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Piero Pieri
Vaporidis in carcere
Copyright © 2009
Via Col di Lana, 23 – Ravenna
Tel. 0544 401290 - fax 0544 1930153
www.fernandel.it
[email protected]
ISBN: 978
978-88
88-95865
95865-05
05-8
Copertina di Eleonora Bolsi
PARTE PRIMA
1.
I ragazzi del bar parlano male di me quando vengono a sapere
che sono stato preso dalla polizia.
«Vaporidis s’è beccato una diarrea fulminante».
L’imbecille mi ha chiamato Vaporidis perché la moglie del
barista un giorno ha detto che sembro la sua fotocopia. Sono
andato a vedere Notte prima degli esami e non ne sono uscito
pieno di gloria riflessa. Forse gli assomiglio perché ho tratti delicati e un’aria che sembra sempre imbarazzata. Tutto questo
agli occhi della barista. Quando mi guardo allo specchio non
vedo il gemello di Vaporidis, anche se mi fa piacere che in giro
si dica che gli assomiglio.
«Ha il mal di testa anche quando dorme».
«Chi ha scoreggiato? Vaporidis?»
«Lo dicevo che ha la diarrea».
«L’ha presa in commissariato».
Un pomeriggio arrivo a casa da scuola. Salgo le scale e non so
ancora quel che mi aspetta.
Il papà sta parlando con due attempati, alti e del sud, ci vuole poco a capire che sono sbirri in abiti civili. La mamma è sulla
porta della cucina. Mi carico di una forza enorme per non fuggire giù per le scale e con la faccia già lessa appendo il bomber.
Entro in soggiorno col sangue ben ghiacciato. Le tempie pulsano
cubetti di ghiaccio. È una sensazione formidabile sentirsi nella
merda. Siccome non posso sparire in una nuvola di fumo tento
l’espediente della tranquillità assoluta. Fino a questo momento
sono innocente. Come dicevo ho appena appeso il bomber…
«Rivestiti e esci con i due signori», dice mio padre con una
gran tristezza rabbiosa. La tristezza gli viene dal non poter sfogare la rabbia su di me accoppandomi di botte.
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«Lo lasciamo prima delle sei, mi creda Magnani, sono ragazzate».
«Buongiorno», dico con faccia compita, spero in un malinteso, ma ci credo poco. Due sessantenni sono venuti a prendermi.
«Lei adesso ci accompagna dal suo socio».
«???»
«Ne parliamo in macchina».
Credevo che l’avrei fatta sempre franca. A diciassette anni
non hai l’ansia di essere preso dalla polizia. Vivevo pacifico la
mia piccola criminalità come un lattante al sesto mese. Un mondo di pannolini sempre asciutti e di mammelle pronte. Adesso
sono venuti due poliziotti a riordinarmi l’immaginazione.
Entro nella Fiat Brava blu. Mi fanno sedere dietro mentre
loro stanno davanti. Sono un ragazzo, non scappo. Solo nei
film americani lo sventurato ne ha due ai fianchi perché non
gli venga la tentazione. Se scappa lo riprendono dopo un breve inseguimento. E per lui finire massacrato di botte è già un
regalo.
Io non scappo: ho tutto da perdere. Poi, dove vado? Mi nascondo nelle cantine del quartiere? Sai che affare! Oppure mi
metto a rapinare tabaccherie con la colt nichelata regalo della
cresima? Non sono portato a fare il delinquente abituale. Certo,
ho sempre rubato ciliegie e cocomeri e un mese fa con un muratore di campagna ho preso un plaid e un Tom Tom. Un business
da ladro senza futuro. Rivendendo il Tom Tom e il plaid ho
messo da parte i soldi per una pizza al mare e un pieno di verde
per la moto.
L’ho fatto per i soldi? Certo, anche per i soldi, quelli tirati
su da solo, mica regalati dalla mamma, soldi miei fatti con gli
affaracci miei. Ma non è solo per i soldi. L’ho fatto perché sono
un ladro? Io non mi sento un ladro anche se i due che mi scarrozzano nella loro auto blu sono convinti del contrario. Vai a
capire perché mi è più facile rubare in compagnia che andare
in centro di sabato a vedere le ragazze che masticano gomma
esibendo l’ombelico col piercing.
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Una vicina ha già capito tutto e scompare dalla finestra per
avvertire il resto della famiglia. Guardo quella finestra piena di
teste curiose e sento una fitta alle costole.
«Allora… andiamo a Ponte Pietra?», mi chiede il poliziotto
che guida. Lo sa già dove abita il mio socio.
«Sì, Ponte Pietra. Non so l’indirizzo».
Stanno zitti. Lo sanno loro l’indirizzo. La faccia dell’innocente non serve a nulla, tanto vale fare quella del bravo ragazzo.
Per ora non piango e non mi dispero. E questa per i poliziotti
è una seccatura in meno. Non amano le emozioni degli sfigati.
Piangerò se sarà necessario. Fingere qualcosa di terribile può
venirmi bene. Cinque minuti dopo siamo a Ponte Pietra.
«Hai visto come li curano gli orti?», dice il poliziotto a quello che guida.
«Tornano dal lavoro e vanno a zappare. Pomodori, zucchine, insalata, ravanelli».
«Vorrei averlo anch’io un pezzetto di terra».
«Mio cognato ne ha uno lungo l’argine. È il suo passatempo».
«E chi gli ha dato il permesso?»
«Non ci vuole. Vai sull’argine e dissodi un pezzo di terra. Poi
recinti. Il comune incentiva…»
«Eh, ma ci vuole l’esperienza».
«Cominci a chiedere a chi vende la semenza e ai vicini dell’orto».
Stiamo girando in lungo e in largo tutte le vie della frazione.
Conoscono l’indirizzo ma non vogliono chiedere. Una forma
di rispetto verso la famiglia del muratore. Sono poliziotti all’antica.
«Il padre fa il magazziniere e la mamma è invalida. Povera
famiglia», dice chi guida con un tono che vorrebbe essere rammaricato. E chi ci crede.
Però la loro discrezione m’intenerisce. Anche il discorso sull’orto mi ha intenerito. Mi aspettavo sguardi feroci, frasi minacciose e magari uno schiaffo dato a freddo.
Provo a fare il bravo ragazzo.
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«Posso dire una cosa… scusate. Non sembrate… io avevo
un’idea diversa dei poliziotti… mi sembrate… buoni
buoni».
».
Lo dico con fatica. Con imbarazzo e timidezza. Da bravo
ragazzo in ginocchio.
«E che ti credevi che fossero i poliziotti?», dice quello che
guida, per niente divertito. «Ragazzo! Tu non dovevi fare furti
con questo qui!»
Ha detto furti!?
Col muratore ho rubato una volta sola. Da una Yaris un Tom
Tom e un plaid. Furti vuole dire più di uno! Questi qua mi
accusano di cose che non ho commesso! Ai miei occhi tornano
due poliziotti di merda. La poesia dell’orto era tutta una finzione, così mi sarei intenerito e avrei confessato gli ultimi cinque
anni di furti fatti da tutti i ladri della città.
Ci sono riusciti a trovare la via. Davanti alla casa dello sciagurato
il poliziotto che sta alla guida scende e dopo un paio di minuti
torna col socio. È basso e magro. Una faccia già adulta piuttosto
affilata. Per me è stato un compagno occasionale. S’è presentato
al bar e ha detto che cercava qualcuno per rubare. Mi sono fatto avanti. Ci sono portato ai colpi di testa. Sembrava un ladro
esperto. E poi non viveva alla giornata. Come muratore faceva
il gruista, un lavoro pagato bene. Il mensile gli bastava, ma lui
ha la vocazione del furto. In campagna s’impara da piccoli a
rubare meloni nel campo del vicino, a rubare dal borsellino dei
parenti, a rubare cioccolatini al bar. Nessun contadino può dire
di non avere mai rubato. Le occasioni sono tante, le canne e le
erbe sono alte, i campi non sono guardati, rubare è un’emozione a buon mercato. Poi torni a casa con un melone caldo già
tutto spiaccicato. Neppure lo mangi. Lo butti nella melma di un
fosso. Quello galleggia un poco e poi sprofonda.
Prima che mi prendessero avevo la gloria dei diciassette
anni. Ogni cosa che fai va sempre bene. Rubare è un bel modo
di sentirsi superiore. La gente normale non ruba.
Il muratore lo fanno sedere accanto a me. Provo a salutarlo.
Finge di non conoscermi. Non ha capito che hanno le prove. Ci
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rimango male perché cerco solo un poco di solidarietà. Si capisce che è impressionato. Anche lui pensava di avere la gloria
del più furbo.
Due polli da spennare entrano in commissariato. Due furbi
col volto teso e bianco stanno per essere interrogati.
Veniamo separati. Con me rimane il poliziotto che guidava.
Nell’altra stanza il poliziotto col mito dell’orto.
«Ascolta, non perdiamo tempo. Stasera c’è la partita, che ne
dici se andiamo a casa presto? D’accordo?»
«Quale partita?» Chiedo, perché il calcio non è mai stata la
mia passione. Io guardo solo il Moto GP. Al bar urliamo spietati
quando Valentino svernicia Stoner staccandolo in curva.
«Voi due avete rubato un plaid e un navigatore satellitare
marca Tom Tom. Adesso ti dico anche il giorno e l’ora». Guarda
un foglio. «Erano circa le dieci del 27 marzo. Confermi?»
È già passato un mese, mi dico.
«Anche se non ricordo il giorno esatto confermo. L’ora è più
o meno quella. Ma per me è stato prima delle dieci».
«Questo non cambia nulla».
Entra l’altro poliziotto e mi si para davanti.
«Il tuo amico ha confessato il furto del plaid e del Tom
Tom».
«Pure lui», conferma il mio poliziotto.
«E anche il furto all’edicola dei giornali».
Me l’aspettavo! L’accusa è falsa. Non ho mai rubato all’edicola del quartiere.
«Di cosa mi state accusando?», chiedo con una certa fierezza.
«L’edicola vicino a casa tua».
«E quando c’è stato il furto?»
«Avete portato via molta roba. Giornalini, cancelleria, giochi».
«Guardi, quello che ho fatto l’ho confessato subito. Ma dell’edicola non so niente».
«Il tuo amico ha detto che siete stati voi. Non insistere e
confessa. Poi ti lascio andare».
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«Ci passo la notte qui da voi!» E mi monta un tratto eroico
che non mi sarei aspettato. L’accusa è falsa e io sono innocente.
Neppure lo sapevo della visita all’edicola. Se fosse stato uno
del bar l’avrei saputo, forse sono venuti da un altro quartiere.
Albanesi in trasferta.
Rifletto svelto che sono accusato di un furto che non ho
commesso. Si sta mettendo proprio bene.
«Il tuo amico ha confessato».
«Posso dirle una cosa. Non s’arrabbi, ma non è stato lui».
«E come fai a saperlo?», chiede rapido.
«Me l’avrebbe detto», rispondo rapido.
Mi guarda in silenzio. Poi torna nell’altra stanza con un sospiro. Non gli sto dando soddisfazione. Il mio poliziotto scrive
sul PC il verbale. S’è convinto. E non perché il trucchetto della
finta confessione del socio in affari l’ho visto in tanti film, ma
perché gli sembro sincero. Hanno orecchio per chi mente. Non
sono invecchiati per niente. Per me sarebbe stato più difficile provare la mia innocenza se mi avessero chiesto della Ford
Focus rubata una notte d’inverno per passare col rosso e infilare
i sensi unici della città. La lasciai vicino alla stazione delle corriere, era finita la benzina e sono tornato a casa a piedi.
«Adesso ti sei messo a fare il ladro?», sibila la mamma venuta a
prendermi al commissariato.
Che devo dirle per giustificarmi… è vero. Ai suoi occhi sono
un ladro. Così non dico niente. Sono stato un ingenuo ad aspettarmi dalla mamma una parola di comprensione. L’ho delusa.
Anche lei mi ha deluso con la sua domanda feroce, ma non
posso dire nulla. Sono nel torto.
Torniamo a casa a piedi, lei porta la bicicletta a mano.
Appena entro in casa capisco che se mi avessero messo in
galera sarebbe stato meglio. Fuori di casa tutto è meglio.
Papà e mamma me la fanno pagare. Non solo a scuola sono un
gran somaro… adesso sono anche un ladro. Sono una disgrazia
senza proporzioni.
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Da quel giorno due secondini mi sorvegliano guardandomi
come un farabutto. Nel quartiere la voce è girata in fretta e i due
onesti provano vergogna. A scuola vado male e il figlio ladro li
sta demoralizzando quanto basta. Non si chiedono se con me
hanno sbagliato qualche cosa.
Ogni giorno papà ne inventa una per sfogare la sua rabbia.
Le torture medievali almeno erano più esplicite.
«Hanno preso due di Martorano. Li conosci?», chiede come
se sapesse già la risposta. E mi mostra la foto sulla pagina locale.
Non me lo merito un papà così stronzo! Mi vuole dire che come
ladro li dovrei conoscere tutti! Mi sta dando del ladro a vita!
Forse lo fa per il mio bene. Così metto la testa a posto. Infatti,
ho smesso di rubare. Anche col pensiero ho smesso. Ma i secondini non sono convinti. Se tardo qualche minuto dopo le dieci
di sera volano insulti. Mi fanno la faccia ostile per un mese. Poi
anche loro non ce la fanno più. Tanto sbattimento punitivo verso il figlio delinquente comincia a stremarli. Una sera a tavola il
papà dice una battuta. La battuta è proprio spiritosa ed è rivolta a
tutta la famiglia, me compreso. Rido sollevato: fine della galera.
2.
Dal centro sociale mi hanno cacciato per indegnità. L’assistente
sociale è solidale col comitato delle teste di cazzo.
Sono coetanei con qualche principio morale. Ambientalisti,
no global, ciellini: hanno visto tutti i film di Nanni Moretti, e
ogni volta che il governo minaccia di costruire una centrale nucleare salgono sul pullman della CGIL per andare a protestare.
Il più vecchio ha fatto il G
G8,, il più giovane è di cielle ma non
è un fanatico. Al meeting di Rimini ha perso la verginità con
una convertita di Verona più grande di lui. Se prima coi cielle
c’era capitato per caso ora aspetta il meeting di settembre per
rivedere la convertita. Non ha mai provato a convincermi che
Dio esiste e per questo io non ho mai cercato di convincerlo che
Dio non esiste.
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Sono contenti di avere fondato un circolo “fuori da logiche
politiche”, come dicono, ma averci un tesserato che s’è messo
nei furti getta discredito in un gruppo così per bene. E poi metto ansia. Se sparisce la pallina del ping-pong sono costretti a
chiedermi se l’ho rubata io.
Hanno votato la mia cacciata. Allontanato per indegnità.
Decido di dare battaglia col presidente, un coetaneo già esperto
nei maneggi della politica. Se indovina il partito giusto entrerà
in parlamento per infinocchiare la gente. Per ora non ha ancora
deciso con quale partito mettersi.
«Cos’è questa storia dell’indegnità?»
«Il comitato…»
«…ci sono anch’io nel comitato…»
«Ci siamo riuniti sabato sera, e tu non sei venuto».
«Non me l’avete detto».
«L’avviso era in bacheca».
«Fatemi vedere l’avviso».
«Dopo la riunione è stato tolto».
«E ve lo siete pure mangiato».
«Tu provochi».
«Mi mandate via per indegnità. Sapete cosa vuole dire questa parola?»
«L’hai fatta fuori dal vaso».
«Tutti amici».
«Il comitato ha votato. Solo uno era a tuo favore. Per ammetterti di nuovo se ne parla il prossimo anno».
Sono un ragazzo per bene quando frequento gli amici per
bene. Non ho mai fatto differenza fra i ladri e gli onesti. Sono
stato amico dei per bene e insieme abbiamo ascoltato per ore
Biagio Antonacci giocando a ping-pong. Ogni domenica pomeriggio nel centro sociale abbiamo ballato. Sono le festicciole
più lesse del quartiere e i ladri del bar non ci vengono perché le
ragazze non sono smaliziate. E nessuna ha le gambe dritte.
Neppure lo saluto il presidente quando esco dal centro sociale. Mi sento stordito. Ci sono rimasto male. Torno al bar e
mi siedo al tavolino, il più lontano possibile da quello dei ladri
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che al solito cominciano a farmi battute volgari, tutte insopportabili. Il linciaggio li tiene allegri… Vaporidis qui, Vaporidis
là… E giù a ridere a comando come il pubblico di Zelig. Ogni
giorno la stessa solfa. Come studente sono scarso e questo lo so
anch’io; come ladro beccato al primo mese d’attività sono una
roba da non credere. Mi odiano perché li ho messi in cattiva
luce. Anche loro sono ladri dilettanti, ma più astuti. Non sono
ancora entrati in commissariato a prendere ceffoni.
Adesso nel quartiere Fiorita lo sanno tutti che quel gruppo
di scaglionati, sempre seduti al bar a canticchiare Siamo solo
noi,, quando viene la notte si mette in proprio.
noi
Adesso sono manganellato dagli amici ladri e dagli amici per
bene. Non ho più amici. Come dire, sono solo come un cane.
Dal mio tavolino guardo il centro sociale che sta dall’altra
parte della strada, proprio di fronte al bar. Io non sono più da
nessuna parte. I ladri sono partiti per andare al mare, a rubare
gli slip appesi ad asciugare nei bagni. Ogni anno collezionano
centinaia di slip usati che vendono per meno di un €uro
uro agli
extracomunitari.
Sorrido amaro e a labbra strette. Ho le labbra come Vaporidis,
ben proporzionate, ben disegnate, quasi femminili. Adesso sono
due fili di cotone bianco. È quasi sera, ma c’è ancora sopra di
me un azzurro indecente. La sua vastità mi schiaccia, mi preme
sui nervi stremati. Se quel cielo fosse in tinta col mio umore
dovrebbe essere nero opaco o giallo sporco. E non più grande di una moneta. Per completare il quadretto ci vorrebbe un
temporale da urlo, come quello di questa mattina. Improvviso,
fragoroso e breve come un giudizio universale rimandato.
Sto al tavolino più stordito che arrabbiato. Penso che me
lo sono meritato, ma sanguino lo stesso. È il fluido della bestia
ferita. Gli amici per bene mi hanno condannato. Si sono riuniti
e hanno votato. Solo uno è stato solidale.
Non voglio sapere chi è stato!
Magari con quello non sono mai andato d’accordo.
Mi fa male sentirmi zero agli occhi di quelli che pensavo
miei amici. Il ping-pong da lontano lavora ritmico la pallina.
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Chiudo gli occhi e una corda stringe il cuore. Riapro gli occhi
e l’azzurro del cielo mi pesa sui nervi. Guardo i tigli lustrati dal
temporale. Dal fogliame gocciola ancora su rade pozzanghere.
Nelle orecchie un ronzio sempre più fastidioso, nel cuore solo
una gran malinconia. Sogno una stanza d’ospedale e un cancro
al pancreas. Sono assistito da infermiere molto carine che vorrebbero tenermi su col morale
morale. Di notte vomito nel water.
Sono nella disperazione. Mi vengono strane fantasie: piccole rondini che cadono dal nido. Fiutano l’odore acre del fieno
sporco e quello della stalla. Chiudono gli occhietti già diventati
buio pesto.
Al tavolino accanto sostano due vecchi magnaccia. Hanno
settant’anni e vestono con un completo fresco di lana a righe.
Loro le puttane le chiamano “amiche”. Girano con l’Alfa 166 e
quando partono dal bar sgommano lasciando sull’asfalto una
striscia nera fumante. Sono due vecchiacci alcolizzati con la faccia rossa, venuzze viola sul naso e il cervello pronto per il primo
ictus.
Mi ricordo del quadernetto delle poesie. Forse a leggerle mi
sento meglio. Lo prendo dalla tasca e lo guardo come un tatuaggio venuto male. Qualcosa di brutto che sporca la pelle.
Aver scritto poesie non mi salva da niente. Ne leggo alcune e
mi pare di non averle scritte io. Anche loro mi hanno lasciato. Rimetto il quadernetto in tasca, guardo la porta del centro
sociale e penso di buttarmi sotto il treno. La ferrovia è vicina.
Meno di duecento metri. Un affettato di René, un corpo tagliato a fette dalle ruote del treno. Sono i sogni del bocciato a vita,
del ragazzo respinto.
Vorrei bussare alla porta del centro e chiedere scusa. Vorrei
dire che mi sono pentito. Che… in fondo… non sono un ladro… o se lo sono stato ora non lo sono più. Può bastare? Mi
crederebbero?
E se dicono: «Va bene. Per questa volta lasciamo correre.
Ti riammettiamo», come mi sentirei per tanta generosità? Non
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patirei un’umiliazione ancora più grande? Nessuno di questi è
il capo dello stato o dio in persona.
Mordicchio le unghie e penso alla dose giornaliera di pattume che dovrei mangiare per dimostrare al comitato un pentimento sincero. Ma se mi umilio perdo la faccia due volte: con i
ladri che adesso si limitano a deridermi e con gli amici per bene
che mi hanno mandato via con la formuletta dell’indegnità.
Ho le mani pallide e un’unghia spezzata. Sudo a fiotti e la
vista s’annebbia, dalla superficie del marciapiede sale un vapore
nero pronto ad avvolgermi e a farmi sparire. Provo ad alzarmi
dalla sedia. Colo sudore e la testa ronza. Forse sto svenendo.
Reagisco. Pompo aria e cammino impacciato. Entro nel vialetto
del centro sociale guardando di sbieco una siepe d’alloro mangiata dalla muffa. Sono davanti alla porta.
Se mi umilio abbastanza, forse mi riprendono.
Qualcosa mi dice: «Non bussare».
Qualcosa mi dice: «Umiliati».
Il sangue ritorna colorandomi le mani. Suono il campanello.
Giacalone apre. È il più giovane e il più simpatico. Va a scuola di recitazione, di canto, di mimo e di hip hop. Ci guardiamo
negli occhi. Con lo sguardo chiedo perdono al più giovane del
comitato. L’umiliazione è doppia. Con una smorfia Giacalone
chiude la porta. Appoggio la schiena contro il muro e mi lascio
scivolare a terra. Non so se restare o andare. La porta si riapre.
Giacalone ha in mano la mia scheda. L’ha compilata l’assistente
sociale quando ha costruito il mio profilo. Mi ha fatto domande
banali cui ho dovuto dare la prima risposta che mi veniva in
mente. «Non devi pensare alla risposta», s’è raccomandata. La
noiosa valuta il mio carattere mettendo fuori gioco la ragione.
Giacalone è entrato nell’ufficio dell’assistente e ha preso la mia
scheda. Me la porge. Quando tendo la mano per prenderla lesto
la ritrae e sputa sul mio profilo. È molto sicuro di sé il ballerino
di hip hop. Non sono nelle condizioni di picchiarlo. Non ne ho
il diritto. Getta la scheda per terra chiudendo la porta, questa
volta con violenza. Promette bene la carogna che sogna di entrare nel giro degli amici di Maria De Filippi.
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Prendo la scheda verniciata di saliva e la tengo all’aria.
Quando lo sputo s’è rappreso leggo il mio profilo.
René Magnani ha uno scarso senso della realtà anche se mostra di
avere un buon rapporto con i suoi coetanei. Dal punto di vista psichico presenta accentuate problematiche caratteriali nonostante
provenga da una famiglia di buona cultura e d’agiate condizioni.
Le complicazioni dislaliche e ticcose sono la prova evidente della
sua instabilità.
Capisco solo che la fessa ci ha preso con la balbuzie e i miei
tic facciali, ma oltre non è andata. Forse il suo test non è così
raffinato per riuscire a catalogare tutti i miei guai. Averci la famiglia di buona cultura e d’agiate condizioni per rilevare che
non dovrei essere così tormentato mi sembra un’intuizione da
terza elementare.
Dando della cretina all’assistente sociale torno a casa più
leggero. Dopotutto i capelli rasati ricrescono, le unghie le tagli di nuovo. Nulla è per sempre, anche se al centro sociale il
più giovane e il più simpatico ha sputato sul mio profilo. Ho le
guance tirate, ma mi sento più leggero.
Sento che da questo momento ciò che mi sarà dato dovrò
considerarlo un regalo inatteso.
3.
È sabato e per strada si spande un odore pungente di carne alla
griglia. Gli slavi hanno la passione per la pecora.
Tutto il quartiere questa sera s’è dato convegno al bar. Il
polacco che fa il saldatore e spera di diventare operaio specializzato, vecchi in pensione tornati dalle miniere del Belgio, col
respiro ansimante e un’aspettativa di vita inferiore alla media.
Anche le stupidelle ci passano un po’ di tempo con i loro ragazzi, a bere analcolici alla frutta, riprendersi col cellulare a
fare boccacce e altre cose intelligenti da mandare su Youtube.
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