Echi nel Tempo - IIS Severi
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Echi nel Tempo - IIS Severi
Echi nel Tempo LEOPARDI IN MONTALE La felicità nell’attesa. La presenza di Leopardi nella poesia italiana del Novecento esigerebbe un’indagine ampia e complessa, che non è possibile tentare in questa sede (occorrerebbero le pagine di un ampio volume). Ci limiteremo a rilevare qualche eco in quello che appare ormai il nostro più grande poeta novecentesco, Montale. È un poeta che sembrerebbe ben lontano dalla lezione leopardiana, specie per la cifra stilistica, così estranea, almeno nella prima fase poetica, alla limpida musicalità del poeta degli idilli, in obbedienza all’idea della parola poetica come «storta sillaba, e secca come un ramo», enunciata in una poesia-manifesto come Non chiederci la parola. Eppure anche in Montale la presenza leopardiana è importante. Si leggano questi versi, tratti dalla sezione intitolata Ossi di seppia del volume omonimo, il primo libro di versi montaliano (1925): 5 10 LA DISTANZA NELLO STILE in alto, – e un secco greto. “IlIl sole, mio giorno non è dunque passato: l’ora più bella è di là dal muretto che rinchiude in un occaso scialbato [pallido tramonto] l’arsura, in giro; un martin pescatore volteggia s’una reliquia [resto] di vita. La buona pioggia è di là dallo squallore, ma in attendere è gioia più compita. ” Già l’immagine dell’«arsura», come allegoria di una condizione desolata non solo dell’uomo ma del cosmo intero, presenta affinità con la visione leopardiana della condizione cosmica (si pensi, nella Ginestra, all’«arida schiena» del vulcano distruttore e al paesaggio di lava indurita e «ceneri infeconde» che lo circonda, immagine obiettivata della condizione umana). Ma di schietta derivazione leopardiana è soprattutto l’idea che informa la lirica ed è enunciata esplicitamente nella chiusa. La gioia più compiuta consiste nell’attendere, nel proiettarsi verso il futuro con l’illusione e la speranza, non nel godimento in atto, nel presente. È facile riconoscere l’idea informatrice di uno dei canti leopardiani più famosi, Il sabato del villaggio. L’ARIDITÀ Il muro e la siepe. Anche l’idea che «l’ora più bella» sia «di là dal muretto» che ci richiude come una metaforica linea dell’orizzonte, richiama l’idea leopardiana della felicità sempre posta al di là di un ostacolo, che proprio con la sua presenza stimola l’immaginazione a crearsi mondi fantastici di piacere senza limiti. Il «muretto» montaliano è dunque in qualche modo l’equivalente dei «monti azzurri» delle Ricordanze, che il poeta fanciullo sognava di varcare, «arcani mondi, arcana / felicità fingendo» alla sua vita futura, ancora ignaro del suo destino reale e della sorte dolorosa che lo avrebbe spinto tante volte a desiderare la morte. Ma è anche affine alla «siepe» dell’Infinito, altro ostacolo grazie al quale «l’immaginario sottentra al reale», come Leopardi scrive nello Zibaldone. Certo l’oggetto assunto come emblema da Montale è di natura diversa, meno poetica, che non la «siepe» o i «monti azzurri» leopardiani, anzi è volutamente un oggetto povero, squallido, in consonanza con la visione desolata di un poeta che assume come titolo della sua raccolta gli «ossi di seppia», i miseri, insignificanti detriti che il mare lascia sulla sabbia. Il muretto appena imbiancato a calce è allora da accostare ad altre immagini affini. Il «rovente muro d’orto» presso cui il poeta trascorre il suo «meriggiare pallido e assorto», contemplando l’aridità che lo circonda, il muro che ha in cima «cocci aguzzi di bottiglia», per impedire ogni fuga dalla prigionia nella condizione esistenziale e che il poeta costeggia «andando nel sole che abbaglia» e sentendo «con triste meraviglia / com’è tutta la vita e il suo travaglio», o ancora lo «scalcinato muro» su cui la «canicola» stampa l’ombra dell’uomo sicuro di sé e ignaro della mancanza di senso dell’esistenza (il riferimento è a due liriche famose degli Ossi, rispettivamente Meriggiare pallido e assorto e Non chiederci la parola che squadri da ogni lato). Aridità e indifferenza. Nei Canti leopardiani all’aridità esteriore della condizione umana fa riscontro l’aridità interiore del poeta che ha scoperto con terribile lucidità il vero volto dell’«acerbo vero», il «niente» che lo circonda, scoperta che spegne ogni moto della sensibilità e del sentimento. È la condizione descritta in una lettera a Pietro Giordani del 19 novembre 1919: Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria – Paravia © Pearson Italia S.p.A. IL «MURETTO», I «MONTI AZZURRI», LA «SIEPE» IL MOTIVO DEL MURO L’«ACERBO VERO» LEOPARDIANO 1 così stordito del niente che mi circonda, che non so come abbia la forza di prende“Sono re la penna per rispondere alla tua del primo. Se in questo momento impazzissi, io credo cha la mia pazzia sarebbe di seder sempre cogli occhi attoniti, colla bocca aperta, colle mani tra le ginocchia, senza né ridere né piangere, né muovermi altro che per forza dal luogo dove mi trovassi. Non ho più lena di concepire nessun desiderio, neanche della morte [...]. Sono così spaventato dalla vanità di tutte le cose, e della condizione degli uomini, morte tutte le passioni, come sono spente nell’animo mio, che ne vo fuori di me, considerando ch’è un niente anche la mia disperazione. ” Un’analoga condizione di inaridimento interiore, che spegne ogni moto dell’animo, generando atonia e indifferenza, è delineata da Montale: vita, a te non chiedo lineamenti “Mia fissi, volti plausibili o possessi: 5 IL «MALE DI VIVERE» IN MONTALE nel tuo giro inquieto ormai lo stesso sapore han miele e assenzio [piacere e dolore] Il cuore che ogni moto tiene a vile raro è squassato da trasalimenti. Così suona talvolta nel silenzio della campagna un colpo di fucile. ” Come sempre, Montale punta deliberatamente su immagini prosaiche, “impoetiche”, in un’ostinata volontà di sliricizzare il discorso della poesia: il “canto” non avrebbe ragion d’essere in quella condizione di aridità e paralisi interiore. L’indifferenza stoica può essere però l’unica maniera per affrontare il «male di vivere», per non patirlo in sé: il male di vivere ho incontrato: “Spesso era il rivo strozzato che gorgoglia, 5 era l’incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato. Bene non seppi* fuori del prodigio che schiude la divina Indifferenza** Era la statua nella sonnolenza del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato. ” * non ho conosciuto altra forma di bene. ** all’infuori dell’indifferenza prodigiosa, propria degli dei. L’IMPASSIBILITÀ STOICA IL MALE COSMICO LA VITA CHE RESISTE AL DESERTO 2 Questa stoica impassibilità montaliana di fronte all’ostilità della natura sembra risentire anch’essa della lezione leopardiana, più esattamente della fase in cui Leopardi guardava alla dottrina dello stoicismo, la fase delle Operette morali. Il «male di vivere» si concreta in Montale in tre immagini diverse, appartenenti sia al regno animale (il cavallo «stramazzato», ucciso dalla fatica), sia a quello vegetale (la «foglia riarsa» che si accartoccia), sia a quello minerale (il «rivo strozzato», il cui gorgogliare risuona come un lamento di sofferenza): è dunque un male cosmico, che coinvolge tutti gli esseri, viventi e non viventi. Di nuovo è riconoscibile una consonanza con la visione leopardiana del male connaturato con l’essenza stessa di tutto ciò che esiste, visione che possiamo trovare nel Dialogo della Natura e di un Islandese e in un passo famoso dello Zibaldone, in cui si descrive un giardino come luogo colmo di sofferenza. Ma anche dello stoicismo della Ginestra è riconoscibile una traccia in Montale. La «pianta / che nasce dalla devastazione / e in faccia ha i colpi del mare ed è sospesa / fra erratiche forze di venti», la «margherita» spuntata dal «pezzo di suolo non erbato» che si è spaccato proprio perché potesse nascere il fiore (Mediterraneo, in Ossi di seppia), l’agave che nasce nell’«arsiccio terreno gialloverde» bruciato dallo scirocco e che «s’abbarbica al crepaccio / dello scoglio / e sfugge al mare da le braccia d’alghe» (L’agave su lo scoglio) richiamano la ginestra leopardiana, il fiore che nasce dall’arida distesa della lava e rappresenta la vita che ostinatamente, Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria – Paravia © Pearson Italia S.p.A. stoicamente resiste al deserto, alla potenza devastante della natura. La memoria. Un altro motivo leopardiano che ritorna in Montale, sia pure in forme peculiari, è quello della memoria. In una poesia delle Occasioni (1939) il poeta si rivolge all’immagine di una donna morta giovane che riaffiora nel ricordo: «Tu non ricordi la casa dei doganieri / sul rialzo a strapiombo sulla scogliera [...]». L’incipit rimanda evidentemente a quello di A Silvia, dove egualmente il poeta si rivolge a una fanciulla morta nel fiore dell’età: «Silvia, rimembri ancora [...]». Si nota però un rovesciamento di segno: Leopardi invita la donna a ricordare, Montale rassegnatamente afferma che essa non ricorda il passato. Se per Leopardi la memoria (insieme con l’illusione) è uno dei mezzi con cui l’uomo può strapparsi all’«arido vero» e trasfigurare la realtà del mondo, per Montale anche questa possibilità si dilegua: «Tu non ricordi; altro tempo frastorna / la tua memoria; un filo s’addipana [si aggroviglia]. // Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana / la casa e in cima al tetto la banderuola / affumicata gira senza pietà. / Ne tengo un capo; ma tu resti sola / né qui respiri nell’oscurità». Solo il poeta ostinatamente tiene un capo del filo dei ricordi, ma il filo s’aggroviglia, il passato si allontana e appare irraggiungibile. La banderuola segnavento che gira implacabile è l’emblema di una condizione esistenziale bloccata, che ruota sempre su se stessa senza mai poter mutare, in un moto solo apparente che è in realtà immobilità. L’IMPOSSIBILITÀ DEL RICORDO L’infanzia e l’età adulta. Sia in Montale sia in Leopardi legato al motivo del ricordo è quello dell’infanzia, a cui ci unisce la memoria del nostro passato. Il motivo compare in una poesia montaliana sempre degli Ossi, intitolata Fine dell’infanzia. Per Leopardi l’infanzia è l’età privilegiata delle illusioni, degli «ameni inganni», e la sua fine implica il dissolversi delle «belle fole» e lo scontro doloroso con l’«arido vero». Anche per Montale il passaggio dall’infanzia all’età adulta è la fine di un’illusione. Il poeta rievoca le scorribande infantili nell’ampio paesaggio ligure, lungo il mare e per i sentieri dell’entroterra. I fanciulli vivevano attimo per attimo, ognuno dei quali passava senza lasciare traccia, non era che un’avventura nuova alla scoperta del mondo («Ogni attimo bruciava / negli istanti futuri senza tracce. / Vivere era ventura troppo nuova / ora per ora, e ne batteva il cuore»). La natura sembrava qualcosa di solido, in cui trovare rifugio e sicurezza («D’altra semenza uscita / d’altra linfa nutrita / che non la nostra, debole, pareva la natura»). L’infanzia era l’età delle illusioni («Eravamo nell’età illusa»). La consonanza con la visione leopardiana della fanciullezza appare evidente, e parimenti Montale, come Leopardi, sembra postulare un rapporto amichevole dei fanciulli con la natura, che essi popolano delle loro belle fantasie e da cui attingono la loro spontanea, gioiosa energia vitale. Ma il passare rapido dei giorni, che conduceva alla maturità, «sommerse ogni certezza». All’affacciarsi della vita adulta «l’inganno ci fu palese» (come scrive Leopardi, «il vero appena è giunto a noi ti vieta, / o caro immaginar»). La vita si presenta allegoricamente con l’aspetto di possenti nubi sul mare oscuro, sconvolto come se si preannunciasse una tempesta. Ormai l’età infantile, che con la fantasia sapeva trasformare lo spazio angusto di un cortile in un mondo, è lontana, estranea («Strania anch’essa la plaga / dell’infanzia che esplora / un segnato cortile come un mondo!»). È finita l’età della fantasia, l’età adulta imposta un diverso rapporto con il mondo, non lo trasfigura con l’immaginazione ma lo studia nella sua realtà effettiva con piena consapevolezza («Giungeva anche per noi l’ora che indaga. / La fanciullezza era morta in un giro a tondo»). Il poeta si volge indietro con nostalgia a ricordare i giochi infantili. Era un’età in cui la vita scorreva serena, tranquilla, senza presagire le tempeste future. Ora non resta che attendere lo scoppio della tempesta, che viene a sconvolgere la «finta calma del mare», cioè a segnare la fine delle illusioni infantili. A differenza di Leopardi, però, per Montale la fine dell’infanzia è un passaggio necessario, che porta all’età della maturità e della consapevolezza: essa quindi non ha la connotazione totalmente negativa che possiede nella meditazione leopardiana. Tuttavia le immagini finali della poesia fanno pur sempre sentire come quel passaggio sia doloroso, come la vita da affrontare sia qualcosa di difficile, duro, violento, a differenza del beato Eden infantile. Il sarcasmo sui miti contemporanei. In un importante saggio (Il Leopardi di Montale, in Il dialogo e il conflitto, Laterza, Roma-Bari 1999), Romano Luperini ha indicato ancora una zona di coincidenza tra l’ultimo Montale e il Leopardi della Palinodia, della Ginestra e dei Paralipomeni, il Leopardi che riversa il suo tagliente sarcasmo pessimistico sui miti della propria età. Anche il Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria – Paravia © Pearson Italia S.p.A. L’ETÀ DELLE ILLUSIONI LA FINE DELLE ILLUSIONI UN NECESSARIO PASSAGGIO ALLA MATURITÀ L’ULTIMO MONTALE E L’ULTIMO LEOPARDI 3 LA POLEMICA FILOSOFICA E POLITICA 4 Montale di Satura, del Diario del ’71 e del ’72, del Quaderno di quattro anni, osserva Luperini, «sottopone ai veleni corrosivi del suo sarcastico scetticismo tutti i miti della civiltà occidentale». Il legame tra i due poeti riguarda la sfera filosofica come quella politica. Per il primo aspetto, Montale, come Leopardi, ipotizza un creatore malvagio che deliberatamente tiene lontano l’uomo dalla verità e lo chiama anch’egli «Arimane», con evidente richiamo al poeta di Recanati («Arimane è all’attacco e non cede»: Chi è in ascolto, nel Quaderno di quattro anni). Sul piano politico, come il Leopardi della Palinodia l’ultimo Montale scaglia il suo sarcasmo «contro le gazzette, le comunicazioni di massa, i luoghi comuni, i miti e i riti della società borghese» e finge ironicamente di celebrare l’epoca presente: «No, non si può / magnificarla a sufficienza. Solo / ci si deve affrettare perché potrebbe / non essere lontana / l’ora in cui troppo si sarà gonfiata / secondo un noto apologo la rana». L’età presente, che si gloria delle sue conquiste, è paragonata alla rana della favola che si gonfia per diventare grande come il bue, ma come quella ben presto scoppierà: il sarcasmo montaliano sfocia nella prospettiva di una catastrofe apocalittica. Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria – Paravia © Pearson Italia S.p.A.