“OLTRE” 33 (Gennaio / Aprile 2016)

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“OLTRE” 33 (Gennaio / Aprile 2016)
OLTRE
Il giornale dello spazio privato del SE'
Quadrimestrale di psicologia, psicoterapia, psicoanalisi, ipnosi, sessuologia, neuropsicologia.
Num. 33 – Gennaio /Aprile 2016 - Registrazione al Tribunale Ordinario di Torino n. 5856
del 06/04/2005 – Direttore responsabile: Dott. Ugo Langella - Psicologo, Psicoterapeuta
Iscritto all'Ordine degli Psicologi ed all'Albo degli Psicoterapeuti del Piem.te, Pos. 01/246 al
17/07/1989 - Str. S. Maria 13 - 10098 RIVOLI (To) - Tel. 0119586167 [email protected]
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SOMMARIO
Ci vuole davvero un bel coraggio!
Il robottino
Ancora sull’abulia e il come combatterla
Colloquio con un seno morto di tumore 2
Si può far nascere il SE’?
Simpatia & Antipatia & Empatia
Pag, 1
Pag. 3
Pag. 5
Pag. 7
Pag. 9
Pag. 10
CI VUOLE DAVVERO UN BEL CORAGGIO!
A Cristina, ed a tutti gli altri.
Ci vuole davvero un bel coraggio! Ci dicono che sulla Terra siamo tanti, troppi, e questo ci
crea angoscia al pensiero che ci venga ulteriormente ridotto il nostro spazio e che si sia privati
della possibilità di goderci la solitudine, ma nello stesso tempo abbiamo paura della solitudine.
Ma, a ben pensarci, non ci fa migliore effetto il pensare di abitare in un posto dove il nostro
spazio personale non esiste o è molto limitato a causa dell’affollamento; tanto peggio, poi, se le
persone intorno a noi ci fossero estranee o solo superficialmente conosciute, e non avessimo
nessuno, proprio nessuno su cui fare totale affidamento in termini affettivi.
Assai probabilmente, quest’ultimo scenario a pensarlo ci appare di una angoscia
insopportabile poiché lo abbiamo già vissuto quando siamo nati, e immaginiamo che lo
rivivremo quando moriremo, poiché per quanto ci possano essere vicine le persone amate,
tuttavia nel loro intimo cercheranno, per comprensibile difesa dalla morte, di prendere le
distanze da noi, e quindi sentiremo estranee anche loro. Del resto, quando siamo nati anche il
volto della nostra mamma, per quello che potevamo vedere, ci era sembrato estraneo, come
estraneo il nostro a lei, e per convincersi che eravamo proprio quell’essere che era stato nove
mesi nella sua pancia, ha dovuto in un attimo ripercorrere mentalmente il travaglio del parto e
darsi razionale conferma che eravamo usciti proprio dal suo corpo.
Noi, quindi, nasciamo in quel modo e moriremo in quel modo. Se va bene. E nello spazio
intermedio chiamato vita, dovremmo riuscire anche a godere il piacere dell’esistenza? Ci vuole
davvero un bel coraggio! Ma se riflettiamo a fondo su tutto questo, sino a tenerlo sempre ben
presente, dovremmo riuscire a trovarlo, questo coraggio!
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E perché non dovremmo riuscire a vincere, anche solo per un secondo, tutta la nostra paura
della solitudine nella vita come nella morte? E chissà che secondo dopo secondo non ci si senta
davvero più forti?
E se pensiamo che questo è il destino di tutti gli esseri viventi: umani, animali, piante, che
teoricamente nel mondo circa 60 milioni di persone su circa 6 miliardi hanno la nostra stessa
età, e se ad esse aggiungiamo i soggetti nati prima di noi, questo numero salirebbe di alcuni
miliardi, per cui man mano che invecchiamo, anche se non le conosciamo tutte queste persone
condividono le nostre stesse angosce. Dovremmo quindi sentirci meno soli, facendoci venire
voglia di essere euforici come il cavallo del racconto: “La rallegrata”, di Luigi Pirandello.
Tutto questo è oltremodo realistico, ma sicuramente al lettore potrebbe non bastare, e del resto
la morte è una realtà, anche se sino a quando non ci tocca da vicino o direttamente, spesso
abbiamo la sensazione che riguardi solo gli altri, e a me non piace scrivere solo per scrivere,
anche perché in primo luogo scrivo per me, per cui mi sforzerò di essere ancora più concreto.
Davanti al pensiero della morte, generalmente per l’angoscia, incominciamo a
rallentare e poi a frenare la vita, come se ciò bastasse, ed alcuni hanno incominciato a
rallentare ed a frenare anche troppo presto!
Invece, non solo non è detto che basti, ma è un grosso errore, poichè tale rallentamento
o frenata, se è solo la conseguenza di una decisione razionale più o meno cosciente,
deprime il nostro IO indebolendolo di più di quello che già potrebbe esserlo, per cui alla
fine l’IO rischia di rimanere sconfitto come quella nota squadra italiana di calcio di serie A la
quale, in vantaggio, verso la fine della partita smette di andare all’attacco con convinzione, e
finisce sistematicamente per perdere.
Un comportamento errato e illusorio, quindi. Ci sono individui, spesso giovani o molto
giovani, con un elevato livello inconscio di pulsioni di morte, che anziché combatterle
attraverso le pulsioni di vita, per la paura di “perdere” rinunciano persino a
incominciare la “partita”, per cui si accontentano anche solo “dell’essere in campo”, anzichè
sfruttare le opportunità di “andare in rete”, che del resto nemmeno cercano.
E invece? Bisogna assolutamente andare all’attacco! Ma attenzione, però! Non dobbiamo
chiederci o chiedere quanti “minuti” ci sono ancora “da giocare”, poichè nel frattempo, gli
avversari (le pulsioni di morte) potrebbero farci “goal”.
Domanda: “Ma è proprio il caso di andare a fare “goal” a tutti i costi? Sono stanco. Ho
sonno. Non adesso! Lasciatemi stare, lasciatemi dormire! Domani!” Il fatto è che se non lo
facciamo noi, il goal, lo fanno gli avversari, cioè le pulsioni di morte. Non ci sono alternative! In
ogni caso prima o poi “l’arbitro” fischierà la fine della “partita”, ed allora potremmo pentirci
di non aver avuto il coraggio di lottare sino alla fine dei “90 minuti”, anche perché nel
frattempo potremmo aver raggiunto un’età che mai avremmo immaginato di
raggiungere, ma non l’abbiamo goduta a causa della paura di morire prima!
Ma non ha nemmeno senso andare all’attacco alla rinfusa, o in solitaria, come facevamo da
bambini nel campetto della parrocchia, poichè spesso è solo un inutile dispendio di energie.
Occorre una “strategia di gioco”, e questa non può prescindere dal contributo, quale che sia il
modo, degli altri “giocatori” in campo, cioè delle nostre “pulsioni di vita” in tutte le loro forme
e manifestazioni!
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IL ROBOTTINO
C’è chi non avrebbe mai voglia di fare, poichè fare comporta stanchezza fisica e/o psichica. La
stanchezza fisica produce sintomi organici, e i sintomi organici producono angosce di morte seguite
da depressione, scenari che su OLTRE ho descritto più volte. Ma c’è anche chi ha troppo da fare, e
teme di non riuscire a fare tutto, per cui in un modo o nell’altro deve costringersi, finendo per andare
incontro allo stesso tipo di angoscia del soggetto precedente. Alla fine, ad ambedue i tipi di soggetti
non resta che prendere il toro per le corna e agire di conseguenza. Così facendo, però, sia l’uno che
l’altro, dopo si troveranno stanchi, e quindi oppressi da quelle stesse angosce di morte che volevano
evitare, tanto più pensando a quante volte nel corso del tempo dovranno risperimentarle.
E’ un circolo chiuso. Bisognerebbe non lasciare mai spazio all’abulia, se non pilotata come durante
le festività e le vacanze, ed essere sempre attivi in modo regolare, ma non frenetico e né ossessivo, e
soprattutto senza la pretesa di terminare subito quello che si sta facendo, sopportando il lasciare
talvolta le cose in sospeso, fiduciosi che poco per volta le porteremo a termine. A volte
basterebbe fare le cose con calma, ma non è facile. Infatti, il problema è la frenesia del voler fare
tutto e subito, dovuta alla paura che per la noia o altro - compresa la paura di morire prima - la voglia
scappi. Ma bisognerebbe anche che i soggetti che poi si trovano ad aver tutto da fare loro, prima di
assumere ulteriori impegni si chiedessero se saranno poi in grado di portarli a termine senza stressarsi
oltre il dovuto, evenienza che rinforza l’abulia.
A volte la frenesia di cui sopra può essere semplicemente dovuta al desiderio di movimento dopo
lunghe ore di attività sedentaria, tanto più se sotto tensione. Bisognerebbe allora avere il coraggio di
rimandare alcune cose a dopo, a più tardi, al giorno o ai giorni successivi, sempre che si possa, ma si
può fare solo se si è davvero sicuri della propria volontà e determinazione nel riprenderle. In caso
contrario, una volta iniziata una determinata cosa non resta che portarla a termine a tutti i costi, con
tutti i conflitti, le tensioni e le angosce che ciò può comportare, come sopra abbiamo visto.
Alla fine, stufi per questo stato di cose, si va dal medico a chiedergli “qualcosa” che aiuti, dicendo
che questa o quella persona ha gli stessi nostri problemi, e li ha superati prendendo l’Eutirox. Ebbene,
nel corso degli anni ho avuto a che fare non solo con una grande quantità di persone che assumevano
l’Eutirox, ma addirittura con intere famiglie che ne facevano uso abituale, compresi i parenti
acquisiti, come se i disturbi della tiroide - in base ai quali viene prescritto l’Eutirox - fossero
contagiosi!
Come abbiamo visto, il fare stanca, logora e deprime, tanto più se è un dovere più che un piacere,
per cui è comprensibile che lo si voglia evitare o ridurre, e quando non lo si può né evitare e né
ridurre, non stupisce se il soggetto, sentite altre persone che avevano i suoi stessi problemi e che
dicono di averli risolti prendendo l’Eutirox, se lo faccia prescrivere dal medico curante. “Eutirox scrive il produttore - è l’ormone tiroideo levotiroxina sodica, perfettamente uguale a quello prodotto
dalla ghiandola tiroidea”, la cui assunzione ha lo scopo di compensare la carenza fisiologica di tale
sostanza, carenza dovuta ad una ridotta funzionalità dell’organo, detta ipotiroidismo. Il fatto è, però,
che nella maggioranza dei casi l’insufficienza della funzionalità tiroidea, non è la causa ma la
conseguenza di uno specifico stato psichico da “...scoglionamento”, dovuto allo stile di vita di
queste persone.
Non intendo insultare nessuno usando la parola “scoglionamento”. Semplicemente, mi sembra
la più adatta a sintetizzare la situazione in modo ancora più preciso e completo di quanto potrebbe
fare il termine “rassegnazione”. C’è anche della depressione, certamente, ma essa è la conseguenza
di una serie di fattori di insoddisfazione di diversa natura riguardanti le caratteristiche del lavoro, le
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possibilità di crescita personale all’interno di esso, le possibilità di fare carriera, il livello di
retribuzione, l’assenza di riconoscimento delle proprie capacità da parte dei superiori, spesso
scoglionati anch’essi, aspetti che si evidenziano facilmente nelle donne attraverso la grandezza
del “culo”, e negli uomini, la circonferenza della “pancia”.
Lo scenario potrebbe migliorare se il lavoratore cambiasse ambiente di lavoro, ad esempio,
passasse dal pubblico al privato, cioè da un ambiente di lavoro che per le garanzie che da favorisce il
massimo rilassamento al minimo rischio, ad un altro che invece, anche per via di un maggior rischio,
stimoli dinamicità e coinvolgimento, ma è comprensibile che il soggetto preferisca il certo per
l’incerto, anche se non ne è soddisfatto. Se poi si aggiunge il lavoro svolto in condizioni di assenza o
scarsa attività motoria, la famiglia con le sue noiose incombenze, la routine quotidiana, la realtà
dell’esistenza, la fine di ogni prospettiva di cambiamento e così via, il tutto subito passivamente e con
rassegnazione, come abbiamo detto prima, dove la pensione costituisce l’agognato traguardo della
propria esistenza.....!
Fortunatamente, in tale contesto la fisiologia del corpo umano dà una mano pietosa al soggetto
riducendo la funzionalità tiroidea in modo da rendergli più sopportabile la stagnazione. Ma dato
che numerosi soggetti non sopportano nemmeno tale forma di aiuto da parte della natura poichè
interferisce anche nelle situazioni che potrebbero apparire piacevoli, finisce che vanno dal medico a
lamentarsi, nella speranza che questo risolva per via farmaceutica il loro problema, e allora: “Evvai
con l’Eutirox!” “In fondo, è sempre meglio di un antidepressivo,” pensano le persone, anche se non
sanno o non vogliono sapere o fingono di non sapere che usano l’Eutirox come tale.
C’è poi una categoria di persone che hanno delle responsabilità, ad esempio: i genitori, gli
insegnanti, i capi in genere, (la lista e’ lunghissima) i quali non sono meno abulici dei soggetti che
dipendono da loro, (basti pensare a tanti genitori abulici, che se la prendono con i loro figli “perché
sono abulici!”), e che in ogni caso, visto il ruolo che ricoprono non possono o non dovrebbero
permettersi di abbandonarsi a tale abulia, per cui spingono sé stessi, i figli, gli alunni, i dipendenti
etc. “spingendo” la propria tiroide, diventando quindi, con il passar del tempo, ipertiroidei, e si
possono facilmente riconoscere dal loro girocollo ingrossato. Come arrivano a questo, spesso è
casuale. In genere incominciano a darsi un tono parlando e parlandosi forte per mascherare la loro
personalità fragile. Poi, visto che questo li fa sentire più determinati ed attira positivamente
l’attenzione altrui, vi ricorrono più spesso sino a diventare un’abitudine, ignorando che in tal modo
aumentano la pressione dei vasi sanguigni del collo, i quali premendo sulla tiroide, la iperattivano.
Logicamente ad un certo punto, vuoi per motivi estetici dovuti anche ai noduli “freddi”, e vuoi per
il rischio che tale ingrossamento possa far temere il formarsi di una patologia vera e propria, oltre a
creare problemi agli organi circostanti, viene richiesto che intervenga il chirurgo e la asporti in tutto o
in parte. E’ ovvio, allora, che non potendo il soggetto vivere senza le secrezioni di quest’organo, gli
venga prescritta l’assunzione di una quantità giornaliera di Eutirox che compensi la perdita parziale
e/o totale dell’organo che la produceva, compensando indirettamente l’abulia di fondo.
E qui inizia un altro risvolto del problema, questa volta prettamente psicologico. L’Eutirox ha otto
tipi di dosaggio. Se lo si assume nella quantità minima, c’è la possibilità che non basti, cioè che non
corregga la carenza fisiologica; in termini psicologici: l’abulia del soggetto. Se però quest’ultimo
aumenta troppo la dose, c’è il rischio che si senta come se avesse dietro le spalle due mani che lo
spingono per costringerlo ad andare avanti, o addirittura a correre anche se non ne avesse alcuna
voglia, sensazione angosciante che aumenta la pressione arteriosa. Quale dovrebbe essere la
soluzione ottimale? Il soggetto. indipendentemente dal consiglio del medico, se proprio non può
farne a meno dovrebbe assumere la dose di Eutirox fisiologicamente più adatta al suo stato
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psichico, cioè che lo “spinga” non di più di quanto psichicamente ne senta il bisogno, ed è uno
stato che solo lui riesce a valutare.
Il principio attivo dell’Eutirox costa così poco da consentire al produttore di metterlo sul mercato
ad un prezzo talmente basso per un elevato numero di pillole, da far si che ad un certo punto il
soggetto che ha incominciato ad assumerlo, quale che ne sia il motivo, diventato eutiroxdipendente
non se lo fa neppure più prescrivere dal medico ma lo acquista direttamente in farmacia anche senza
ricetta, cosicché con il passar del tempo è elevatamente possibile che il medico curante potrebbe
anche non ricordarsi più di averglielo prescritto e/o che il paziente continua a prenderlo,
prescrivendogli laddove necessario, anche senza volerlo, altri farmaci sotto qualche aspetto
antagonisti.
L’effetto che fa sull’individuo la pastiglia al più basso contenuto di levotiroxina, quella da 25
microgrammi, può essere paragonato al farsi una mezza canna, o al bere un bicchiere di barbera. Ciò
basta a metterlo in moto quasi come Charlie Chaplin nel film: “Tempi moderni”. Tutto questo non è
neanche detto che sia poi così negativo per chiunque, anche se io preferirei piuttosto essere abulico e
combattere l’abulia senza prendere alcun che. Il vero inconveniente, però, se l’assunzione del
farmaco si protrae, consiste nel richiedere un periodico aumento della dose per contrastare
l’assuefazione al prodotto, finendo per accentuare la rimozione della percezione emotiva propria e
altrui incominciata con le prime assunzioni, e questo quando si ha un partner o dei figli, costituisce
un problema di cui il soggetto, ormai assuefatto, non si rende neppure più conto, appunto come
un...robottino, e poi ci si interroga da dove escano certe storie di corna da parte del o della partner!
Va detto comunque per correttezza, che un certo effetto può essere causato da qualsiasi tipo di
farmaco ad assunzione continua, compresa la pillola anticoncezionale o il relativo anello, ma in modo
così graduale che il soggetto nel corso del tempo, senza che se ne renda conto, finisce per venirne
“modificato” a livello della sua personalità: non è più lui, ammesso che prima lo fosse - basti
pensare ad esempio anche agli anti-ipertensivi, all’insulina. E che dire poi, degli psicofarmaci? - con
tutte le conseguenze robotizzanti del caso, soprattutto nei rapporti affettivi come già abbiamo detto?
Il che dovrebbe convincere il lettore che rientri in questo quadro circa la necessità
dell’autosservazione e della compensazione razionale delle eventuali alterazioni della propria
personalità, poichè va ribadito: nessun farmaco è privo di effetti che la alterano. “Il mondo è
pieno di cose ovvie, di cui nessuno si accorge mai.” (Sherlock Holmes) Laddove poi, non vi
siano più che motivate giustificazioni fisiologiche per prendere sia l’Eutirox che altri farmaci,
non si potrebbe provare a ridurne gradualmente la dose in modo scalare, (l’Eutirox di 15 giorni
in 15 giorni), sino a raggiungere la minima dose ritenuta necessaria (...psicologicamente?),
imparando a sopportare l’angoscia che potrebbe subentrare, che comunque poco per volta
diminuirebbe, ricuperando però le emozioni perdute? E poi, non sarebbe utile chiedersi da quale
proprio modo di essere tale patologia organica potrebbe essere nata e/o continui a persistere?
ANCORA SULL’ABULIA E IL COME COMBATTERLA
In OLTRE, l’abulia è probabilmente il tema più trattato, poichè la sua diffusione a tutte le età ne fa
un problema non solo per il soggetto interessato, ma anche per le persone intorno a lui. Generalmente
l’abulia non costituisce una patologia mentale. e può essere semplicemente la conseguenza di un
affaticamento fisico e/o psichico, o espressione di una mancanza di motivazione, come di un disturbo
psicologico o organico più profondo ed esteso. Essere moderatamente abulici è comunque più
sano dell’essere frenetici. Se non si sa mai che cosa l’abulico abbia evitato di fare, con il
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frenetico non si sa mai cosa gli possa succedere mentre fa. Certo, fra l’abulia da una parte e la
frenesia dall’altra, non è facile stare nel mezzo, e se poi si aggiunge anche l’aggressività, aléee!
Come fare per contrastarne gli eccessi, responsabili dell’angoscia che nasce nel soggetto al solo
pensiero di avere delle cose in sospeso da smaltire, a causa del dubbio circa il riuscire ad
imporsi alla propria abulia? Per certi versi, tenere a freno l’abulia è abbastanza semplice:
basta porsi l’obiettivo di fare per prime proprio quelle cose che ci richiedono uno sforzo
maggiore. Tattandosi di due o più, dobbiamo privilegiare quella che ci crea più
repulsione, che ci sembra più difficile e faticosa da fare, che ci vede più restii a
cominciare a farla: il classico prendere il toro per le corna. Per quale principio questo
comportamento dovrebbe funzionare? Perchè quando avremo portato a termine le cose che ci
richiedono uno sforzo maggiore, ci saremo tolti il fastidio più grosso, e questo ci farebbe già sentire
meglio, per cui le altre cose da fare ci troverebbero più determinati, e visto che abbiamo portato a
termine con successo il o i compiti più difficili, avremo meno resistenze nel portare avanti anche gli
altri. Trattandosi poi di scelte, più che di cose da fare, applicando anche in questo caso la
stessa regola, scopriremo che, in fondo, quanto scelto era proprio quello che
preferivamo, nonostante le resistenze apparentemente contrarie, anzi, spesso proprio a
causa di quelle. Insistendo in questa direzione, poco per volta tale comportamento
diverrà la nostra regola, la nostra abitudine, e l’abulia non sarà più per noi una causa di
angoscia come lo era prima.
Merita, a questo punto, ribadire ancora una volta il significato del concetto di ABULIA in modo
ancora più preciso di quanto abbiamo fatto nel passato: il punto di partenza sono le PULSIONI DI
MORTE. L’abulico è tale poichè si sente molto esposto alle sue pulsioni di morte, e in effetti
potrebbe anche avere ragione poiché per diversi motivi la maggiore o minore quantità di esse è
diversa da soggetto a soggetto. Queste pulsioni di morte sono responsabili dell’ANGOSCIA DI
MORTE. Ebbene: l’abulico vorrebbe essere come una pianta in un ambiente senza vento,
poichè teme che se si muove o si muove più che tanto, verrebbero a galla le sue angosce di
morte, espressioni delle sue pulsioni di morte. Il solo pensiero, frutto di precedenti esperienze,
basta a paralizzarlo, e laddove sia costretto a procedere, si vive in continuo pericolo come
l’esploratore in mezzo alla jungla.
Il fatto è che ogni individuo ha pulsioni di morte. Potrebbe averne di più o di meno di altri,
come abbiamo visto, ma non è questo l’aspetto critico, poiché ogni individuo ha anche pulsioni
di vita che contrastano le sue pulsioni di morte, solo che non sa quante, e bisognerebbe avere il
coraggio di misurarle attraverso l’azione. C’è chi lo fa, ad esempio praticando gli sport estremi,
rischiando di essere preso per pazzo. Effettivamente potrebbe anche esserlo, ma in ogni caso, se
supera la prova, se sopravvive, ciò gli alza la soglia delle angosce di morte, cioè lo rassicura
circa la prevalenza delle sue pulsioni di vita sulle sue pulsioni di morte. Anche se percepisce
dentro di sé il loro ruggito, sa, poiché lo ha verificato, che le sbarre della gabbia che le contiene
sono abbastanza solide, e che le pulsioni di morte, almeno all’interno di un certo contesto, non
sono in grado di uscire e di travolgerlo. Come metodo di verifica, personalmente lo ritengo
deprecabile, ma se l’individuo vuole verificare in questo modo la consistenza delle sue pulsioni
di vita, vuol dire che si sente con le spalle al muro, per cui non resta che tacere ed allargare le
braccia, facendo gli scongiuri.
Forse il lettore non ha capito bene o ha ancora dei dubbi, o mi ritiene esagerato, ma se
spazzoliamo il tempo, scopriamo una enorme quantità di fatti storici, narrazioni, opere
letterarie, cinematografiche, televisive, che hanno come tema centrale l’eroismo, dove i soggetti
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che hanno osato sfidare le loro pulsioni di morte - che siano periti o sopravissuti non importa
poichè comunque hanno avuto un coraggio non comune - sono stati chiamati eroi e additati
quale esempio per le generazioni successive.
Ciò significa che, nonostante lo scorrere dei secoli, nella nostra mente il dubbio è e rimane
ancora sempre lo stesso: “Riusciranno i nostri eroi...” nei quali ci siamo proiettati, a far
trionfare le loro pulsioni di vita sulle loro pulsioni di morte? Forse che si, forse che no, ma
l’importante è capire che l’osare, se non è costituito da un delirio di onnipotenza, potrebbe
costituire proprio la scelta migliore.
Tuttavia non può essere dimenticato che molto spesso l’abulia è l’ultima risorsa del SE’ nella
sua veste di istinto di sopravvivenza, a difesa proprio dall’onnipotenza narcisistica distruttiva
dell’IO impregnato di pulsioni di morte; per cui occorre andarci cauti nel criminalizzarla.
Bibliografia essenziale.
S. Freud - Scritti (1984, 1985, 1896, 1909, 1911) - Boringhieri
P. Heimann – Bambini e non più bambini - (In particolare: Osservazioni sulla teoria delle pulsioni di
vita e di morte) - Borla.
COLLOQUIO CON UN SENO MORTO DI TUMORE 2
Quanto segue costituisce la continuazione dell’articolo: “Colloquio con un seno morto di tumore”
pubblicato su OLTRE 28. Qualche giorno fa ho apportato alcuni modifiche a quell’articolo, per cui
meriterebbe che il lettore prima di leggere questo andasse a rileggersi l’altro.
:
Ripartiamo dal fatto che i medici, dopo l’asportazione del seno, o anche prima, dopo l’asportazione
del tumore, impongano alla paziente la somministrazione del Tamoxifene, agente antiestrogeno non
steroideo, e le iniezioni di agonisti dell’LHRH, (ad esempio il Decapeptyl) che bloccano il rilascio di
LH, l’ormone luteinizzante prodotto dall’ipofisi che stimola l’attività dell’ovaio, quando la donna è
ancora in età fertile.
Perchè questo? Sono gli ormoni femminili, ed in particolare gli estrogeni, la causa del
tumore al seno? Dai casi su cui ho lavorato, dai colloqui che ho effettuato anche se poi ad essi non
è seguito alcun trattamento, attraverso donne che ho conosciuto e di cui poi ho saputo essersi
ammalate di tumore al seno ed anche di donne non conosciute personalmente che mi è stato
raccontato essere state oggetto della stessa patologia, si potrebbe affermare di NO: sarebbe un
autogol della natura! Ma nello stesso tempo si potrebbe affermare di SI, anche se occorre
chiarire il significato di questo SI. Quindi: SI, ma a certe condizioni. Nel caso in oggetto, le
cause del tumore al seno sembrerebbero conseguenti ad un accumulo di estrogeni a
seguito di intensi desideri di penetrazione sostituiti da un’intensa masturbazione. Nella
masturbazione femminile, psicologicamente parlando la mano che fa godere il clitoride è in
fantasia o una mano maschile o una mano femminile.
Laddove mentalmente sia una mano maschile, si favorisce un aumento di testosterone, che è
un ormone steroideo del gruppo androgeno, prodotto dalle ovaie e dalla corteccia surrenale,
che nella donna tende ad essere convertito in estrogeni, per cui alla fine si ha un eccesso di essi,
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ed è per questo che, come abbiamo detto sopra, dopo l’asportazione del tumore, i medici
impongano alla paziente la somministrazione del Tamoxifene, agente antiestrogeno non
steroideo, e le iniezioni di agonisti dell’LHRH, (ad esempio il Decapeptyl) che bloccano il
rilascio di LH, l’ormone luteinizzante prodotto dall’ipofisi che stimola l’attività dell’ovaio,
quando la donna è ancora in età fertile. Il che equivale a dire che laddove queste fantasie
fossero state soddisfatte attraverso un partner, o la mano che ha fatto godere il clitoride fosse
stata in fantasia una mano femminile, e tanto più se poi la femmina ne fosse uscita fecondata
dal partner, non si sarebbe avuto un accumulo di estrogeni così elevato e continuo, e la
patologia di cui parliamo forse non sarebbe esplosa.
Quel Decapeptyl che blocca il rilascio di LH, l’ormone luteinizzante prodotto dall’ipofisi,
prescritto dai medici, infatti la dice lunga. Ma allora la colpa è della morale ancora più o meno
vigente che fa della donna che ha un grande desiderio di soddisfare frequentemente la sua
sessualità e lo realizza - e qui l’ipofisi può destare qualche sospetto - inibendosi per non passare
per puttana agli occhi dei maschi, finisce per masturbarsi frequentemente e probabilmente
anche male per via dei sensi di colpa, poichè una buona masturbazione fatta senza pudori ed
eventualmente con un vibratore o un adeguato sostituto fallico - quindi non solo una
masturbazione clitoridea che aumenta ancor di più il desiderio - unitamente ad eventuali stimoli
visivi, ad esempio fotografie di maschi dal pene dei quali la femmina vorrebbe essere penetrata,
produrrebbe un intenso e reale piacere orgasmico che abbasserebbe sicuramente il livello di
estrogeni? Ritengo che la risposta a questa domanda sia SI.
Perchè SI? Non avrei dubbi nell’affermare che la donna in generale non sia in effetti ancora
del tutto uscita da quella cappa di repressione morale che sino a pochi anni or sono la
opprimeva. Che nello stesso tempo l’aver conquistato il diritto della parità fra i sessi in ogni
campo l’abbia ubriacata di onnipotenza, (per cui in alcuni casi si possono notare eccessi che
producono invidia nei maschi, i quali, a causa del “periodo refrattario del pene” non possono
avere ripetuti coiti come la donna), ma se è vero che viene mobilitata una grande quantità
di estrogeni, è anche vero che questa viene scaricata.
Quindi la colpa non è né della emancipazione della donna e né della conquistata libertà
sessuale. Ma allora? Dalla mia esperienza ho capito o avuto la convinzione di capire, che le
donne che si ammalano di tumore al seno, pur desiderando intensamente il maschio,
spesso più di altre, non ci si danno o non ci si danno quanto vorrebbero, trattenendosi, o
per pudore, o per NARCISISMO, come se cercare un uomo per farsi penetrare,
esaltando il suo orgoglio maschile, significasse umiliarsi maggiormente e rischiare di
essere giudicate puttane da quello stesso uomo, quando è noto che dietro il disprezzo
apparente che quella parola esprime, si nasconde tutta la sua invidia, o - nelle donne - per non
dover riconoscere di aver bisogno dei pene del maschio per essere penetrate, riconoscimento
che si scontra con il desiderio di emancipazione illimitata dal sesso maschile.
Sotto sotto, o dietro o prima del narcisismo, è assai probabile, quindi, che da parte di alcune
donne vi sia davvero invidia per il pene del maschio, anche perché ve ne sono che
desidererebbero penetrare altre donne come fa lui, ma come donne (!) e non come uomini, e
soffrono di non poterlo fare poichè a loro manca il pene. Probabilmente Freud ha sbagliato a
generalizzare (o no?) ma non si può negare che molte donne soffrano davvero di invidia per
quell’organo che i maschi posseggono. Ma non vorrei commiserarle: l’uomo, infatti, soffre di
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invidia verso di loro, poiché sono desiderate e penetrate dal pene del maschio, espressione di
quello paterno...
Non per questo l’uomo vorrebbe rinunciare al suo. Semplicemente vorrebbe avere
pene e vagina, ed in pratica ce l’ha, e questo accentua l’invidia da parte della donna, poi
diminuita dal fatto che essa può rifarsi generando anche bambini maschi, mentre due
uomini, con tutta la loro onnipotenza, no, e fine della storia. Ma non del tutto: già
nell’antichità il maschio aveva una grande ed invidiosa ammirazione per le donne che
suonavano la cetra, oggi l’arpa, quale espressione del loro clitoride, che sembrava annullasse
ogni desiderio del pene, trasformandole in sirene non già per Ulisse ed i suoi marinai, ma per le
altre femmine, escludendo il maschio.
Ma molte donne si fermano prima e non si concedono né ai maschi e né alle femmine, finendo
per essere “divorate” dall’eccessivo accumulo di desiderio sessuale - cioè dagli ormoni
femminili, cioè dagli estrogeni, che la masturbazione clitoridea non basta ad abbassare ma, al
contrario, esaspera - che non soddisfano per non aumentare in sé stesse l’invidia per il maschio
e probabilmente anche per le altre donne. Questo, almeno, mi sembra di aver capito. E’
corretto comunque ricordare che l’istologia classifica il tumore al seno con uno specifico nome
a seconda delle sue caratteristiche, ed in questo caso: carcinoma mucinoso puro.
SI PUO’ FAR NASCERE IL SE’?
La parola SE’ può costituire la sintesi di alcuni concetti quali: la profonda consapevolezza della
unicità e della potenzialità biologica, intellettuale ed affettiva che un individuo ha e la capacità di
servirsene pienamente, unitamente al riconoscimento della universalità di tali aspetti all’interno del
genere umano, ancorché purtroppo coscienti solo in una piccola parte di esso, non per questo meno
rispettabili.
Fatta questa premessa ci si può chiedere: si può far nascere
il SE’ in chi non sembra averlo o accrescerlo laddove sembri
inadeguato? E se la risposta è: SI, come fare? In ogni caso,
sarebbe giusto? Potrebbe far “male”?
Nessuna persona è davvero
pericolosa per sé e per gli altri
se si sente davvero capita.
Credo sia corretto affermare che quando un individuo cerca
uno psicologo significa che in qualche modo avverte una
carenza del suo SE’. Che poi essa si esprima sotto forma di un disturbo di un qualche tipo può essere
secondario. A volte, infatti, determinati aspetti definiti patologici appaiono tali solo poiché
disarmonici per quell’individuo in quel contesto. Lo scopo di ogni trattamento in campo psicologico,
infatti, consiste nell’aiutare il soggetto a raggiungere una profonda conoscenza del suo SE’, in modo
tale che quell’eventuale aspetto negativo divenuto disturbo per il suo essere fuoriposto, trovando la
sua giusta collocazione si incastri in modo tale da non fuoriuscire dall’insieme, riarmonizzandolo.
Ma ritorniamo agli interrogativi di cui sopra. si può far nascere il SE’ in chi non sembra averlo o
accrescerlo laddove sembri inadeguato? E se la risposta è: SI, come fare? In ogni caso, sarebbe
giusto? Potrebbe far “male”?
Potrebbe far male laddove risolva alcuni scompensi ma ne generi altri. In una popolazione di
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individui di altezza media, un soggetto di altezza minore è un disadattato, ma lo sarebbe ugualmente
e forse ancora peggio se in qualche modo lo si facesse diventare di altezza maggiore degli altri. La
stessa cosa può dirsi circa le carenze del SE’. In ogni caso, se un individuo ne manifesta il bisogno,
sta allo psicologo capire sino a che punto occorre intervenire e dove la pretesa ulteriore costituisca
essa stessa un aspetto del problema, per cui vada ridimensionata.
Queste precisazioni sono indispensabili poiché spesso il bisogno di un SE’ sembra confondersi con
esigenze di tipo narcisistico, prodotte da un IO ipertrofico. Il SE’ è comunque un’altra cosa, in quanto
tende al non essere di più e al non essere di meno di come uno è, e generalmente sono proprio gli
aspetti narcisistici ed ipertrofici dell’IO a rendere insopportabile il riconoscimento e l’accettazione di
quello che può sembrare un limite, soprattutto in un mondo dove la tendenza è costituita dal
desiderio di emergere a tutti i costi quale ne sia il modo ed il campo.
Il primo traguardo da raggiungere è la chiara e netta distinzione fra il fuori e il dentro, cioè fra il
mondo esterno a noi ed il nostro mondo interno, cioè fra noi e gli altri, come gruppo ma soprattutto
come individui singoli. In non pochi soggetti non c’è un confine ben delineato, per cui le due
dimensioni, fondendosi, creano confusione fra noi e gli altri, spingendoci a desiderare di fare quello
che altri fanno, ma che non è affatto detto essere un bene per noi imitare.
Il secondo traguardo, è costituito dalla misurazione delle proprie energie e della capacità reale di
sopportare l’angoscia, se necessario eventualmente forzandola per un tempo ragionevole ma non
oltre, al fine di non cadere nella malattia organica o psichica..
Il terzo traguardo consiste nell’andare, qualsiasi sia il campo, nella direzione verso la quale ci si
sente naturalmente portati senza preoccuparsi di quello che possono pensare gli altri, chiunque essi
siano, privilegiando in modo assoluto il nostro benessere e quello delle persone amate se dipendono
da esso, rinunciando alla realizzazione di quelle ambizioni che potrebbero turbarlo.
Giunti a questo punto, è assai probabile che il resto venga da solo attraverso l’esplorazione continua
delle nostre reazioni quando ci accingiamo ad attuare i nostri progetti ed a realizzare i nostri desideri,
la reale attinenza ai nostri modi di essere dei quali contribuirebbe in modo crescente a prendere
sempre più coscienza del proprio SE’.
SIMPATIA & ANTIPATIA & EMPATIA
Si tratta di parole di origine greca, composte dai prefissi: sin- (diventato sim-: unione, comunanza),
anti- (contro, opposto a), em- (derivato da en-, cioè: in, con) e pathos (sentimento, il patire nel senso
di sperimentare emozioni o stati d’animo altrui, quali che essi siano.). Da qui: simpatia, antipatia,
empatia. (G. Gemoll - Vocabolario Greco -Italiano 1951)
SIMPATIA - "Attrazione spontanea verso persone e o cose, dovuta alla somiglianza di caratteri, idee,
gusti, fra due persone [non necessariamente] di sesso diverso." (Vocabolario della lingua italiana
Zingarelli 1999.) "Concordanza di sentimenti, affinità sentimentale fra due persone, che si manifesta
nel desiderio e nel piacere reciproco di trovarsi insieme." (Enciclopedia italiana Treccani - Lessico
universale italiano - 1995)" Ma affinchè si stabilisca questo rapporto di simpatia (comunanza del
sentire), occorre che le somiglianze siano inerenti ad aspetti e/o modi di essere considerati
positivamente dagli interessati. In caso contrario, anziché attrazione si sviluppa repulsione, più
comunemente detta: ANTIPATIA (anti-comunanza del sentire).
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Abbandoniamo simpatia ed antipatia sulle quali non ci sembra ci sia altro da aggiungere, e
dedichiamoci all'EMPATIA. Zingarelli 1999: "Capacità di capire, sentire, condividere i pensieri e le
emozioni di un altro in una determinata situazione." Ma non basta. Scrive C. Rycroft nel Dizionario
di psicoanalisi: "...La capacità di mettere sé stessi nei panni di un altro. Il concetto implica che ci si
senta nell'altro, e insieme si rimanga consapevoli della propria identità come altra persona..." Nella
sostanza è così, ma non basta ancora. Nell'Enciclopedia italiana Treccani - Lessico universale italiano
- 1995, leggiamo: "Termine con cui si vuole rendere in Italiano quello tedesco di ‘einfühlung’ usato
in estetica [per lo studio delle opere d'arte] e in psicologia per indicare la capacità di porsi nella
situazione di un'altra persona con nessuna o scarsa predisposizione emotiva precostituita o
preconcetta", cioè in modo assolutamente neutro sia dal punto di vista emozionale, morale, legale o
altro, esclusivamente preoccupati di metterci senza alcuna riserva nei "panni" di un altro che, fra
parentesi, potrebbe anche essere un animale, come in: M. Roberts, "L'uomo che ascolta i cavalli".
Alcune persone ritengono che simpatia ed empatia siano sinonimi, ma dopo quanto abbiamo scritto,
non dovrebbe più esservi possibilità di confusione. Un nesso comunque c'è nel senso che il provare
simpatia o antipatia è possibile solo passando attraverso l'empatia, anche se non è detto che il
soggetto si renda conto in modo cosciente di tale passaggio. Il termine empatia, infatti, descrive
soltanto il meccanismo necessario per arrivare a sentire, capire i pensieri e le emozioni di un altro. Il
provarne simpatia o antipatia, solidarietà o addirittura odio, è tutta un’ altra operazione, che
comunque viene dopo; ed è condizionata dal nostro modo di “sentire” (sopportare) quelle stesse
emozioni, e che alla fin fine, se non tenuto sotto controllo, potrebbe rischiare di inquinare quanto
emerge dall’uso dell’empatia.
La capacità di empatizzare è una condizione preliminare essenziale in tutti i ruoli in cui è necessario
mettersi in rapporto con qualcuno per capire le sue angosce, i suoi bisogni, le sue richieste, la sua
potenzialità fisica, psichica e affettiva: dalla madre all'insegnante; dal medico allo psicologo /
psicoterapeuta / psicoanalista; dall'addetto alle pubbliche relazioni quali ne sia il campo,
all'investigatore, ma non meno nelle attività diplomatiche, legali e commerciali. Tale tecnica
consiste, dopo aver testato il soggetto ai vari livelli, nella capacità di mettere sé stessi nei suoi
panni.
Ovviamente la profondità di tale empatia dipende dalla specificità della situazione in oggetto, ed in
molti casi viene richiesto di non ritrarsi nemmeno davanti al disgusto, allo schifo, all'angoscia, al
terrore per quanto ci si trova davanti, quale condizione indispensabile per clonare nella propria mente
il contenuto della mente altrui e capire, attraverso quello che suscita in noi, come l'altro si sente
dentro. Certo, in quest'operazione il rischio è quello di fare della "identificazione proiettiva", cioè di
attribuire all'altro pensieri, emozioni, sentimenti che sono propri. Non per nulla, infatti, è
indispensabile che psicologi, psicoterapeuti, psicoanalisti sia medici che non medici, per esercitare il
loro lavoro si sottopongano ad un'analisi adeguatamente lunga - che purtroppo solo pochi fanno o
hanno fatto - e, come prescriveva Freud, sottoposta a periodiche analisi di controllo, sostituite almeno
da una continua e onesta autoanalisi attraverso l’osservazione empatica applicata a sé stessi, come se
si fosse un’altra persona.
Il "pericolo" di inquinamento persiste comunque, in quanto in qualsiasi analisi possono rimanere
delle parti inesplorate (macchie cieche), ma ogni operatore della psiche ben preparato lo sa, e quindi
sta in guardia, soprattutto quando il trattamento di un paziente entra in stallo, cioè non progredisce,
per cui l’operatore, sia esso psicologo, psicoterapeuta, psicoanalista non può non chiedersi se non sia
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lui ad impedire al paziente di “vedere” quello che per farlo proseguire dovrebbe essere lui per primo a
“vedere” in sé stesso.
Scrive Freud: "L'immedesimazione è oggi più spesso designata con il termine di empatia...
Dall'identificazione parte la strada che, passando per l'imitazione, giunge all'immedesimazione, ossia
all'intendimento del meccanismo mediante il quale ci è comunque possibile prendere posizione nei
confronti di un'altra vita psichica." (1921 a - Pag. 296) Scrive R. D. Hinshelwood citando Bion sulla
stessa relazione fra identificazione ed empatia: "Se le forme assunte dall'identificazione proiettiva
variano dall'espulsione [dell'aggressività] alla comunicazione, la più favorevole è quella soggiacente
all'empatia, sentimento che non crea gravi alterazioni all'identità di soggetto e oggetto. In questo
caso, la violenza delle forme primitive [di identificazione proiettiva, nell'empatia] è stata moderata al
punto da poter essere tenuta sotto il controllo delle pulsioni di amore e di sollecitudine..." (Il modello
kleiniano nella clinica - Pag. 140)
Se l'empatia come meccanismo in sè è stata da sempre vista comunque con sospetto dalla
psicoanalisi pur avendo un ruolo indispensabile in essa, ciò è dovuto proprio al sottile confine, che
comunque c'è, che separa l'empatia dall'identificazione proiettiva. Quest'ultima sarebbe costituita
dall'immettere sé stessi nella mente di un altro. Come? Attribuendogli per proiezione pensieri,
fantasie, desideri che invece sono propri, il che talvolta è liberatorio per chi se ne serve, soprattutto
quando si tratta di espellere l'angoscia. Ma se davvero l'una fosse la derivazione attenuata e benevola
dell'altra, non si spiegherebbe quanto una gran parte di persone intorno a noi si serva anche troppo
facilmente dell'identificazione proiettiva, ma molto meno dell'empatia.
L'empatia, infatti, è un'operazione faticosa, tutto al contrario dell'identificazione proiettiva
che è probabilmente una delle attività mentali più facili e frequenti fra gli umani, che se
qualche volta riesce a far nascere grandi innamoramenti, molto più spesso è responsabile delle
grandi antipatie. Anziché quindi mettere noi stessi nell'altro, come
nell’identificazione proiettiva, dobbiamo accettare di prendere l'altro dentro di noi
con tutto ciò che ne consegue, per capire, attraverso quello che ci fa provare,
quello che lui prova.
IL CURRICULUM DI UGO LANGELLA
Ugo Langella e' nato ad Alba (Cuneo) il 25/6/1943. A Torino dal 1964, nell'estate 1994 ha
trasferito studio e abitazione all'attuale indirizzo. Laureato in Pedagogia a Torino nel 1971,
nel 79 si e' laureato in Psicologia a Padova. In analisi dal 1975 al 1981 a Milano dalla Dott.
Myriam Fusini Doddoli della Società Psicoanalitica Italiana, negli anni 78 e 79 ha
partecipato ai suoi gruppi di formazione e supervisione, quest'ultima continuata a Torino nel
79 con il Dott. Flegenheimer e dall'80 all'82 con il Dott. Levi, analisti della Società
Psicoanalitica Italiana. Nel 1989 ha conseguito l'attestato di ipnotista presso il Centro
Italiano di Ipnosi Clinica Sperimentale C.I.I.C.S. del Prof. Franco Granone. E' iscritto
all'Ordine degli Psicologi del Piemonte (posizione 01/246 - al 17/07/1989, data di prima
costituzione) ed all'Albo degli Psicoterapeuti
.
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