[avviso ai naviganti#1 // Mackie Messer e la Favola del debito]

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[avviso ai naviganti#1 // Mackie Messer e la Favola del debito]
Negli ultimi anni, tutte le lingue allenate a battere sul tamburo diffondono un mantra. Uno dei tanti,
ma tra i peggiori e più insidiosi, che suona più o meno così:
per decenni abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, ora dobbiamo intervenire per
ridurre il debito pubblico, tagliando la spesa!
Da ultimo, nella versione turborenzista:
Per 35 anni abbiamo fatto spesa pubblica, adesso non dobbiamo ricominciare: l’Europa non ce lo
concede. Con i meccanismi che abbiamo, di spesa inefficiente, di evasione fiscale, di iniquità, noi
continuiamo a spendere male. Ormai siamo vicini al fallimento, non ce lo possiamo permettere.
Che si tratti di una enorme palla, lo può capire anche un bambino, se solo considerano alcuni
semplici dati e utilizza un pizzico di buon senso. A costo di sembrare pedanti, scusandoci per
l’ovvietà, dobbiamo fare un veloce ripasso di qualche concetto basilare.
Il debito pubblico.
Sembrerà strano, ma anche gli stati hanno un bilancio nella sostanza non diverso da quello di una
famiglia qualsiasi; anche lo stato può non arrivare a fine mese, soprattutto quando ha uno stato
sociale da mantenere o da incrementare.
Gli stati, come le famiglie, hanno delle entrate e delle uscite. Le entrate sono principalmente fiscali
(derivano da tasse e da imposte). Le uscite sono qualsiasi spesa pubblica, per investimenti,
realizzazione di infrastrutture, mantenimento della pubblica amministrazione, della giustizia,
dell’ordine pubblico, ecc.
Che cos’è il debito pubblico, allora, è presto detto. Se, in un anno, le uscite superano le entrate, si
crea un deficit; la somma di tutti i deficit, anno per anno, costituisce il debito pubblico.
Qualche numero è necessario per rendere l’idea delle dimensioni del fenomeno di cui stiamo
parlando. Il debito pubblico italiano assomma a quasi 2.000 miliardi di euro e, dall’inizio degli anni
novanta, rappresenta all’incirca il 120% del Pil nazionale (attualmente, dopo gli aumenti degli
ultimi anni, siamo intorno al 126%). Il peso del debito pubblico, quello che più ci spaventa nel
dibattito quotidiano (lo spread!), è rappresentato in particolare dagli interessi che paghiamo sul
debito; attualmente, essi ammontano ad una cifra che si avvicina agli 80 miliardi all’anno.
Un audit completo del debito pubblico italiano, ovviamente, non è mai stato fatto. Tuttavia,
sappiamo che esso è detenuto, per il 57% da soggetti residenti in Italia; per il 43% da soggetti
residenti all’estero. Sappiamo anche che, della quota di debito “interno”, il 26,8% è detenuto da
banche e fondi comuni, il 13,5% da fondi pensione, il 13% da privati e risparmiatori, il 3,65% dalla
Banca d’Italia.
Sappiamo infine – e questo aspetto è fondamentale – che il debito pubblico italiano, per circa l’80%
del suo complessivo ammontare, è costituito da titoli di stato; per il residuo 20%, da debiti delle
amministrazioni locali, debiti verso fornitori della pubblica amministrazione e altre poste passive.
Come si finanzia il debito pubblico?
In teoria, il debito pubblico si potrebbe finanziare coniando moneta. In realtà, gli stati finanziano la
spesa pubblica emettendo titoli di stato (chi non conosce BOT, BTP e CCT?).
I titoli di stato sono nient’altro che obbligazioni; in cambio di un prestito (costituito dal versamento
del corrispettivo per l’acquisto del titolo), lo stato si impegna a garantire, oltre alla restituzione del
capitale, il pagamento di un certo interesse, che, a seconda delle tipologie di titolo, può avvenire
mediante il versamento di cedole semestrali o annuali (compro il titolo a 100, ogni sei mesi ricevo 5
e alla fine ottengo il rimborso di 100), oppure come differenza tra il prezzo di acquisto ed il prezzo
di rimborso (compro a 100, ottengo in restituzione 110).
I titoli di stato, ovviamente, come qualsiasi obbligazione, hanno una scadenza, che può essere
semestrale, annuale o pluriennale (hanno scadenza pluriennale, ad esempio, i nostri BTP, rispetto ai
quali si calcola il famigerato spread).
Alla scadenza, lo stato o ha le risorse per rimborsare il titolo o finanzia il rimborso mediante
l’emissione di nuovi titoli, in sostituzione di quelli scaduti, così procrastinando la scadenza
dell’obbligo di rimborso, ma obbligandosi a pagare ulteriori interessi (in sostanza quello che
avviene quando rifinanziamo il mutuo per la casa).
Per emettere i titoli, il Tesoro indice un asta, a cui partecipano investitori istituzionali (banche e
società abilitate): questo mercato si chiama primario, ed è il luogo in cui lo stato offre direttamente i
titoli agli investitori, che li acquistano finanziando il debito pubblico.
Gli investitori istituzionali, poi, ovviamente, non tengono i titoli sino alla scadenza, ma li
rinegoziano sui c.d. mercati secondari, vendendoli ad altri investitori o ai risparmiatori. È così che
si aprono possibilità di ampie speculazioni, caratterizzate dal fatto che gli investitori acquistano
milioni, anzi miliardi di titoli, non per ottenerne il rimborso o incassare gli interessi, ma per
rivenderli guadagnando sull’aumento del prezzo. Sugli effetti della speculazione sui titoli, rispetto
alle dimensioni del debito pubblico, torneremo a breve.
Le ragioni del debito (e della sua esplosione)
Le ragioni dell’esplosione del debito pubblico italiano negli anni 80 (passato dal 50% dei primi anni
ottanta al 120% dei primi anni novanta) sono tante, molte delle quali sicuramente patologiche (non
ultima l’enormità dell’evasione fiscale, che ha tolto alle entrate pubbliche una media del 30% delle
entrate complessive).
V’è però una ragione strutturale dell’esplosione del debito, che il dibattito pubblico si guarda bene
dal riconoscere, dando esclusivamente credito alla tesi di una spesa pubblica sconsiderata e fuori
controllo.
Sino all’inizio degli anni 80, la Banca d’Italia acquistava tutti i titoli di stato rimasti invenduti
sul mercato primario. Assicurando che tutti i titoli emessi dallo stato sarebbero stati comprati, la
Banca d’Italia svolgeva una funzione essenziale, che era quella di garantire il contenimento dei tassi
d’interesse, di garantire, cioè, che il costo dell’emissione dei titoli, per lo stato, non sarebbe salito
oltre una certa soglia; ciò consentiva ai tassi d’interesse sui titoli di stato di rimanere
tendenzialmente bassi ed allo stato di finanziare il debito pubblico ad un costo contenuto e
ragionevole.
Nel corso degli anni 80, la Banca centrale ha smesso di acquistare titoli di stato, abdicando alla
propria essenziale funzione di calmieratrice dei tassi d’interesse [ovviamente, il progetto è più
ampio].
Lo stato, a quel punto, per finanziare il proprio debito, ha dovuto progressivamente alzare i
rendimenti, ossia gli interessi da garantire agli investitori. È semplice: per garantirsi la vendita di
tutti i titoli oggetto di emissione sul mercato primario, lo stato ha dovuto offrire tassi più alti, per
rendere più appetibili i propri titoli agli investitori; questo, ovviamente, ha fatto progressivamente
lievitare il costo dell’emissione dei titoli.
Ad aggravare la situazione, sempre a partire dai primi anni 80, si è aggiunto un altro fattore: la
liberalizzazione del mercato dei capitali, che ha consentito agli stati di collocare il proprio debito
pubblico all’estero, vendendo i propri titoli agli stranieri (la liberalizzazione ha rappresentato lo
strumento fondamentale della politica monetaria americana, inaugurata alla fine degli anni settanta,
consistente nell’attrarre capitali dall’estero, garantendo tassi d’interesse anche superiori al 10%).
Lo stato italiano, come gli altri stati europei, si è pertanto trovato nella assai scomoda situazione di
dover finanziare la propria spesa pubblica, vendendo i propri titoli su mercati altamente
concorrenziali, ove operavano economie molto diverse tra loro; per rendere un’idea, basti pensare
che lo stato italiano si è trovato a dover rendere appetibile l’acquisto dei propri titoli in mercati in
cui – per limitarsi ad un solo esempio – gli USA vendevano i propri a tassi d’interesse stellare.
Prima conclusione: se proprio si vuole cercare un responsabile dell’esplosione del debito pubblico
italiano (e degli altri debiti nazionali, a partire dai primi anni ottanta), questo va trovato non nella
spesa pubblica, ma nella liberalizzazione dei mercati dei capitali, ossia, per farla breve, nella
decisione politica degli stati di rivolgersi al mercato per finanziare la propria spesa. Non è la spesa
per le pensioni, o per l’istruzione o per la sanità, ad aver creato la bolla del debito, ma la rincorsa ai
rendimenti del capitale, su mercati finanziari altamente speculativi.
Le ragioni della crisi del debito nel 2008.
Raccontano che il debito, con cui siamo convissuti pacificamente per molti decenni, è diventato
d’un tratto insostenibile nel 2008. In effetti, qualcosa di vero c’è; a partire da quell’anno, dopo
essere rimasto pressoché invariato per tutti gli anni novanta e duemila, il rapporto debito/Pil ha
cominciato a risalire.
La disinformazione torna però inquietante quando si tratti di individuare le cause ed i responsabili
dell’aumento del debito.
Anche in questo caso, torna a gran voce il mantra dell’eccessiva spesa pubblica, del fatto che, in un
non meglio precisato passato, quando peraltro crescevamo agli stessi ritmi della Germania,
avremmo vissuto sopra le nostre possibilità.
In verità, nessuno dice che le cause dell’aumento del deficit sono molteplici, tutte dipendenti dalla
catastrofica crisi che ha colpito il settore privato del credito ed i mercati finanziari, a partire
dal 2007. Crisi del credito che, in breve tempo, si è riversata sull’economia reale, determinando il
rallentamento dei tassi di crescita mondiale ed una maggiore difficoltà degli stati di
approvvigionarsi sul mercato dei capitali.
In Italia, l’aumento di quasi 6 punti percentuali del debito pubblico è derivato non dall’aumento
della spesa sociale, ma essenzialmente da maggiori oneri per fronteggiare la crisi delle banche e
delle imprese, nonché da una diminuzione del Pil e delle entrate fiscali, a propria volta prodotta
dalla contrazione dei consumi, che ha determinato un aggravio del rapporto deficit /Pil, punto di
riferimento essenziale per la sostenibilità del debito.
Il concetto è semplice, se io ho un debito di 100 e guadagno 10 al mese, il debito è sostenibile; se il
debito è di 100, e il mio stipendio si riduce a 5, il debito diviene meno sostenibile.
A ciò, tuttavia, si aggiunge un altro elemento strutturale, che anche questa volta viene subdolamente
sottaciuto: la speculazione sui titoli di debito, nei mercati finanziari.
Tanto maggiore è il rischio di un investimento, quanto maggiore dovrà essere il tasso d’interesse da
corrispondere agli investitori, per convincerli a sottoscrivere il prestito. Nel caso dei titoli di debito
pubblico, il rischio è costituito dalla probabilità che lo stato non riesca a corrispondere gli interessi
ed a rimborsare il capitale alla scadenza. Se questo rischio è minimo (o, meglio, se è percepito come
tale), il tasso d’interesse può rimanere basso (è così che la Germania può emettere i propri Bund con
un tasso d’interesse assai contenuto); se il rischio invece è percepito come alto, il tasso d’interesse
che uno stato deve offrire, per convincere gli investitori ad acquistare i propri titoli, è destinato
necessariamente ad aumentare (meglio, è destinato ad essere più alto di quello offerto dagli stati che
forniscono maggiore sicurezza). È precisamente questo la ragione dell’aumento dello spread, ossia
del differenziale tra i tassi d’interesse dei BTP italiani a dieci anni e quelli dei Bund tedeschi alla
stessa scadenza. Se lo spread sale, significa che l’Italia, per poter rifinanziare i propri titoli in
scadenza, deve emettere nuovi titoli offrendo interessi superiori rispetto a quelli pagati sui titoli
scaduti.
È un circolo vizioso (e viziato): più salgono gli interessi, più aumentano i dubbi circa la capacità
dello stato di onorare i propri impegni alla scadenza, più lievitano gli interessi da offrire agli
investitori.
Ed è oltrettutto il terreno fertile per la speculazione attuata acquistando e vendendo titoli del debito
pubblico. Si può fare quel che si vuole, ma finché i titoli saranno negoziabili su mercati senza
regole, occorrerà fronteggiare l’interesse degli speculatori al default degli stati. Un esempio
concreto: la speculazione viene effettuata anche mediante i famigerati CDS (credit default swaps),
che costituiscono strumenti per assicurarsi contro il rischio di fallimento di un emittente di titoli (e
dunque anche contro il rischio di default di uno stato). Se il rischio aumenta, aumenta anche il costo
dell’assicurazione contro il rischio di fallimento, e così anche il prezzo dei CDS. Chi negozia CDS
sul debito pubblico, dunque, ha un concreto e materiale interesse a vedere aumentare il rischio e le
difficoltà del paese oggetto di speculazione, per poter rivendere ad un prezzo più alto i CDS
acquistati.
Tre Avvisi (Semiseri) ai Naviganti
1. Quando dicono che il debito pubblico è un problema, mentono: il debito pubblico, di per sè, non
è un problema (a volerla dire tutta, l’intera società capitalistica si fonda sul debito, strano che siano
le sue vestali a vederlo come un problema). Il debito pubblico diventa un problema solo se è
insostenibile; il debito pubblico diviene insostenibile soltanto quando lo stato non ha più le risorse
per rimborsarlo o anche solo per rifinanziarlo alla scadenza (generalmente, i debiti pubblici non si
rimborsano mai integralmente, ma si gestiscono, mediante crescita e occupazione). Del resto, la
capacità di un paese di rimborsare il proprio debito dipende direttamente dalla ricchezza prodotta e
non dal valore assoluto del debito; non è un caso che il parametro di riferimento non è mai il valore
del debito in sé, ma il rapporto tra debito e Pil. Tradizionalmente, la sostenibilità del debito è stata
assicurata con la crescita e l’inflazione (sia pure controllata). Oggi la si vuole assicurare con
l’aumento della tassazione ed i tagli alla spesa sociale. Le politiche di austerità, tuttavia, ricordano
la storia di quel tale che, per rimediare all’aumento della rata del mutuo, decise di licenziarsi e di
perdere il posto di lavoro. [tanto per farsi un'idea].
2. Quando dicono che il nostro debito pubblico è la conseguenza del fatto che abbiamo vissuto per
troppo tempo al di sopra delle nostre possibilità, mentono nuovamente; non si vuole negare che una
parte delle cause dell’esplosione del nostro debito sia imputabile a patologie nazionali, ma si
dimentica di rilevare l’essenziale, ossia che l’aumento del debito, soprattutto nei paesi ad
economia più fragile, è la conseguenza diretta delle politiche di liberalizzazione dei mercati
dei capitali e della speculazione senza frontiere sui titoli di debito pubblico.
3. Quando dicono che il rimedio all’esplosione del debito pubblico (e così forse anche alla crisi) è
tagliare la spesa sociale, soprattutto nei settori delle pensioni, dell’istruzione e della sanità,
mentono, sapendo di mentire. Immaginate un padre di famiglia, con due figli a carico e una moglie
malata, che rimedia alla sfortuna dandosi alle scommesse; immaginate che quel padre di famiglia,
per fare fronte a debiti sempre più alti derivanti dalle perdite di gioco, decida di non mandare i
propri figli a scuola e di non pagare le medicine alla moglie, per poter continuare liberamente a
scommettere, sperando nel rovesciamento della sorte. Ecco, questo è precisamente quello che sta
avvenendo. Pur essendo evidente che l’esplosione del debito pubblico non dipende da un aumento
della spesa sociale, nondimeno si interviene soltanto su quella, per non porre in discussione i
fondamentali del sistema finanziario.
Per queste ragioni, non accetteremo più di ascoltare chi pretende di convincerci della necessità di
procedere allo smantellamento dello stato sociale, per fronteggiare il problema del debito pubblico.
Ascolteremo soltanto chi avrà il coraggio di porre sul tavolo la questione di un serio audit del
debito, che permetta una valutazione indipendente in grado di far conoscere la provenienza,
l’impiego e la natura del debito, al fine di stabilire quale parte del debito sia illegittima, quale vada
rinegoziata, quale debba essere pagata integralmente.
Fonte: www.thinkpunk.org