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GIOVANNI FUSCHINO
RAPPRESAGLIA VS COOPERAZIONE
Una delle critiche che vengono rivolte più frequentemente al pacifismo è di essere
un’ideologia “irrazionale” e che la guerra, almeno in certi casi, è la scelta non solo
più “giusta”, ma anche più “razionale” da compiere.
Tuttavia, se analizziamo il problema in senso logico-matematico, che almeno una
parte del pensiero occidentale (parliamo ovviamente della tradizione analitica) ritiene
il dominio della “razionalità” per eccellenza, otteniamo delle risposte quanto meno
sorprendenti.
Nell’ambito della Teoria dei Giochi1 è possibile dimostrare rigorosamente, ad
esempio, che la cosiddetta “rappresaglia permanente”, ossia quella che consiste nel
cooperare soltanto finché anche l’altro cooperi, per smettere di cooperare per sempre
alla prima ed unica defezione dell’altro, è una strategia fallimentare.
Infatti, nonostante la “rappresaglia permanente” possa apparire premiante, in quanto
offre il massimo incentivo alla rinuncia alla defezione, risulta in pratica votata
all’insuccesso in quanto incapace di adattarsi a situazioni diverse, come, ad esempio,
a quella frequentissima di “defezione sporadica” (cioè di chi non coopera ma è
disposto a tornare indietro al minimo segno di penalizzazione).
Riguardo alla cooperazione è stato invece dimostrato che può essere avviata anche in
piccoli raggruppamenti di individui disposti a ricambiare la cooperazione e persino in
un mondo in cui nessun altro è disposto a cooperare. Inoltre non è necessario
ipotizzare la fiducia tra individui, in quanto basta il ricorso al criterio di reciprocità
per rendere improduttiva la defezione. Non è indispensabile neppure l’altruismo: le
strategie efficaci sono in grado di indurre alla cooperazione anche gli egoisti.
Sembra inoltre non essere necessario il centralismo autoritario in quanto la
cooperazione fondata sulla reciprocità in qualche modo può riuscire a fare da
gendarme a se stessa.
1
La Teoria dei Giochi si propone di formulare matematicamente il comportamento tattico o
strategico di un individuo che sia introdotto in una data competizione.
La Teoria dei Giochi, posta su basi assiomatiche nel 1928 dal matematico ungherese Johann
Ludwig von Neumann, fu presentata dallo stesso, in forma più evoluta e completa, nel trattato
“Theory of games and economic behavior”, nel 1944, in collaborazione con l’economista tedesco
Oskar Morgensten.
Una versione divulgativa della teoria si deve allo stesso Morgensten. Si veda in merito:
MORGENSTEN, Oskar, Spieltheorie und Wirtshaftwissenschaft, Vienna, Oldenbourg, 1963,
pubblicato in Italia come: MORGENSTEN, Oskar, Teoria dei giochi. Uno strumento per lo studio
dei fatti economivi e sociali, Torino, Boringhieri, 1969.
1
Per capire meglio queste problematiche dobbiamo entrare più in dettaglio nella
Teoria dei Giochi.
In quest’ambito le interazioni fra giocatori vengono divise fondamentalmente in due
gruppi: interazioni a somma zero (cioè quelle situazioni in cui la perdita dell’uno
equivale alla vincita dell’altro e viceversa) o giochi competitivi e interazioni a somma
diversa da zero (in cui non è necessario far meglio dell’antagonista e in cui due o più
giocatori possono tutti guadagnare con la reciproca collaborazione) o giochi
cooperativi.
Un esempio classico di interazione a somma zero è quello del torneo di scacchi: i
concorrenti, per riuscire al meglio, devono superare l’avversario nella maggior parte
delle mosse e una vittoria del Bianco comporta necessariamente una sconfitta di peso
equivalente del Nero.
Nei giochi competitivi vale il teorema dell’equilibrio di von Neumann secondo il
quale in questa categoria di giochi è sempre possibile trovare un equilibrio da cui non
è conveniente per nessuno dei giocatori deviare unilateralmente, perché così facendo
il guadagno non aumenta, anzi si trasforma in perdita.
Tali equilibri esistono in tutti i giochi a due giocatori che soddisfano i seguenti criteri:
1) Il gioco è finito, cioè esiste un numero finito di opzioni possibili per ogni mossa e
la partita si conclude sempre con un numero finito di mosse.
2) È un gioco somma nulla, cioè un giocatore vince esattamente ciò che l’altro perde.
3) È un gioco con informazione completa: ogni giocatore conosce esattamente tutte
le opzioni possibili per sé e per l’avversario, il valore di ogni possibile esito del
gioco, la propria scala di valori e quella del suo avversario.
Nei giochi competitivi l’attesa è sempre la strategia migliore, nel senso che non
conviene mai fare la prima mossa.
Questo si può vedere chiaramente nella morra cinese in cui l’unica strategia possibile
è quella di ripetere una mossa molte volte e con grande velocità.
La strategia vincente perciò non è la singola mossa (sasso, pietra, carta, forbici) ma è
la corretta frequenza2 applicata nella successione delle mosse.
2
In questo contesto si definisce frequenza la successione delle mosse del giocatore, probabilità la
successione delle mosse del giocatore vista dal proprio avversario.
2
Questo gioco apparentemente molto stupido è in realtà un gioco molto sottile, in cui
per non perdere il giocatore deve riuscire a capire la probabilità delle mosse
dell’avversario per poter modulare la propria frequenza di conseguenza.
Il teorema dell’equilibrio di von Neumann afferma che in questo tipo di giochi a un
certo punto si raggiunge un equilibrio, in cui ogni giocatore si stabilizza su una certa
frequenza e appena uno dei giocatori cambia frequenza, l’altro vince.
I giochi a somma nulla esistono solo in quelle situazioni artificiali che hanno luogo,
per esempio, su una scacchiera o su un tavolo da poker, ma tuttavia in certi contesti
possono essere un buon modello per descrivere situazioni di stallo che si determinano
in una competizione o in un conflitto.
Tipico è il caso delle guerre di trincea3: una volta raggiunto un punto di equilibrio si
entrava in un vicolo cieco. Se uno dei due contendenti cambiava strategia, era
destinato ad una sconfitta sicura.
In ambito politico, questo significa che possono determinarsi situazioni di stallo
assolutamente irrisolvibili, se non si accetta la sconfitta o si modifica il gioco facendo
entrare in campo nuovi fattori (ad esempio nuove regole, nuovi giocatori ecc…)
Giochi competitivi più complessi, in cui non vale il teorema dell’equilibrio di von
Neumann sono le “strategie suicide”, ovvero strategie che, se coerentemente seguite,
portano all’autodistruzione.
Un tipico esempio è il “Chicken Game”(Gioco del Pollo) che trae il suo nome da una
situazione che si svolgeva nel film Gioventù bruciata4. Un gruppo di teenager di Los
Angeles organizza una gara: i partecipanti devono guidare un’automobile verso una
scogliera. Vince chi salta fuori dalla vettura per ultimo. Colui che invece salta fuori
prima è un “pollo” (chicken), oggetto di scherno da parte di tutta la banda.
La Teoria dei Giochi, analizzando il “Chicken Game”, conferma quello che si può
pensare intuitivamente: vince chi tiene duro fino alla fine. Ma è chiaro che se tutti i
giocatori adottano questa strategia5, vanno incontro all’autodistruzione.
Si tratta chiaramente di un gioco competitivo (la perdita dell’uno equivale alla vincita
dell’altro e viceversa) in cui non si può raggiungere un equilibrio e che inficia
3
Bisogna però dire che il caso delle guerre di trincea è ambivalente: le situazioni di stallo che si
venivano a creare in questo contesto sono state viste sia come un esempio di punto di equilibrio di
un gioco competitivo sia come risultato di un gioco cooperativo, come vedremo in seguito.
4
Titolo originale: Rebel without a cause (1955), diretto da Nicholas Ray.
5
Il “Chicken Game” è un gioco a molti round, perché in ogni momento il giocatore deve decidere
che cosa fare. Questa caratteristica ne rende estremamente difficile la descrizione matematica,
poiché il gioco ha un andamento esponenziale. Già con pochi giocatori e pochi round le
combinazioni possibili sono miliardi.
3
totalmente le possibilità di una cooperazione: l’unico modo per difendersi da questa
strategia suicida è semplicemente quello di non giocare.
Il problema è che situazioni di “Chicken Game” sono accadute innumerevoli volte
nell’arco della storia umana, senza che ci fosse la possibilità di sottrarsi a questo
gioco perverso.
Prima della seconda guerra mondiale, il primo ministro inglese Neville Chamberlain
non era disposto a rischiare il peggio, cioè l’entrata in guerra, e Hitler riuscì a vincere
alcuni giochi del tipo “chicken” contro di lui. Fu Churchill che riconobbe
(intuitivamente) la situazione come “Chicken Game” e dichiarò l’entrata in guerra
dell’Ignilterra.
Nel 1962, durante la crisi dei missili a Cuba, i consiglieri del presidente Kennedy
analizzarono la situazione con l’ausilio della Teoria dei Giochi6 e dimostrarono che la
natura del conflitto era riconducibile a un “Chicken Game”. Di conseguenza Kennedy
fece sapere ai Russi che non era assolutamente disposto ad accettare compromessi
sulla questione. In tal modo, riuscì a persuadere Krusciov che gli Stati Uniti non si
sarebbero tirati indietro neppure di fronte alla minaccia di una guerra nucleare e alla
fine Krusciov dovette cedere.
Quest’ultimo esempio fa capire che in una strategia suicida l’unica possibilità di
cooperazione bilaterale si realizza se ognuna delle parti fa sapere chiaramente
all’altra che la cooperazione da parte sua è fuori questione.
Il giocatore che non sa assumersi il rischio del peggior risultato è sempre perdente in
un gioco di questo tipo.
Se analizziamo le strategie suicide in un’ottica pacifista, è ovvio che il miglior modo
per assicurare il mantenimento della pace è costruire un mondo dove situazioni come
il “Chicken Game” non possano mai verificarsi.
Passando alle interazioni a somma non zero , bisogna dire che queste sono molto
importanti in campo economico in quanto l’economia tout-court viene vista come un
gigantesco gioco cooperativo in cui un giocatore fa una mossa, un altro giocatore
un’altra, si producono beni nuovi e tutti i giocatori dovrebbero guadagnarci (e infatti
a tutt’oggi l’economia rimane il campo di applicazione privilegiato della Teoria dei
Giochi).
Un gioco cooperativo (detto asimmetrico perché, come vedremo, il miglior risultato
possibile si ottiene con l’interazione tra un altruista e un egoista) estremamente
6
L’applicazione della Teoria dei Giochi alle situazioni reali presenta però un alto grado di
arbitrarietà. Torneremo in seguito su questo problema epistemologico.
4
interessante è la “Battaglia dei Sessi”, che riportiamo nella versione semplificata
proposta da László Méró7:
«È mattina, una giovane coppia è intenta a discutere animatamente dei progetti per la
serata. L’uomo vorrebbe andare ad una partita di pallacanestro, mentre la donna
preferirebbe un concerto. Non hanno più tempo per raggiungere un accordo, e
corrono al lavoro senza aver preso una decisione unanime.
Non possono in alcun modo parlarsi durante il giorno, ed entrambi lasciano il lavoro
poco prima delle sette di sera, ora in cui ciascuno deve decidere – individualmente,
senza consultarsi con l’altro – dove andare: alla partita di pallacanestro oppure al
concerto. […]
Come prima scelta, entrambi vogliono passare la serata insieme, e il desiderio di
trascorrerla dedicandosi all’attività preferita è solo la seconda scelta. Per entrambi, la
cosa peggiore sarebbe passare la serata separati, soprattutto nel caso in cui la donna si
rechi alla partita di pallacanestro e l’uomo al concerto.
Questa alternativa, in una scala numerica, vale solo un punto per entrambi. Le cose
andrebbero un po’ meglio se, pur trascorrendo la serata separatamente, ognuno
assistesse allo spettacolo preferito (2 punti). Per la donna, la prospettiva migliore è
quella di ritrovarsi entrambi al concerto (4 punti), ed è solo lievemente più negativa
l’eventualità di incontrarsi alla partita di pallacanestro (3 punti).
Lo stesso vale per l’uomo, mutatis mutandis. » Così la tabella di gioco è la seguente:
Figura 1- La “Battaglia dei Sessi”
l’uomo
alla partita
la donna
di pallacanestro
al concerto
alla partita
di pallacanestro
3, 4
1, 1
al concerto
2, 2
4, 3
7
MÉRÓ, László, Calcoli morali. Teoria dei giochi, logica e fragilità umana. Bari, Edizioni
Dedalo, 2000, pp.80-81 [adattamento]
5
La tabella rivela che ci troviamo di fronte a un dilemma. Vediamo ora cosa ci dicono
le leggi morali.
Se ragioniamo nei termini dell’ottica cristiana, in base al precetto evangelico “ama il
prossimo tuo come te stesso” la donna dovrebbe andare alla partita di pallacanestro
perché questo sarebbe il bene per l’altro e l’uomo per la stessa ragione dovrebbe
andare al concerto. Ma così si realizzerebbe il peggior risultato possibile.
Curiosamente anche l’etica kantiana potrebbe condurre allo stesso risultato.
Immanuel Kant nella sua Metafisica dei costumi prende come concetto di base della
sua etica una legge fondamentale della ragion pratica che chiama legge
dell’imperativo categorico, proponendola in molte forme, tra le quali forse quella più
spesso citata è la seguente8: «Agisci secondo una massima la quale possa valere nello
stesso tempo come legge universale».
Una massima è una regola di comportamento strettamente personale che stabilisce
cosa l’individuo dovrebbe fare in ogni situazione. I dieci comandamenti sono
massime (per esempio, “non uccidere”), perché si tratta di importanti regole etiche.
Secondo Kant, una massima può fungere da principio-guida per ricavare leggi
generali se la sua applicazione non porta ad una inconsistenza logica.
Il precetto evangelico “ama il prossimo tuo come te stesso” è sufficientemente
generale da poter essere assunto come imperativo categorico e la sua applicazione nel
contesto della “Battaglia dei Sessi” non porterebbe a nessuna inconsistenza logica ma
tuttavia condurrebbe al risultato peggiore.
Una prospettiva leggermente migliore sarebbe quella “egoistica” in cui ognuno dei
giocatori decidesse di andare separatamente al proprio spettacolo preferito.
Ma la condizione migliore sarebbe quella di realizzare un’interazione tra un egoista e
un’altruista (ovvero i due partner dovrebbero andare insieme allo spettacolo preferito
di uno dei due) che, come abbiamo visto, in questo contesto è molto più proficua
rispetta all’interazione tra due altruisti.
Si tratta chiaramente di un’ottica utilitaristica in quanto il passaggio dall’azione
puramente egoistica a quella eticamente positiva si realizza mediante il concetto della
cosiddetta “massimizzazione”: la sola misura legittima del bene e del male è
costituita dal perseguimento della massima felicità possibile per il maggior numero di
persone9.
8
KANT, Immanuel, La metafisica dei costumi, Bari, Editori Laterza, 1989, pag.29
La Teoria dei Giochi ci offre una metodologia razionale per fare in modo che uno dei due
giocatori diventi altruista evitando che lo diventi anche l’altro (che come abbiamo visto, sarebbe la
possibilità maggiormente negativa). Tale metodo viene detto strategia mista ottimale (la strategia
9
6
L’esempio più famoso di gioco cooperativo è certamente il Dilemma del Prigioniero,
estremamente importante in quanto rispecchia molte situazioni di incontro della vita
reale, in cui entrambe le parti possono avere da perdere o da guadagnare in egual
misura (e che per questo viene definito simmetrico perché, come vedremo, il miglior
risultato possibile si ottiene con l’interazione tra due altruisti).
Il Dilemma del Prigioniero è stato formulato per la prima volta nel 1950 da Merril
Flood e Melvin Dresher. Il nome “Dilemma del Prigioniero” si deve a Albert Tucker,
che ne diede anche la prima vera formalizzazione e di cui Robert Axelrod10 propone
un’interessante versione semplificata:
«Per giocare al “Dilemma del Prigioniero” sono necessari due giocatori ciascuno dei
quali ha a disposizione due possibilità tra cui scegliere: cooperare o defezionare,
dovendo però effettuare la scelta senza sapere ciò che farà l’altro.
Indipendentemente dalla decisione dell’altro, la defezione procura comunque una
ricompensa superiore a quella offerta dalla cooperazione. Il dilemma sta nel fatto che,
se entrambi i prigionieri defezionano, entrambi subiscono una sorte peggiore di
quella che sarebbe toccata loro se avessero entrambi cooperato. […]
In figura 2 presentiamo il meccanismo del gioco. Uno dei due giocatori sceglie una
riga, di cooperazione o di defezione. Prese insieme, le due scelte determinano uno dei
quattro esiti possibili che figurano nelle quattro caselle della matrice. Se entrambi i
giocatori decidono di collaborare, se la cavano entrambi abbastanza bene, in quanto a
tutti e due viene assegnata una R, il premio della cooperazione. Nell’esempio pratico
della figura 2 il premio è di 3 punti […]. Se uno dei due coopera, mentre l’altro
defeziona, il secondo realizza la tentazione a defezionare e il primo riceve la
ricompensa del babbeo. Nel nostro esempio abbiamo così, rispettivamente, 5 punti e
0 punti. Se entrambi i giocatori defezionano, ricevono un punto ciascuno, la penalità
per la defezione reciproca.
viene definita mista perché composta di più mosse ognuna con una diversa funzione di probabilità e
ottimale perché il guadagno atteso dalla totalità dei giocatori è il massimo possibile) e si basa sul
calcolo delle probabilità. Supponendo che nessuno dei due giocatori possa comunicare con l’altro,
in base alla tabella della figura 1 si può facilmente calcolare che il miglior punteggio previsto si
raggiungerebbe se l’uomo si recasse alla partita di pallacanestro con probabilità 5/8 e al concerto
con probabilità 3/8, e se la donna scegliesse il concerto con probabilità 5/8 e la partita con
probabilità 3/8.
A questo punto basterebbe che l’uomo e la donna disponessero di un meccanismo per effettuare la
scelta in maniera casuale (ad esempio, una coppia di dadi o una roulette), meccanismo in cui le
scelte da fare avrebbero la probabilità di uscire secondo i valori di cui sopra, e avrebbero una
possibilità ragionevole di prendere la decisione migliore.
10
AXELROD, Robert, Giochi di reciprocità. L’insorgenza della cooperazione, Milano,
Giangiacomo Feltrinelli Editore, 1985, pp.14-16 (adattamento).
7
Figura 2- Il “Dilemma del Prigioniero”
Giocatore di colonna
Cooperazione
Cooperazione
R=3,
R=3,
Premio per la
mutua cooperazione
Giocatore
di riga
Defezione
Defezione
S=0, T=5
Ricompensa del babbeo,
Tentazione a defezionare
T=5, S=0
P=1, P=1
Tentazione a defezionare,
ricompensa del babbeo
Penalità per la
mutua defezione
Nota: Le ricompense del giocatore di riga sono indicate per prime
Legenda: R (reward for mutual cooperation) = premio per la mutua cooperazione;
S (Sucker’s payoff) = ricompensa del babbeo;
T (Temptation to defect) = tentazione a defezionare;
P (Punishment for mutual defection) = penalità per la mutua defezione.
Cosa conviene fare in questo gioco? Supponiamo che tu sia il giocatore di riga e
ritieni che il giocatore di colonna collabori. Ciò significa che potrai ottenere uno dei
due risultati che compaiono nella prima colonna della figura 2. A questo punto sta a
te scegliere: puoi cooperare anche tu, nel qual caso otterresti i 3 punti del premio per
la cooperazione reciproca, oppure puoi defezionare, ottenendo i 5 punti della
ricompensa alla tentazione. In altre parole, quando si ritiene che l’altro giocatore
collabori, converrà sempre defezionare. Supponiamo però che secondo te anche
l’altro giocatore defezioni: a questo punto, trovandoti nella seconda colonna della
figura 2, devi scegliere tra la cooperazione (che, facendo di te un babbeo, ti procura
un bello 0) e la defezione, scelta che, determinando la penalità per entrambi, ti darà
punti 1. Ciò significa che, se si pensa che l’altro defezioni, converrà sempre
defezionare. Ciò significa anche che è meglio defezionare se si ritiene che l’altro
collabori e che conviene ancora defezionare quando si ritiene che l’altro defezioni.
Qualunque cosa faccia l’altro giocatore, insomma, a te viene sempre qualcosa dalla
defezione.
E, fin qui, tutto bene. Solo che il discorso va fatto anche per la controparte, la quale,
come te, avrà sempre da ricavare qualcosa dalla defezione, indipendentemente dalle
tue scelte. Sembrerebbe dunque ovvia la defezione di entrambi, se non fosse per quel
8
misero punto che se ne ricava rispetto ai tre che premiano tutti e due i giocatori nel
caso di scambievole collaborazione. È proprio la razionalità individualistica a
produrre per entrambi un esito peggiore di quello che sarebbe altrimenti possibile. Di
qui il dilemma.»
Nel “Dilemma del Prigioniero” il giocatore ha la capacità di reagire ad ogni mossa
dell’avversario, spiandone il comportamento per scoprire il minimo segno di volontà
di cooperare o di non cooperare, per cui sarà sempre il comportamento
dell’avversario a determinare una sequenza di effetti che può tornare a vantaggio
dell’avversario (e ovviamente anche del giocatore) o ritorcersi contro di lui.
Questo aspetto dell’interazione tra due o più giocatori, per quanto possa apparire
banale, viene ignorato da quelle strategie che, tentando di massimizzare il proprio
tornaconto, considerano l’altro giocatore come un elemento fisso dell’ambiente,
partendo quindi da un’ipotesi limitativa che, per quanto sottilmente calcolata,
ostacola il successo.
Secondo alcuni teorici della Teoria dei Giochi11 salvarsi dal “Dilemma del
Prigioniero” dovrebbe essere una delle funzioni primarie dello stato: fare in modo che
i singoli cittadini, quando non dispongano di incentivi privati a collaborare, siano
costretti comunque a compiere atti socialmente utili.
Il diritto12 dovrebbe esistere proprio per indurre la gente a pagare le tasse, a non
rubare, e a onorare gli impegni contratti verso terzi, tutte attività, queste, che
potrebbero essere considerate come un unico, colossale gioco del “Dilemma del
Prigioniero” al quale partecipi un gran numero di giocatori.
L’esempio che si fa di solito in quest’ottica è quello del pagamento delle tasse:
nessuno avrebbe interesse a farlo, vista la grande dispersione dei vantaggi generali
rispetto all’onere personale, per cui la legge deve costringere ciascuno a fare la
propria parte per contribuire a realizzare beni di interessi collettivo come scuole,
ospedali, strade ecc…
Il “Dilemma del Prigioniero” viene spesso impropriamente moralizzato come
moderno apologo dell’antica ammonizione che l’egoismo non paga.
11
Cfr. TAYLOR, Michael e WARD, Hugh, La fornitura dei beni pubblici: un’applicazione della
teoria dei giochi, pp.73-103 in A.A. V.V. Giochi e paradossi in politica. A cura di Gian Enrico
Rusconi, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1989.
12
Il problema di quale funzione assegnare al diritto nell’ambito dell’applicazione della Teoria dei
Giochi alla filosofia della politica è molto complesso e le soluzioni proposte sono spesso
discordanti. L’interpretazione del diritto come sistema di regole per poter “giocare” correttamente
in politica può essere completamente capovolta. Il diritto, può essere visto, ad esempio, come la
codificazione di rapporti di forza di gruppi sociali dominanti che impediscono che il “gioco sociale”
si svolga correttamente.
9
In realtà, nella logica del gioco la radice del dilemma non è l’egoismo bensì la
razionalità limitata, l’incomunicabilità e incommensurabilità dei quadri cognitivi con
cui i giocatori si confrontano.
Il “Dilemma del Prigioniero” viene inoltre interpretato13 come una forma moderna di
fondazione razionale dell’autorità statuale.
Uno dei percorsi preferiti è la ripresa del concetto hobbesiano di bellum omnium
contra omnes e della sua soluzione nell’istituto dell’autorità sovrana.
In effetti quello che Hobbes chiama “stato di natura” è codificabile come un dilemma
del prigioniero a n-persone. Le strutture di utilità degli individui sono tali per cui non
solo non collaborano volontariamente ma si danneggiano.
Da qui la necessità della coercizione sovrana per arrivare alla cooperazione; da qui
soprattutto la razionalità dell’autorità.
Questa tesi è contestata dagli studiosi14 di ispirazione libertaria che rileggono il
modello hobbesiano in un’ottica tale da arrivare non alla necessità razionale
dell’autorità, ma alla sua virtuale inutilità di fronte all’insorgenza della cooperazione
(socialmente appresa iterando il dilemma del prigioniero).
Un altro gioco cooperativo, molto semplice ma filosoficamente molto interessante è
il cosidetto TFT (Tit For Tat = Colpo Su Colpo) che dimostra rigorosamente la
possibilità della cooperazione in un mondo in cui tutti sono dominati dai propri
interessi.
Il TFT è stato ideato nel 1979, quando Robert Axelrod15 chiese ad alcuni scienziati di
partecipare ad una competizione. Chiese loro di inviargli la strategia che ritenevano
ottimale per affrontare il dilemma del prigioniero di tipo ripetuto, sotto forma di
procedura informatica, per mettere a confronto tali programmi in una competizione.
A questa competizione parteciparono quattordici programmi16, alcuni molto semplici,
altri altamente elaborati.
Il programma vincitore fu appunto il TFT proposto dallo psicologo sociale Anatol
Rapoport ed era il più semplice di tutti in quanto composto da due sole regole e cioè:
1) coopera nel primo round;
2) poi, copia la mossa che il tuo avversario ha effettuato nel round precedente.
13
Cfr. HAMBURGER, Henry, Giochi misti di competizione e di cooperazione, pp.43-72 in A.A.
V.V. Giochi e paradossi in politica. A cura di Gian Enrico Rusconi, Torino, Giulio Einaudi Editore,
1989.
14
Si veda in merito TAYLOR, Michael, The possibility of cooperation, Cambridge University
Press, 1988
15
Cfr. AXELROD, Robert, op. cit.
16
A questi programmi Axelrod ne aggiunse un quindicesimo, che cooperava o entrava in
competizione in maniera casuale.
10
Il TFT è diventato un “classico” della Teoria dei Giochi, in quanto questa strategia,
dalla semplicità imbarazzante, è in grado di battere programmi altamente sofisticati.
Questo perché il TFT possiede cinque caratteristiche17 che sono assolutamente
indispensabili per avviare la cooperazione in un ambiente egoistico e per fare in
modo che questa cooperazione si autoalimenti e cioè:
1)
2)
3)
4)
5)
gentilezza
indulgenza
suscettibilità
reattività
trasparenza
Per gentilezza si intende il fatto che non bisogna mai avviare la competizione per
primi. Ciò però non significa che un programma gentile non sia competitivo (al
contrario, TFT possiede un alto grado di competitività), ma che la caratteristica di
non essere mai il primo a defezionare gli impedisce di entrare in conflitti non
necessari.
L’indulgenza è la possibilità che, dopo un passo falso nelle competizione da parte
dell’avversario, il programma è incline a tornare ad un atteggiamento cooperativo, a
patto che anche l’avversario lo imiti. Questo dovrebbe consentire di ripristinare la
reciproca cooperazione.
La suscettibilità è la capacità di reazione automatica: se l’avversario è competitivo, il
programma lo ripagherà con la stessa moneta e questo dovrebbe essere tale da
scoraggiare l’altro giocatore nel persistere in tentativi di defezione a buon mercato.
La reattività è la capacità di modulare le risposte in base alle strategie
dell’avversario.
La trasparenza, infine, è semplicemente un indice della lunghezza del programma:
più corto è il programma, maggiore è la sua trasparenza e più facilmente è
riconoscibile il suo modello di comportamento.
TFT contiene tutte queste caratteristiche al massimo grado possibile ed è in grado di
sviluppare in maniera automatica la cooperazione in un ambiente puramente
egoista18: una volta introdotto il TFT, tale programma è in grado di produrre un
17
Si noti che, grazie a TFT, è possibile definire in maniera rigorosa questi concetti molto comuni
nella vita sociale umana.
18
A patto ovviamente che tutti i giocatori si trovino in condizioni di partenza in un piano di assoluta
parità.
11
atteggiamento cooperativo stabile anche se gli obiettivi dei componenti dell’ambiente
in questione sono esclusivamente egoisti.
Il limite principale di TFT è che, banalmente, reagisce in maniera automatica ad
un’offesa ricevuta, e quindi un avversario, dopo un passo falso, si può ritrovare
incastrato senza speranza nella palude della competizione19.
Questa impasse può essere evitata solo se i giocatori ammettono occasionalmente la
possibilità di un perdono “straordinario” nelle loro strategie20 .
L’importanza della possibilità di rappresaglia per l’insorgenza della cooperazione è
evidente nei giochi cooperativi come il “Dilemma del Prigioniero”o il “Tit for Tat”.
Nel contesto del “Dilemma del Prigioniero” intuitivamente si potrebbe pensare che ci
sia la convenienza a cooperare sempre, in quanto ciò che si chiede all’altro giocatore
è appunto la cooperazione.
In realtà si vede banalmente che tale strategia21 è errata in quanto fornisce all’altro
giocatore l’incentivo a sfruttare la controparte, senza contare che la cooperazione
incondizionata può non soltanto danneggiare chi la attua, ma anche gli altri giocatori
(il dilemma del prigioniero, e in generale i giochi cooperativi, possono essere giocati
con un numero n di giocatori grande a piacere) con i quali lo sfruttatore abbia
occasione di interagire in un secondo tempo.
La cooperazione incondizionata tende insomma a “viziare” l’altro giocatore,
scaricando sul resto della collettività l’onere di redimere l’egoista impunito.
Ciò porta a pensare che la reciprocità sia, rispetto alla cooperazione incondizionata,
un fondamento migliore della moralità.
La strategia fondata sulla reciprocità consente infatti all’altro giocatore di ottenere il
premio della collaborazione scambievole, che è poi esattamente il premio che si
ottiene per se stessi quando entrambi i giocatori operino al meglio.
19
Questa situazione si è verificata ai tempi della guerra fredda. La proliferazione dell’armamento
atomico delle due superpotenze (U.S.A. e U.R.S.S.) era dovuta al fatto che ogni avversario temeva
la mossa dell’altro e quindi tendeva ad aumentare il proprio armamento atomico.
La mossa (basata sulla sfiducia) consisteva nel dire che se uno dei contendenti aveva più bombe
rispetto all’avversario allora in un’eventuale conflitto il contendente più armato avrebbe vinto
perché avrebbe avuto maggiore capacità di distruzione. Però questa mossa diventava paradossale in
quanto si arrivava alla saturazione per cui il numero degli ordigni atomici era tale da distruggere
comunque tutto dell’avversario. Inoltre questo creava spese e rischi di guerra maggiori per cui si
rivelava una mossa sbagliata per entrambe le superpotenze: diminuiva la probabilità che
l’avversario potesse vincere ma aumentava il costo e il mantenimento degli armamenti. E
ovviamente aumentava la probabilità che potesse scoppiare una guerra per sbaglio.
20
Secondo alcuni, questo limite di TFT basterebbe da solo a giustificare la necessità del diritto e
dell’autorità centrale in una società complessa. Cfr. A.A. V.V. Giochi e paradossi in politica. A
cura di Gian Enrico Rusconi, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1989.
21
Questo dimostra immediatamente l’inconsistenza di strategie puramente cooperative sul modello
del precetto evangelico “porgi l’altra guancia”.
12
Tuttavia la reciprocità non sembra essere altro che la formalizzazione22 del principio
biblico “occhio per occhio, dente per dente”, principio che, sul piano del diritto e
dell’etica, appare estremamente rudimentale.
Nelle situazioni in cui ci si possa affidare ad un’autorità centrale per l’applicazione
forzosa dei principi della collettività, esistono delle alternative: la pena può essere
proporzionata al delitto senza però essere necessariamente isomorfa al delitto stesso e
senza dunque scatenare una “rappresaglia automatica”. Quando però non esista
un’autorità centrale incaricata dell’applicazione della legge (delle regole), i giocatori
non possono far altro che affidarsi a se stessi, fornendosi a vicenda gli incentivi
indispensabili a evocare la cooperazione piuttosto che la defezione23.
Una collettività che utilizzi strategie fondate sulla reciprocità dovrebbe comunque
riuscire ad autocontrollarsi: con la garanzia della rappresaglia verso chiunque tenti di
essere meno cooperativo, ogni strategia deviante verrebbe resa antieconomica.
Così il deviante non dovrebbe prosperare e non dovrebbe porsi a modello di
imitazione.
Questa caratteristica dell’autocontrollo dovrebbe offrire inoltre un incentivo ad
insegnare questo tipo di strategia anche agli altri, anche a quelli con i quali non si
avrebbe mai occasione di interagire.
È ovvia la convenienza di insegnare la reciprocità a coloro con i quali si debba
interagire, in modo da instaurare un rapporto scambievolmente premiante, ma è
altrettanto ovvio che si trae un vantaggio anche ad insegnare la reciprocità a chi non
si debba mai incontrare: sarà infatti la reciprocità posta in essere dall’altro a
contribuire alla sorveglianza dell’intera comunità, assicurando la rappresaglia verso
chiunque tenti di sfruttare la docilità altrui.
Tale modo di procedere dovrebbe ridurre progressivamente il numero dei soggetti
non cooperativi con i quali ciascuno si incontrerebbe in futuro.
La capacità di riconoscere l’altro giocatore dall’interazione pregressa e di ricordare le
caratteristiche salienti dei precedenti incontri è un requisito indispensabile al
mantenimento della cooperazione, senza il quale il giocatore, non potendo usare
nessuna forma di reciprocità, non saprebbe come incoraggiare l’altro a cooperare.
Si può dire anzi che da tali capacità di riconoscimento dipende la stessa ampiezza del
campo di azione continuativa della cooperazione.
22
Il TFT è esattamente la formalizzazione di questo principio.
Anche quest’altro limite del TFT viene invocato da alcuni studiosi come giustificazione della
necessità del diritto e dell’autorità. Cfr. A.A. V.V. Giochi e paradossi in politica. A cura di Gian
Enrico Rusconi, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1989.
23
13
Nelle società umane l’ambito della cooperazione incontra i propri limiti nella
incapacità di riconoscere l’identità o le azioni del prossimo24.
Le metodiche con la quale può essere portata avanti sono molte e diverse, tra le quali
le principali sono le aspettative future rispetto al presente, la trasformazione dei
risultati premianti e penalizzanti, l’insegnamento dell’interessamento alla sorte altrui
e la didattica della reciprocità.
Ai fini dell’affermazione degli esiti più vantaggiosi dell’interattività, non si tratta
soltanto di divulgare il fatto che si abbia più da guadagnare dalla reciproca
cooperazione che dalla reciproca defezione, ma anche di plasmare in modo tale le
caratteristiche dell’interazione da consentire nel lungo periodo l’evoluzione stabile
della cooperazione.
L’impostazione evoluzionistica si basa su un principio molto semplice: tutto ciò che
ha successo ha maggiori probabilità di ripresentarsi con maggior frequenza in futuro.
Nell’evoluzionismo darwiniano classico il meccanismo è quello della selezione
naturale basata sulla differenziazione della sopravvivenza e della riproduzione.
Nella Teoria dei Giochi il meccanismo evolutivo è basato su una strategia efficace
che può ripresentarsi più frequentemente in futuro in quanto ad essa si convertono
altri giocatori. La conversione può fondarsi sull’imitazione dei giocatori vincenti
oppure su un processo di apprendimento consapevole.
Il processo evolutivo, oltre che alla crescita differenziata dei migliori, è basato anche
sulla possibilità di variazione. In biologia questo avviene geneticamente tramite
mutazioni e rimescolamento dei geni ad ogni generazione che passa, nei fenomeni
sociali invece tramite un meccanismo di apprendimento per prove ed errori.
Il problema (e il limite) della stabilità collettiva sta nel fatto che, una volta
instauratasi, la stabilità è in grado di durare, ma nulla assicura che possa instaurasi.
Il problema è dunque sapere, tra le tante strategie capaci di restare collettivamente
stabili quando si siano fissate in una data popolazione, quali siano capaci di dare
inizio a questo meccanismo di radicamento.
Le possibilità di cooperazione si instaurano quando ciascun giocatore sia messo in
condizione di aiutare l’altro, ma l’ "aiuto" viene dato solo quando i guadagni
ricavabili dalla cooperazione risultino maggiori dei costi nel qual caso ovviamente
entrambi i giocatori preferiscono la defezione alla reciproca cooperazione.
24
Si tratta di un problema che durante la guerra fredda si è rivelato particolarmente grave ai fini del
conseguimento di un efficace controllo degli armamenti nucleari in ambito internazionale. In questo
caso la maggiore difficoltà era appunto la possibilità di verifica, ovvero di sapere con un sufficiente
grado di sicurezza quale mossa avesse effettivamente compiuto la controparte.
14
È interessante notare che la Teoria dei Giochi fornisce una definizione del concetto di
“altruismo” che è abbastanza differente da quella intuitiva di “altruismo” come amore
disinteressato nei confronti degli altri.
Per “altruismo” si intende una strategia in cui l’utilità personale risente positivamente
dell’effetto del benessere del prossimo. La beneficenza viene vista, ad esempio, non
tanto come una forma di aiuto ai meno fortunati ma come qualcosa che procura
consenso sociale nei confronti del benefattore e crea un processo di scambio il cui
fine è quello di creare un obbligo nel beneficiato.
In questo c’è una forte affinità con l’evoluzionismo biologico che sostiene che
l’altruismo può sostenersi a lungo tra affini: una madre che rischi la propria vita per
salvare la propria prole fa aumentare la possibilità di sopravvivenza delle copie dei
propri geni.
L’altruismo dovrebbe sostenersi tra esseri umani tramite la socializzazione, ma si
pone immediatamente il problema dell’ “egoista”, ovvero di colui che si appropria dei
benefici dell’altruismo del prossimo senza però pagare il costo derivante dalla
restituzione della generosità.
L’unica soluzione sembra essere una qualche forma di rappresaglia (pena lo
sfruttamento continuo degli altruisti da parte degli egoisti) come quella di
comportarsi da altruisti con tutti all’inizio, per riservare in seguito questo trattamento
di favore soltanto a coloro che abbiano manifestato analoga intenzione.
I due requisiti chiave per la cooperazione sono la reciprocità e un’aspettativa per il
futuro sufficientemente forte da rendere stabile tale reciprocità.
Una volta affermatasi in una data popolazione, la cooperazione fondata sulla
reciprocità è capace di tutelarsi dall’invasione di strategie non cooperative.
Affinché la cooperazione divenga stabile bisogna che il futuro, come si è già detto,
proietti sul presente un’ombra sufficientemente grande, il che significa che
l’importanza del prossimo incontro tra due giocatori deve essere abbastanza grande
da rendere improduttiva la strategia della defezione quando l’altro giocatore si sia
dimostrato pronto a reagire alle provocazioni.
È necessario, insomma, che i giocatori abbiano una probabilità abbastanza grande di
incontrarsi nuovamente e che non sottovalutino troppo la portata del successivo
incontro.
Per esempio, ciò che aveva reso possibile la cooperazione nella guerra di trincea del
primo conflitto mondiale era stato il fatto che le stesse piccole unità sui lati opposti
del fronte sapevano di dover restare a contatto per periodi prolungati di tempo, in
modo che, se una delle due parti avesse violato la tacita intesa, l’altra parte sarebbe
stata pronta a rivalersi sulla medesima unità.
15
L’evoluzione della cooperazione richiede che le strategie efficaci possano prosperare
e che esista una fonte di variabilità nelle strategie impiegate.
Tali meccanismi possono essere la classica sopravvivenza darwiniana del più idoneo
e la mutazione genetica, ma possono anche comportare fenomeni più intenzionali,
quali l’imitazione del modello più riuscito di comportamento e la progettazione
intelligente di strategie nuove.
Rimane comunque il problema che, in un mondo di defezioni incondizionate, il
singolo individuo che sia disposto a fornire collaborazione non è in grado di
prosperare se non esistono intorno a lui altri disposti a ricambiare la cooperazione25.
La cooperazione può invece prendere le mosse da raggruppamenti anche esigui di
individui discriminanti, purché costoro abbiano una percentuale anche minima di
reciproco incontro.
È pertanto necessario un minimo di raggruppamento tra individui che utilizzino
strategie caratterizzate da due proprietà: essere le prime a cooperare ed essere in
grado di discriminare tra coloro che reagiscono positivamente alla cooperazione e
coloro che la rifiutano.
Se la strategia conciliante riesce a farsi adottare praticamente da tutti, gli individui
che se ne servono possono permettersi di essere generosi nell’incontro con chiunque
altro.
Anzi, una popolazione di strategie concilianti è anche in grado di proteggersi contro
raggruppamenti di individui che si servono di una strategia diversa, così come riesce
a difendersi da individui isolati.
Questi risultati ci offrono il quadro cronologico dell’evoluzione della cooperazione,
la quale può iniziare per piccoli raggruppamenti, può prosperare con strategie che
siano concilianti, provocabili e blandamente clementi e, infine, una volta instauratasi
un una data popolazione, consente a individui che si servano di strategie discriminanti
di tutelarsi contro ogni invasione. Il livello complessivo di cooperazione non tende ad
abbassarsi, bensì a innalzarsi, il che significa, in altri termini, che il meccanismo di
evoluzione della cooperazione si autoalimenta.
25
Machiavelli osserva empiricamente l’impossibilità di essere “buoni” (cioè collaborativi) in un
ambiente ostile: «[…]uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di essere buono,
conviene ruini infra tanti che non sono buoni» cfr. MACHIAVELLI, Nicolò, Il principe, Milano,
Fratelli Fabbri Editori, 1968, cap.XV pag.80
Più oltre lo stesso Machiavelli enuncia empiricamente una strategia di tipo TFT affermando che:
«Non può, pertanto, uno signore prudente né debbe osservare la fede, quando tale osservanzia li
torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E, se gli uomini fussino tutti
buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi e non la osservarebbono a te, tu
etiam non l’hai ad osservare a loro». Ib. cap.XVIII, pag 88.
16
Storicamente in politica si è avuta in maniera frequente la convinzione dell’inutilità
della ricerca della cooperazione da parte di una grande potenza nei confronti di
un’altra grande potenza e il tentativo di far saltare l’intero sistema avversario.
Ma questa si è rivelata spesso un’opzione rischiosa, in quanto è accaduto che
l’avversario non abbia limitato la propria reazione alla semplice sospensione della
cooperazione in atto, trovandosi fortemente incentivato, prima di essere
irrimediabilmente indebolito, ad ingigantire la scala del conflitto.
Secondo alcuni26 l’attacco dei giapponesi a Pearl Harbor sarebbe stata una reazione
alle pesanti sanzioni economiche imposte dagli Stati Uniti nel tentativo di mettere
fine all’intervento nipponico in Cina.
Piuttosto che rinunciare a quella che considerava una sua sfera vitale di influenza, il
Giappone aveva infatti deciso di aggredire l’America prima di lasciarsi indebolire
ulteriormente. Aveva bensì compreso che gli Stati Uniti erano molto più potenti, ma
aveva anche deciso che gli effetti cumulati dalle sanzioni rendevano più conveniente
l’aggressione che non l’attesa passiva del deterioramento di una situazione già
disperata.
In generale, il tentativo di mettere in ginocchio l’avversario modifica la prospettiva
temporale dei partecipanti all’interazione, in quanto rende estremamente
problematica la sorte futura dei rapporti. E, in assenza di una prospettiva per il
futuro, diventa impossibile sostenere la cooperazione.
Quando esista la probabilità di un proseguimento dell’interazione su tempi lunghi,
con i giocatori sufficientemente interessati al comune avvenire, possono dirsi mature
le condizioni per il sorgere ed il conservarsi della cooperazione.
Il fondamento più importante della cooperazione sembra dunque essere non la
fiducia, bensì la prevedibile durata del rapporto.
Date le giuste condizioni, i giocatori potrebbero arrivare a cooperare attraverso
l’apprendimento per prove ed errori delle possibilità di reciproco vantaggio, tramite
l’imitazione di giocatori più efficaci e persino per mezzo di un cieco processo di
selezione delle strategie più redditizie con il conseguente affievolirsi di quelle che lo
sono meno.
Nel lungo periodo, sembra non importare tanto che i giocatori si fidino gli uni degli
altri, quanto il fatto che siano mature le condizioni per che consentano loro di
costruire un modello stabile di reciproca cooperazione. Così come l’avvenire è
importante per l’instaurarsi delle condizioni adatte per la cooperazione, il passato è
importante ai fini del controllo dei comportamenti reali.
26
IKE, Nobutaka, Japan’s Decision for War, Record of the 1941 Policy Conferences, Standford
University Press, 1967.
17
È essenziale, cioè, che i giocatori abbiano le possibilità di osservare le scelte già
effettuate dalla controparte e di reagire di conseguenza.
In assenza di questa possibilità di sfruttare il passato, diventa impossibile castigare le
eventuali defezioni, con la conseguente scomparsa dell’incentivo a cooperare.
Il nocciolo del conseguimento del successo tramite la cooperazione sembra dunque
essere una sorta di apprendimento per prove ed errori.
Ma questo processo è lento, spesso molto difficile: in diversi processi politico-sociali
potrebbero esserci tutte le condizioni favorevoli a sviluppi di lungo periodo, ma può
darsi che non si abbia il tempo di aspettare questo processo evolutivo verso strategie
vicendevolmente premianti fondate sulla reciprocità.
Se però comprendiamo meglio l’intero processo, possiamo almeno sfruttare la nostra
preveggenza di esseri umani per accelerare l’evoluzione della cooperazione, cercando
in qualche modo di essere “clementi” ovvero usando strategie intese come
propensione a collaborare nelle mosse in cui altri abbia defezionato ma cercando
anche di difenderci dall’ “invasione” della rappresaglia. È stato dimostrato infatti che
basta un singolo mutante non-cooperativo per avere la meglio sulla media della
popolazione di riferimento, in assenza di difese. Mentre invece la cooperazione è
collettivamente stabile solo quando nessuna strategia è in grado di invaderla.
Condizione primaria per la stabilità, come abbiamo visto, è il numero delle
interazioni che deve essere sufficientemente grande.
Una particolare implicazione di questo discorso è che qualora fosse molto
improbabile che l’altro giocatore resti in scena per molto a motivo di una sua
evidente debolezza, il valore stimato delle interazioni diminuirebbe sensibilmente e la
cooperazione perderebbe stabilità27.
La teoria dell’evoluzione biologica fondandosi sulla lotta per la vita e sulla
sopravvivenza del più forte, sembra impedire o comunque limitare fortemente la
possibilità della cooperazione. Si tratta in realtà di un’errata interpretazione della
teoria che attribuisce quasi per intero l’adattamento alla selezione intraspecifica, cioè
a livello di popolazioni o di intere specie. Ad un esame più attento si è visto invece
che l’evoluzionismo non contrasta affatto con la possibilità di una cooperazione tra
membri della stessa specie e persino tra appartenenti a specie diverse28.
27
Questo concetto era intuitivamente chiaro fin dall’antichità. Si veda ad esempio la spiegazione
data da Giulio Cesare sul perché gli alleati di Pompeo avessero smesso di cooperare: « sive despecta
eius fortuna ut plerumque in calamitate ex amicis inimici exsistunt (essi, considerandone disperate
le prospettive future,[si comportarono] secondo il costume abituale, per cui gli amici [nella buona
sorte] si trasformano in nemici nelle avversità)». De bello civili, III, 104
28
Si veda in merito: HAMILTON, William, Selection of Selfish and Altruistic Behavior in Some
Extreme Models, Washington, D.C., Smithsonian Press, 1971
18
Ma forse la considerazione più interessante che si può fare da un punto di vista
epistemologico è che questi modelli matematici sembrano essere una formalizzazione
dell’utilitarismo. Per morale “utilitaristica29” si intende un insieme di regole che
servono a far vivere meglio un gruppo sociale e che non hanno alcuna giustificazione
“ontologica” ma solo operativa: tali regole vengono date perché servono e perché
funzionano. Si privilegia il bene collettivo rispetto a quello individuale.
Questo approccio presenta sicuramente molti limiti ma permette di risolvere alcune
antinomie e paradossi30 tipiche di etiche fondate su altre basi.
In questo contesto accettare una morale significa accettare delle leggi che tendono a
massimizzare non il profitto del singolo ma il profitto del gruppo in cui questo
singolo si trova ad operare.
Se dunque per utilità si intende il massimo profitto, l’avere regole di comportamento
che si basano sulla fiducia reciproca e su una legge di gruppo può massimizzare
l’utilità. L’etica viene così ad essere una serie di regole di comportamento che dal
punto di vista individuale potrebbero non essere convenienti ma dal punto di vista
della collettività sono convenienti perché si traducono in un benessere per tutto il
gruppo31. Un gruppo sociale32 si da queste regole per poter sopravvivere e migliorare
e dunque la morale sarebbe una conseguenza dell’evoluzione della specie, nel senso
che una specie che ha una sua morale riesce a sopravvivere rispetto ad altre specie.
29
L’utilitarismo identifica il bene con l’utile, inteso come benessere durevole e non come piacere
momentaneo. Il termine fu usato per la prima volta da Bentham, ma la sua fortuna è dovuta a Stuart
Mill. Già Epicuro aveva affermato che il bene coincide con l’utile, ma tale dottrina si determina nel
pensiero etico, politico ed economico inglese dei secc. XVIII-XIX. L’utilitarismo concepisce l’etica
come una scienza esatta, sottraendo il concetto della moralità a fondazioni inverificabili, come
l’ossequio ai comandamenti divini o la spinta di un sentimento privilegiato. L’utile perde così il
carattere di valore individuale e soggettivo e diviene criterio di scelte oggettivamente comparabili.
30
Ad esempio Russell faceva notare che: «Un ricco può spingere milioni di persone alla miseria
con qualche atto che nemmeno il più severo confessore cattolico considererebbe peccaminoso,
mentre avrà bisogno di assoluzione per una triviale aberrazione sessuale che, alla peggio, ha
sciupato un’ora che poteva essere impiegata più utilmente».
RUSSELL, Bertrand, La visione scientifica del mondo, Milano, CDE,1984, p.139
In generale, comunque, nessun tipo di etica, nemmeno quella utilitaristica, è esente da antinomie e
paradossi. Si tratta di un problema troppo complesso per poter essere affrontato in questa sede.
31
Il classico esempio che si fa nella Teoria dei Giochi è quello di alzarsi in piedi allo stadio durante
una partita di calcio per vedere meglio: è ovvio che se tutti gli spettatori facessero questa mossa il
vantaggio individuale verrebbe annullato. Dal punto di vista individuale la mossa di alzarsi in piedi
per vedere meglio è corretta, ma da un punto di vista collettivo è sbagliata.
32
Anche una organizzazione criminale per poter sopravvivere deve darsi delle regole interne,
ovvero una “morale”. Anzi queste regole interne sono assolutamente indispensabili per la
sopravvivenza di un’organizzazione criminale, nel senso che se non c’è una sorta di fiducia
reciproca nel gruppo che faccia capire che la massimizzazione del profitto del gruppo è anche
quella individuale, allora nessuna organizzazione criminale potrebbe reggere.
19
Un’interpretazione della Teoria dei Giochi nell’ambito della filosofia della politica
sostiene che, attualmente, con il crollo delle ideologie, lo scontro politico non
investirebbe più i grandi principi di costruzione della società ma i criteri di godimento
dei benefici che il sistema produce e distribuisce.
Non ci sarebbero più nemici da distruggere ma concorrenti da battere secondo regole
virtualmente concorsuali. Il risultato non sarebbe la pacificazione sociale, ma la
creazione di conflitti più sofisticati. Si dovrebbe così raggiungere l’apoteosi del
calcolo33 e del comportamento strategico e questa dovrebbe rappresentare la fase
“adulta” della democrazia.
Si tratta di un approccio di tipo neofisicalista34 che vorrebbe ridurre a un puro
formalismo la complessità dell’agire politico e che a nostro parere è molto discutibile.
È certamente un’operazione corretta tentare di portare rigore scientifico nel mondo
delle approssimazioni delle scienze sociali e politiche.
Il problema è che, se è vero che l’impianto concettuale del discorso sulla
cooperazione che abbiamo qui affrontato discende da approcci matematici applicati a
problemi politico-sociali, è anche vero che in questo contesto la matematica è
diventata il supporto di una argomentazione razionale relativamente autonoma,
arricchita di altri elementi conoscitivi.
Qui il procedimento razionale può avere sia estensioni matematiche sia sviluppi affini
ad una argomentazione discorsiva, che però non deve essere confusa con la retorica,
ovvero con la capacità di indurre gli altri con motivi “irrazionali” a comportamenti
(non) desiderati (quindi essi stessi “irrazionali”).
Nella formulazione di modelli matematici per le scienze politico-sociali c’è sempre il
problema delle preferenze soggettive, delle aspettative, dei fraintendimenti, in una
parola, del quadro cognitivo degli attori ed è sempre molto problematico fare entrare
tutto ciò nei modelli d’analisi. Né potrebbe essere diversamente quando si studia il
comportamento umano. Ma quello che conta in questo contesto non sono le
motivazioni, i tratti soggettivi presi in sé, bensì la dinamica intersoggettiva che
tramite essi si instaura.
Essa crea quel gioco di reciprocità caratterizzato da regolarità, costanti, variabili
prevedibili che consentono di costruire modelli di analisi dotati di plausibilità
esplicativa, secondo i requisiti minimi richiesti dalla scienza sociale e politica.
33
Tale è ad esempio la posizione di alcune riviste politologiche americane che si propongono una
totale formalizzazione dell’agire politico come l’«American Political Science Review» o il «Journal
of Conflict Resolution».
34
Per fisicalismo si intende una teoria formulata nell’ambito del Circolo di Vienna che sosteneva la
riducibilità di tutti i linguaggi a quello fisico-matematico per rendere possibile una verifica assoluta,
intersoggettiva e interdisciplinare, di tutti gli enunciati.
20
Bisogna quindi prudentemente parlare di “plausibilità” dei modelli di spiegazione
sociale, anziché di certezza.
Ma per tali modelli valgono sempre i criteri di coerenza interna e i vincoli imposti
dalla logica. Qui sta il raccordo minimo ma essenziale con la matematica o meglio
con il procedere logico, che può assumere veste matematica o altra formalizzazione.
Se il sociologo o il politologo ritengono significativo affidarsi ad un modello
matematico, devono sottostare ai suoi vincoli formali.
Ma nessun matematico prederà il posto del sociologo o del politologo nel decidere se
l’uso di un formalismo attenua o aumenta la “plausibilità” complessiva della sua
spiegazione.
Rimane comunque aperto il problema di quale interpretazione dare a questi modelli
matematici per lo studio delle attività umane nell’ambito della filosofia della politica.
È ragionevole pensare che non sia possibile darne un’interpretazione puramente
cooperativa35, come si può vedere dagli esempi di giochi elementari che abbiamo
proposto e che sono più o meno equivalenti riguardo alla cooperazione ed alla
rappresaglia36.
A nostro parere la cooperazione tra esseri umani rimane ancora una scelta eticopolitica non suscettibile sic et simpliciter di una modellizzazione formale ma a cui il
dominio logico-matematico può dare un contributo fondamentale per una
motivazione e un’organizzazione razionale, spiegando come funzionino i meccanismi
di scelta in particolari contesti di interazione ed evitando le giustificazioni retoriche
tipiche delle ideologie.
35
È ovvio, ad esempio, che su scala globale la cooperazione è sempre la scelta più conveniente, in
quanto consente di massimizzare la funzione di utilità per tutti gli stati, ma questo solo se tutte le
“pedine” dello scacchiere politico partono da un piano di assoluta parità (anzi, come abbiamo visto,
imponendo questa condizione la cooperazione dovrebbe risultare “automatica”). In caso contrario è
altrettanto ovvio che questo comportamento è possibile solo nella misura in cui non lede gli
interessi del paese (dei paesi) più forti.
36
Rimane inoltre irrisolto il problema delle formalizzazione di una vasta gamma di comportamenti
umani di rappresaglia, come il terrorismo. Le strategie del terrorismo non presuppongono
necessariamente una distribuzione delle utilità in ogni mossa, cosa che invece presuppone la Teoria
dei Giochi.
21