Contingenza illimitata, micromondi e dissociazione

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Contingenza illimitata, micromondi e dissociazione
DALILA BARRILE
Contingenza illimitata, micromondi e dissociazione:
una riflessione e una discussione sul paradosso antropologico
C’è per Massimo De Carolis un paradosso antropologico: gli esseri umani
vivono in un ambiente caratterizzato da un grado illimitato di variabilità e,
per sopravvivere, sono costretti a limitare questa variabilità, ma possono
farlo solo utilizzando proprio quelle dimensioni dell'esperienza (linguaggio
e lavoro) che producono un grado così elevato di contingenza. La configurazione che ne risulta dei rapporti tra processi sociali e processi psichici dà
sostanza e titolo alla sua interessante ricerca Il paradosso antropologico. Nicchie, micromondi e dissociazione psichica, Macerata, Quodlibet, 2008, già anticipata dall’autore nel saggio “Ritagliare una nicchia. Dispositivi sociali e
dissociazione psichica”, «Forme di Vita» 6/2007, pp. 9-35. Essa costituisce
uno sviluppo del precedente lavoro di De Carolis La vita nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica, Torino, Bollati Boringhieri, 2004.
Sulla base della tradizione dell’antropologia filosofica, e con particolare
riferimento alle formulazioni di Heidegger, De Carolis formula nel primo
capitolo (“Nicchie”) lo specifico rapporto dell’animale umano al mondo. Il
non avere un ambiente geneticamente determinato comporta per esso da
un lato una duttilità congenita e dall’altro una esposizione senza filtri ‘al
mondo’. Con la prima emerge la capacità dell’uomo di adattarsi a ogni ambiente e più ancora a rimodellare qualsiasi ambiente in conformità alle sue
esigenze (cioè, di ‘formare un mondo’); la seconda, invece, presenta all’uomo un’infinità caotica di fatti che possono essere per lui pertinenti o no.
Quest’ultima non può non essere percepita come una minaccia che impone
quindi la costruzione di un guscio protettivo, di una nicchia artificiale in assenza di quella congenita (p. 28).
A differenza di altre specie, gli uomini presentano quindi una estrema
variabilità delle forme di vita, che non sono predeterminate, ma contingenti. In questa “contingenza illimitata” si ritrovano così sia una istanza di
apertura che spinge ad esplorare e sperimentare ogni possibile dimensione,
sia una istanza di protezione che invece spinge a ritagliare un mondo nel
mondo, a perimetrare una nicchia culturale.
Bollettino Filosofico 26 (2010): 393-399
ISBN 978-88-548-4673-9
ISSN 1593-7178-00026
DOI 10.4399/978885484673926
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De Carolis attribuisce in questa situazione un ruolo fondamentale al linguaggio “come autentico orizzonte della costruzione del mondo” (p. 41).
Benché Noam Chomsky sia poco citato (p. 19), il riferimento alla sua teoria della creatività linguistica è evidente, e dichiarato (p. 172 n. 4). Sarebbe
interessante confrontare le posizioni di De Carolis con quelle di Emilio
Garroni (Creatività, pref. di P. Virno, Macerata, Quodlibet, 2010 [19781]).
In particolare, a differenza di De Carolis, Garroni considera la creatività
non specificamente umana, ma comune a tutte le specie animali. In effetti,
a De Carolis da alcuni critici è stata rimproverata una separazione troppo
netta fra gli uomini e le altre specie animali.
Sulla contingenza illimitata e i suoi possibili limiti torneremo più DYDQWL.
Consideriamone ora l’aspetto sociale (e socio-politico), e l’aspetto psichico
individuale.
La rivisitazione e l’approfondimento sulla specificità della natura umana
come visione teorica generale si accompagna nel libro ad una ipotesi originale di De Carolis su una differenza radicale tra moderno e postmoderno,
fra il tipo di mondi formati – per intenderci – durante l’Ottocento e l’inizio del Novecento, e il tipo di mondi (anzi “micromondi”) che gli uomini
formano attualmente, a fine Novecento e inizio Terzo Millennio. Dal paragrafo sulla scissione verticale fino al quinto capitolo, che chiude appunto su
“La democrazia creativa” e “Politica e governamentalità”, questa questione
è come un filo rosso che attraversa tutto il volume, e viene analizzata nelle
sue radici e nelle sue conseguenze. Non a caso, il titolo “Il paradosso antropologico” si riferisce alla prospettiva filosofica generale, mentre il sottotitolo “Nicchie, micromondi e dissociazione psichica” mette in evidenza
l’ontologia del presente che, alla luce di quella, De Carolis ricostruisce.
Viene così chiarita più in dettaglio la distinzione fra la dimensione antropologica costitutiva e permanente (quella richiamata sopra) e le contingenti soluzioni che vengono trovate in contesti diversi al paradosso che essa
ripropone ogni volta. A questo livello il generale rapporto mondo-ambiente si ridetermina come quel rapporto tra fatti e rappresentazioni specifico a una forma di vita.
Si noti che De Carolis, pur essendo interessato principalmente a definire e comprendere il diverso ruolo e valore che le forme di vita assumono
in varie congiunture, non si esime da prese di posizione in merito ad esse
(così al rischio attuale della “assenza di mondo”, egli contrappone “il valore
del pluralismo”). Ma la differenza fra il tipo di mondi costruito dall’uomo
nel passato e nella contemporaneità è esaminata non solo dal punto di vista
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istituzionale, socio-politico, bensì anche dal punto di vista individuale psichico. In effetti, c’è un altro aspetto antropologico che a De Carolis interessa molto e sono le modalità psichiche che sono alla base di questa scissione, e che al tempo stesso ne sono a loro volta influenzate. Il secondo capitolo “Psicopatologia della vita contemporanea”, proprio partendo da
Freud, a cui allude già nel titolo, discute l’interpenetrazione tra meccanismi sociali e meccanismi psichici. De Carolis ritrova una evoluzione nelle
posizioni di Freud, e però ritiene che questa evoluzione abbia luogo non
soltanto nella teoria, ma anche nei fatti. Mentre nell’età precedente gli aspetti che potevano incrinare l’identità unitaria del soggetto (specchio di
quella sociale) venivano rimossi, oggi sempre più gli uomini, come vivono
in micromondi socali, così accettano micromondi psichici dentro di sé, e si
hanno forme di dissociazione.
Il terzo capitolo “La zona grigia tra i fatti e le finzioni” discute forme felici (perché ne esistono, ad esempio il gioco) e forme infelici di dissociazione (quelle patologiche, o dall’esito costrittivo). Sovrapposto al parallelo
mutamento di forme sociali richiamato sopra, questo mutamento nelle dinamiche psichiche consente a De Carolis di caratterizzare età moderna e
età postmoderna come le età della scissione orizzontale e di quella verticale.
La dialettica fra queste due modalità, fra nicchie classiche e micromondi
contemporanei, è però solo una forma in cui si esprime oggi un paradosso
che è connaturato all’animale umano.
In occasione della presentazione del libro presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università della Calabria, abbiamo posto alcune domande a
Massimo De Carolis, sui punti che abbiamo qui discusso.
Ci sono limiti alla ‘contingenza illimitata’ dell’animale umano, alla sua possibilità
di assumere conformazioni antropologiche diverse?
«La ‘contingenza illimitata’ non dev’essere confusa con l’idea che l’essere umano possa assumere qualunque forma di vita. È ovvio che ci sono
dei vincoli, vincoli biologici, sia generici sia specifici dell’essere umano.
Per esempio, come giustamente dice Marx, l’uomo è caratterizzato del fatto che, a differenza da altri organismi, non si limita a vivere ma deve anche
riprodurre le condizioni della sua vita. Con questo egli intende tante operazioni di interazione con l’ambiente, il lavoro, la conoscenza, che appartengono strutturalmente alla specie. Questi sono vincoli ai quali qualsiasi
cultura umana deve rispondere. Il paradosso della condizione umana sta nel
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fatto che l’animale umano deve creare questa interazione col proprio ambiente utilizzando degli strumenti che sono essenzialmente il linguaggio e
la prassi, caratterizzati appunto da questa “contingenza illimitata”, cioè da
questa variabilità illimitata. Quindi, il problema che ogni cultura, che ogni
singola forma di vita ha, è in qualche modo dare una forma coerente a questi due spiriti opposti.
Chomsky ha perfettamente ragione: le lingue devono ottemperare ad
una serie di vincoli senza i quali non sarebbe possibile generare una lingua.
Ma la caratteristica paradossale della lingua è che questi vincoli sono proprio quelli che permettono la creatività linguistica. Cioè, ogni lingua umana deve rispettare questo insieme di schemi formali per poter avere un uso
creativo e quindi un uso strutturalmente imprevedibile e quindi relativamente illimitato. Tenere insieme queste due istanze, la necessità di ridurre
la complessità, e la necessità di adoperare per ridurla proprio gli strumenti
che la moltiplicano all’infinito, è una struttura che, a mio parere, permette
anche di misurare la relativa coerenza, la relativa stabilità di qualsiasi risposta. Allora, non ogni risposta è possibile, e però anche soluzioni che all’interno di una determinata interazione culturale col proprio ambiente sembrerebbero assolutamente deliranti, possono invece avere un valore, un significato positivo all’interno di un altro contesto perché in questo costituiscono una coerenza e permettono di ottenere un equilibrio.
In un certo senso è vero che qualsiasi tratto può diventare antropologicamente significativo, ma lo può diventare soltanto a condizione che l’intero contesto si armonizzi con esso, in modo da ottemperare a quei vincoli
generali indispensabili, strutturalmente necessari, per una cultura affinché
essa, e l’esistenza specificamente umana si riproduca».
Sono i mutamenti socio-politici a causare (o almeno a orientare e selezionare) i mutamenti antropologici, o entrambi dipendono da altre determinazioni?
«Dipende. Se con il termine “antropologico” intendiamo caratteristiche antropo-biologiche specie-specifiche, esse nel percorso storico non mutano,
ed anzi costituiscono quella cornice di vincoli di cui parlavamo prima, e all’interno dei quali volta per volta il mutamento socio-politico spinge verso
soluzioni diverse.
Ogni strategia esistenziale è una soluzione diversa ad un problema che
verosimilmente tutte le strategie esistenziali hanno, e cioè, per esempio:
come venire a capo del vincolo paradossale per ogni essere umano tra le
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proprie rappresentazioni e le informazioni sulla realtà esterna? È una caratteristica propriamente umana quella di trovarsi in una condizione di promiscuità strutturale fra rappresentazioni e fatti. Noi non accediamo ai fatti se
non attraverso le rappresentazioni, e non c’è rappresentazione che non
possa essere analizzata sotto il profilo dei fatti (questo è quello che Wittgenstein chiamava solipsismo). Questa è una condizione paradossale e,
quindi, uno dei problemi che ogni strategia esistenziale ha è quello di trasformare questo paradosso da un limite, da un abisso in cui per esempio
l’unità del soggetto, l’unità dell’Io potrebbe precipitare e cadere, come di
fatto succede ad esempio in crisi dissociative gravi, mutandolo, invece, in
un fattore di coerenza ed un fattore di integrazione. Le forme di cura del
Sé, di costruzione della soggettività, che variano molto da epoca in epoca,
di contesto in contesto, sono diverse soluzioni a questo paradosso.
Se per caratteristiche antropologiche si intendono invece queste specifiche soluzioni al problema, è chiaro che volta per volta è l’insieme del contesto storico-sociale che premia delle soluzioni e ne scoraggia altre. Quindi
la ragione per cui, ad esempio, un certo sistema di vita monastica in determinate epoche è efficace e riesce in maniera adeguata a tutelare il patrimonio culturale, in altre invece decade e si riduce ad essere una forma di
vita, una scelta esistenziale marginale poco significativa, spesso spuria ecc.,
è chiaro che in questi casi verrebbe da dire che le condizioni storico-sociali
sono quelle che esercitano la pressione selettiva e che mutano questa evoluzione. Ma è anche vero che queste sono volta per volta soluzioni diverse
a problemi di cui non possiamo identificare invece una forma generale e
che quindi presuppongono un fondamento antropologico che non è soggetto in maniera così effimera alla variazione delle circostanze.
Perché ritiene il modello di identità psichica basato sulla dissociazione e sul diniego
della realtà esterna specifico delle configurazioni sociali contemporanee?
Questo è un esempio concreto di quello che dicevamo prima. All’inizio
Freud sosteneva che il fenomeno della dissociazione non andava nemmeno
distinto dalla rimozione! Poi ha detto “ sì, è un meccanismo psichico un po’
specifico, ma che entra in gioco soltanto in patologie molto particolari,
come per esempio le perversioni sessuali”. Infine, ad un certo punto si è
cominciato a convincere del fatto che no, forse questo meccanismo dissociativo ha un peso effettivamente rilevante, in generale, nella costituzione
del soggetto e della psiche.
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È chiaro che questa evoluzione riflette i mutamenti della teoria ma anche i mutamenti dell’organizzazione sociale. Il tipo di organizzazione della
società a cui Freud guarda in maniera esemplare, quello basato sulla rimozione, è perfettamente solidale con l’idea di civiltà dell’ottocento europeo;
dove civiltà vuol dire, in linea di principio, subordinare gli istinti e
l’animalità alla regola, alla legge. Un meccanismo psichico come la rimozione faceva fondamentalmente questo, poi poteva funzionare o meno. Noi
invece ci troviamo in un’epoca in cui anche questo ideale di ‘civiltà’ non
funziona più, perché una serie di presupposti impliciti, affinché questo ideale potesse sembrare coerente, e fosse una risposta efficace ad un paradosso
di base, non ci sono più, sono venuti meno per tante ragioni, di cui
l’ultima è la cosiddetta globalizzazione che ha eliminato quella frontiera
che prima sembrava così decisiva tra popoli civili, che hanno uno Stato, che
hanno quindi un modello culturale di questo genere, e popoli che civili non
sono. Il risultato è che, appunto, prendono forma aggregazioni di tipo sociale diverse, per esempio di tipo reticolare molto legate alla possibilità di
creare delle isole all’interno delle quali codici e convenzioni valgano benché si sappia che, fuori da quell’isola, quegli stessi codici e quelle stesse
convenzioni non valgono più, e perdono qualsiasi valore.
La mia sensazione è che i meccanismi dissociativi interagiscono particolarmente bene con questo tipo di struttura. Mentre prima l’istanza di adeguarsi al modello di civiltà imponeva di ridimensionare questi meccanismi,
ora c’è un problema di adattamento diverso. Dato il modo in cui funziona
la società contemporanea, le si adatta meglio una soggettività costruita su
questa dissociazione.
Anche alcuni tratti della dissociazione, come per esempio il confondere,
il rinunciare al principio di realtà esterna, entrano in questo quadro. Lei
diceva “il diniego” della realtà esterna: esso però serve soprattutto a creare
un rifugio della mente in cui finzioni, rappresentazioni e realtà sono indistinguibili. Per esempio, in un universo largamente dominato dall’esperienza virtuale e dall’intreccio tra fiction e reality (il fatto stesso di dire in
inglese questi termini, fa pensare subito ai media), in un modello di società
organizzata in questa maniera, un’attitudine dissociativa funziona meglio, si
adatta meglio, paga un prezzo minore, anche se poi produce anche disfunzioni, patologie. In fondo quello che ha cambiato la riflessione sui meccanismi dissociativi è stato il dato di fatto che sono cambiate le patologie psichiche: non ci sono più i casi clinici di isteria di cui parlava Freud, e i loro
successori contemporanei come i disturbi alimentari, le tossicodipendenze,
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ecc, sono patologie psichiche in cui salta agli occhi il fatto che l’elemento
dissociativo ha un peso determinante.
Questo non significa che l’elemento dissociativo ora sia diventato sano,
mentre prima era patologico. È un meccanismo ambivalente che può produrre patologia come può produrre un’organizzazione della società bene o
male efficace e interessante. Questo valeva prima come vale ora, solo che
ora evidentemente la sua capacità, la sua possibilità di interagire in un contesto è aumentata, ed è aumentato il suo peso nel bene come nel male.