Capitolo conclusivo sulla devianza

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Capitolo conclusivo sulla devianza
Uno sguardo conclusivo sulla Devianza
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Capitolo XI
UNO SGUARDO CONCLUSIVO SULLA DEVIANZA
1. Sintesi delle teorie e dei paradigmi sulla Devianza
2. Tipologie e classificazioni
3. Tre domande: perché deviante? Come si diventa? Chi diventa?
In quest’ultimo capitolo cercheremo di tirare le fila di tutto il discorso fatto sulla devianza,
tentando una sintesi che ci faccia scorgere le principali categorie con cui questo concetto è
stato trattato nella sociologia della devianza
1. SINTESI DELLE TEORIE E DEI PARADIGMI SULLA DEVIANZA
Nell'ambito della psicosociologia della devianza ci siamo imbattuti in alcuni
autori che intendono la devianza in modo molto diverso, a seconda degli approcci di
cui fanno parte, delle tendenze, ed, in ultima analisi, dei paradigmi Interpretativi
che hanno dominato la scena da qualche secolo a questa parte.
1.1 Il Paradigma utilitarista
Il bisogno di definire in modo organico la devianza si affaccia per la prima volta
nella seconda metà del sec. XVIII, entro l’ambito degli studi giuridici e filosofici
suscitati dall’Illuminismo razionalista ed empirista. Sono pensatori come Hobbes e
Locke in Inghilterra e Montesquieu e Rousseau in Francia che preparano il clima
culturale da cui nasce un consistente nucleo di elaborazioni teoriche che costituisce
una prima e schematica criminologia. L’interesse per i problemi della devianza sorge
più precisamente dall’istanza dell’egualitarismo che spinge a rivedere in modo
sostanziale la prassi e la dottrina penale del tempo, caratterizzata da eccessi e da
arbitri di uomini e di istituzioni, assolutamente contrari all’ideale illuminista del
valore e della dignità di qualsiasi persona umana, compresa quella del delinquente.
Ma non è estranea a questo rinnovato interesse per la devianza la curiosità verso un
fenomeno apparentemente inspiegabile, data la concezione illuminista che vede
nella razionalità il fondamento della natura umana e, più a monte, dallo stesso
sistema sociale.
È C. Beccaria che già nel 1764 nel suo “Dei delitti e delle pene” tenta un primo
bilancio organico di molte riflessioni elaborate da più parti sul significato del
crimine e sulle risposte che la società deve dare all’infrazione della legge.
Presupposto essenziale del libro di Beccaria è senza dubbio la dottrina del contratto
sociale che sottolinea l’origine e la natura consensuale della società e pertanto la
sua intrinseca necessità e razionalità. Di qui la definizione del crimine (e della
devianza in genere) come comportamento essenzialmente patologico perché
irrazionale e la concezione della pena come giusta rivalsa del sistema sul deviante
(purché mantenuta entro i limiti della proporzionalità simmetrica) e come tentativo
di una sua riconduzione alla normalità o razionalità. Egli dà per scontato che
l’ordine sociale esistente sia razionale. Il suo unico obiettivo è di renderlo più
efficace nell’eliminare la parte deviante del sistema. Pena come deterrente alla
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natura “utilitaristica dell’uomo”. Pena però che deve essere “certa, pronta, mite e
proporzionata”, per rimanere nei canoni illuministici del tempo. Ben diverso dalla
tendenza attuale, che, rivalutando la natura razionale dell’uomo (rational choice)
insiste di più sulla gravità della pena più che sugli altri elementi. Se questo è fare
un passo in avanti nella “razionalità”.
1.2 Il Paradigma Positivista
Le teorie di tendenza positivista (psicofisiche) "concepiscono la disuguaglianza,
la povertà e l'emarginazione come fenomeni collegati a fattori naturali, conseguenze
di cause ereditarie e di degradazione umana. Possiamo mettere in risalto la teoria
degli elitisti, che secondo lo stile darwiniano considera l'emarginazione come valore
in quanto seleziona i più capaci dagli altri. Il marginale va ritrovato "nel criminale,
l'uomo selvaggio e insieme l'ammalato" (Lombroso), le cui tracce caratteriali e
comportamentali dimostrano, tra altro, l'uso del tatuaggio, una diminuita sensibilità
al dolore, una grande acuità visiva, il mancinismo, il carattere atavico, la grande
insensibilità morale e affettiva, le passioni (alcool, gioco, libidine, vanità) ecc. Tale
prospettiva ha valore esplicativo del modo in cui spesso, ancora oggi, segmenti della
società interpretano il fenomeno della marginalità. I miserabili, i malati di aids, i
drogati, i ragazzi di strada sono identificati ed etichettati come "marginali" (nel
senso morale e medico).
1.3 Il Paradigma Sociale
Il paradigma sociale comprende tutte quelle teorie che rintracciano nella società
(disorganizzata o non perfettamente funzionale) la causa della devianza.
1.3.1 La "Scuola di Chicago"
La "Scuola di Chicago" identifica una più intensa presenza della marginalità
nelle aree geografiche caratterizzate dalla disorganizzazione urbanistica e sociale.
Tali aggregazioni sociali sono funzionali alla presenza di gruppi delinquenti, i quali
trasmettono culturalmente i set di valori che servono da matrice dei comportamenti.
Se all'inizio, l'apprendimento dei comportamenti devianti ha motivazioni ludiche, in
un secondo momento essi sono sostenuti da motivazioni di carattere utilitaristico
(C. R. Shaw e H." "D. McKay). E. Sutherland nella sua teoria delle associazioni
differenziate, interpreta
la devianza come un comportamento appreso
nell'interazione, sia coll'ambiente familiare che col gruppo dei pari; si imparano non
soltanto le tecniche, ma anche le motivazioni, le razionalizzazioni e gli atteggiamenti
propri della marginalità.
I territori urbani problematicamente strutturati (ad es. le 'favelas' e i
"barracati") producono la "marginalità ecologica", che, insieme alla marginalità
economica contribuisce all'emergere della cultura criminale, ed i gruppi sociali non
integrati sono più vulnerabili all'influenza e alle pressioni del crimine. Quando le
risposte alle pressioni sono caratterizzate dal timore, dall'omertà, dalla tolleranza e
dall'indifferenza si creano le premesse per lo sviluppo della devianza, un "terreno di
coltura in cui si istalla, crea radici e prospera il crimine organizzato".
1.3.2 La Tendenza funzionalista
La concezione della società come corpo sociale unitario fa comprendere la
marginalità come frutto della non integrazione sociale o della mancata
socializzazione. Un intervento mirato alla soppressione della marginalità privilegia,
da una parte, l'utilizzazione di mezzi coercitivi, quando essa si rivela distruttiva per
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il sistema e l'utilizzazione funzionale della marginalità come meccanismo di
colpevolizzazione o come polo di riferimento per i gruppi integrati. Tale prospettiva
di tendenza funzionalista proviene da T. Parsons, R. Merton e K. Davis.
Nella "teoria dell'anomia" R. Merton sostiene che i soggetti appartenenti a certi
gruppi sociali trovano difficoltà nell'accedere alle mete (promesse teoricamente a
tutti), utilizzando norme sociali condivise. La marginalità va ricercata nel disagio
causato dall'impossibilità di certi individui di trovare i mezzi adatti al
raggiungimento dei fini condivisi dalla società. La spinta alla delinquenza è
proporzionale alla discrepanza tra aspirazioni e mezzi per raggiungerle, e a soffrire
di più questo tipo di pressione sono i più poveri: ne deriva che la devianza sarebbe
un fenomeno tipico delle classi sociali inferiori poiché sono esse a subire
maggiormente il disagio dello scarto tra mete e mezzi.
Cohen, nella sua "teoria della deprivazione di status", partendo dallo scarto tra
aspirazioni e mezzi prefigurato da R. Merton, aggiunge che i mezzi sono distribuiti
in modo ineguale: i giovani delle classi inferiori sono formati all'interno della loro
cultura, ma nel periodo della formazione scolastica sono a contatto con quella della
classe media, che serve loro da confronto. Si crea una situazione di conflitto quando
il soggetto si accorge di essere un deprivato rispetto agli altri ed il disagio può
sfociare in comportamenti collettivi, subculturali, all'interno delle bande. Esse sono
un modo di negazione collettiva dei valori della classe media e di enfatizzazione di
quelli della propria classe sociale. La teoria della deprivazione di status interpreta
l'autocoscienza della marginalità poiché le bande vengono considerate un modo di
comunicare e una ricerca di sicurezza nel gruppo. Oggi, oltre alla socializzazione
scolastica, è da considerare anche l'influenza dei mezzi di comunicazione nella
creazione della coscienza della deprivazione.
1.3.3 La "teoria del controllo sociale",
La "teoria del controllo sociale", sviluppata soprattutto da T. Hirschi, attribuisce
la devianza alla carenza di socializzazione normale e al conseguente venir meno del
controllo sociale efficace. Il controllo viene inteso come interno (sviluppo dell'autocontrollo) e come esterno (dei genitori, della società). Esso è efficace quando il
soggetto ha buoni legami affettivi con i genitori, ha successo nella scuola, è
impegnato nelle attività parascolastiche, ha alte aspirazioni e fiducia nella validità
della norma sociale. La teoria della deprivazione considera il gruppo dei pari e le
bande come il luogo della maggiore manifestazione della devianza giovanile. La
partecipazione al gruppo dei pari, a determinate condizioni, facilita il
comportamento deviante: giovani con problemi in comune, con difficoltà a
mantenere vere amicizie, con mancato autocontrollo, integrati a determinati gruppi
tendono più spesso a commettere atti delinquenziali rispetto a coloro che non
manifestano tali problemi. Uno sviluppo ulteriore di tale teoria ha portato alla teoria
dell’autocontrollo, che pone l’accento sul processo di internalizzazione delle norme e
sulle modalità di creazione di un legame sociale
1.4 Il paradigma costruttivista
1.4.1 La tendenza interazionista
Marginalità e devianza sono un costrutto sociale che avviene in un processo
interattivo al quale prendono parte quattro elementi: il soggetto che compie l'atto
deviante, la norma che lo sancisce, la reazione sociale e il controllo sociale. Più che
l'azione deviante in sé, viene considerato il significato che essa assume da parte
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dell'individuo che la compie, e da parte del senso comune che la percepisce. La
"prospettiva interazionista" indaga sulla formazione del sé dell'individuo quando
affronta la reazione di stigmatizzazione da parte della società: l'assunzione della
propria differenza lo costringe ad interiorizzare un concetto di sé come deviante in
consonanza con le aspettative di ruolo provenenti dalla società. Di qui proviene
l'accettazione passiva della marginalità in quanto assume le aspettative del controllo
sociale: la devianza è il modo che il soggetto trova per comunicare il nuovo ruolo che
gli viene assegnato dalla società.
L'interazionismo è stata la prima prospettiva a studiare il "processo secondo il
quale si diventa deviante". Le teorie anteriori erano piuttosto preoccupate nello
spiegare tale comportamento come causato da forze esterne al soggetto.
L'interazionismo riconosce il consenso del deviante, cioè la sua volontà libera e
questo riconoscimento permette di spiegare il processo secondo il quale il soggetto,
in associazione con gli altri (interazione) apprende e interiorizza norme diverse da
quelle convenzionali.
L'interazionismo si è ispirato all''utilitarismo, ma le origini della teoria risalgono
alla ricerca di due autori: George Herbert Mead (1863-1931) e Charles H. Cooley
(1864-1929). Gli autori hanno studiato a livello micro-sociale il processo sociale
della formazione dell'auto-concetto, della socializzazione e dell'interazione. Mentre le
teorie macro-sociologiche sono preoccupate di scoprire l'effetto delle strutture sociali
sui singoli individui e gruppi, quelle micro-sociologiche, come la teoria che stiamo
studiando, partono dai processi interattivi che intercorrono tra i singoli soggetti per
poi spiegare il loro rapporto con le strutture sociali.
Il processo di socializzazione secondo gli autori sopraccitati spiega come i
soggetti imparano i significati, i valori, le regole e le norme attraverso l'interazione
con gli altri. Mead distingue i componenti del processo di socializzazione come un
dialogo tra il sé (soggettivo) e il me (oggettivo). Il me rappresenta l'altro generalizzato
e funziona come un "deposito" di informazioni riguardanti le norme sociali. Il self si
sviluppa grazie al confronto con gli altri. In altre parole, è come se guardassimo allo
specchio e invece di vedere noi stessi vedessimo quello che (immaginiamo) gli altri
pensano di noi. Immaginiamo come siamo rappresentati dagli altri e sentiamo
orgoglio o vergogna di noi stessi, sentimenti che influenzano l'auto-stima e l'autoconcetto.
Lemert, nella "teoria dello stigma", distingue tra devianza primaria
(allontanamento occasionale e non significativo dalla norma, senza serie
conseguenze) e devianza secondaria (strutturazione del comportamento deviante in
base a un processo in cui il soggetto interiorizza un'identità negativa motivata dalla
reazione sociale ai suoi comportamenti).
D. Matza sviluppa tale teoria, approfondendo il processo secondo il quale il
soggetto diventa deviante; egli distingue tre tappe, graduali e integrate, di questo
processo: l'affinità, o la percezione da parte del soggetto di una inclinazione tra
disagi e condizione sociale; l'affiliazione, o l'aderenza al modello deviante come
soluzione per l'assunzione di un'identità attribuitagli dallo stigma; la
stigmatizzazione da parte della società che lo considera e lo tratta come deviante.
Tale processo è graduale, crescente e integrato, e si mostra più probabile all'interno
delle condizioni di disagio e di marginalità.
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1.4.2 Teorie del conflitto (Tendenza marxista)
La "prospettiva marxista" non sviluppa una specifica teoria della devianza, che,
però, può essere integrata a una teoria della marginalità. Marx considera il processo
di emarginazione come prodotto e conseguenza intrinseca del capitalismo,
potenzialmente eliminabile attraverso un intervento strutturale, basato nella
coscienza del proletariato, attraverso la rivoluzione, fino alla conseguente
eliminazione della proprietà privata e all'organizzazione del comunismo. Il"neomarxismo" non imposta il concetto di marginalità in termini di integrazione o meno
al sistema, ma come una conseguenza, "prodotta nello e dallo sviluppo, a motivo
dell'interdipendenza tra centro e periferia, tra polo moderno e polo marginale, fra
strati centrali e strati residuali". La devianza è ricercata tanto nelle classi inferiori
che in quelle superiori; queste ultime considerano deviante quello che nella
competizione sociale danneggia i propri interessi. Poiché la classe dominante è il
riferimento del sistema, essa si trova, in partenza, in condizioni privilegiate per
giudicare ciò che è deviante o non, e ciò che costituisce o non la marginalità. I
poveri vengono considerati devianti nel loro esasperato tentativo di soddisfare i
bisogni negati.
Una "teoria del controllo sociale "sul versante critico, diversa da quella
sviluppata nell'ambito del funzionalismo, si colloca verso la fine degli anni '60,
quando la società post-industriale, a volte con problemi di governabilità della
complessità sociale, tenta di legittimare l'esigenza di un controllo capillare. La
marginalità è valutata come risultato di un accesso differenziato alle risorse e al
potere del sistema; essa può generare nei gruppi una coscienza della contraddizione
vissuta che si traduce in movimenti sociali vari e ai quali il sistema risponde con
diverse forme di controllo che vanno dalla persuasione alla cooptazione e alla
coercizione.
1.5 Il paradigma multifattoriale
Attualmente il discorso sulla devianza registra molte posizioni tra loro
divergenti e spesso inconciliabili. Talmente che è sorto una nuova posizione,
discutibile, ma assai diffusa, che propende per una “integrazione” tra le varie teorie
criminologiche e sociologiche. E' un tentativo che si basa sulla constatazione che la
devianza più che un problema teorico è una questione concreta che mette in crisi
società, governi, istituzioni, senza esclusione di parte. Pertanto si invoca un
atteggiamento responsabile e pragmatico rispetto a tale tematica, senza soffermarsi
troppo su questioni di tipo teorico, che appaiono poco funzionali alla soluzione dei
problemi reali.
Per cui prevale in questo periodo un approccio sincretico, che impiega i concetti
più disparati, in ordine alla comprensione della devianza. Si cerca di valorizzare
l'apporto di ogni teoria, basandosi sull'assunto che le differenze tra le diverse teorie
non solo sono colmabili, ma costituiscono una ricchezza da sfruttare perché
consentirebbero di “completare le manchevolezze di una teoria con un'altra”
(Ceretti, 1992, 209).
1.5.1 Il realismo criminologico di sinistra
La svolta più significativa fu rappresentata da Taylor, Walton & Young, che
erano partiti da una posizione rivoluzionaria, tale da farli ritenere vicini ai
“radicals”. Tuttavia nel corso degli anni ’80 avvenne in loro una “conversione” in
senso realista. Da una parte furono indotti a farlo dalle critiche che provenivano dai
criminologi di destra, dall’altra dalla osservazione del progressivo dilagare in UK
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della micro-criminalità e dalla constatazione che gran parte delle vittime erano dei
ceti sociali più poveri (vittimologia). Ciò li spinse ad accogliere alcuni principi del
“realismo di destra” e a farli propri. Questo anche per favorire politiche di
contenimento del crimine e che si guadagnassero la fiducia della gente. Ne nacque
una sociologia della devianza più realista e concreta, che senza abbandonare del
tutto le prospettive rivoluzionarie di derivazione marxista, cercano di declinarle nelle
situazioni concrete di ogni giorno.
1.5.2 “Criminologie della vita quotidiana” o “Teorie delle opportunità”
Le «teorie della scelta razionale» di scienziati della politica e di illustri
economisti si accordavano particolarmente bene con un clima culturale complessivo
che poneva l'idea di individuo e soprattutto di responsabilità individuale a base
della svolta generale in senso neoliberale.
Dal lato opposto si faceva strada il tentativo di “normalizzazione della
devianza”. Secondo tale prospettiva «la criminalità rappresenta un aspetto usuale e
normale della società moderna. Si tratta di un fatto - o, meglio, di un insieme di fatti
- che non richiede nessuna speciale motivazione o predisposizione, nessuna
patologia o anormalità, e che è inscritto nella routine della vita economica e sociale
contemporanea» (Garland 1996, 450). Le “criminologie della vita quotidiana”
rappresentano i fenomeni criminali come normali elementi del vivere sociale,
risultanti da una combinazione di contingenze, di opportunità e di rischi inseriti
nell'ordinario svolgersi della vita di tutti noi. Gli eventi criminosi, visti nel loro
insieme, diventano così «regolari, prevedibili, sistematici come gli incidenti stradali»
(Garland 1997, 86). La progressiva dissolvenza e diluizione del termine devianza
entro la normalità era anche il frutto o la logica conseguenza di alcune significative
trasformazioni. La conseguenza più importante di questa visione della criminalità fu
il fatto che l'attività di controllo o contrasto cessò di essere indirizzata al deviante e
diventò invece azione designata a governare le routine economiche e sociali.
1.6 L’introduzione dei termini “disagio” e “rischio”
I termini “disagio” e “rischio” sono entrati di recente nella letteratura
sociologica, in seguito alle critiche rivolte dalla corrente interazionista sul ruolo
dello stigma sociale nella definizione della devianza. Attraverso questi termini si
vuole indicare uno stato non ancora definito di devianza, che, se affrontato
adeguatamente, può evitare di passare da una devianza primaria ad una secondaria
e definitiva. I due termini sono pressoché intercambiabili e rappresentano, con la
loro elevata indeterminatezza, la logica conclusione di un processo di
“normalizzazione della devianza” (Neresini – Ranci, 1992, 23). L’apparizione di
questi termini segna la progressiva dissolvenza teorica dei termini “devianza” e
“marginalità” e di conseguenza il loro superamento sul piano interpretativo.
All’affermazione di tali termini ha dato un notevole contributo la situazione di
complessità sociale e di pluralismo etico, che rende difficile determinare le
situazioni di reale devianza o marginalità, che hanno senso solo in situazione di
normativa chiara (devianza) o di centro-periferia (marginalità).
Essi hanno permesso il superamento di un'interpretazione rigidamente
determinista dei processi che possono portare alla devianza o alla marginalità”,
anche se ciò ha creato notevoli problemi a livello concettuale. Però questa nuova
formulazione ha fornito una diversa immagine delle sequenze (in senso causalelineare/sistemico) che legano tra loro disagio, rischio, devianza e marginalità.
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2. TIPOLOGIE E CLASSIFICAZIONI
Abbiamo già tentato nella pagine introduttive di fornire della categorie per
comprendere il concetto di devianza. Dopo aver conosciuto i diversi approcci diventa
ineludibile lo sforzo di cercare di trovare delle classificazioni e distinzioni secondo i
diversi tipi di devianza che sono emersi dallo studio. Ovviamente ci limiteremo a
presentare alcune tipologie particolarmente utili e conosciute, senza pretesa di
esaustività, data la complessità del fenomeno.
2.1 Secondo il comportamento non conformista aberrante
Una prima distinzione è avanzata da R. K. Merton1 (Merton e Nisbet, 19662,
808-811) il quale parla di comportamenti non conformisti e comportamenti
aberranti, senza entrare in ulteriori suddivisioni. In sintesi i comportamenti non
conformisti e aberranti possono essere descritti per contrapposizione come segue:
a] visibilità del comportamento
Massima nel non conformista che cerca positivamente di comunicare
all’ambiente sociale i motivi del suo dissenso mediante proteste, manifestazioni,
pubblicazioni, ecc.
Minima nell’aberrante che spesso agisce nella clandestinità, nell'immerso,
evitando di scontrarsi con i detentori del potere e del controllo sociale.
b] Legittimità delle norme
Contestata dal non conformista, accettata in modo abbastanza passivo e
acritico dall’aberrante, il quale per altro le viola di fatto come il non-conformista ma
solo per motivi contingenti ed utilitaristi, non ideali.
c] Riformismo
Massimo nel non-conformista; che tende esplicitamente a progetti alternativi e
ad azioni rivoluzionarie, minimo negli aberranti che perseguono prevalentemente
scopi personali, utilitaristici, perciò conservatori.
d] Interessi
Di tipo sociale, collettivo, largamente umanistico e rivoluzionario nel non
conformista, di tipo individuale, egocentrico, banale nell’aberrante.
In sintesi si possono considerare non conformisti i comportamenti che
esprimono un progetto di cambio sociale come le ribellioni, il dissenso ideologico, la
disobbedienza civile ecc.; mentre i comportamenti aberranti sono quelli
caratterizzati da attività criminali o illegali prive di prospettive socio-politiche.
2.2 Secondo la devianza positiva/negativa
Fichter2 parla a sua volta di devianza positiva e negativa. La distinzione si
fonda sulla differente funzione dei modelli ideali e reali di comportamento. La
devianza positiva è infatti un tentativo di avvicinarsi ai modelli ideali che accede la
norma del comportamento statisticamente medio: in questo senso si possono
considerare devianti positivi i santi, i riformatori, i radicali, gli eroi, gli entusiasti.
La devianza negativa comprende invece i comportamenti che stanno al di sotto
delle aspettative di ruolo (oppure contro di esse, in altra direzione); e vi
appartengono la gran parte dei comportamenti criminali, illegali, ecc.
1
cf. Robert King MERTON - Robert A. NISBET (Edd.), Contemporary social problems, New York, Harcourt,
Brace World 1966 (Loc. 20-C-2223).
2
cf. Joseph Henry FICHTER, Sociologia fondamentale, [Roma], ONARMO 1961 (Loc. 20-C-975 / 20-C-558 / 67B2-6).
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Devianza positiva e negativa possono considerarsi in realtà più due poli estremi
di un “continuum” (con diverse sfumature intermedie) che due categorie distinte e
contrapposte.
2.3 Secondo il conformismo non conformismo
Analoga alla distinzione di Fichter, ma più analitica e più descrittiva, è la
tipologia di R. Cavan3 (1962, cap. III) che pone su una distribuzione “normale”
(curva di Gauss) le seguenti categorie:
• Controcultura criminale: si tratta di una forma di devianza organizzata e
radicale, che persegue aggressivamente un progetto rivoluzionario e che
generalmente si appoggia su un gruppo ben identificabile.
• Non conformismo estremo: comprende devianze sistematiche accompagnate da
una forte ambivalenza nei riguardi dei valori fondamentali del sistema sociale.
• Non conformismo moderato: Implica la presenza di devianze occasionali che
però non intaccano un consenso sostanziale sui valori del sistema.
• Conformismo “medio”: è la forma di adattamento più diffusa, che si incontra
nella minoranza più consistente della distribuzione.
• Superconformismo moderato: presenta una consistente attività dei soggetti nel
senso della osservanza rigida delle norme e consuetudini sociali.
• Superconformismo estremo: ingloba già forme ritualistiche di comportamento ed
accentua il carattere ormai patologico dell’osservanza delle norme.
• Superconformismo controculturale: comprende i comportamenti superstrutturati di fanatici, riformatori, idealisti, radicali ormai isolati entro gruppi sub e
contro-culturali, catturati della logica dell’estremismo.
La tipologia di R. Cavan, fondata su premesse statistiche, permette di
quantificare i diversi tipi, anche se ovviamente ciò vale solo per i grandi numeri.
2.4 Secondo l’attività / passività
T. Parsons già nel 1951 (1951, 259) aveva contribuito a rendere più analitiche le
classificazioni dicotomiche (cfr. quelle di Merton), inserendo un triplo criterio di
distribuzione dei comportamenti conformi/devianti, come risulta dalla tabella
seguente:
Fig. 4 – La classificazione dei comportamenti conformi/non conformi di Parsons
Predominio della
conformità
ATTIVITÀ
PASSIVITÀ
Innovazione
Ritualismo
Riferimento agli
oggetti sociali
Riferimento alle
norme
Riferimento agli
oggetti sociali
Riferimento alle
norme
Dominante
Fanatico
Sottomesso
Perfezionista
Ribellione
Predominio del
distacco
3
Aggressivo
Incorreggibile
Rinuncia
Indipendente
compulsivo
L’uomo in fuga
cf. Ruth Shonle CAVAN, Criminology, 3ª ed., New York, Crowell 1962, 735 p.; CAVAN Ruth Shonle - CAVAN
Jordan T., Delinquency and crime. Cross-cultural perspectives, Philadelphia, Lippincott 1968, 244 p.
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1. Il primo criterio è quello della attività-passività (activity-passivity) che
distingue i comportamenti a seconda del prevalere di un comportamento
orientato all’innovazione (compulsive performance orientation) o al ritualismo
(compulsive orientation).
2. Il secondo criterio è quello del predominio della conformità (conformative
dominance o del distacco (alienative dominance) che sottolinea la direzione
conservativa - innovativa del comportamento.
3. Il terzo si riferisce alla dicotomia oggetto sociale – norma (focus on social
objects – f.… on norms) e sta a significare i bersagli verso cui vengono
focalizzati i comportamenti.
La combinazione dei tre criteri dà luogo ad otto tipi di condotte, di cui quattro di
orientamento conformista: dominante (rispetto alla società), fanatico (nel far
rispettare le norme), sottomesso (all’oggetto), perfezionista (osservanza perfezionista
delle norme); e quattro in cui predomina il distacco (alienative dominance):
aggressività verso gli oggetti sociali, incorreggibilità, indipendenza compulsiva,
evasione (uomo in fuga).
La tipologia parsoniana si presenta già ricca di contenuti non solo formali ed
entra in merito, sia pure ancora timidamente, alle concretissime modalità di
devianza che in seguito altri autori svilupperanno ancor più analiticamente4.
2.5 Secondo la natura della deviazione
Dinitz e coll.5 (1969, 12) ha seguito in sostanza la linea parsoniana, assumendo
il criterio della «natura dell’ordine normativo» violato e della «natura della
deviazione», come mostra lo schema alla pagina seguente.
Senza dubbio la tipologia di Dinitz si qualifica per la sua maggior completezza e
concretezza; essa richiama inoltre un quadro delle teorie e concezioni della devianza
che si sono venute via via succedendo nel progredire della riflessione sociologica, e
pur tuttavia in questa linea sembrano possibili altre più specifiche determinazioni,
almeno all’interno dei grandi “tipi”, come hanno tentato di fare ad es. Ferdinand6
(1966), Hoover (1966) per conto del FBI americano, e il President Crime Commission
Report (1956), relativamente al tipo “criminale”.
Fig. 2 – La tipologia di Dinitz sulla natura della devianza
TIPO DI
DEVIANTE
L’ANORMALE
NATURA DELL’ORDINE
NORMATIVO VIOLATO
modelli ideali di tipo fisico,
fisiologico, psicologico
IL COLPEVOLE ideologia (religiosa o
IL CRIMINALE
L’AMMALATO
L’ALIENATO
secolare)
codici legali
definizioni culturali di
salute mentale
scopi e mezzi culturali
NATURA DELLA
DEVIANZA
aberrante nel suo
“modo di essere”
rigetto dell’ideologia
mancanza di leggi nel
comportamento
aberrante nell’agire
rigetto dei valori
culturali dominanti
ESEMPIO DI DEVIANZA
piccolo, alto, magro, grasso,
brutto, sfigurato, ritardato
mentale
peccatore, apostata, eretico,
traditore
assassino, ladro, rapinatore,
drogato
psicotico
psiconeurotico
vagabondo, ozioso, suicida,
hippie, bohémien
4 cf. ad es. Merton con la sua teoria dell'anomia, che prevede i tipi: innovatori, ritualisti, rinunciatari, ribelli.
5
cf. Simon DINITZ - Russell R. DYNES, Alfred C. CLARKE (Edd.), Deviance, New York, Oxford University Press
1969 (Loc. 20-C-348 e 37-C-2562).
6
cf. Theodore N. FERDINAND (Ed), Juvenile delinquency, Beverly Hills, Sage 1977 (Loc. 20-B-1975).
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2.6 Secondo la percezione della devianza
In tutt’altra direzione si muovono le distinzioni che si rifanno ad una teoria
generale della devianza che attribuisce al controllo sociale (o stigmatizzazione etichettatura) la responsabilità causale dello strutturarsi della devianza e che
tengono conto del suo carattere prevalentemente progressivo-processuale. Così
Becker7 (sulla linea di Lemert), assumendo come criterio la distinzione tra
percezione della devianza e il fatto della devianza (v. Becker 1963), propone una
tipologia così articolata:
• l’accusato falsamente: è un conformista percepito come deviante;
• il conformista: agisce ed è percepito come conformista;
• il puro deviante: agisce ed è percepito come deviante;
• il segretamente deviante: agisce come deviante ma è percepito come conformista.
Secondo questa tipologia è dunque la “scoperta del deviante” che ne causa
effettivamente e spesso irreversibilmente la devianza.
Analoga classificazione è proposta da Blake e Davis (1964) che incrociano i due
criteri dei motivi o desideri devianti-conformi e atti devianti-conformi, secondo lo
schema seguente:
Fig. 3 – La tipologia di Blake e Davis (1964) sui conformità/devianza
conformizzanti
devianti
conformizzanti
1
3
devianti
2
4
Esclusi i casi 1 e 4 che non creano difficoltà, vanno considerati i casi 2, e 3 che
denotano un conflitto tra intenzioni conformizzanti ed atti effettivamente devianti e,
viceversa, intenzioni devianti ed atti conformi.
Questa tipologia oltre ad accettare il fatto fondamentale dei processi di
stigmatizzazione mette in evidenza le possibilità di devianza preterintenzionale,
dovuta ad errore, mancanza di conoscenza delle norme, compulsività ecc.
Come pure la possibilità di un comportamento deviante mancato a causa delle
pressioni ambientali contrarie, paura delle sanzioni, carenze di effettive opportunità
di deviare, ecc.
Nella prospettiva evolutiva è di grande importanza la distinzione di Lemert8
(1951) tra devianza primaria e secondaria; analoga è quella di Clinard9 (1963, 211),
fondata sul grado di professionalizzazione o avanzamento della devianza: di mano in
mano che i ruoli devianti si cristallizzano e il soggetto si identifica con essi e
progredisce nella partecipazione subculturale alla devianza, si passa da una
devianza “non career” (cioè non professionale) ad una “career” (cioè professionale).
2.7 Secondo criteri psicologici
Rimane infine da riferire per completezza su alcune tipologie fondate
soprattutto sulle caratteristiche psicologiche dei devianti. Winslow10 (1970, 1307
cf. Howard Saul BECKER, Outsiders. Studies in the sociology of deviance, London, Free Press of Glencoe 1963,
179 p. (Howard Saul BECKER, Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, Torino, Gruppo Abele 1987, 174
p.).
8
cf. Edwin M. LEMERT, Social pathology, New York, McGraw Hill, 1951; LEMERT Edwin M. Devianza, problemi
sociali e forme di controllo, Milano, A. Giuffrè 1981 (Loc. 37-C-1624(1) e 65-030-C-34).
9
cf. Marshall Barron CLINARD., Sociology of deviant behavior, New York, Holt, Rinehart and Winston 1974,
(c1957) (Loc. 20-C-850); Marshall Barron CLINARD (Ed), Anomie and deviant behavior. A discussion and
critique, New York, Free Press of Glencoe 1964, xii + 324.
10
cf. Robert W.WINSLOW, Society in transition, New York, The Free Press 1970 (Loc. 20-C-1244).
Uno sguardo conclusivo sulla Devianza
217
133) riporta quelle fornite da Alexander11 e Staub (1956, 83-124), Sanford (1943),
57-68), Weinberg12 (1952, 264-269), Abrahamsen (1960, 123-127), Ferdinard13
(1966), raggruppandole come segue:
• devianti caratterizzati da dominanza del superego e dalla repressione delle forze
dell’id;
• devianti caratterizzati dal conflitto tra id e superego con mediazione dell’ego;
• devianti caratterizzati da dominanza dell’id con debolezza dell’ego e del superego.
Questi raggruppamenti riflettono soprattutto le teorie psicanalitiche dominanti
nel ventennio 1950-1970, ma sono necessariamente da sottoporre a revisione critica
radicale, dopo i più recenti contributi della nuova psichiatria che ha innovato
notevolmente la comprensione psico-sociologica della devianza.
Va notato in conclusione che le classificazioni e le tipologie sono di scarsa
utilità se separate dal contesto teorico in cui si sono elaborate. Esse forniscono
infatti solo alcune indicazioni provvisorie e globali sulla natura, origine e dialettica
della devianza; e vanno comunque inquadrate in più robuste categorie
interpretative.
3. TRE DOMANDE: PERCHÉ DEVIANTE? COME SI DIVENTA? CHI DIVENTA?
Dopo il percorso fatto nello studio è possibile arrivare ad una risposta un po’
meno imprecisa su tali domande, anche se mai completamente all'altezza della
realtà Innanzitutto partiamo da un principio ormai comunemente accettato: che la
devianza sia una “costruzione sociale”. All’interno di tale prospettiva si può dire che
la devianza sia una risposta inadeguata alle norme sociali costruite all’interno di
una cultura ed insieme un’etichetta attribuita con successo ai soggetti che
trasgrediscono le norme.
3.1 Perché si diventa deviante?
La prima domanda riguarda le ragioni e le circostanze che condizionano i primi
passi. Alcune devianze sono non intenzionali e altre intenzionali.
Nella società complessa è più probabile che uno trasgredisca le norme, visto
che c’e ne sono tante quante i sottosistemi, le subculture, i contesti che la
integrano. Il controllo sociale tende a minacciare, piuttosto che punire la devianza
non intenzionale. Alcune persone sono considerate devianti non per quello che
fanno o lasciano di fare o per l’intenzione o meno di farlo ma per quello che
rappresentano in se stessi: subentra, quindi, la questione dello stigma. Le persone
possono essere stigmatizzate in base alle caratteristiche fisiche e psichiche: il colore
della pelle, l’appartenenza culturale, la pazzia. Il processo della stigmatizzazione che
riesce a creare lo stereotipo può essere facilmente percepito nella vita quotidiana
quando ci si riferisce ai tedeschi come nazisti, ai giovani delle discoteche come
“drogati”, ai zingari come “ladri” e così via.
Ma il centro della preoccupazione dei sociologi e delle agenzie del controllo
sociale sono le devianze intenzionali, cioè quando uno trasgredisce consapevolmente
e volontariamente la norma. Infatti, la voglia di trasgredire costituisce il primo passo
11
cf. Franz ALEXANDER, Medicina psicosomatica, Firenze, Editrice Universitaria 1953 (Loc. 28-B-736); Franz
ALEXANDER - Ervin STAUB, Il delinquente e i suoi giudici. Uno sguardo psicoanalitico nel campo del diritto
penale, Milano, Giuffrè, 1948.
12
cf. Earl RUBINGTON - Martin S. WEINBERG (Edd.), Deviance, New York, MacMillan 1968 (Loc. 20-C-3608)
13
cf. Theodore N. FERDINAND (Ed), Juvenile delinquency, Beverly Hills, Sage 1977 (Loc. 20-B-1975).
218
Uno sguardo conclusivo sulla Devianza
nel processo per diventare deviante e viene definita da Matza come “affinità”. I
motivi che inducono alla devianza dalla norma sono tanti: i conflitti familiari, la
disperata ricerca di una identità, il desiderio di appartenere ad un gruppo ribelle, la
mancanza di senso della vita, le condizione sociale di privazione riguardo la razza,
l’età, l’occupazione, l’educazione. Questi e altri motivi, che rivelano più
profondamente la frustrazione dei bisogni fondamentali, possono far scattare la
molla della decisione, più o meno chiara, volontaria, intenzionale di trasgredire la
norma.
Ma non basta soltanto il desiderio di trasgredire. Molti lo vogliono, ma non
hanno il coraggio di assumersi i rischi dell’auto controllo (il senso di colpa) e del
controllo sociale; bisogna anche avere la possibilità di trasgredire la norma.
3.2 Come si diventa devianti?
La seconda domanda riguarda la vicinanza vera e propria alle opportunità di
deviare e questo secondo passo viene definito da Matza “affiliazione”. Essa
costituisce il ponte tra la semplice voglia e la vera possibilità di deviare. È il
momento dell’acquisizione del “know how”: la conoscenza delle tecniche, dei
valori, delle abilità associata alle diverse devianze. Non basta la voglia di drogarsi,
ma bisogna saper come fare per “farsi”. La devianza può essere assunta
individualmente, ma di solito il processo di apprendimento di queste conoscenze
avvengono spesso in associazione con gli altri già affiliati e già in possesso del
“know how”.
I - In questo momento ha una grande influenza il gruppo:
(a) di appartenenza quando e se esso costituisce una subcultura in conflitto
con le norme e i valori della società più ampia. La nostra società è composta da
molteplici subculture. L’esempio più evidente è quello delle subculture che
coinvolgono la musica punk e rap, in cui avviene la condivisione di stili di vita, di
abbigliamento, di apparenze, di visioni del mondo in modo tale, che soltanto quelli
che ne appartengono riescono ad interagire e partecipare mentre gli altri sono
considerati soltanto curiosi.
Altri gruppi sono di (b) riferimento reale e immaginario: nella loro modalità reale
permettono l’interazione diretta e nella sua modalità immaginaria corrispondono ad
una rappresentazione alimentata dalla fantasia o dai mass-media. In quest’ultimo
caso i modelli che sono presentati tendono a spingere le persone all’imitazione
attraverso l’esperienza sostitutiva: cioè, la voglia di fare e comportarsi come viene
suggerito da essi.
Alcuni gruppi sono considerati (c) di circostanza, o “near-groups” (ad es. una
folla, un ‘night club’, una tifoseria), caratterizzati dalla mancanza di organizzazione e
di interazione tra i membri e da un obiettivo comune (ad es. l’evasione, il tifo, una
manifestazione, l’uso di droga). In questi ambienti impersonali spesso la devianza
collettiva scatta da un motivo collegato ad un obiettivo comune.
II - Un altro aspetto riguarda la visibilità del comportamento deviante:
comportamenti segreti, visibili e volutamente visibili. Il primo caso riguarda i
devianti che vivono il loro comportamento segretamente. È il caso, ad esempio,
dell’omosessualità vissuta in segreto e rivelata ad altri soltanto in modo selettivo.
Nel secondo caso si distinguono quelli che non possono nascondere le
caratteristiche personali e, quindi, sono esposti per forza allo stigma per ragioni di
statura, peso, razza, età. Per ultimo ci sono i devianti per scelta personale: essa
Uno sguardo conclusivo sulla Devianza
219
diventa un “modo di dire”, un simbolo che spesso viene trasmesso attraverso il
modo di vestirsi, il taglio dei capelli, il tatuaggio ecc.
III - La devianza dipende inoltre dall’etichettamento. Esso a sua volta può
variare a seconda della gravità, permanenza, salienza, fonte e connotazione.
La gravità: a molti comportamenti devianti sono attribuite sanzioni meno forti
ed è il caso di quelli che riguardano le norme informali. La devianza all’interno del
modello sanitario è più forte. Una persona che porta l’etichetta di pazzo, di
schizofrenico, di malato di mente, maniaco depressivo ecc., ha una più grande
probabilità di rimanere segregato permanentemente dalla società. Anche i
comportamenti che si discostano dalla norma formale vengono spesso sanzionati
con intensità, ed è il caso degli assassini, dei rapitori, del molestatore di bambini e
del traditore. Alcuni di questi comportamenti contro la norma formale, però,
possono essere anche rinforzati all’interno della cultura, o di determinate
subculture una volta che sia un comportamento condiviso. Ad es. in certi casi
vengono elogiati dalla gente il comportamento chiaramente contro la norma formale
di non pagare le tasse allo stato.
La durata dello stereotipo nel tempo: alcuni sono appena transitori altri sono
permanenti. Alcuni comportamenti sono applicati nel momento della devianza,
sanzionati e subito dimenticati. Ad esempio quando un autista avanza con il
semaforo rosso e viene ritenuto matto o cosa simile e subito dimenticato. Altri
durano nel tempo ed è il caso, ad esempio, degli stigmatizzati a causa delle
caratteristiche fisiche o dell’alcoolismo anche anni e anni dopo che si è smesso di
bere. Quelli applicati dalla giustizia rimangono praticamente per sempre: “una volta
criminale sempre criminale”.
La salienza dello stereotipo: riguarda l’assunzione da parte del deviante della
qualità stessa di deviante; l’accettazione e conseguentemente la strutturazione di
una identità deviante. Consideriamo, ad es., il caso di una persona che, in una
condizione di forte privazione e fame, si trova nel bisogno di rubare il cibo; egli potrà
essere etichettato come “ladro”, ma ciò non andrà facilmente a far parte della sua
identità, una volta che si sia appurato che egli è stato necessitato al gesto per
sopravvivere. Dall’altra sponda si trovano quelli che assumono, accettano e vivono
una identità e uno status di deviante in modo che riescono a conciliare uno stile di
vita e ad essere talora meglio accettati dagli altre come alcolizzato,
tossicodipendente, prostituta, ecc.
La fonte dello stereotipo: essa proviene proprio dalla società e finisce nella
società attraverso l’azione del controllo sociale. Ma gli agenti del controllo sociale
sono molteplici: le forze d’ordine, il senso comune, il gruppo di appartenenza, la
famiglia, la scuola ecc. Ma è piuttosto la polizia, quella che riesce ad attirare
l’attenzione della gente sulla persona del deviante in modo da provocarle lo
stereotipo. E in certi casi la fonte dello stereotipo è il proprio deviante. Sono essi
stessi ad iniziare il processo e a volerlo per diverse ragioni. È il caso, ad. es., degli
skinhead, dei rapper, dei punk, di quelli che appartengono al ku klux klan, ecc., i
quali vogliono esprimersi attraverso il simbolo e l’assunzione di una identità
specifica, purché garantisca loro uno status nella società.
Il senso dello stereotipo tra positivo, negativo e neutro. Il senso negativo è quello
più spesso presente nel senso comune, che funge spesso da principale agente del
controllo sociale. La società in genere cerca di dissuadere i devianti dal loro
dissenso dalla norma attraverso la sanzione della trasgressione. E i devianti
normalmente hanno conoscenza della disapprovazione del loro comportamento.
220
Uno sguardo conclusivo sulla Devianza
Altri comportamenti sono considerati neutrali, cioè, attraverso la giustificazione e la
razionalizzazione dell’azione deviante e della negazione del carattere deviante del
comportamento (v. Matza). Ad altri comportamenti devianti possono essere
attribuite valutazioni positive e i devianti considerati bravi, da imitare. In questo
caso i devianti hanno “rovesciato il tavolo”: quello che era deviante è diventato
normale e desiderabile.
3.3 Chi diventa deviante?
Ci siamo proposti di rispondere a tre domande: a) Perché si diventa deviante:
questione che solleva il problema dell’affinità con i gruppi devianti; b) Come si
diventa deviante: e abbiamo parlato di processi di affiliazione e di processo di
etichettamento. L’ultima domanda sposta l’attenzione verso la persona stessa del
deviante: c) “Chi diventa deviante” ed è strettamente collegata alle due anteriori.
In genere i sociologi arrivano alla conclusione che non è possibile prevedere chi
diventa deviante. Tutti possono esserlo, e l’unica cosa che si può fare, una volta
stabilito che non esiste un rapporto causa-effetto, è quella di considerare la
probabilità che una persona diventi deviante.
3.3.1 Struttura sociale e devianza
La devianza viene spesso collegata alla condizione sociale specie rispetto allo
status socioeconomico, alla razza, al sesso, all’età.
a) Alcune devianze sono collegate allo status socioeconomico (SSE).
Lo svantaggio dei poveri è, in parte, dovuto, alle mancanza di opportunità e, in
parte, alla maggiore probabilità di essere etichettati.
Alcune devianze sono più spesso riscontrabili negli ambienti benestanti e
quindi dipendono dalla posizione sociale, dal potere e dal prestigio. In questa
categoria si trovano comportamenti come: l’inquinamento ambientale, lo
smaltimento illegale di rifiuti tossici, evasione fiscale, corruzione, truffe finanziarie
in borsa e con i sistemi informatici. Sono i reati dei “colletti bianchi”, piuttosto che
di strada. I reati dei cosiddetti “colletti bianchi” sono più difficili da sanzionare e
punire: hanno più facilità di accesso a mezzi protettivi come soldi, privacy,
segretezza, avvocati, coperture politiche. Inoltre i loro crimini sono spesso commessi
in ambienti protetti e privati come nelle loro ville e in clubs riservati e non in mezzo
alla strada. Per ultimo essi sono puniti dalla giustizia civile, piuttosto che da quella
penale. La devianza di strada è piuttosto riscontrabile tra la popolazione povera: il
non pagare i mezzi di trasporto, l’acquisto sul mercato nero, il furto al
supermercato, le rapine, la prostituzione, ecc. La condizione di povertà, sia come
“povertà assoluta” che “relativa”, può spingere la gente a trovare mezzi illeciti per
arrivare a fini, non raggiungibili attraverso i mezzi legali e normali. I poveri sono più
sfortunati nel rapporto con la giustizia: hanno più probabilità di essere etichettati
tanto per la devianza in ambito medico e sanitario, quanto in quella criminale. Sono
più controllati dai “carabinieri” che dalla “guardia di finanza”, dai poliziotti più che
dagli uffici di perquisizione. Alcune ragioni della stigmatizzazione sono: le cattive
condizioni in cui vivono i poveri, che spingono verso certi comportamenti devianti; la
normativa penale tende a controllare più le violazioni dei poveri che quelle dei
ricchi, controllati in genere da quella civile; le forze dell’ordine tendono a prendere di
mira più i poveri che i ricchi14.
14
cf. Nancy HEITZEG, Deviance. Rulemakers & rulebrakers ... , p. 34. Il riferimento dell’autore riguarda le ricerche di R.
Quinney, Coleman e Reiman.
Uno sguardo conclusivo sulla Devianza
221
Tutto quanto si è detto sopra non vuol dire necessariamente che i poveri
siano più devianti che i ricchi, ma piuttosto che la devianza tra i poveri è più
sorvegliata, visibile e quindi più sanzionata15.
b) Razza
Anche le minoranze di determinati gruppi razziali sono vittima dello stigma: è
il caso dei ragazzi neri che, in Brasile, possono essere più facilmente identificati
come devianti e considerati essi stessi un rischio da evitare 16. Altri gruppi tendono
ad far alzare il livello di guardia del controllo sociale e personale, come gli zingari e
gli immigrati. In altri casi sembra non essere tanto la componente razziale ad
attirare l’attenzione quanto l’appartenenza ad alcune subculture considerate
devianti, come quella dei rappers per i soggetti di razza nera. Tutto sommato non
sembra essere la componente razziale a comportare una tendenza deviante; sembra
più vero che sia l’appartenenza a certe minoranze a creare più probabilità di essere
sospettato, di essere arrestato e di subire il processo di etichettamento.
c) Genere
Determinati comportamenti prevalgono tra i maschi: azione violente, reati
contro il patrimonio, formazione di bande e vandalismi; altri sono collegati alle
femmine: prostituzione, reati contro il costume, furto nei negozi, ansietà. Sono
differenze dovute principalmente alla diversa socializzazione, in quanto è più facile
al maschio una educazione in ambienti marcati dalla forza e dalla violenza, mentre
è più probabile che la donna sia abituata a nascondere la propria devianza. I
maschi sono, rispetto alle donne, sottomessi a più strette norme quanto al vestirsi
(meno scelta del colore e dello stile). Ma la grande differenza si fa notare soprattutto
nelle statistiche delle condanne per trasgressione della norma formale: la grande
maggioranza della popolazione carceraria è composta da maschi.
d) Età
La maggior parte delle norme nella nostra società sono relative all’età delle
persone. Basta guardare agli stereotipi diretti agli anziani (“vecchio”, “demente”, ....)
e a quelli diretti ai giovani (“sfrenati”, “sballati”, “irresponsabili”, ecc.).
Ma sono piuttosto i giovani al centro delle attenzioni per la devianza. La
gioventù è un periodo della vita nel confronto del quale le persone sono più attente
alle loro trasgressioni; spesso il senso comune mitiga e tollera i comportamenti
“spensierati” dei giovani. Ma diventa un’età a rischio di assunzione di un’identità
deviante visto che essi si trovano in una fase, da una parte, molto instabile e,
dall’altra, di passi decisivi nella formazione dell’identità e della personalità matura.
Le statistiche sul consumo di droga nelle discoteche ci dimostrano come esso è un
comportamento più riscontrabile tra i giovani e per niente tra le persone adulte e
meno ancora tra quelli della terza età.
15
16
cf. Geraldo CALIMAN, Normalità devianza lavoro. Giovani a Belo Horizonte, Roma, LAS 1997, pp. 9-10.
cf. Ibidem, p. 139.