoi
vestiti, i coltelli, il tuo testamento, la tua carta d'identità, il tuo passaporto, tutti i tuoi documenti. Verifica la tua sicurezza prima di partire. Assicurati che nessuno ti segua. Assicurati di essere pulito, che i tuoi abiti siano puliti, comprese le tue scarpe. Al mattino, cerca di recitare la preghiera
del mattino con un cuore aperto. Esci solo dopo esserti lavato per pregare.
Continua a pregare. Quando sali sull'aereo: oh, Dio, aprimi tutte le porte.
Oh Dio che rispondi alle preghiere e rispondi a coloro che ti invocano, ti
prego di aiutarmi. Ti prego di perdonarmi. Ti prego di illuminare la mia
via. Ti prego di alleggerire il peso che sento. Dio, ho fiducia in te. Dio, mi
metto nelle tue mani. Ti prego, con la luce della tua fede che ha illuminato
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il mondo intero illuminando ogni oscurità su questa terra, di guidarmi
finché tu non mi approverai. E quando lo farai, questa sarà la mia ultima
meta. Non c'è altro Dio che Dio. Non c'è nessun Dio che sia il Dio del trono più alto, non c'è altro Dio che Dio, il Dio della terra e del cielo. Non c'è
altro Dio che Dio e io sono un peccatore. Siamo di Dio e a Dio torniamo».
6. La strategia e la struttura del terrorismo religioso.
Habermas mette in rilievo la forza simbolica degli obiettivi colpiti, icone dell’immaginario collettivo della nazione americana: le Torri Gemelle
come rappresentazione del potere economico, gli obbiettivi mancati (Casa
Bianca) o colpita parzialmente (Pentagono) come rappresentazione del
potere politico e militare. Gli Stati Uniti sono il “Grande Satana” perché si
presentano sotto «l’aspetto irresistibile e provocatoriamente banalizzante
di una cultura consumistica basata su un materialismo livellatore»11.
Ciò conferma anche come il “terrorismo religioso” segua strategie razionali, poiché, non casualmente, persegue finalità qualitative e quantitative. Le azioni collegate alle prime hanno lo scopo di dimostrare i punti
deboli del nemico evidenziandone la vulnerabilità agli occhi dell’opinione
pubblica, ma anche di creare crisi nel sistema di valori colpendo i simboli
della cultura. Quelle inerenti le seconde, invece, tendono a fare il più alto
numero possibile di vittime affinché il nemico recepisca non solo razionalmente, ma anche emotivamente, il messaggio. L’attitudine verso una
escalation di violenza e la selezione di target a forte impatto sul pubblico
sono il motivo per cui è possibile ritenere che il terrorismo religioso, come
fenomeno globale, sia purtroppo e non solo per la sempre più raffinata
tecnologia di comunicazione e l'accesso alle armi, destinato ad aumentare.
Parallelamente, occorre peraltro risaltare come non si intraveda ancora
ad oggi un concreto rischio di distruzione apocalittica (spettro talvolta a11 J. Habermas, Fondamentalismo e Terrore, in G. Borradori (ed.), Filosofia del terrore, cit.,
p. 32.
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gitato strumentalmente da intellettuali ed esponenti politici occidentali)
da parte del terrorismo religioso di matrice musulmana - attualmente il
più efficiente e temibile - non solo perché è ancora molto difficoltoso il reperimento di armi di distruzione di massa, ma, soprattutto, perché gli
equilibri politici e sociali che caratterizzano il mondo musulmano lasciano
ragionevolmente presumere come improbabile un sostegno generalizzato
di paesi e popolazioni musulmane alla “Guerra Santa”. Naturalmente questo non significa che il “terrorismo religioso” non sia estremamente pericoloso ed imprevedibile. Al contrario, lo è assolutamente perché persegue
un obiettivo spirituale che, se osservato alla luce dell’elaborazione fondamentalista appare - considerato che nessuno sarà mai in grado di sapere
quando Dio sarà sufficientemente soddisfatto ritenendo la situazione nei
cieli in equilibrio con quella sulla terra – decisamente insidioso, ancora
per molto tempo. A ciò si aggiungono elementi di carattere prettamente
operativo consistenti in una strategia basata in una straordinaria flessibilità che, mediante un’ampia attività globale imperniata in gruppi/sottogruppi non strutturati in catene gerarchico-piramidali ma organizzati in network inter/intra connessi, conferisce adattabilità a scenari
nuovi, tanto da poter affermare che il suo fronte non è mai localizzato.12
12 Attualmente, ad esempio, l’incubatrice di Al Qaeda sembra essere l’Algeria, ove si sono registrati attentati suicidi il 23.07.2008, il 03.08.2008, il 10.08.2008 ed il 19.08.2008 per complessivi 51 morti e 89 feriti. Le ultime due azioni sono state rivendicate da Al Qaida per il Maghreb Islamico (l’ex Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento). L’escalation di
violenza lascia ragionevolmente supporre che il gruppo qaidista si sia abilmente insinuato nelle
sempre più accese tensioni etniche che il regime di Algeri ha scatenato in Cabilia, ove il Presidente Abdelatiz Bouteflika, eletto nel 2006, aveva promesso alla minoranza dei cabili ampie riforme che avrebbero conferito loro autonomia amministrativa e culturale (persino
l’insegnamento nelle scuole della propria lingua), disattendo completamente l’impegno ed imponendo invece un regime sostanzialmente controllato dai servizi segreti. Il fenomeno algerino è
particolarmente avvertito come pericoloso perché pare sia formato da diversi gruppi algerini,
marocchini, mauritani e ciadani, negli ultimi tre anni organizzati e riuniti da nuclei provenienti
dall’Afghanistan - capeggiati da Abdelmalek Droudkdel (nome di battaglia Abu Mussab Abdel
Wadoud) - che hanno modificato le strategie e le tattiche che i gruppi locali avevano adottato
nella guerra civile algerina.
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9. Si può sconfiggere il terrorismo religioso?
In La costituzionalizzazione del diritto internazionale ha ancora una
possibilità?, Habermas illustra il pericolo di un terrorismo che ottiene un
consenso crescente attingendo energie dal fondamentalismo religioso. Il
mondo arabo vede in esso una rivalsa alla superiorità militare ed economica del mondo occidentale. L’intellettuale tedesco risalta l’importanza di
intervenire sulle ragioni che ne alimentano la diffusione, spiegando, in
particolare, come per sottrargli risorse e consenso sarebbe auspicabile agire sulle miserie ed ingiustizie - accentuate dalla globalizzazione - che il
terrorismo usa strumentalmente a fini politici per ricavare legittimazione
e coesione verso il fondamentalismo religioso, trasformando l’irrigidimento religioso nello sfondo motivazionale e valoriale per un’azione
di contrasto all’estensione mondiale dei processi di modernizzazione.
Questa lettura ha rafforzato la convinzione che il terrorismo religioso,
almeno nel futuro prossimo, non sia sconfiggibile. Non solo perché non è
contrastabile con i metodi adottati per altre forme di terrorismo, ma perché sia le soluzioni militari che quelle diplomatiche hanno sinora fallito.
Se consideriamo che dal 2001 il terrorismo, nonostante il rovesciamento del regime dei Talebani in Afghanistan e la destituzione di Saddam
Hussein in Iraq, è cresciuto di portata e di intensità, possiamo affermare
che le strategie sino ad oggi utilizzate si sono rivelate inidonee. Probabilmente perché non contemplanti la “componente morale” del “nuovo terrorismo”. Se, ad esempio, proviamo ad esaminare la strategia americana
ed europea – prescindendo dalle attività belliche rispettivamente intraprese – notiamo che la prima fa perno sulla dissuasione e l’indebolimento, basandosi, essenzialmente, sulla tesi che sia indispensabile ricorrere allo schema comunicativo utilizzato dal terrorismo stesso: il Presidente degli Stati Uniti, infatti, in tutti i discorsi pubblici, ripete concetti
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morali come “giustizia” e “libertà”, arrivando persino a nominare Dio per
descrivere la guerra al terrorismo come la guerra “all’impero del male”.
Quella dell’Unione Europea, invece, essenzialmente basata, almeno sino al 2005, sull’aiuto umanitario alle popolazioni (missioni militari) e la
contestuale negoziazione per alcuni avvenimenti di matrice Jahdista, e
quindi radicalmente diversa da quella U.S.A13, è ora orientata a prevenire
l’adesione alla Jihad di nuovi seguaci14; alla vigilanza, sia statica che dinamica, di possibili obiettivi, alla cooperazione delle attività di polizia in
un’ottica sistemica e sistematica anche tesa a investigare su scala globale.
Tra questi, quello di più difficile attuazione è senza dubbio il primo.
Mentre gli altri hanno componenti di carattere militare e di intelligence,
la selezione e il reclutamento ha invece risvolti psico-sociologici e culturali
molto complessi. E proprio questi, trasferiti operativamente sul piano del
contrasto al terrorismo religioso, si traducono nello stadio più cruciale.
Essendo il bagaglio motivazionale e valoriale degli aderenti alla Jihad
la linfa vitale delle organizzazioni fondamentaliste, queste, nell’attività di
reclutamento, adottano metodi di convincimento e coinvolgimento
appositamente studiati per penetrare nell’ambito decisionale dell’individuo allo scopo di rimuoverne gli strati protettivi della personalità soggiogandolo. Per le autorità, il confronto su questo terreno è denso di ostacoli
perché comporta il ricorso a tecniche di osservazione e controllo che possono scontrarsi con il rispetto di libertà individuali sancite costituzionalmente e che, in casi non relativi a fatti concreti, possono prestarsi all’accusa di intrusione nella privacy dei cittadini e di schedature di massa.
13
Giudizio personale maturato dall’analisi del comportamento, appreso attraverso i media
nazionali ed internazionali, assunto nel periodo 2001-2005 dai reparti italiani dislocati in Afghanistan e Iraq. L’apice della differenza di visione e strategia è chiaramente emerso nelle settimane immediatamente successive al drammatico epilogo della liberazione, avvenuta il
04.03.2005, della giornalista italiana Giuliana Sgrena con la contestuale uccisione del funzionario dei servizi di sicurezza e informazione italiani Nicola Calipari.
14 Una specifica Strategia, denominata "The European Union Strategy for Combating Radicalisation and Recruitment to Terrorism", adottata nel 2005, affronta gli aspetti di prevenzione, con particolare riferimento allo sviluppo della capacità di affrontare le circostanze che possono facilitare la radicalizzazione e il reclutamento, attraverso la cooperazione degli Stati membri e delle istituzioni comunitarie, nonché degli Stati terzi e delle organizzazioni internazionali.
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In effetti tali strumenti sono rischiosi e possono trasformarsi in armi a
doppio taglio. A mio avviso, lo stesso Habermas diviene indirettamente o
implicitamente un autorevole sostenitore di questa tesi quando, nella intervista rilasciata a Mendieta “Sulla guerra, la pace e il ruolo dell’Europa”
(2003), parlando di “Legislature Eccezionali” spiega che le restrizioni delle libertà adottate dagli stati europei (Italia, Germania e Spagna) alla fine
degli anni ’70 per fronteggiare l’emergenza terroristica avrebbero «vaccinato gli europei contro una resa delle libertà civili allo stato di polizia».15
10. Il caso italiano.
La valutazione del caso italiano non può, a questo punto, non partire
dall’eco lasciato dalla frase dell’intellettuale tedesco, la quale, sul piano
investigativo, rimanda direttamente al principio costituzionale di libertà
di pensiero e di religione, e, pertanto, alla relativa conseguenza che, eventuale attività di propaganda, per rivestire carattere di reato, deve assumere il connotato di istigazione (Art. 302 Cod. Pen.) o di apologia di delitti
contro la personalità dello Stato, tra i quali rientra anche il terrorismo.
Correlabili a questo, in materia di terrorismo, esistono gli articoli 414 e
415 Cod. Pen. che, in linea più generale, prevedono come reati l'istigazione a delinquere e l'istigazione a disobbedire le leggi. In alcuni casi è configurabile l'ipotesi di concorso esterno nell'associazione terroristica da parte di soggetti che, pur non essendo organici al sodalizio criminoso, possono, in qualche maniera, portare allo stesso vantaggio. Si tratta, però, di
un concetto dai contorni piuttosto incerti e diversamente interpretabili.
Sul piano operativo, è un problema assolutamente complicato e
difficilmente risolvibile perché, ad esempio, in una società liberale e
democratica è possibile arrestare un Imam che, nell’ambito della propria
attività svolta all’interno di un luogo di culto, impartisce insegnamenti
15
J. Habermas, trad. it. “Sulla Guerra e la Pace”, in Id.Dgw.Kpsx, cit.,pp. 85, 86.
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“suggestivi”? No, ovviamente. Fatta eccezione nel caso in cui non
venga concretamente dimostrato che i contenuti degli insegnamenti racchiudevano in sé caratteristiche sovversive. E sulla base di quali parametri
possono essere individuati prima, e misurati poi, questi contenuti?
Sempre secondo la vigente legislazione, l'intervento repressivo penale
può essere anche attuato in forza dell'Art. 305 che prevede la cospirazione
politica mediante associazione, con l'Art. 306 (banda armata) e l'Art. 307
(assistenza ai partecipi di cospirazioni o di banda armata). La normativa
relativa al terrorismo prevede come reato l'associazione con finalità di terrorismo (Art. 270 bis Cod. Pen.), e prevede l'attentato per finalità terroristiche (Art. 280 Cod. Pen.). Una legge relativamente recente, che ha visto
la luce il 25 Gennaio 2006 (Ddl S3538) riformula diversi articoli del Codice Penale nell’ottica di un concetto-nozione collegato alla volontà di menomare l'indipendenza o l'unità dello Stato (Art. 241 Cod. Pen.), alla sovversione con violenza degli ordinamenti economico-sociali e alla soppressione violenta dell'ordinamento politico e giuridico dello Stato (Art. 270
Cod. Pen.). La nuova legge, che pone particolare attenzione ad evitare
motivi o pretesti religiosi per il terrorismo, ha pertanto modificato il titolo
(IV°, Parte II°) “Delitti contro la religione dello Stato e i culti ammessi” in
“Delitti contro le confessioni religiose”, modificando, in conseguenza, gli
Artt. 402 e seguenti con riferimento alle confessioni religiose in genere.
Più nel dettaglio lo strumento di contrasto contro il terrorismo religioso è
l'Art. 3 (L. 654/1975 Mod. 25/1/2006) che punisce con la reclusione o la
multa non soltanto la propaganda di idee sulla superiorità o odio razziale
o etnico, ma anche “chi istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”. Proprio nella sua
capacità di intervenire in fase prodromica la norma si rivela estremamente complessa e delicata, riportando - per essere certi di agire correttamente e secondo principi democratici e costituzionali - alla questione della definizione di concetti come istigazione, cospirazione e concorso esterno.
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11. Conclusioni.
La domanda è aperta: si può sconfiggere il “terrorismo religioso”?
E forse, in modo provocatorio, sarebbe opportuno rispondere con una
domanda che rende lo “stato dell’arte”: i nuovi terroristi hanno già vinto?
Si. In una certa misura hanno gia vinto. E’ possibile affermarlo se pensiamo che le società liberali degli stati occidentali hanno incrementato il
ricorso a misure eccezionali anche scivolando su questioni quali Abu
Ghraib e Abu Omar. Infatti, questo dimostra che il “nuovo terrorismo” è,
innanzitutto, un fenomeno politico, che ha cause politiche e che persegue
obiettivi politici, e che, pertanto, dichiarare “Guerra al terrorismo” significa riconoscergli uno statuto culturale dallo stesso utilizzabile per allargare
la propria sfera d’influenza convincendo e motivando nuovi adepti. In estrema sintesi, si deve sottolineare che l’intelligence può combattere il terrorismo, ma per debellarlo è indispensabile la politica. Occorre, necessariamente, prendere atto che i sistemi tipici delle indagini classiche non
sono efficienti, almeno nella fase concettuale delle strategie da scegliere. È
indispensabile elaborare un concetto a struttura simmetrica, da una parte
teso a porre la massima cura nella ricerca degli strumenti “operativi” in
grado di intervenire prima, concentrandosi nel tentativo di individuare le
organizzazioni terroristiche partendo dall’assunto che queste, spesso, sono appendici di altre, più estese, articolate e generalmente non pericolose.
Dall’altra, con un percorso “politico” che miri, come scrive Habermas –
non condividendo le tesi sullo scontro di civiltà di Huntington – a far si
che l’Occidente assuma la responsabilità progettuale di un ordine socioeconomico che corregga politicamente il processo di globalizzazione superando le conseguenze di una globalizzazione percepita alla stregua di un
fronte imperialista. Solo una “politica alta”, senza pregiudizi e protesa alla
ricerca della comprensione dei motivi che inducono un individuo ad abbracciare il “terrorismo religioso” come unica possibilità di vita, può im-
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pedirgli di fare proseliti. È necessario assumere come punto cardinale cui
orientare ogni considerazione il fatto – più volte ribadito – che il senso di
alienazione come conseguenza dell’esclusione sociale e della ignoranza è il
principale congegno del meccanismo motivazionale del potenziale “terrorista religioso”, a cui è necessario contrapporre pertanto condizioni sociali
positive creando delle possibilità aggregative per l'inclusione sociale e
combattendo l'alienazione con soluzioni idonee alle aspettative attuali.
A tal fine, come è stato sottolineato, è indispensabile promuovere i
movimenti sociali e la mobilità sociale, la discussione pubblica, il confronto di idee diverse, dando la possibilità ai giovani di esprimere i loro
dubbi, offrendo interpretazioni che consentano la moltiplicazione di
punti di vista differenti ed ammettendo anche un certo grado di “personalizzazione” del credo religioso, considerando come anche la società occidentale abbia al suo interno ortodossie ebraiche e cristiane irrigidite.
In conclusione, penso sarebbe opportuno cercare un nuovo “Ordine
Mondiale” costituito da Stati nazionali che, trasformando le spinte insite
nella globalizzazione, giungano alla realizzazione di un’architettura politica planetaria con protagonisti gli stessi Stati nazionali nell’ambito di consessi internazionali (con la ridefinizione di ruoli e strategie per l’ONU ed il
suo consiglio di sicurezza, ad esempio) operando come degli attori del loro stesso cambiamento in un’ottica globale. Occorre, però, riprogettare le
istituzioni create in passato ripensandone le missioni atteso che il compito loro affidato è più complesso di quanto lo fosse mezzo secolo fa. Non a
caso, gli accordi che attualmente propiziano spesso non solo indicano obiettivi senza avere e/o mettere a disposizione gli strumenti per raggiungerli, ma, talvolta, possono anche comportare risvolti controproducenti
(ad esempio il noto potere di veto dei membri permanenti ) perché evidenziano pesi specifici politici differenti. Questo richiede che alla base di
tutto, e prima di ogni altra cosa, vi sia, da parte di ogni Stato, il mantenimento della propria identità mediante una “sovranità” prodotta da
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un’autorevolezza determinata dalla capacità di includere tutte le componenti interne della propria società, conferendo ad ognuna, sui piani formali e sostanziali, “uguaglianza” di diritti e dignità. “Sovranità” e “uguaglianza” è, pertanto, un binomio indissolubile, una condizione irrinunciabile per trasferire potere legittimo a istituzioni internazionali che sappiano restituirla, quando e nei modi che servono, al luogo di origine in forma
compatibile con gli interessi delle nazioni e dei popoli che in esse vivono.
L’attuabilità di quanto illustrato presenta certamente un alto grado di
utopia. Per altro verso, essendo per così dire “innate” nella globalizzazione
spinte capaci di fertilizzare l’utopia insita in essa, possiamo porci la seguente domanda: l’utopia come strategia antiterrorismo? È una domanda
forte, ma come disse il drammaturgo e commediografo irlandese Bernard
Shaw: “il mondo va governato dai saggi ma progredisce per le idee
dei pazzi”. Spero che un giorno “la politica” possa coglierne il significato.
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24
Bibliografia di riferimento
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Padoa Schioppa T., Dodici Settembre. Il mondo non è al punto zero, Milano, Edizioni
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