Direttore "Arte e Critica" e Professore di Storia dell`Arte della Scuola

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Direttore "Arte e Critica" e Professore di Storia dell`Arte della Scuola
I territori della scultura contemporanea. Arte all'aperto in Emilia Romagna.
Realtà ed esperienze a confronto - Ferrara, Salone del restauro, 3 aprile 2003
Intervento di Roberto Lambarelli
Direttore "Arte e Critica" e Professore di Storia dell’Arte della Scuola Nazionale di Danza di
Roma
Un’ipotesi di modernità
Raccoglierò l’invito della nostra coordinatrice ad essere breve, data l’ora. In qualche modo creerò
un’inversione di rotta rispetto agli ultimi interventi, incentrati sullo specifico della scultura, dei suoi problemi,
dei materali, del rapporto con l’ambiente, sul restauro, e via dicendo. Tornerei cioè, se pur brevemente, e
quindi con tutti i limiti della brevità, a vedere il fenomeno della scultura all'aperto da un punto di vista più
generale, come fenomeno appunto. E la mia riflessione parte da alcune esperienze personali fatte nel corso
degli anni Novanta.
Il mio primo approccio con il problema degli interventi organici di scultura all'aperto è stato in occasione
dell’invito da parte dell'amministrazione comunale di Ozieri (SS) a curare la fondazione di un parco di
scultura all'aperto. In realtà l’idea iniziale del Comune era quella di dar vita ad un "simposio", una sorta di
estemporanea di scultura che in Sardegna ha una qualche tradizione.
Era il 1994, a quella data era già nato il parco di Santa Sofia, a San Gimignano si facevano i primi degli
interventi all’aperto e a Peccioli, sempre in Toscana, si stava lavorando in questa stessa direzione, insomma,
si stava diffondendo, con una certa gradualità, la pratica della scultura all'aperto, dei "parchi di scultura
all'aperto", e si andava stringendo sotto il segno della scultura il rapporto tra amministrazioni comunali e
mondo dell’arte.
Il fenomeno in realtà non era nuovo, tutto il ‘900 è costellato da momenti di incontro tra scultura e ambiente
naturale o urbano, ma era nuovo, in qualche modo, il forte ritorno di interesse su questi temi proprio tra gli
anni ‘80 e gli anni ‘90.
Ad Ozieri capirono che trasformando l’idea del simposio nella fondazione di un parco di scultura all’aperto, si
sarebbero inseriti in un dibattito di grande attualità e decisero addirittura di considerare questa prima
rassegna, con i suoi venti interventi permanenti che proponevo, come l'atto costitutivo di un museo
all'aperto.
Una delle condizioni obbligate di quel progetto era l’utilizzo della pietra e del ferro; la pietra era una trachite
rosa, molto diffusa localmente, e il ferro testimoniava di un’intensa attività artigianale altamente sentita in
quella cittadina. Il fatto di arrivare sul posto, prendere visione della realtà urbana, dover adoperare un
materiale naturale con l’utilizzo degli artigiani del luogo, faceva parte di un disegno preciso che rispecchiava
le istanze su cui ci si andava confrontando in quegli anni.
Poi, purtroppo, non si è più andati avanti perché è subentrata una nuova amministrazione e le cose sono
cambiate; i progetti della precedente amministrazione non sono stati raccolti da quella che seguiva, anche se
il colore politico era lo stesso. Ma in Italia siamo abituati a tutto questo, a non vedere rispettati gli impegni
presi ad ogni cambiamento d’amministrazione.
Quello che mi colpì particolarmente di quell’esperienza è stato il grande entusiasmo con il quale tutti gli
artisti invitati (tra cui Carrino, Catelani, Corsini, Guaita, Mainolfi, Messina, Nunzio, Pirri, Ragalzi, Sciola,
Spagnulo e Staccioli) presero parte al progetto con entusiasmo, anche se il budget disponibile era come
sempre esiguo. Per giustificarmi tanto interesse pensai che fosse la Sardegna, con la sua forza quasi
primordiale, ad attrarre gli artisti in un rapporto con il genius della terra, con i miti, gli archetipi. Era questa
un'interpretazione legata ancora agli anni ‘80, al recupero della tradizione, della memoria dell'archetipo, ma
forse, più semplicemente, quelle generose adesioni testimoniavano il clima culturale in atto.
Qualche anno dopo cominciammo a pubblicare con "Arte e Critica" una serie di fascicoli, tre per l'esattezza,
dedicati in qualche maniera alle istituzioni pubbliche: il primo era incentrato sul ruolo delle gallerie pubbliche,
il successivo era un’indagine-censimento sui parchi di scultura all'aperto e il terzo aveva come tema l’arte
nella realtà urbana; una sorta di trilogia, vista oggi a posteriori, che mi confermò la centralità di quel tipo di
interventi (Ozieri così come gli altri che in quegli anni stavano nascendo), di quel tipo di atteggiamento da
parte delle istituzioni pubbliche nei confronti dei fatti dell’arte e, viceversa, dell’esigenza da parte degli artisti
di confrontarsi con una platea più ampia, di coronare il sogno che era stato proprio delle avanguardie, di
arrivare al pubblico della città, e da questa risalire cioè al sociale nel suo complesso.
Dal numero dedicato ai parchi-museo di scultura all’aperto emerse chiaramente lo sviluppo che caratterizzò
quel fenomeno. Lo riassumo brevemente: dopo un precedente assoluto che è quello di Gibellina - nato a
seguito del terremoto del Belice del ‘68 - che vide riuniti negli anni ‘70 architetti e artisti in un progetto
corale, dopo quel precedente, dicevo, negli anni ‘80 nacquero alcuni di quelli che sono stati poi definiti parchi
di scultura, uno era la Fattoria di Celle, un altro la Fiumara D'Arte, in Sicilia, poi Campo del Sole, tra quelli
più interessanti, molti altri, invece, sono nati proprio negli anni ‘90, ricordavo prima, fra gli altri, S. Sofia, del
‘93, ma anche Peccioli è di quel periodo, e poi, a seguire, Tortolì, Riccione, fino a Villa Glori a Roma. A
seguire facemmo un altro numero, l'anno successivo, sull'arte e la realtà urbana, chiedendo una serie di
interventi a diversi personaggi, e venne fuori sia nelle riflessioni degli artisti sia nel documentare alcuni
interventi che stavano prendendo vita proprio in quel momento, la possibilità di registrare un incremento del
tutto nuovo di quel fenomeno; nascevano proprio in quegli stessi anni il progetto delle 100 piazze a Roma,
quello dei mosaici nelle metropolitane romane, idea ripresa poi a Napoli, che in qualche maniera
partecipavano del rapporto fra arte e città, nasceva il progetto per il passante ferroviario di Torino dove lo
studio Gregotti associati aveva recuperato l'area dismessa del polo ferroviario e aveva stabilito una serie di
interventi di artisti assegnando loro dei temi, c'era il progetto per il quartiere di Librino dello stesso
protagonista della Fiumara d'Arte in Sicilia, Antonio Presti, insomma, c'era veramente un importante
fenomeno in atto, e questo dimostrava come le istituzioni pubbliche potessero portare un contributo
importante nella direzione di un impegno, se non sociale, almeno civico dell’arte, nella direzione cioè della
stessa idea di modernità che l’arte del Novecento aveva espresso con forza.
Poi c’è stata una crisi, e seppure continuino a nascere realtà di scultura all’aperto, il fenomeno in sé, nella
sua complessità politica e nel suo vigore artistico, ha subito un arresto.
E lo si è capito proprio al trapasso del decennio, dell'ultimo decennio dell'altro secolo, perché si sta parlando
di cose che appartengono appunto al secolo passato. Da una parte il problema del susseguirsi delle
amministrazioni con la conseguente perdita di interesse per i progetti avviati dalle precedenti, ha portato una
grande confusione e, soprattutto, delle gravi battute d’arresto di processi in realtà molto vitali, mettendo in
discussione i presupposti stessi sui quali quei progetti nascevano, e cioè il fatto che quelle iniziative si
reggevano proprio sulla partecipazione attiva della componente pubblica, che doveva contrapporsi, o meglio
dialogare, con il privato.
In uno di quei numeri di "Arte e Critica" prima ricordati scrissi che quello della scultura all’aperto era l’ultimo
momento di una possibile verifica del ruolo dell’arte nella società contemporanea, e oggi, con rammarico,
non si può che registare un fallimento, e non certo per mancanza di energie creative, ma per l’incapacità
costituzionale del nostro paese a vivere la cultura come investimento a lungo termine, per l’incapacità ad
affrontare la cultura come un capitolo che va posto al di sopra delle logiche miopi proprie
dell’avvicendamento al potere.
Dall’altra parte, contemporaneamente, sono emersi con chiarezza i problemi legati alla gestione dei musei
pubblici, delle gallerie civiche, soprattutto nel rapporto con il sistema dell’arte.
Negli anni ‘80 l’attività dei musei e delle gallerie pubbliche aveva ripreso grande vigore, nonostante il fatto
che ci fosse parallelamente, proprio in quel momento, una forte ripresa del mercato dell'arte. Di solito,
infatti, il rapporto tra mercato privato e istituzione pubblica risente del fluttuare di questi due poli, del
crescere dell'uno e del decrescere dell'altro e viceversa, mentre in quegli anni assistemmo da una parte al
recupero del mercato, quindi ad una rinascita, un'accelerazione, con grandi interessi e molto capitale in
circolazione, e dall'altra parte alla crescita delle gallerie civiche, al punto tale che avevano quasi adombrato il
ruolo di promozione e produzione che era sempre stato per lo più appannaggio delle gallerie private.
Negli anni ‘90, il fenomeno delle amministrazioni pubbliche che intervengono direttamente nella produzione
delle opere è cresciuto ancora, e ha creato una situazione del tutto particolare, che ha visto il "pubblico"
quasi scalzare o comunque porsi in alcuni casi in seria alternativa al "privato", cioè al mercato dell'arte. Un
insieme di fatti che permise a più di qualcuno di vedere una strada alternativa a quella di mercato, così come
negli anni Sessanta si era visto nelle accademie, nell’università, nella scuola in genere, una possibile
alternativa. Non è un caso, per esempio, che proprio in quel periodo la Legge del 2% sia stata ripresa, rivista
e riproposta con grande attualità e si sia riacceso un discreto dibattito intorno a una legge che è sempre
stata molto discussa perché di fatto permetteva un afflusso di denaro pubblico per la realizzazione di opere
d’arte all'esterno del mercato tradizionale.
Oggi, purtroppo, mi sembra di poter dire che questo fenomeno sia molto rientrato, nel senso che da parte
delle amministrazioni pubbliche si registra una certa stanchezza, anche perché abbiamo capito tutti, nell'arco
di un quindicennio di esperienze, che non è possibile avere una costanza di partecipazione e impegno per le
ragioni cui accennavo poc’anzi. Inoltre la ripresa del mercato, che è sempre più esigente e sempre più rivolto
alla scena internazionale, impedisce o troppo spesso condiziona le attività stesse delle gallerie civiche e delle
amministrazioni pubbliche.
E qui chiudo, sottolineando proprio la difficoltà da parte delle istituzioni pubbliche nel mantenere
costantemente nel tempo una politica culturale. Senza contare, poi, il fascino della potenza del libero
mercato che in questa contingenza storica va raccogliendo il massimo dei consensi.
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