La spettacolarizzazione nella televisione italiana

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La spettacolarizzazione nella televisione italiana
La spettacolarizzazione nella televisione
italiana
Dissertation
zur Erlangung des akademischen Grades
eines Doktors der Philosophie
Eingereicht von Francesco Marinozzi
an der Kulturwissenschaftlichen Fakultät der
Europa-Universität Viadrina in Frankfurt (Oder)
März 2004
Gutachter:
Prof. Dr. Eckhard Höfner
Professur für Vergleichende
Literaturwissenschaft und Medienforschung
Europa-Universität Viadrina Frankfurt (Oder)
Prof. Dr. Peter Schulz
Lehrstuhl für Kommunikationswissenschaft
Università della Svizzera Italiana Lugano
2
Mit der finanziellen Unterstützung der Otto-Wolff-Stiftung
und der Hanns-Seidel-Stiftung
3
Indice
INTRODUZIONE
6
I. DALLA CATTEDRA AL PALCOSCENICO: lo iato tra paleo- e neo-televisione
8
1. Dalla pedagogia al marketing: le strategie dell’industria culturale
11
2. La “ricostruzione” attraverso l’immaginario visivo: secondo dopoguerra e
nascita della televisione
21
3. Dal “boom” economico alla guerriglia urbana: gli anni ’60 e la scomparsa
delle lucciole
34
4. The catcher in the rye e il ritorno a casa: gli anni ’70 tra rivoluzione e
riflusso
41
5. La centralità del “gatto”: gli ’80 e ’90 tra logica di mercato e politica
industriale
54
6. Il paese dei balocchi e la fine del “grillo”: dalla paleo- alla neo-televisione
64
7. L’identità attraverso il flusso: i palinsesti di paleo- e neo-televisione a
confronto
70
Appendice (Palinsesti)
II “LOADING MATRIX”: l’universo televisivo tra spettacolo e simulazione
77
113
1. Dalla “spettacolarizzazione” alla “simulazione”, ovvero il perfezionamento
del dispositivo “artefattuale”
117
2. Dalla menzogna alla presenza, ovvero dalla simulazione alla realtà
132
3. Il gioco delle parti: la testualità tra manipolazione e comunicazione
153
4. La conversazione simulata: il patto fiduciario nella neo-televisione
175
-
Conclusioni
III. “TORNO SABATO… E 3”: spettacolo e simulazione nel varietà del sabato sera
180
183
1. Il linguaggio televisivo: grammatica e sintassi delle immagini
183
2. Dall’ideazione alla trasmissione: genesi e gestazione del programma
televisivo
187
3. “Torno sabato… e 3”, il varietà del sabato sera
188
-
Conclusioni
222
4
CONCLUSIONI
225
BIBLIOGRAFIA GENERALE
232
5
Introduzione
È il lontano 1972 quando Raymond Williams, già professore all’università di Cambridge, viene
chiamato a tenere un semestre alla Stanford University, in California.
Una sera come molte altre, “facendo dello zapping” nella sua stanza d’albergo, si accorge delle
enormi differenze esistenti tra la televisione inglese (dominata ancora da forti istanze pedagogiche)
e quella americana (molto più commerciale e spettacolare).
Lo studioso resta impressionato anzitutto da tre cose: dalla frequenza con cui ricorrono gli spot
pubblicitari, dall’assenza di una qualche segnalazione degli stessi e, infine, dal fatto che essi vadano
a fondersi proprio con le trasmissioni che interrompono (anche perché, molto spesso, gli
assomigliano).
Profondamente segnato da questa esperienza, in una ricerca del 19731, conia il termine “flow”,
“flusso”, che applica alla programmazione americana.
La tv, oltre oceano, è uno strumento di puro intrattenimento, pienamente e felicemente inserito in un
regime di concorrenza, in un regime cioè dove quasi ogni mezzo è lecito per “rosicare” ascolti
all’avversario, dove il divertire deve essere un servizio a portata di mano, un servizio accessibile in
qualunque momento della giornata. In questo senso, il medium deve inscriversi nella quotidianità,
deve pianificare la sua offerta in modo tale da inserirsi, da fondersi con la vita dei suoi spettatori: la
televisione fluisce (“to flow”), scorre come un fiume, o meglio, come un ruscello e accompagna le
attività dell’ascoltatore, come un sottofondo, come una sorta di colonna sonora dell’esistenza.
La tv americana è retta infatti da appuntamenti che ricorrono regolarmente, tutti i giorni, alla stessa
ora, sullo stesso canale e che si succedono, fondendosi fra loro, senza interruzioni di sorta.
Ciò ha due conseguenze:
- una mescolanza dei formati (risultato finale del flusso);
- una “teatralizzazione”, o meglio, una “spettacolarizzazione” della vita: la televisione, in
quanto strumento spettacolare, riproducendo e inserendosi nella quotidianità, trasforma la
stessa a propria immagine e somiglianza, come se dovesse assolvere a istanze pedagogiche
di tipo nuovo.
Secondo Williams, è proprio questo l’aspetto più sconvolgente, l’aspetto più scioccante della
tv statunitense.
Alla luce di questa considerazione, va ad affermare quanto segue:
«(…) una delle caratteristiche peculiari delle società industriali avanzate è che l’esperienza
teatrale sia divenuta parte integrante della quotidianità a un livello quantitativo tale, rispetto
alle epoche precedenti, da apparire una radicale trasformazione qualitativa. Quali che siano
le ragioni sociali e culturali profonde, è chiaro ormai che, attualmente, assistere alla
simulazione drammatica di un’ampia serie di esperienze della vita reale fa parte a pieno del
modello culturale contemporaneo…» (R. WILLIAMS: 2000, 80).
Ma, a noi, cresciuti con la tv commerciale, considerazioni di questo tipo ci paiono né più né meno
che una constatazione fenomenologica di un certo stato di cose. I toni vagamente “drammatici”
invece ci sembrano del tutto “naïf”.
Tuttavia, la lettura del testo di Raymond Williams ci ha fatto riflettere su un aspetto molto
importante: il fatto che il mezzo televisivo imiti la quotidianità e che questa ne resti in qualche
modo condizionata è solo un accidente storico. Detto in altri termini, i formati, il linguaggio, la
struttura della programmazione di cui la tv oggi si serve ci appaiono del tutto normali, o meglio, i
1
-
Si tratta di un’analisi comparata tra la televisione inglese e quella americana, pubblicata nel testo:
R. WILLIAMS, Televisione. Tecnologia e forma culturale, Editori Riuniti, Roma, 2000.
6
soli possibili, soltanto perché sono stati “fagocitati”, “digeriti” e “metabolizzati”, fino a diventare
quasi una parte del nostro DNA.
In realtà, tutto ciò che vediamo, seduti comodamente sulla poltrona di casa nostra è l’effetto di
un’evoluzione del mezzo, cominciata cinquant’anni fa e determinata da una serie di cause
complesse e di natura eterogenea.
La televisione delle origini, in effetti, doveva assomigliare molto di più a quella che aveva presente
il nostro studioso, quando si recò per la prima volta in america, che non a quella odierna, di flusso,
“quotidianizzata” e “spettacolarizzante”.
Ci siamo domandati allora anzitutto che cosa significassero alcuni termini essenziali come
“quotidianità” e “spettacolo” (visto che l’ibridazione dei formati, oggi, va tutta in direzione
dell’intrattenimento [info-tainment, culture-tainment, docu-tainment…]) e in secondo luogo che
cosa poteva aver causato certi effetti nei linguaggi audiovisivi contemporanei.
Nel corso della ricerca, ci siamo accorti che un vero e proprio “iato” si è prodotto nella seconda
metà degli anni ’70, quando nascono le prime emittenti private; ci è sembrato allora doveroso
mostrare al lettore in che cosa tale iato consisteva e che tipo di cambiamenti esso ha generato. Detto
in altri termini, abbiamo rilevato la necessità di fornire una chiave di lettura storica, che potesse
servire in qualche modo a isolare le cause scatenanti, o meglio, gli elementi che hanno prodotto e
introdotto delle novità nell’universo televisivo.
Successivamente, abbiamo cercato di chiarire alcuni dei termini di cui sopra, offrendo, in aggiunta,
degli strumenti per l’analisi di alcuni programmi.
Forti di queste solide basi teoriche, abbiamo potuto analizzare una trasmissione di tipo tradizionale,
per vedere quanto le sopra citate novità, quanto i sopra citati cambiamenti abbiano influenzato un
“formato spettacolare paleo-televisivo”.
Nella speranza di non aver anticipato troppo i temi d’analisi e di aver stimolato un certo interesse,
rimandiamo immediatamente alla lettura del testo.
7
CAP. I
“DALLA CATTEDRA AL PALCOSCENICO”
Lo “iato” tra paleo- e neo-televisione
Preliminarmente allo svolgimento del nostro lavoro, ci sembra doveroso giustificare la presenza di
un capitolo di tipo storico-massmediologico (come quello che ci accingiamo a scrivere), all’interno
di un volume che ha la pretesa di definirsi “semiotico”.
Le ragioni sono svariate e di diversa natura, ma a noi interessa sottolinearne principalmente due. La
prima concerne la natura stessa del tema della nostra ricerca, riguardante un fenomeno che da un
lato si estende nell’arco di due decenni (penetrando ogni ambito della programmazione e
diventando a tutti gli effetti l’elemento peculiare della tv dei giorni nostri) e dall’altro affonda le sue
radici in ambiti differenti, nutrendosi e proliferando grazie ad “alimenti” di natura eterogenea. Del
resto, la televisione stessa, proprio a causa della centralità che assume, è (molto più degli altri
media) l’anello di congiunzione tra una serie di campi di forza che ne condizionano lo sviluppo e la
programmazione. Da sempre, infatti, la tv (come prodotto) è nient’altro che la risultante della
negoziazione e dello scontro fra quattro soggetti: mondo politico (almeno per quanto riguarda la
televisione statale), operatori del settore, finanziatori pubblicitari e infine, last but not least, il
pubblico.
Nel sostenere questa ipotesi di lettura, ci riallacciamo a una lunga tradizione di studi sui media che,
lungi dal descrivere in modo lineare il rapporto tra consumatore e produttore, cerca di individuare
tutti gli elementi in gioco, secondo una complessità e un polimorfismo dei collegamenti.
In questa sede, ci sembra opportuno citare due opere, che chiarificano meglio di altre quanto stiamo
per dire. Il primo è un testo dell’americana Wendy Griswold, Sociologia della cultura2, nel quale si
trova uno schema che indica inequivocabilmente i fattori che concorrono (con peso più o meno
maggiore) non solo alla produzione, ma anche all’attribuzione di significato a un oggetto; stiamo
parlando del celeberrimo diamante culturale3 che riportiamo qui di seguito.
Mondo Sociale
Creatore
Ricevitore
Oggetto Culturale
Il presente grafico ha un vantaggio: quello di non definire a priori da chi è ricoperto e in che
direzione si esercita il ruolo predominante. La Griswold in effetti si limita a compiere due
operazioni: da un lato stabilire quanti e quali sono i diversi attori sociali, dall’altro sottolineare tutte
le possibili relazioni e tutti i possibili giochi di forza fra di essi. La figura del diamante può essere
letta pertanto da più punti di vista, da più prospettive: ciascun vertice può venire collegato con tutti
2
3
W. GRISWOLD, Sociologia della cultura, Il Mulino, Bologna, 1997.
Ib., 31.
8
gli altri, mediante gli assi verticale, orizzontale od obliqui, in maniera tale che le diverse relazioni
ottenute esprimano un differente equilibrio delle parti.
Tale descrizione ci pare particolarmente rilevante, in quanto sottolinea due punti di sostanziale
importanza:
a. La complessità delle cause produttrici dell’oggetto culturale.
b. La possibilità concreta che ciascuna di queste cause ricopra un ruolo di primo piano.
Esiste però anche un’altro schema, che ci sentiamo qui in dovere di riportare; è quello di Hirsch4,
ripreso peraltro dalla stessa Griswold nel testo citato. Si tratta di un grafico attraverso il quale lo
studioso tenta di descrivere il processo che conduce un qualsivoglia oggetto industriale (per
esempio un’opera discografica) al lancio sul mercato, sottolineando tutte le funzioni di “filtro” che
intervengono a definirne qualità e caratteri.
Sottosistema Tecnico
(artisti, creativi)
Filtro 1
Sottosistema Manageriale
(Organizzazioni)
Filtro 2
Area di input
Sottosistema Istituzionale
(Media)
Consumatori/Mercato
Filtro 3
Area di output
Feedback
Tale disegno ci sembra abbastanza esplicativo, in quanto rende giustizia dell’iter complesso che un
disco, un film, un libro o un qualsivoglia oggetto (che voglia fare il proprio ingresso sul mercato dei
consumi di massa) deve affrontare.
Il sottosistema tecnico è costituito dall’insieme degli artisti, dei creativi, dei geni e di tutto coloro
che hanno idee nuove e originali da proporre. Tali idee sono tuttavia più numerose di quelle che il
mercato può effettivamente accogliere e, per questo, è necessario che venga operata una selezione,
finalizzata alla riduzione dell’eccedenza quantitativa. Per arginare quest’opera di “epurazione” (che
tale eccedenza ridurrebbe), i potenziali innovatori si rivolgono a dei soggetti (manager, impresari…)
che li aiutino a “entrare” nel circuito mediatico: si tratta del sottosistema manageriale, vera e propria
interfaccia fra i mezzi di comunicazione ufficiali e il mondo artistico.
Ma il processo di filtraggio non può arrestarsi qui, perché la selezione appena avvenuta non è
capace di eliminare totalmente l’eccessiva disponibilità di idee. I media si dotano pertanto di altre
interfacce (come per esempio i talent scout), per effettuare un’ulteriore cernita (che si basa questa
volta su una sorta di percezione empatica dei gusti del pubblico). È questo il “Filtro 2”, che
compare nel grafico.
Successivamente, le istituzioni (mediali) intervengono in prima persona a decidere su quali prodotti
scommettere (la scelta ricade solitamente su quelli che sembra rispondano meglio agli orientamenti
di consumo): siamo al “Filtro 3”. Finalmente, l’oggetto arriva sul mercato, “ultimo tribunale”,
verifica finale di tutte le strategie industriali. Tale verifica è rappresentata graficamente dalle due
zone di feed back, in cui i sottosistemi istituzionale e manageriale valutano:
- quantità delle vendite;
- risposta dei mezzi di comunicazione, non implicati nel lancio.
Dall’analisi di questi due risultati vengono ottenuti, “secunda facie”, i criteri di produzione dei
futuri beni di consumo.
I due esempi descrivono in modo abbastanza preciso la complessità che definisce ogni “oggetto
culturale” e, quindi, ogni messaggio/programma televisivo (in quanto oggetto culturale esso stesso):
esso è l’esito finale di un processo di negoziazione continua fra “centri di potere” differenti (siano
essi di natura sociale, economica o politica), fra soggetti che definiscono in maniera diversa, a
seconda del momento storico, le caratteristiche e il significato di un certo artefatto.
Acquisito questo guadagno, possiamo tornare al nostro discorso sull’utilità di fornire una
prospettiva, una spaccato sulla storia della televisione in Italia.
4
P. M. HIRSCH, Processing Fads and Fashions: an Organisation Set Analysis of Culture Industry System, in American
Journal of Sociology, n° 77, 639/659.
9
Una cronologia (seppur breve) di quegli avvenimenti che hanno coinvolto il medium consentirebbe
in effetti di definire in modo più preciso quella complessità di fattori che sia la Griswold, sia Hirsch
consideravano caratteristica (quasi) ontologica del prodotto culturale. Poiché il nostro tema (pur
comportando un’analisi dell’oggetto televisivo) implica una riflessione e un giudizio su un intero
fenomeno, ci è sembrato utile cercare di andare oltre una semplice griglia di analisi e un metodo
puramente teorico, per cercare di spiegare in che modo e perché il suddetto fenomeno è venuto
all’essere. Un metodo esclusivamente teorico, per l’appunto, è senza dubbio il mezzo migliore (anzi
forse l’unico sistema possibile) per scoprire che cosa accade, nello specifico, in un testo televisivo
in quanto tale; tuttavia, da un altro lato, esso ci sembra insufficiente a isolare gli elementi
scatenanti, le cause che hanno prodotto un determinato effetto, all’interno di una macchina così
complessa come la tv.
Uno sguardo alla storia del mezzo, imbrigliata inesorabilmente nelle maglie della storia della
società italiana, permetterebbe invece di mettere in relazione l’argomento che ci accingiamo ora a
trattare con le sue varie concause.
Del resto, già Aldo Grasso, preliminarmente all’analisi di alcune fiction e alcuni spot televisivi,
aveva riconosciuto la necessità di utilizzare una “metodologia comparata”, sintesi di sistemi
interpretativi differenti.5 Ci sembra di poter condividere questo giudizio.
La seconda ragione per cui ci è sembrato necessario tratteggiare una cronologia è che, il nostro, è un
lavoro che si rivolge a dei lettori stranieri i quali, in quanto tali, potrebbero non aver presente in
quale quadro si svolge un certo processo o si colloca un determinato fenomeno.
Tuttavia, non si ha qui la pretesa di scrivere una storia che esaurisca in se stessa il quadro degli
eventi che coinvolgono il mezzo, perché ciò sarebbe impossibile, nell’economia del lavoro. Si tratta
infatti di un lasso di tempo alquanto esteso (circa un quarantennio, o forse più), in cui l’Italia ha
subito diverse metamorfosi economiche, sociali e politiche.
Sarebbe impossibile riportare qui tutti i fatti, sarebbe impossibile rendere giustizia di ogni
avvenimento; forse non basterebbe neanche un libro intero. Per questo motivo, abbiamo dovuto
operare un’attenta selezione, pervasi dal timore di aver tralasciato qualcosa di decisivo. In questo, ci
siamo “lasciati aiutare” dalla lettura dei testi di coloro che, prima di noi, hanno dovuto affrontare
questo problema, vagliando passo per passo e verificando, talvolta in prima persona, la
ragionevolezza delle loro scelte.
Tutto ciò ha un’implicazione abbastanza importante: il fenomeno è stato letto a partire da un punto
di vista preciso e definito, tanto preciso e definito da condizionare la prospettiva di lettura, come
“lente (quasi) deformante” che si frappone fra l’oggetto e l’occhio. In ogni caso, le ragioni delle
nostre scelte verranno palesate nel corso della narrazione.
Qui ci appare doveroso inserire un’ulteriore giustificazione, relativamente alla scelta per cui
abbiamo deciso di prestare maggiore attenzione agli anni settanta e ottanta.
Perché questo periodo è per noi così importante?
In primo luogo, perché il fenomeno in questione inizia a manifestarsi in tutta la sua pregnanza
proprio a cavallo di questi due decenni, acquistando maggior forza negli anni ’80 e affermandosi del
tutto negli anni ’90; in secondo luogo perché tale fenomeno è la risultante di una serie di mutamenti
5
Così Aldo Grasso nella sua introduzione alle schede di analisi di alcuni prodotti di fiction: «Anziché chiudersi nel
comodo guscio di un approccio teorico, magari verificato da numerosi riscontri empirici e fortificato da illustri
sistematizzazioni teoriche, ma pur sempre parziale, appare più utile recuperare e selezionare dalla ormai vasta tradizione
di studi e ricerche sui testi mediali gli approcci che sembrano particolarmente significativi, perché illuminano punti
diversi di quell’oggetto complesso che è, nel nostro caso, la fiction televisiva. Per l’approccio ai testi di fiction è
possibile attingere a diversi campi disciplinari, ciascuno dei quali evidenzia uno dei molteplici “significati” che il testo
mediale può assumere: se la moderna narratologia ha approfondito l’analisi degli elementi e delle strutture del racconto,
differenziando e distinguendo le categorie utilizzate nei diversi linguaggi (…), la semiotica enunciazionale ha descritto
il testo come un dispositivo che mette in relazione il soggetto enunciatore e il suo pubblico; così, se l’approccio dei
Cultural Studies indaga sul ruolo dell’audience e delle variabili quali gender, age, class, race nella produzione e nella
fruizione dei testi mediali, la storia dei media e della televisione aiuta la comprensione dei fenomeni comunicativi
inquadrandoli in cornici di riferimento più ampie», A. GRASSO, Radio e televisione, Vita e Pensiero, Milano, 2000, 212,
213.
10
sociali, economici e politici che si realizzano proprio nel lasso di tempo in questione. Ecco dunque
la particolarità del ventennio: quella di essere al centro di una serie di “sconvolgimenti” (non c’è
davvero termine migliore per definire l’entità di questi fatti), dati dall’opposizione dialettica di forze
(di natura politica e sociale) eterogenee; si tratta cioè di un periodo caratterizzato dallo “scontro” e
le lotte e le violenze di piazza ne rappresentano l’emblema.6
Ma in ogni guerra, in ogni conflitto, ci sono vinti e vincitori, così la belligeranza degli anni ’70 (e la
vittoria di una delle varie fazioni in gioco) produrrà gli anni ’80, segnati dalla vittoria della logica di
mercato e di un consumo con caratteristiche nuove.7 Non vogliamo tuttavia esaurire in questa sede
la descrizione del periodo; ci premeva qui soltanto fornire una giustificazione della nostra scelta.
Del resto, le ragioni di questa nostra opzione saranno evidenziate maggiormente più avanti, quando
si sarà entrati più appieno nella narrazione, quando cioè tutto quello che stiamo dicendo non
sembrerà così astratto, ma risulterà invece strettamente legato alla dimensione reale dei fatti. Per
ora, ci basti soltanto sottolineare con forza la crucialità del periodo ‘70/’80.
Ma perché allora, se la fase più importante della storia della tv (almeno per quel che riguarda il
nostro oggetto di studio) è tale ventennio, la nostra narrazione comincia dalla nascita del servizio
regolare nazionale nel 1954?
La risposta è molto semplice; perché, come si vedrà, l’appiattimento del prodotto televisivo sul
genere “spettacolare”, da un lato produce una cesura rispetto a ciò che esisteva prima, dall’altro
introduce dei modi totalmente differenti di intendere il medium e le sue funzioni (creando una realtà
mediale completamente “altra”). La tv, in sostanza, a partire dalla seconda metà degli anni ’70,
prende una nuova rotta, dispiega nuove strategie nell’elaborazione del messaggio e nella
costruzione del rapporto con il suo pubblico.
Fatte queste precisazioni, è possibile procedere oltre con il lavoro di analisi.
1. Dalla pedagogia al marketing: le strategie dell’industria culturale
Il percorso storico che qui vogliamo tracciare non vuole essere una semplice e magari sterile
cronologia, ma un vero e proprio “strumento interpretativo” di cinquant’anni di televisione.
Tuttavia, per realizzare un simile obiettivo, non ci si può limitare alla narrazione di alcuni fatti (più
o meno importanti), ma è necessario invece cercare di azzardare delle ipotesi su “chi” o “che cosa”
può avere tali fatti prodotto e “in base a quali idee” ha agito. Pur riconoscendo il grande rischio di
valutare scorrettamente un complesso abbastanza delicato di avvenimenti, dobbiamo prenderci la
briga di affrontarlo, nell’obiettivo di fornire al potenziale lettore un’analisi che sia degna di tale
nome, uno spaccato del nostro passato che possa essere illuminato davvero da una luce
chiarificatrice.
A questo fine, per poter cioè comprendere meglio il significato del quadro che ci accingiamo a
dipingere, vogliamo offrire delle categorie paradigmatiche, attraverso le quali osserveremo le
vicende del mezzo televisivo, come attraverso una lente di ingrandimento. Si tratta di una serie di
macro-categorie che descrivono, sostanzialmente, le strategie in base alle quali, non solo la tv, ma
tutti i mezzi di comunicazione sono stati utilizzati; esse indicano cioè modi differenti di intendere
l’utilizzo dei media, modi che spesso convivono anche assieme ma che, di volta in volta, a seconda
6
In merito agli attriti, agli scontri e alla violenza che caratterizzano gli anni ’70, scrive Fausto Colombo: «Lo scontro
politico e sociale ha segnato obiettivamente (anche se in modo non esclusivo) il periodo: basti pensare alla durata delle
contestazioni studentesche (assai più lunghe che in qualunque altro Paese dopo la fiammata del ’68), o al terrorismo
come svolta radicale e drammatica dei conflitti di piazza, culminata con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro nel
1978…», F. COLOMBO, Gli anni delle cose, I.S.U., Milano, 2000, 9, 10.
7
Colombo segnala bene come ci fossero delle forze contrapposte, alla base dello sviluppo sociale italiano, a cavallo fra
anni ’70 e ’80: «(…) il contrasto evidente fra questo brusco scarto di modernizzazione e il successivo riflusso (…)
accentuando la pulsione alla soggettività, segnala la profonda ambiguità delle istanze che attraversarono la società
italiana, che da un lato potevano apparire antagoniste, dall’altro potevano essere lette sotto alcuni aspetti come
puramente funzionali a uno sviluppo liberal-moderno, con l’accentuazione dei diritti di consumo e garanzia rispetto a
quelli di partecipazione», Ib., 10.
11
del periodo storico, assumono un equilibrio reciproco diverso (determinando il clima massmediatico generale).
Di tali categorie non possiamo assolutamente rivendicare la paternità, poiché coniate da Fausto
Colombo8, il quale ci ha fornito del materiale preziosissimo, sia da un punto di vista storico, sia da
un punto di vista paradigmatico.
Procediamo per gradi.
Se diamo uno sguardo allo sviluppo dell’industria culturale nel nostro paese, possiamo riconoscere
la presenza di due strategie, che percorrono, in lungo e in largo, la cronologia della masscomunicazione; ognuna di esse è poi, a sua volta, declinabile in altri due rispettivi atteggiamenti:
alla fine, individueremo pertanto quattro approcci.
Osservando sinotticamente le complesse e travagliate vicende che coinvolgono il mondo
dell’editoria in primis, e della radio e della tv in secundis, possiamo identificare un uso del sistema
mediatico, finalizzato alla diffusione di un sistema di valori, condiviso da una certa élite; questo
approccio fa capo a una strategia ben precisa che definiremo pedagogizzante9, all’insegna della
quale nascerà l’industria dell’immaginario, meglio definita “industria culturale” dalla “Frankfurter
Schule”10. Esiste tuttavia anche un altro modo, un’altra prospettiva, un’altro orizzonte verso il quale
i media si sono mossi: l’intrattenimento, vale a dire una concezione “ludico- industrial-culturale”
del prodotto. Questa è quella che chiameremo strategia dell’intrattenimento.
Ma come si diceva, questi due approcci (che evidenziano l’esistenza di due finalità differenti
all’interno del processo di codifica del messaggio) sono declinabili, a loro volta, in altri due
atteggiamenti distinti.
Cominciamo dalla strategia pedagogizzante, che è, in fondo, quella che segna l’inizio, la nascita
dell’industria culturale.
Siamo alla fine del diciannovesimo secolo; l’unità politica dell’Italia è appena avvenuta ma, nello
stivale, esistono ancora differenze enormi, solchi profondi da colmare. Il nostro, è un paese segnato
da piaghe come quelle dell’analfabetismo (oltre che della povertà), dell’utilizzo prevalente del
dialetto, della compresenza di culture, usi e costumi talvolta incompatibili fra loro…
Di fronte a un quadro di questo tipo (vagamente catastrofico), sia il potere politico, sia le élites
culturali hanno come preoccupazione principale quella di “fare gli italiani”, cioè di creare
un’identità nazionale anzitutto da un punto di vista assiologico (attraverso l’offerta di un complesso
sistema di valori identico per tutti) e poi da un punto di vista culturale e dei consumi (soprattutto
dopo la seconda guerra mondiale).
La rotta intrapresa da chi detiene il timone dello Stato è allora quella della costruzione di un’identità
(in parte) ancora inesistente; si capisce dunque come i mezzi di comunicazione di massa (ma anche
le scuole e le università) siano strumentali alla realizzazione di questo obiettivo, come essi vengano
piegati a una strategia di tipo pedagogizzante.11
8
Ci riferiamo, in particolare, alla sua lettura storica contenuta in: F. COLOMBO, La cultura sottile, Bompiani, Milano,
1998, in particolare le pp. 7/36.
Per quanto riguarda, invece, gli anni ’70, segnaliamo l’opera già citata: F. COLOMBO, Gli anni delle cose, I.S.U.,
Milano, 2000.
9
Si veda in proposito sempre: F. COLOMBO, La cultura sottile, Bompiani, Milano, 1998, 16.
10
Ci riferiamo, in particolare, alle idee espresse in: M. HORKHEIMER – T.W. ADORNO, Dialektik der Aufklärung.
Philosophische fragmente, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2003; tr. it. Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino,
1966.
11
Scrive Fausto Colombo: «(…) (i) media (…) divengono un veicolo di valori condivisi dalle élites, che entro ben
determinati limiti li “impongono” al pubblico. Da un certo punto di vista si potrebbe dire che i media sono, in questo
caso, o aule scolastiche o salotti allargati, in cui la tradizione circolare dei “gruppi di punta” viene resa pubblica e
proposta ai ceti sociali di solito esclusi da essa. Nella fase nascente dell’industria culturale nazionale questa tendenza fu
particolarmente evidente per ovvi motivi: la recente unificazione del paese, l’alto tasso di analfabetismo, lo sforzo si
“fare gli italiani” attraverso la scuola, lo sport, l’esercito, l’organizzazione del lavoro secondo la nascente ottica
industriale, in una parola attraverso l’intero delle occasioni della vita sociale e pubblica, dovettero comportare da parte
delle élites uscite dall’esperienza risorgimentale una visione naturalmente pedagogica dei media», F COLOMBO: 1998,
16.
12
Ma tale strategia si è incarnata storicamente in due logiche differenti: a. logica del grillo e b. logica
del corvo.
a. Perché si parla di logica del grillo e perché essa indicherebbe un preciso modo di intendere
la codifica del messaggio? Chi è il grillo?
Il grillo non è altro che il “grillo parlante”, il famoso personaggio de Le avventure di
Pinocchio, celeberrimo romanzo scritto dal toscano Carlo Collodi. Questa figura ha un ruolo
ben preciso e, oseremmo dire, sostanziale all’interno dell’economia del racconto: quello di
richiamare il burattino al proprio dovere, di impartire, di volta in volta, di fronte agli errori,
degli insegnamenti che possano valere per la vita, delle regole che possano aiutarlo a vivere
la quotidianità e il rapporto con gli altri esseri umani. È questa dunque una precisa funzione
pedagogica, che penetra in profondità il testo, dipanandosi in tutta la sua lunghezza e
attribuendo un senso che inscrive lo stesso testo all’interno di un grande e ambizioso
progetto sociale. Si tratta della medesima logica che domina e pervade un altro celeberrimo
romanzo, fondamentale in quanto proprio attraverso di esso la nostra classe dirigente ha
tentato di costruire “l’identità” nazionale, fornendo valori comuni a “buon mercato” e
facendo leva (lasciatecelo dire) su una sfera emozionale, variamente stimolata; stiamo
parlando di Cuore di Edmondo De Amicis. La storia è collocata sullo sfondo di una classe
scolastica della Torino di fine ottocento e descrive, in modo fortemente drammatico, le
“ferite” più profonde di quella complessa realtà sociale che vive e soffre, all’ombra della
mole antonelliana: i flussi migratori provenienti dal sud Italia (con l’annesso problema
dell’integrazione), le situazioni di povertà estrema, il lavoro minorile in fabbrica, la violenza
verso i minori…
Per quale ragione abbiamo fatto questi due esempi, tratti dal mondo letterario di fine ‘800?
Perché i due testi in questione: da un lato segnano l’inizio della produzione “industrialculturale” nello stivale12, dall’altro si collocano all’interno di una logica che si oppone
nettamente alla strategia dell’intrattenimento, vista come luogo della frivolezza, per non
dire della perdizione.
A proposito di tale opposizione (fondamentale per comprendere in profondità l’ideologia
delle élites), non è un caso che tutto ciò che, ne Le avventure di Pinocchio, rappresenta il
male è, in qualche modo, costituito sempre da qualcosa che richiama la cosiddetta “società
dello spettacolo”. È per questa ragione che, per lungo tempo, tutto ciò che i media
producono, resta legittimato solo se inserito all’interno di un quadro educativo. La
televisione degli anni ’50 per esempio si inscrive proprio in questa grande prospettiva, in
una prospettiva cioè per cui essa deve essere anzitutto uno “strumento paidetico”, uno
strumento necessario a lanciare il paese verso la modernizzazione, o meglio ancora, un
organo di controllo, affinché tale modernizzazione possa realizzarsi all’ombra di un certo
quadro di valori.13
b. Tuttavia, l’utilizzo dei media ai fini della diffusione di principi etico-culturali, conosce
anche una versione più perversa: la logica del corvo. È questa “l’altra faccia” della strategia
pedagogizzante, quella di una logica finalizzata alla diffusione di valori, che una certa élite
culturale ritiene back ground assiologico possibile di un futuro vivere comune.
Ma mentre la logica del grillo implica un consenso, una certa intesa e condivisione di intenti
fra chi diffonde le idee e il pubblico, la logica del corvo comporta invece un’opposizione a
12
Per una giustificazione accurata di questa affermazione, rimandiamo alla lettura del testo di Fausto Colombo (:1998),
già ampiamente citato. In quella sede, viene dimostrato in modo davvero pregnante, per ricchezza di argomentazioni, la
veridicità di un simile giudizio.
13
«E forse non è un caso che, fra i grandi pericoli corsi da Pinocchio, almeno due – il teatro di Mangiafuoco e il Paese
dei Balocchi – richiamino più o meno direttamente la società dello spettacolo con le sue lusinghe “immorali”. In diverse
fasi l’industria culturale italiana ha fatto i conti con questo fantasma, che legittimava i media soltanto all’interno di un
progetto pedagogico, come una sorta di “scuola parallela” (…) Insomma, lo sguardo morale dell’intellettualità si posò
inizialmente dall’alto in basso sui media, come quello del grillo sul povero burattino. Anche la televisione degli anni
’50 fu un medium costruito all’interno di un progetto di controllo della modernizzazione…», Ib. 16, 17.
13
un modello che diffonde valori “contrapposti”14; la logica del corvo è dunque un uso
ideologico dei mezzi di comunicazione, una strumentalizzazione degli organi informativi.
Tale strategia ha conosciuto l’apice del suo sviluppo negli anni del fascismo, anni durante i
quali la propaganda del regime aveva imbevuto delle sue visioni del mondo gran parte della
produzione cinematografica, radiofonica, letteraria e via dicendo.
È dalla necessità di diffondere a tutti i costi i propri valori, i propri ideali, che deriva il
controllo della cultura nazionale: attraverso la propaganda, attraverso l’uso ideologico dei
canali di informazione, il (o un) regime cerca di costruire, di plasmare un pubblico a propria
immagine e somiglianza.15
Ma perché la si è definita logica del corvo? Chi è il corvo?
Il corvo è nient’altro che uno dei protagonisti del film Uccellacci e uccellini di Pier Paolo
Pasolini; il personaggio, nell’economia del film, è l’intellettuale figlio del dubbio e della
certezza e ha la funzione fondamentale di impartire ordini e precetti, in forza della sua
posizione culturale, cioè in forza del fatto che appartiene a una certa “crème” di tipo socioculturale. Ma il volatile, come tutti i regimi totalitari (e, nella fattispecie, il regime fascista),
è segnato dalla morte fin dalla sua nascita, e finisce perciò arrostito. Un sistema fondato
sull’opposizione è destinato infatti, per sua stessa natura, prima o poi, a scomparire: nell’atto
di opporsi a qualcos’altro, non può essere perennemente vincitore. Come disse già il grande
cantautore e poeta Francesco De Gregori, in un brano celeberrimo di evidente contenuto
antifascista:
«(…) e i cavalli a Salò sono morti di noia,
a giocare con il nero perdi sempre;
Mussolini ha scritto anche poesie.
I poeti! Che brutte creature,
ogni volta che parlano è una truffa…»
Ma questo è un altro problema. Quello che ci interessava qui sottolineare era come questa
figura riuscisse in sé stessa a incarnare una complessa strategia, utilizzata primieramente
(ma non solo) dal regime fascista. Del resto, il corvo, come nota Fausto Colombo, descrive
molto bene il “gracchiare” della radio durante “il trentennio”, come pure il colore delle
famose “camicie nere”, braccio armato del partito di Mussolini. Si tratta, tuttavia, di una
logica che non muore con la fine della seconda guerra mondiale, ma che continua a
persistere anche successivamente, fino ai giorni nostri, come strumento dell’ideologia;
logica del corvo, significa pertanto: uso ideologico e propagandistico del sistema mediatico.
Esiste tuttavia un utilizzo diverso, più “frivolo”, se così si può dire, dei mezzi di comunicazione di
massa, un utilizzo che fa riferimento a un altro tipo di strategia: la strategia dell’intrattenimento.
Agli albori dell’Italia post-unitaria, quando l’industria culturale inizia a emettere i primi vagiti, non
tutti i suoi settori “si prostrano” alla logica delle élites culturali; esistono infatti ambienti del mondo
letterario, musicale e artistico in generale che traggono ispirazione da una tradizione più
propriamente spettacolare: il melodramma, l’avanspettacolo, la letteratura popolare…16
14
Ib., pp. 16/18.
Come scrive Fausto Colombo: «Ecco allora che la propaganda comincia a costruire in se stessa un’immagine del
pubblico come obiettivo da raggiungere prima e meglio degli “altri”, e così facendo scende a un importante e anzi
decisivo compromesso con quel pubblico che, nella logica del grillo, è soltanto un destinatario obbligato, senza
possibilità decisionale». Ib., 18.
16
Si tratta dunque di una strategia che vive “a latere” di quella pedagogizzante. Alcuni di quei prodotti (anche di grande
successo), che nascono nei periodi in cui corvo e grillo signoreggiano, si spiegano infatti soltanto alla luce di una logica
dell’intrattenimento. Come scrive Fausto Colombo: «Molti dei contenuti dei primi prodotti di intrattenimento si
spiegano dunque in questi termini: le dipendenze salgariane dai testi melodrammatici, la vocazione al movimento di
massa del cinema italiano del primo quindicennio del secolo, così come la tradizione più tarda del cinema seriale in
costume, la ripresa nel cinema e nella radiofonia dell’avanspettacolo sono tutti indizi della necessità di trovare e
riattivare legami da un lato con una tradizione imprenditoriale (quella appunto dell’opera musicale), dall’altro con i
contenuti più “popolari” e immediati», Ib., 19.
15
14
Questa è dunque una strategia che vivrà per lungo tempo nelle retrovie, schiacciata dai colossi del
grillo e del corvo e conoscerà il successo solo nell’Italia repubblicana, quando esploderà nei media
degli anni ’80 e ’90, segnati in modo ineluttabile dalla presenza di logiche spettacolari e
sensazionalistiche.
La strategia dell’intrattenimento può essere declinata anch’essa in due forme differenti: a. logica
del topo, b. logica del gatto.
a. È una logica di tipo artigianal-industriale, basata su una percezione empatica (da parte del
produttore) dei gusti del pubblico.
La logica del topo è, in questo senso, la strategia tipica di coloro che non hanno come fine
primario il guadagno, bensì l’espressione, lo sfogo della propria passione e, dunque, della
propria competenza artistica; questi soggetti perciò, essendo più dei “patiti” che non dei
grandi imprenditori, si riferiscono soprattutto a un pubblico di nicchia, a un pubblico cioè di
appassionati di cui riescono a intuire gusti e bisogni.
Ma, a questo punto, permane un interrogativo: che cosa significa logica del topo? Chi è il
topo?
Il topo non è nient’altro che Topolino, il personaggio della Disney, il cui nome e il cui
adattamento italiano hanno la paternità nell’editore Nerbini. Le ragioni per cui si è scelta
questa figura sono svariate.17 In primo luogo perché è esemplificativa di un tipo di
atteggiamento che un certo settore dell’industria culturale italiana ha avuto, ha e,
probabilmente, continuerà ad avere: quello di ispirarsi a dei modelli esteri (nella fattispecie
americani), adattandoli alla sensibilità e alla tradizione del nostro paese; in secondo luogo,
perché il modo di agire di questo soggetto (:Nerbini) è realmente tipico, o meglio,
rappresenta molto bene il tipo di strategie adottate dagli “artigiani industriali”: individuare il
gusto di una certa fascia di pubblico, facendo sì che un determinato prodotto (e un
determinato genere) diventino sinonimo del proprio marchio. È in forza di questa equazione
(prodotto = marchio di fabbrica), scaturita dalla volontà di rincorrere obiettivi di mercato
relativamente modesti, che Nerbini e poi l’editore Bonelli (per non citare tutti gli altri che a
questo tipo di logica si riallacciano) si concentrano sulla produzione soprattutto di “un” tipo
di bene, su una produzione cioè nella quale si specializzeranno e dalla quale non si
allontaneranno mai.18
b. Giungiamo così al quarto tipo di logica, esistente senz’altro anche alle origini, agli albori
dell’industria culturale italiana, ma “esplodente” soltanto negli anni ’80 (quando cioè la
televisione commerciale inizia a diventare una realtà ormai consolidata), (quasi)
tiranneggiando in tutti i settori della creazione artistica.19
Questa è la strategia di chi guarda ai “grandi numeri”, di chi vuole che il prodotto sia
consumato dal maggior numero di persone possibile. In questo senso, assumono un ruolo di
primo piano il marketing, la pubblicità, la promozione a 360 gradi della propria attività: la
presente è cioè una logica davvero industriale, una logica di produzione in larga scala, una
logica che rincorre un’utenza di massa, un’utenza di proporzioni il più possibile estese.
Ma perché si è scelto di descrivere tutto questo con la figura del gatto? Chi è il gatto?
Il gatto non è nient’altro che l’immagine, l’archetipo alla base della “statuetta” del
“Telegatto”, alla base cioè di quel premio per la produzione televisiva, organizzato
17
Tutto ciò che si sta dicendo, lo si trova in modo più approfondito nel testo di Fausto Colombo (:1998) tra le pagine 19
e 20.
18
Anche Fausto Colombo riconosce infatti che: «Questa industria ha un’idea modestamente commerciale del proprio
compito: intercettare il gusto del pubblico, certo, ma anche creare un prodotto dotato di una propria fisionomia specifica
confidando nel marchio di fabbrica, e spesso nella sbrigliata invenzione del genere. Fu così per i prodotti di Cinecittà,
per la serialità di Totò, di Peppone, di don Camillo, per gli originali televisivi autoprodotti, sulla base di polizieschi di
vera o finta origine anglosassone e così via», Ib., 20.
19
«Può inserirsi in questo filone tanto il romanzo popolare italiano, fino al dime-novel della Nerbini negli anni ’20,
quanto certo cinema di serie come il mitologico, fino naturalmente alla televisione commerciale dei grandi networks
berlusconiani (…) Benché questa logica sia stata presente da sempre (…) essa subisce una svolta decisiva con il boom
della televisione commerciale berlusconiana…», Ib., 20, 21.
15
annualmente dalle reti Mediaset. Ma per quale ragione un siffatto “oscar” per il broadcasting
televisivo è così importante?
Perché questa sorta di “trofeo” non fa altro che premiare il successo di pubblico, cioè (come
si è visto) l’obiettivo primario di una strategia di tipo industriale. Di conseguenza, il gatto
diventa metafora, figura paradigmatica di una produttività realizzata in base a criteri di
fabbricazione “industrial-seriale”, cioè in base a criteri che hanno come scopo principale un
consumo quanto mai massificato.
Riassumendo, abbiamo qui descritto due strategie, all’interno delle quali rientrano due logiche ben
distinte; vediamo di sintetizzare graficamente il tutto:
a. Strategia pedagogizzante:
- Logica del grillo
- Logica del corvo
b. Strategia dell’intrattenimento:
- Logica del topo
- Logica del gatto
Come si diceva all’inizio, si tratta di quattro modi differenti di intendere la comunicazione di massa,
di quattro modi che, in linea di principio, tendono a convivere, tendono a coesistere.
Ma convivenza non significa “equi-potenza”, “equi-importanza” così, in ciascuna fase (della storia
dei media), ognuna di queste “Medien-Anschauungen” tende a prevalere su tutte le altre,
costruendo, o meglio, imponendo una sorta di clima prevalente. Detto in altri termini, in un
determinato periodo storico, vi sono strategie predominanti e non predominanti; quelle non
predominanti certamente esistono (e per qualcuno rappresentano anche e senz’altro un archetipo
ispiratore), ma “in sordina”, all’ombra cioè di una logica che signoreggia incontrastatamente su
tutte le altre.
Bisogna poi aggiungere (fatto non secondario) che ciascuno di questi quattro quadri paradigmatici è
lo strumento privilegiato di un determinato centro di potere, di una certa élite o di un certo attore
sociale; grillo, corvo, topo e gatto sono perciò mezzi attraverso cui fini differenti possono venire
“inverati”.
È necessario, dunque, chiarire quali sono queste forze in gioco, quali sono questi “attori sociali” che
ricoprono un ruolo così importante da determinare le caratteristiche conclusive di un prodotto.20
I “giocatori in campo” (e anche qui ci riallacciamo al già citato testo di Fausto Colombo), ci
sembrano essere fondamentalmente quattro: politica, economia, creativi (tradizionali o integrati) e
pubblico. Quando si parla di élites (ovvero di soggetti in grado di determinare le caratteristiche dei
prodotti mediali) si fa riferimento ai primi tre.
Partiamo dal primo, cioè dalla politica. È facile capire il peso, l’influsso che essa può aver avuto,
per vario tempo e in vario modo, nell’instaurazione di un certo clima culturale. Nell’Italia postunitaria o nella prima età repubblicana per esempio, tutti i settori dell’industria culturale sono stati
in qualche modo influenzati da un progetto di tipo sociale, da un progetto cioè la cui paternità è
attribuibile proprio al mondo politico; il “fare l’Italia” o il creare un popolo culturalmente
omogeneo, pronto alla modernizzazione del paese, sono infatti due obiettivi “sposati” proprio dalla
classe dirigente.
Il primo dei quattro attori in gioco, dunque, è orientato verso un tipo di strategia pedagogizzante che
si declina, nel caso delle istituzioni, in logica del grillo e, nel caso dei partiti, in logica del corvo.
Passiamo al secondo fattore, cioè ai soggetti economici. Essi appartengono a due categorie: a.
industriali-artigiani, b. industriali tout court.
a. Si tratta, in questo caso, di personaggi caratterizzati da un orizzonte commerciale
particolarmente ristretto (come si diceva già in relazione alla logica del topo); gli industriali
artigiani sono cioè individui che hanno una formazione specifica e che, perciò stesso, hanno
sviluppato competenze in un campo particolare; ora, proprio sulla base di tali competenze
(ovvero sulla base della passione per ciò che producono) cercano di misurare il gusto del
20
Per tutto questo discorso rimandiamo nuovamente al testo di Fausto Colombo (:1998), già ampiamente citato.
16
pubblico, o meglio, non “del” pubblico (cioè non di un pubblico in generale), bensì di “un”
pubblico (ovvero di un pubblico di nicchia), cioè di un gruppo di soggetti con cui
condividono la “predilezione”, la “propensione verso”, il “culto di” un determinato genere.
In questo senso, cioè in forza del fatto che il rapporto produzione/utenza è di tipo empatico,
è difficile che l’ “artigiano” sconfini in altri “scomparti”, in altri settori, di cui non ha
esperienza.21 L’industriale-artigiano, in quanto tale (cioè in quanto artigiano), foggia perciò
un bene quasi esclusivamente per una cerchia di appassionati, per una cerchia di individui di
cui condivide gusti e, molto spesso, anche idee.
b. Per quanto riguarda invece gli industriali tout court, si può forse affermare che il loro
obiettivo primario sia anzitutto quello di “far acquistare” i propri artefatti. A differenza degli
artigiani, essi estendono infatti il proprio campo di azione “tentacolarmente”, cioè in
maniera tale da “colonizzare” tutti i settori della cultura di massa.22 L’obiettivo principale è
perciò, in questo caso, la vendita massiccia dei prodotti, o meglio (detto in modo forse un
po’ troppo diretto) il guadagno. Per questa ragione, gli industriali sono spinti a percorrere
strade differenti, o meglio, fuor di metafora, a occuparsi di tutti i campi che il mondo
mediatico gli offre; è infatti seguendo vie così diverse, quasi agli antipodi l’una dell’altra,
che la moltitudine dei consumatori, tutta la moltitudine dei consumatori, considerata in tutte
le sue articolate sfaccettature (cioè in tutta la sua eterogeneità di gusti e bisogni), può essere
pienamente soddisfatta. È questa un tipo di strategia che potremmo forse definire
“globalizzante”, nel senso che l’industriale pensa alla propria attività economica nei termini
di “impresa globale”, ovvero di un’impresa che si muove alla ricerca di un mercato
“universale”.
In entrambi i casi, sia che si tratti di artigiani, sia che si tratti di industriali, la strategia comunicativa
primieramente utilizzata è quella dell’intrattenimento: il consumatore è “affabulato” attraverso
l’attrazione spettacolare.
Tuttavia, l’artigianato non è del tutto assimilabile all’industria, almeno per quel che concerne la
finalità e la concezione del prodotto: la figura che descrive meglio il ruolo di chi punta su una
percezione empatica del gusto del pubblico è quella del topo (ma questo forse era già abbastanza
chiaro).
Al contrario, chi ha come obiettivo principale il consumo di massa dei beni che produce, rientra nel
paradigma interpretativo del gatto.
Dopo esserci occupati dell’ “apparato produttivo”, ci sembra opportuno chiarire il ruolo di coloro
che, concretamente, sono all’origine del concepimento e della gestazione di un qualsivoglia oggetto
culturale, ovvero i creativi. È qui che i “nodi iniziano a venire al pettine”, nel senso che la figura
dell’ “artista” in se stessa e la sua relazione con la “committenza” sono aspetti estremamente
complessi, estremamente variegati e, quindi, non riassumibili in poche categorie. Tenteremo
tuttavia di rintracciare ugualmente dei macro-paradigmi interpretativi, che ci consentano di chiarire,
in modo più o meno generale, questo problema.
I creativi, nel corso della storia, hanno assunto due posizioni contrapposte nei confronti
dell’industria culturale: una esterna (ovvero quella di chi si pone al di fuori dell’universo mediatico)
e una interna (ovvero quella di chi vi si pone dentro, rispondendo alle sue logiche); vi saranno
perciò degli “intellettuali esterni” e degli “intellettuali interni”.
21
«Emblematico – per esempio – è il caso dell’editore Sergio Bonelli, che continua a produrre fumetti senza spostarsi
su altri campi, e facendosi convincere solo con grandissima difficoltà e per brevi periodi a gestire iniziative anomale
(come il Festival del film horror organizzato sull’onda del successo di “Dylan Dog”). L’editore è tanto intenzionato a
stare dentro competenze che “maneggia” con consapevolezza e intuito, da rifiutare di dare spazio a fenomeni altrimenti
molto cavalcabili come il collezionismo (Bonelli ha più volte ripetuto di guardare soltanto al “lettore tradizionale” di
comics come proprio interlocutore)», Ib., 27, 28.
22
«È il caso di Arnoldo Mondadori o di Silvio Berlusconi (per certi versi, anche di Rizzoli). Il successo economico non
è legato sempre – in questi casi – alla centralità del prodotto, bensì alla centralità della strategia di vendita: altrettanto
rispettabile, si intende, e tuttavia profondamente diversa – come prospettiva – da quella in qualche modo interna alla
specificità del prodotto culturale». Ib., 28.
17
I primi sono degli individui che, pur contrapponendosi idealmente alle logiche del mondo della
comunicazione di massa, ne sfruttano le possibilità tecniche, per portare avanti un discorso
autonomo.
I secondi sono invece dei soggetti che si mettono al servizio della macchina industriale (non
ricoprendo necessariamente un ruolo di subalternità o di subordinazione), cedendo parzialmente alla
macchina stessa la paternità dell’opera d’arte.23
Come si è già detto, contrapponendo queste due categorie, abbiamo voluto esemplificare in modo
estremo il discorso; a onor del vero, esistono molte gradazioni intermedie, derivanti
dall’atteggiamento che il creativo assume, di volta in volta, rispetto all’apparato mediatico, cioè
dalla comunione o opposizione di intenti fra sé e il suddetto apparato.24
Questo discorso ci rimanda ad altre problematiche, per esempio quella della categorizzazione del
sopra descritto rapporto: padre dell’opera/mondo produttivo.
Procediamo per gradi.
L’atteggiamento che l’artista assume rispetto alla committenza può essere riassunto in due grandi
paradigmi: mecenatismo industriale e relazione professionale.
La prima forma di legame si addice maggiormente alla figura dell’intellettuale esterno, infatti:
«(…) nelle forme più avanzate di mecenatismo è piuttosto l’artista a utilizzare per la propria
immagine il canale offerto dal committente, mentre a quest’ultimo è concesso di appropriarsi delle
poetica del primo» (F. COLOMBO: 1998, 30).
Per ciò che concerne invece la relazione professionale, si può dire che essa sia un tipo di rapporto
che coinvolge di più l’ “intellettuale interno”, implicando una maggiore anonimità dell’artista e una
maggiore unità di intenti rispetto all’apparato industriale.25
Veniamo ora all’ultimo punto, ovvero al ruolo del pubblico.
Anche in questo caso, la questione è abbastanza complessa, in quanto non si può dire che esista un
solo tipo di legame, storicamente attualizzatosi, tra produzione e utenza. Probabilmente, ai primordi
dell’industria culturale, il peso che il consumatore aveva nella definizione delle caratteristiche dei
beni non era così forte come ai giorni nostri, in cui, attraverso le ricerche di mercato, le statistiche e
quant’altro, le imprese tentano di monitorare, secondo per secondo, la direzione verso cui si
orientano gli acquisti (traendo, con ciò stesso, dei giudizi di valore sulla merce).
Tuttavia, poiché all’utenza si può guardare in modo diverso, è bene rimarcare la distinzione26 fra
industria propriamente detta e industria culturale. La seconda, infatti, non sarebbe in grado di
produrre bisogni “ex novo”, di indurre una tendenza al consumo, ma, al contrario, inseguirebbe dei
desideri già sedimentati, già presenti ed espressi dall’eventuale acquirente. La macchina
23
«(…) fondamentalmente sono due i tipi di professionalità implicate. Da un lato autori che si considerano “esterni”
alla macchina dell’industria culturale e che coltivano una propria identità specifica; in questo caso il medium è trattato
come pura occasione tecnica di un discorso espressivo che si vuole fortemente personalizzato. Sull’altro versante si
trovano autori che accettano una “internità” (…) alla macchina stessa (…) Entro certi limiti è piuttosto facile distinguere
fra il primo e il secondo tipo di autori: sul primo versante, infatti, stanno certamente, per esempio, Collodi, De Amicis e
D’Annunzio, ma anche Fellini o Hugo Pratt; sul secondo i caricaturisti del “Guerin Meschino”, il disneyano Romano
Scarpa, Matarazzo o i registi della prima commedia all’italiana», Ib., 28, 29.
24
«Tuttavia, non appena si scende più in profondità, le cose si complicano, in quanto è facilmente riscontrabile una
lunga serie di gradazioni intermedie. Salgari, per esempio, è certamente un autore “interno”, ma l’utilizzo che la
macchina editoriale ne fa, usando il suo nome come marchio di fabbrica e stile espressivo, finisce per ricorrere
all’armamentario estetico dell’autore “esterno”. E d’altronde numerosi autori “esterni” si sono vergognati del proprio
ruolo nei media (è il caso di molti letterati nei confronti proprio del cinema, come Verga), pur continuando a usare la
risorsa anche economica come un elemento essenziale», Ib., 29.
25
In realtà, il rapporto di relazione professionale si declina empiricamente in diversi modi e gradi, che implicano, a loro
volta diverse forme di collegamento artista/committenza. Per un’analisi un po’ più approfondita dell’argomento
rimandiamo alla lettura del testo di Fausto Colombo (:1998), già citato ampiamente, e un’altra opera fondamentale per
la problematica in questione (a cui, fra l’altro, lo stesso Colombo si richiama):
- R. WILLIAMS, Culture, Collins-Fontana, Glasgow, 1981.
26
Ib., 22/26.
18
dell’immaginario rincorre e si appiattisce sulle trasformazioni in atto nella società, soddisfacendo
richieste ed esigenze, magari non ancora estrinsecate, ma già da lungo tempo esistenti in nuce.27
Lo stesso concetto di pubblico poi, nel corso degli anni, cambia sicuramente i suoi connotati. Gli
individui a cui si rivolgevano le élites culturali di fine ottocento, non sono assolutamente
paragonabili ai telespettatori della tv commerciale; nel primo caso si tratta infatti di una platea
ideale che è, in qualche modo, già un’élite, vale a dire un insieme di soggetti alfabetizzati e perciò
appartenenti quanto meno alla media borghesia (dato che, in questa fase storica, l’alfabetizzazione
costituisce ancora un privilegio riservato a pochi) o, in ogni caso, non alla massa del proletariato
urbano o rurale.
Il consumatore di oggi, sempre più massificato e, per così dire, “onnivoro”, ha invece poteri e
caratteristiche totalmente differenti.
Con il passare del tempo infatti, l’utenza si è sempre più emancipata, ricoprendo quasi la funzione
di “ultimo tribunale”, cioè di “corte” giudicante del successo o dell’insuccesso di un certo prodotto.
In questo modo, essa (: l’utenza) può imporre, in maniera più o meno indiretta, i propri standard, i
propri gusti, certamente neutralizzabili da operatori intermedi, ma anche abbastanza forti da
suggerire all’industria alcune delle caratteristiche del bene che essa andrà a lanciare sul mercato.28
Per mettere ordine in tutto quello che si è detto finora sui ruoli degli attori sociali, può forse essere
utile tracciare uno schema riassuntivo:
Politica (gatto/corvo)
Economia
(Produz./Committ.)
Artigianato industriale (topo)
Industria tout court (gatto)
ATTORI SOCIALI
Intellettuale esterno
Creativi
Intellettuale interno
Pubblico
Dunque, dopo aver chiarito un po’ meglio le linee di forza che concorrono, in misura più o meno
maggiore, alla formazione dell’oggetto di consumo, ci sembra opportuno spostare la nostra
attenzione sull’oggetto stesso, o meglio sul suo valore.29
Quando un prodotto può essere definito di qualità?
Non lo si può stabilire in maniera univoca, vale a dire che non c’è un solo sistema di valori che
permetta di valutare un bene; esistono invece molteplici criteri, differenti paradigmi assiologici,
strettamente dipendenti dalla strategia e dalla logica di riferimento. Ciò che per il gatto è di qualità,
27
«Per fare qualche esempio (…) si può dire che la richiesta di letteratura per l’infanzia, generata dalla crescente
scolarizzazione comportata dall’unità italiana, fu una causa non indifferente della nascita del prodotto editoriale
moderno nel nostro paese. E così la democratizzazione del consumo di musica rese possibile la nascita dell’editoria
musicale come la intendiamo oggi, e quindi la valorizzazione delle tecnologie di riproduzione (…) Occorre dunque fare
giustizia dei luoghi comuni sulla capacità dell’industria culturale di indurre dall’esterno il desiderio di consumo da parte
del pubblico. Semmai sono le forme dell’offerta a direzionare le forme del consumo, il quale tuttavia, sembra mostrare
la capacità di orientarsi anche su vie non battute dall’offerta in quanto tale», Ib., 23, 24.
28
Anche su questo aspetto sarebbe possibile scrivere un intero saggio, tuttavia, in questa sede, era nostra intenzione
fornire soltanto alcune coordinate generali che potessero evidenziare alcuni dei ruoli possibili. In ogni caso, per un
approfondimento sul ruolo del consumo ci sembra opportuno rimandare ad altra letteratura sull’argomento; in
particolare, accanto al testo di Colombo (:1998), rimandiamo soprattutto a quello già citato della Griswold (:1997)
29
Anche su tutto questo discorso siamo fortemente debitori del contributo di Fausto Colombo (:1998, 32/36). Pertanto,
per una lettura più approfondita del concetto di qualità del prodotto, rimandiamo proprio alla lettura del testo in
questione.
19
non lo è per il corvo o per il grillo e viceversa; così come ciò che per il topo è di valore, non lo sarà
magari per il gatto.
Che cosa allora, in base ai diversi paradigmi interpretativi, può essere considerato “di qualità”?
Per rispondere a questa domanda è necessario procedere con ordine.
Cominciamo dalle strategie pedagogizzanti: se l’obiettivo principale è quello della diffusione di un
determinato tipo di contenuti, ritenuti validi da una certa élite, sarà “di qualità” un prodotto che
veicola tali contenuti, che risponde precisamente all’obiettivo dell’élite stessa.
Tuttavia, se all’interno di questo tipo di strategia sono riscontrabili due logiche differenti, anche il
valore di un certo artefatto sarà misurato, in relazione a due diversi sistemi di valutazione. In effetti,
mentre per il grillo è “di qualità” ciò che ha un riferimento immediato e un legame diretto con la
cultura delle famose élites, di cui si parlava sopra, per il corvo lo è ciò che ha una corrispondenza
profonda con l’ideologia. In entrambi i casi, l’oggetto è definito più o meno valido in relazione
all’origine (anch’essa più o meno valida) da cui prende le mosse.
Nel secondo caso, cioè in relazione alle strategie dell’intrattenimento, il paradigma valutativo è
totalmente esogeno, totalmente esterno al bene di consumo: il successo. Anche qui, poiché ci
troviamo in presenza di due logiche ben distinte, il prodotto sarà giudicabile in relazione ad
altrettanto distinti sistemi di valori. Si è visto come, per il topo, l’estetica di un prodotto sia
suggerita da un rapporto di empatia fra l’artigiano e il pubblico; di conseguenza il “successo” viene
visto come una conferma del fatto che a quell’archetipo di “qualità” corrisponde una “qualità reale”
ed effettiva: il successo è solo una “prova” del valore del prodotto.30 Al contrario, secondo la logica
del gatto, tale successo è l’unico e il solo “criterio di misurazione”. Se l’obiettivo principale
dell’industriale è quello di rendere i consumi sempre più “massivi”, si capisce come la popolarità e
la diffusione di un determinato oggetto diventino il solo fine.
In realtà, secondo le strategie neo-televisive, “prodotto” non è ciò che viene proposto all’utenza
attraverso i palinsesti, bensì il pubblico stesso31; è esso infatti che la tv offre agli inserzionisti,
quando vende i propri spazi pubblicitari: l’audience è ridotta alla stregua di una enorme massa di
potenziali consumatori. Questo verrà tuttavia chiarito meglio in seguito, quando si avrà occasione di
approfondire il discorso sulla televisione commerciale.32
Per avere uno sguardo sinottico sulla problematica del valore dell’oggetto culturale, è forse utile
riportare in una tabella il discorso affrontato poc’anzi.
Strategie
Logica del grillo
Logica del corvo
Logica del topo
Logica del gatto
Qualità dell’oggetto
Corrispondenza della logica del prodotto con la cultura d’élite
Corrispondenza dei contenuti del prodotto con l’ideologia della classe
che governa i media
Successo inteso come “prova” della qualità
Successo inteso come criterio ultimo e fondativo della qualità
Fornite queste categorie e questi macro-sistemi interpretativi è possibile partire con la narrazione
della storia del mezzo.
30
Come scrive Fausto Colombo: «Può accadere infatti che il pubblico non gradisca: se ne prende atto a volte
malincuore, ma questo non svaluta il prodotto in sé; semmai ne mette in dubbio la compatibilità “attuale”. Oppure, in
qualche caso, si insiste, fino a far emergere questa compatibilità: è il caso delle trasmissioni radiofoniche e televisive di
Renzo Arbore, costruite dinamicamente e progressivamente messe a punto fino a diventare dei veri fenomeni cult», Ib.,
35.
31
«Per l’artigianato industriale (…) il prodotto è l’opera, che in effetti si confronta con il mercato e che viene venduta e
acquistata. Per la vera e propria industria dell’intrattenimento, che ha il proprio rappresentante esemplare nella
televisione commerciale, il prodotto è il pubblico», Ib., 36.
32
«La televisione commerciale (e anche pubblica) degli anni ’80 è un tipico esempio del risultato di vendita come
criterio privilegiato di giudizio sui propri prodotti; ma la stessa filosofia permea in fondo già le pubblicazioni di
Mondadori e di Rizzoli negli anni ’30 o la nascita dei rotocalchi di Rusconi», Ib., 36.
20
2. La “ricostruzione” attraverso l’immaginario visivo: secondo dopoguerra e
nascita della televisione
Il nostro viaggio nel mondo della memoria televisiva comincia nel secondo dopoguerra, a Milano,
in corso Sempione. È una domenica, è pieno inverno e, secondo le cronache dell’epoca, è anche
molto freddo. Sono le 11 di domenica 3 gennaio 1954 quando iniziano le trasmissioni regolari della
Rai, radiotelevisione italiana.33 In realtà, il grande traguardo chimerico di riuscire a trasmettere delle
immagini via etere, di riuscire a creare una “fabbrica per l’immaginario visivo”, è un sogno iniziato
già molti anni prima e precisamente nel 1929, quando, sempre nel capoluogo lombardo, gli
ingegneri Alessandro Banfi e Sergio Bortolotti creano un laboratorio sperimentale per la tv.34 Si
tratta di un progetto straordinario dal punto di vista ideale, ma che, tuttavia, non riesce a fornire i
risultati sperati: i nostri ricercatori non partoriscono nulla di “autonomo”, ma si limitano a registrare
i progressi ottenuti all’estero. A conferma di questo sta il fatto che la prima dimostrazione pubblica
per la trasmissione a distanza di immagini, realizzata in occasione della IV Mostra della radio, alla
fiera di Milano, si basa su un dispositivo di fabbricazione tedesca. La ragione profonda di tale
inferiorità tecnologica risiede nell’arretratezza del nostro apparato industriale, il quale si dimostra
nei fatti incapace di strutturare organi di ricerca, in grado di produrre risultati di una certa
consistenza (o comunque autonomi).35
I maggiori progressi tecnici si registrano tra il 1933 e il 1934, quando il passaggio da un sistema
meccanico a un sistema elettronico rende possibile la trasmissione di immagini in movimento: quel
sogno, quell’obiettivo “onirico-chimerico” di realizzare un’emittente con un ciclo di programmi
regolari inizia a diventare realtà.36 Anche l’industria, intanto, si occupa in modo più sistematico
delle ricerche, le quali, in questo modo, forti di un capitale alle spalle, possono dare frutti più
concreti, possono muovere cioè i primi passi verso l’elaborazione di un congegno tecnico
“definitivo” (ovvero tale da poter essere lanciato immediatamente sul mercato): nel 1939, per la
precisione il 22 luglio 1939, vengono diffusi i primi segnali video. I prototipi di quel tipo di onde
elettromagnetiche, che trasportano con sé immagini, sono irradiati da un trasmettitore sito a Monte
Mario in Roma37. È questo un evento di notevole importanza, è l’esordio di un servizio “pubblico”
essenziale, che, al momento, non supera ancora i confini dell’Urbe.
33
La fase iniziale della nascita della televisione è ben descritta, in tutti i suoi dettagli, in: F. MONTELEONE, Storia della
radio e della televisione in Italia, Marsilio, Venezia, 1992, 268/290.
34
«Lontani ancora dall’analisi elettronica, con un impianto basato su un disco rotante provvisto di tanti piccoli fori
attraverso i quali filtrava un “pennello” di luce che esplorava il soggetto da trasmettere, i due pionieri televisivi
riuscirono ad analizzare una bambola di panno di Lenci, cercando di sincronizzare tutti i punti. Apparve così, su un
rudimentale monitor, la prima figura della televisione italiana», A. GRASSO, Radio e televisione, Vita e Pensiero,
Milano, 2000, 161.
35
F. MONTELEONE:1998, 271.
36
«La televisione non è più solo la semplice riproduzione di foto o disegni, ma il suo “specifico” diventa la trasmissione
di immagini. Le prime esperienze con il vecchio sistema “a filo” vennero effettuate a Torino nel 1930 e a Milano nel
1932. Nell’aprile dell’anno successivo, la I Conferenza internazionale per lo studio della televisione, che si tenne a
Nizza, ebbe lo scopo di coordinare gli interventi e le ricerche che le industrie europee e americane stavano portando
avanti con rapidi processi di accelerazione negli investimenti e anche nei risultati», Ib., 272.
37
«Il 22 luglio 1939 entra in funzione il trasmettitore tv di Monte Mario a Roma. Iniziano regolarmente alcune
trasmissioni sperimentali, limitate alla sola zona urbana. Vengono prodotti anche alcuni programmi, che ricalcano gli
schemi della rivista teatrale, mentre gli attori e i personaggi più popolari della radio fanno qualche apparizione sul video
ancora sfocato. Il “Radiocorriere”, la stampa nazionale, le riviste specializzate si occupavano dell’avvenimento», Ib.,
272.
Aldo Grasso (:2000, 161), ci fornisce anche ulteriori informazioni rispetto alle sperimentazioni televisive, questa volta
però nel capoluogo lombardo: «Nel 1939 l’EIAR installò sulla sommità della Torre Littoria del Parco Nord due
trasmettitori, collegati tramite un cavo coassiale, in grado di trasmettere immagini e suoni, ricevibili entro un raggio di
circa 50 chilometri. In occasione della Mostra Nazionale della Radio, fu possibile, così, dare vita al primo programma
sperimentale. “Per la prima volta, i visitatori del Padiglione vedranno televisivamente uno dei principi del nostro
Varietà, cioè Odoardo Spadaro, il brillantissimo canzoniere che è egli stesso squisito interprete delle sue composizioni
così popolari. Nel programma inaugurale della televisione figurano (è proprio il caso di usare questo verbo) accanto a
21
Il regime ha una grossa aspettativa nei confronti del nuovo artefatto tecnologico e si attende che
esso possa diventare in breve tempo un bene di consumo di massa, un secondo focolaio domestico
da affiancare alla sorellina più grande, la radio. In questo senso, non è lontano dal vero pensare che
il governo fascista stesse pensando già di estendere il raggio di azione della futura azienda
televisiva.
Esistono però almeno due ostacoli, perché la nuova “scatola magica” possa avere una diffusione
davvero di massa:
a. il costo degli apparecchi, ancora troppo elevato per le tasche di tutti.
b. la guerra, che, attirando su di sé tutta l’attenzione (e dunque anche gran parte del denaro) dei
governi, contribuisce indirettamente a frenare gli studi e perciò anche gli eventuali progressi
tecnici.38
Ma le aspirazioni, i desideri e i sogni legati al mondo della tv, benché medium ancora in fasce, sono
già diventati bisogni, elementi strutturali della società, prima ancora che la “pugna” possa irrompere
in tutta la sua forza devastante; per questa ragione sostanziale, questi bisogni sopravvivono a quel
“conflitto bellico globale” nel quale il nostro paese, assieme alla maggior parte delle nazioni
europee, si ritrova coinvolto. È così che, nel 1949, a soli quattro anni dalla fine della seconda guerra
mondiale, ricominciano le ricerche e vengono costruiti i primi studi a Milano e Torino.39 Nel 1952, i
tempi sono già maturi per “avviare il meccanismo” e, tra il 12 e il 27 aprile, viene mandato in onda
un primo ciclo di trasmissioni sperimentali.40
L’anno successivo, la programmazione subisce un ulteriore incremento, grazie anche a un nuovo
studio ausiliario allestito a Roma e collegato, mediante un ponte radio, al capoluogo lombardo.
Tutto sembra essere pronto per il lancio di un servizio televisivo nazionale. È questo del resto
Spadaro, la deliziosa attrice cinematografica Nelli Corradi e lo squisito disegnatore e caricaturista Walter Molino
(Articolo redazionale, La radiovisione a Milano, in: Radiocorriere, 24-30 settembre 1939)”».
38
«La “radiotelevisione”, come allora si chiamava, sembrava avviata sulla strada del successo: non appare impossibile
l’auspicio fatto a Mussolini dai dirigenti dell’EIAR di poter disporre, in occasione del secondo decennale, di un bene
accessibile a tutti. In realtà, gli ostacoli che si opponevano a una vera e propria diffusione commerciale della tv erano
ancora molti; non ultimi quelli dovuti all’altissimo costo degli apparecchi riceventi. In ogni caso l’inizio del conflitto
mondiale interruppe l’attività sperimentale», F. MONTELEONE: 1992, 272.
39
Franco Monteleone e Aldo Grasso ci informano sulle vicende che coinvolgono la ripresa delle ricerche sulla
trasmissione delle immagini:
«Nel dopoguerra, precisamente nell’estate del 1949 – cioè nel momento di forte espansione tecnica della Rai – vengono
ripresi gli studi e gli esperimenti che in pochi anni porteranno a mettere a punto il piano tecnico del servizio di
televisione regolare. Una prima trasmissione fu effettuata l’11 settembre a Torino, dove sono stati installati uno studio e
un trasmettitore importato dagli Stati Uniti. L’attività sperimentale si era molto perfezionata rispetto ai tentativi
d’anteguerra e, proseguita con una serie di dimostrazioni comparative fra i vari standard televisivi allora in discussione,
consentì agli organismi tecnici del Ministero delle poste di studiare, sulla base di elementi concreti predisposti anche
dalla direzione della Rai, il problema della scelta di uno standard più idoneo: studi che si conclusero con l’adozione per
l’Italia dello standard europeo a 625 linee. Dopo questa decisione, presa dal Consiglio superiore delle telecomunicazioni
sul parere del CNR, l’attività sperimentale venne intensificata dalla Rai fino a giungere, nella primavera del 1952,
all’installazione a Milano di un secondo trasmettitore funzionante, e di due studi», F. MONTELEONE: 1992, 272, 273.
«L’11 settembre del 1949, sempre per la Mostra della Radio, venne mandato in onda, all’interno del Palazzo dell’Arte,
una serie di trasmissioni realizzate da personale prevalentemente americano. Nel 1951 si svolse il primo Congresso
Nazionale della televisione e, per iniziativa del CNR (Centro Nazionale delle ricerche), venne istituito il Centro Studi
sulla televisione, per discutere sui diversi schemi di trasmissione», A. GRASSO: 2000, 161.
40
«(1952) In occasione dell’apertura della Fiera Campionaria viene messa in onda la cerimonia inaugurale. Dal 12 al 27
aprile la Rai organizza un ciclo di trasmissioni sperimentali dalla stazione di Milano che vengono quotidianamente
proseguite con orario fisso comprendente circa sei ore giornaliere di programmazione. Milano è collegata con gli studi
Torinesi di via Montebello per mezzo di un ponte radio a microonde studiato e realizzato dai laboratori della Magneti
Marelli. Numerosi sono i programmi di prosa, di varietà, di balletto che vengono messi in onda. Il 9 settembre viene
anche trasmesso il primo telegiornale della televisione italiana (…) guidato da Sergio Pugliese (…) Il telegiornale è
ispirato al modello della Settimana Incom con pochi servizi commentati da una voce fuori campo. La redazione è
formata da due giornalisti che svolgono anche compiti di annunciatore, due operatori, un montatore e cinque inviati nei
capoluoghi dell’Italia settentrionale. In un secondo tempo, ad occuparsi della televisione arrivarono a Milano alcune
delle migliori firme della radio dell’epoca, Bruno Ambrosi, Aldo Salvo, Roberto Costa», F. MONTELEONE: 1992, 273.
22
l’obiettivo principale, il fine ultimo che la classe dirigente si pone: unificare l’Italia attraverso
l’immagine.
Sempre nel 1953, in occasione del venticinquesimo anniversario della nascita della radiofonia,
viene predisposto il piano tecnico per la realizzazione degli impianti di ripetizione.
Proprio in questo periodo, l’azienda telefonica sta lavorando per raggiungere un traguardo tutt’altro
che semplice: il cablaggio di tutto lo stivale, per mezzo di cavi coassiali. È questa un’opera di
grande portata infrastrutturale, di grande utilità pubblica, della quale può servirsi proprio la stessa
Rai; attraverso la nuova linea in rame, essa potrebbe infatti collegare ripetitori anche molto lontani
fra loro, evitando così di creare inutili ponti radio e puntando immediatamente all’utenza dei grandi
centri urbani.
In ogni caso, nella successiva convenzione fra Stato e Rai, viene stabilita una data (quasi
inderogabile), entro la quale la seconda si impegna ad avviare il servizio televisivo, anche nel caso
in cui l’opera di cablaggio non fosse stata completata. Tale documento stabilisce inoltre che la
diffusione del segnale deve avvenire in tre fasi distinte, servendo tre aree diverse del paese.41 Se
l’azienda telefonica non fosse riuscita (come poi, effettivamente, non riuscì) a portare a termine la
propria impresa, la Rai avrebbe dovuto dare vita a due programmi diversificati: uno per Milano e
Torino e uno per Roma. Il servizio pubblico radiotelevisivo decide allora di predisporre un piano
alternativo, anticipando l’allestimento degli impianti di ripetizione nel centro Italia e realizzando, in
questo modo, un ponte tra il Nord e il Sud del paese: all’alba del 1954 è già quasi tutto pronto per
partire.42
E infatti, come si diceva, tutto comincia domenica 3 gennaio 1954, alle ore 11: in questo preciso
momento della storia, inizia un fenomeno inarrestabile, una rivoluzione socio-culturale, di cui non
si conoscono ancora gli sviluppi, ma di cui, forse, si può già intuire la portata.
La prima trasmissione non è altro che un collegamento di un inviato che, davanti alla sede milanese
di corso Sempione, commenta le cerimonie di apertura, i festeggiamenti che accompagnano
l’esordio, la nascita ufficiale della tv di Stato. Successivamente, i programmi continuano con uno
“show”, che ha luogo, per la precisione, nello studio TV3, il più grande d’Europa (per lo meno, in
questo periodo).43
41
«Un primo gruppo di trasmettitori (Torino, Milano, Monte Penice e Roma) avrebbe dovuto entrare in funzione entro
18 mesi dalla data in cui era stato fissato lo standard legale, cioè l’ottobre del 1953. Un secondo gruppo (Monte Venda,
Portofino, Castel S. Elmo, Monte Serra, Firenze-Trespiano) avrebbe dovuto essere attivato entro 12 mesi dalla messa in
funzione del canale televisivo dei corrispondenti tratti dei cavi coassiali di collegamento. Un terzo gruppo di
trasmettitori (previsti, in base a un primo studio, nelle località di Gargano-Monte Calvo, Murge-Monte S. Paolo, Reggio
Calabria-Monte Cendri, Palermo-Monte Pellegrino) avrebbe dovuto essere pronto entro 6 mesi dall’entrata in funzione
della rete meridionale dei cavi coassiali», Ib., 291, 292.
42
«(…) il funzionamento autonomo del trasmettitore di Roma rispetto al gruppo del Nord, con la conseguente necessità
di realizzare due programmi diversi, sarebbe stato troppo oneroso. D’altra parte, appariva sempre più evidente, agli
effetti dello sviluppo dell’utenza, l’opportunità di poter servire fin dall’inizio l’area più estesa possibile. Un
funzionamento separato del gruppo Nord e della stazione di Roma avrebbe inoltre tolto al servizio il carattere di rete
nazionale che nell’intenzione della direzione generale della Rai era indispensabile conferire subito alle trasmissioni tv.
La Rai predispose una variante al piano iniziale. Essa prevedeva l’anticipata costruzione di alcuni trasmettitori
appartenenti al secondo gruppo (Portofino, Monte Serra e Firenze-Trespiano) e la loro realizzazione contemporanea con
quelli del primo, nonché la costruzione di un trasmettitore a Monte Peglia, non previsto. Questa catena di trasmettitori,
completata da un posto ripetitore installato in una località dell’appennino ligure, rese possibile il collegamento bilaterale
tra Roma e il Nord (…) L’attuazione della prima fase del piano, così modificato, all’inizio del 1954 era pressoché
completa. Mancava solo il trasmettitore definitivo di Firenze e quello non ancora ultimato del Monte Venda, ma tutti gli
altri erano entrati in funzione il 1° Gennaio 1954, giorno inaugurale del servizio televisivo italiano. La rete serviva
un’area di circa 80.000 kmq con più di 20 milioni di abitanti, pari al 43 per cento del totale della popolazione nazionale.
In pochi mesi venne realizzata una rete televisiva all’altezza delle maggiori esistenti in Europa. Nel corso del 1954 la
rete venne estesa a tutto il Centro del paese; nel 1955 toccò la Campania e l’anno successivo raggiunse la punta
meridionale della Calabria e poco dopo anche la Sicilia», Ib., 274, 275.
43
Oggi, gli studi del capoluogo lombardo ricoprono una funzione subalterna rispetto a quelli della capitale; tuttavia,
negli anni ’50, era Milano il centro di produzione principale dell’azienda pubblica. Come scrive Aldo Grasso (:2000,
162): «Il centro produzione Rai di Milano, costruito tra il 1940 e il 1943, costituiva un punto nevralgico per la
produzione della comunicazione via etere, i suoi studi fornivano alla televisione italiana l’85% delle trasmissioni e già
impiegavano 400 dipendenti fissi (…) venne inoltre costruito un ulteriore studio presso la fiera».
23
Il mezzo e i suoi programmi sono certamente delle realtà inedite, ma, nonostante ciò, riescono ad
attirare su di sé un grande interesse; è questa la ragione per cui la Rai può contare fin dall’inizio su
un enorme bacino di utenza, su una grande massa di “aficionados”. Tuttavia, esistono ancora dei
grossi ostacoli a una vera e propria diffusione di massa del mezzo; per esempio il costo degli
apparecchi, non ancora alla portata delle tasche di tutti (benché le tariffe siano già calate rispetto
all’immediato dopoguerra44). È proprio questo lo “Schwerpunkt” principale: per quale motivo,
nonostante l’abbassamento dei “prezzi al dettaglio”, sono ancora pochi coloro che possono
permettersi di avere un televisore in salotto?
Perché la maggioranza degli italiani, nonostante la rapida crescita economica, futura via di fuga da
un lacerante stato di povertà e unica premessa possibile di uno sviluppo finanziario-industriale
concreto, vive ancora in condizioni di sussistenza, impiegata in settori (come per esempio
l’agricoltura) non ancora modernizzati, o meglio, non ancora modernizzati al punto tale da offrire
sufficienti fonti di guadagno.45
Ma la società è comunque in crescita e, in alcuni fenomeni, si possono leggere già i macroscopici
cambiamenti a cui sarà sottoposta in seguito: l’emigrazione verso i grandi centri urbani, l’aumento
della scolarizzazione, l’industrializzazione, la sedimentazione di nuovi valori all’interno della
cultura popolare… tutti elementi che contribuiranno in modo indiretto al decollo della masscomunicazione e alla penetrazione capillare di radio, tv e strumenti per la riproduzione della
musica.46
Il numero degli abbonamenti è dunque, fin dall’inizio, abbastanza elevato (nonostante le difficoltà
di cui sopra) e destinato a subire un ulteriore impennata nel corso degli anni.47 Tuttavia emettere un
giudizio soltanto sulla base di questo dato, sarebbe un grave errore, poiché esso non è sufficiente a
44
«Nella seconda metà degli anni ’50, la diminuzione del prezzo degli apparecchi riceventi è determinata infatti dalla
concentrazione industriale che unifica il 75 per cento della produzione nelle mani delle maggiori ditte del momento (…)
sei delle otto aziende più importanti hanno i loro stabilimenti in provincia di Milano (Magneti Marelli, CGE, Philips,
FIMI, Geloso, Siemens), mentre una è in provincia di Torino (Magnadyne) e una in provincia di Roma (Autovox). Ci
troviamo di fronte a una produzione e a un consumo squilibrati, direttamente investiti da tutte le contraddizioni dello
sviluppo italiano di quegli anni, all’interno del quale sono presenti il nord industriale e il Sud consumatore; grandi
concentrazioni e piccole imprese tecnologicamante arretrate; sviluppo e sottosviluppo», Ib., 277.
45
«La maggior parte degli italiani, fra il 1945 e il 1955, si guadagnava da vivere ancora nei settori tradizionali: piccole
aziende tecnologicamente arretrate e con uno sfruttamento intensivo, pubblica amministrazione, negozi e piccoli
esercizi commerciali moltiplicatisi a dismisura. Il tenore di vita restava assai basso e l’agricoltura continuava ad essere
il più vasto settore d’occupazione», Ib., 269.
46
«L’emigrazione, la nuova dinamica impressa al mercato del lavoro, i nuovi consumi, la più elevata scolarizzazione, i
fenomeni di urbanizzazione, le grandi spinte produttivistiche, cioè tutti i fenomeno che sono all’origine del cosiddetto
“miracolo” economico italiano non potevano non mettere in crisi il modello sociale sul quale si era fondato il primato
della radio. La trasformazione dei vincoli familiari, l’irruzione di nuovi valori ideologici, la progressiva laicizzazione
della società stavano preparando il terreno al nuovo modello televisivo…», Ib., 269.
47
«Dal punto di vista dell’utenza privata alla fine del 1954 la tv conta poco più di 88.118 abbonati, ma nel corso del
1955 tale numero si raddoppia; al termine del 1956 il numero degli utenti privati raggiunge i 306 mila abbonamenti; tra
il 1956 e il 1957 le utenze salgono fino a 600 mila», Ib., 277.
Per avere uno sguardo sinottico su ciò che avviene realmente nel mercato degli abbonamenti tv, riportiamo qui di
seguito una tabella che racchiude in se stessa dei dati che vanno dal 1954 al 1963:
Anni
Tot. Abbon.
Incremento
1954
1955
1956
1957
1958
1959
1960
1961
1962
1963
88.118
179.753
366.151
673.080
1.096.185
1.572.572
2.123.545
2.761.738
3.457.262
4.284.889
102,90
104,79
83,82
62,86
43,46
35,04
30,05
25,18
23,94
Fonte: Ib., 292.
24
descrivere il successo della televisione in tutta la sua profondità. Infatti, nonostante la non ancora
capillare diffusione degli apparecchi, tutti gli italiani hanno un contatto frequente con il mezzo, un
contatto che deriva da un’abitudine di consumo non domestica o familiare, bensì comunitaria.48 La
tv è dunque al centro di un interesse ampiamente diffuso, di un interesse di “gruppo” (per così dire)
e, in questo senso, essa funge da elemento aggregante, da agente socializzante. Perciò, spinti
proprio da tale interesse, gli spettatori si ritrovano nei locali pubblici (bar, taverne, osterie…) per
assistere ai programmi di grido, alle trasmissioni di maggiore popolarità.
La Rai, intanto, sulla base di questo seguito, può iniziare a svilupparsi organicamente, può cioè da
un lato organizzare in senso aziendalista il suo apparato di gestione interna (mossa che si rivelerà
vincente, soprattutto in termini di politica di costruzione dell’immagine), dall’altro dotare i suoi
studi di strutture tecniche all’altezza degli standard delle altre emittenti europee.49 Detto in altri
termini, la concessionaria pubblica per i servizi radiotelevisivi può consolidare, poco a poco, il
proprio Hintergrund economico, tecnologico e professionale.
Esistono però sicuramente elementi imprevisti con cui la dirigenza televisiva si trova a fare i conti:
come succede ogni volta che “irrompe sulla scena” un fatto nuovo, di qualunque tipo esso sia, gli
entusiasmi iniziali si accompagnano sempre alle polemiche. Poco tempo dopo l’esordio delle
trasmissioni regolari, si “accende” infatti un dibattito, che si protrae per diversi anni, anzi si
potrebbe addirittura affermare che esso non ha mai termine e prosegue fino ai giorni nostri:
l’attrattiva ipnotica (di derivazione cinematografica) delle immagini e la penetrazione pervasiva
degli apparecchi, pongono la questione del rapporto mezzo-spettatore in termini quanto mai
drammatici.
Le élites culturali cominciano a interrogarsi così sulle funzioni, sugli influssi, sul potere che il
mezzo ha, potrebbe e dovrebbe avere ed è così che da più parti comincia a essere (per differenti
ordini di motivi) demonizzato. Fausto Colombo50 riconosce ben tre posizioni in merito; sebbene tale
suddivisione sia estremamente esemplificata, estremamente riduttiva (come Colombo stesso
ammette), essa rende comunque giustizia in modo abbastanza completo delle varie forze in
campo.51
a. Una prima macro-fazione è costituita da coloro che si pongono, per diverse ragioni, contro
la tv. Si tratta di un gruppo composto, fondamentalmente, dagli intellettuali della sinistra
post-bellica, da un lato debitrice delle dottrine della “Frankfurter Schule” (le cui idee
iniziano a diffondersi nel nostro paese proprio alla fine degli anni ’50), dall’altro
caratterizzata da una formazione fondamentalmente “anti-tecnica”.
b. Una seconda fazione è costituita dalla cultura cattolica e dalla sua sedicente espressione
politica, la Democrazia Cristiana. Lungi dal demonizzare il medium, i cattolici si pongono in
una posizione che potrebbe essere definita “pro tv”. Tali soggetti infatti vorrebbero fare
della televisione un mezzo (se non addirittura “il” mezzo) privilegiato per la diffusione dei
grandi ideali di modernità e sviluppo, nel rispetto della morale e dei valori tradizionali. Per
questa ragione, e solo in forza di essa, la tv deve essere anzitutto un veicolo di cultura e di
conoscenze, cioè una sorta di scuola parallela: è infatti proprio la scuola il luogo in cui, per
48
«In questo periodo si assiste al fenomeno della tv nei bar e nei locali pubblici, fenomeno che contribuisce ad allargare
in modo elevato gli spettatori dei singoli spettacoli televisivi (…) tale sviluppo spiega, in buona parte, come la
frequenza fosse estremamente più alta delle singole teleutenze», Ib., 277.
49
«(…) la situazione economica e finanziaria della Rai si presentava più che mai solida. Il patrimonio immobiliare era
in continuo incremento (tra l’altro, il centro di produzione tv di Roma era stato quasi completato), le attrezzature
tecniche erano tra le più moderne d’Europa. Il personale ammontava a 5.688 unità. Il bilancio 1956 chiudeva con un
saldo attivo ufficiale di 1 miliardo e 700 milioni. Gli introiti erano costituiti per 13 miliardi e 600 milioni da
abbonamenti radio e per 3 miliardi e 900 milioni da abbonamenti tv. Altri introiti erano rappresentati dalla pubblicità (4
miliardi e 700 milioni) e da introiti diversi e sopravvenienze attive per altri 2 miliardi e 400 milioni. Le spese
consistevano in 9 miliardi e 300 milioni (di cui 4 circa per la radio; 2,6 per la televisione; 1,1 per i servizi giornalistici).
Le spese tecniche ammontavano a 5 miliardi e 800 milioni e quelle amministrative e commerciali a oltre 7 miliardi»,
Ib., 276.
50
Op. Cit. (:1998, 226/229).
51
Rimandiamo poi alla lettura di un altro testo, citato dallo stesso Colombo, come chiarificatore dell’argomento in
questione: F. PINTO, Intellettuali e tv negli anni ’50, Savelli, Roma, 1977.
25
tradizione, vengono forniti i maggiori impulsi allo sviluppo sociale e i principali paradigmi
assiologici del vivere comune. Come la scuola, anche la “nuova scatola dell’immaginario”
viene investita di una missione sociale.
Tale logica, descrivibile attraverso una figura che oscilla tra grillo e corvo, domina la Rai
per lungo tempo, fino all’alba degli anni ’80.
c. La terza fazione è costituita invece dagli intellettuali di formazione laica, che inseguono un
obiettivo molto più pretenzioso: quello di “creare una cultura del mezzo”. Anche questi in
sostanza sono soggetti che hanno un atteggiamento “pro”, favorevole alla televisione.
Ma che cosa significa, in concreto, creare una cultura del mezzo (visto che il significato di
tale espressione non è immediatamente evidente)? Vuol dire trasformare la tv in una sorta di
“università popolare”, in una sorta di strumento per la formazione del “gusto”. Questa “TvAnschauung” rientra a pieno titolo in un’ottica pedagogizzante e la figura che la rappresenta
meglio ci sembra essere quella del grillo.
C’è evidentemente un punto che accomuna queste tre posizioni: il fatto che fanno tutte riferimento a
delle strategie di tipo pedagogizzante. Anche nel caso a. in effetti, la ragione per cui la tv viene
demonizzata è la sua assenza di legami con un’ideologia di riferimento (sia essa di destra o di
sinistra), il suo essere emblema e paradigma di una “mass-comunicazione”, intesa come
manipolazione delle coscienze (è questa una vera e propria logica del corvo).52 Fra queste tre
tendenze, alla fine, prevarrà soltanto la seconda, per cui la Rai (anche in quanto azienda pubblica)
verrà posta alle dirette dipendenze del governo, retto da una coalizione centrista e nella fattispecie
democristiana, cioè sedicente cattolica.
La cultura marxista dal canto suo sceglierà di utilizzare altre strade, altre forme di espressione del
pensiero come l’editoria e il cinema, modelli comunicativi percepiti, probabilmente, meno
manipolatori e più conformi a una “pubblica professione” del proprio credo ideologico.53
La tv dunque, nel momento della sua nascita, è retta da una logica pedagogico-grillesca (a tratti
corvesca), e si caratterizza per essere uno “strumento formativo”, nelle mani della classe dirigente
(ovvero dell’area politica della D.C.).
Ma in cosa consiste questa “formazione” che la televisione dovrebbe impartire?
Il contenuto, l’obiettivo ultimo dell’attività educativa della tv è quello di preparare culturalmente e
lanciare definitivamente tutta la nazione verso una concreta modernizzazione, verso uno sviluppo
socio-economico-culturale, quanto mai repentino. È un proposito di notevole peso e consistenza
ideale, che, secondo l’ideologia democristiana, doveva essere realizzato all’ombra dei valori
tradizionali, sotto l’egida cioè della morale cristiana.
Ma come può essere declinato concretamente un obiettivo così nobile, vale a dire che tipo di
prodotto deve offrire la tv ai suoi spettatori?
Un pubblico/società, affinché possa essere preparato a uno sviluppo degno di tale nome, deve essere
reso omogeneo; omogeneo in quanto a cultura, omogeneo in quanto a consumi, omogeneo in quanto
a sistema assiologico. Lo scopo è dunque quello di creare un comune Hintergrund, un comune back
ground che possa essere alla base di una nuova “cittadinanza”, di una nuova società, di una società
cioè che sia preparata a una modernizzazione dai tratti idilliaci, a una modernizzazione depurata da
tutti i suoi connotati negativi, ovvero una modernizzazione libera da quegli aspetti liberalcapitalistici, tipici della cultura individualista americana.54
52
«(…) la differenza fondamentale tra l’atteggiamento cattolico e quello della sinistra mi pare consistere essenzialmente
nella differente lettura dei media come veicoli: la televisione, a differenza del cinema (ma anche del fumetto) viene
esclusa dai marxisti come strumento di formazione “ideologizzata” (nel senso neutro di “inserita in una visione del
mondo”), mentre le sue potenzialità in questo senso vengono colte dal mondo cattolico in modo straordinariamente
precoce. Quanto alla posizione “laica”, mi sembra di ravvisare in essa il sogno del grillo, dove l’idea di
modernizzazione industriale si sostituisce radicalmente a quella di costruzione della cittadinanza. Rimane tuttavia l’idea
del medium (qua la tv, là la letteratura) come strumento formativo comune e sostanzialmente universalistico», F.
COLOMBO: 1998, 228.
53
Su questi punto e sui successivi, rimandiamo sempre alla lettura di: F. MONTELEONE: 1992, 275/280.
54
Questa è un’opinione ormai largamente condivisa da coloro che, per lavoro, si sono preoccupati di osservare la storia
della televisione in Italia; come scrive sempre Franco Monteleone, infatti: «La televisione nelle mani dei governi
26
Ma se la finalità primaria della tv è quella di fornire un Hintergrund, un back ground, essa deve
essere innanzitutto un veicolo di cultura, un veicolo di contenuti “alti”, un veicolo di conoscenze
tali da poter arricchire il patrimonio personale di ogni spettatore. Ciò è tanto più vero se si pensa
che, nell’Italia post-bellica, il tasso di analfabetismo è ancora altissimo55 e il fatto che il medium
venga investito del difficile, difficilissimo ruolo di insegnante è, nella mente della classe dirigente,
una risposta concreta a questa “piaga”: non c’è alcun dubbio infatti, che uno dei meriti indiscutibili
della “scatola magica” sia stato proprio quello di unificare linguisticamente lo stivale. Prima ancora
di essere “la” “fabbrica dei sogni”, “la” “fabbrica dell’immaginario”, la tv è anzitutto “maestra”.56
Ma un’operazione pedagogica può incarnarsi in forme differenti, può esprimersi attraverso diverse
modalità comunicative; è così che ogni singolo aspetto della programmazione, ogni piccola
porzione di palinsesto viene intriso, “imbevuto” di finalità moral-educative. Forte di questi nobili
intenti, la televisione può lanciarsi nell’arena mass-comunicativa, sperimentando senza timore i più
svariati formati, da quelli più propriamente “istruttivi” a quelli di “intrattenimento”.
Ma da dove provengono le idee? Da dove provengono gli spunti? Da dove proviene il materiale
messo in onda?
La tv è un medium relativamente nuovo, quand’anche le prime forme di proto-televisione risalgano
già alla fine degli anni ’20; per questa ragione, essa non ha ancora sviluppato delle caratteristiche
proprie, delle forme comunicative che le siano peculiari57: essa dona semplicemente la novità
tecnica dell’immagine a linguaggi cronologicamente precedenti, a linguaggi “totalmente altri”.
Nascono così formati come lo “sceneggiato” (prodotto assimilabile alla più moderna “fiction”), di
chiara matrice letteraria, ispirato ai grandi classici della letteratura. Grazie a esso compaiono sul
piccolo schermo le storie del Manzoni, di Fogazzaro, di Verga… talvolta realizzate con la
collaborazione di grandi professionisti, di coloro che sarebbero diventati, successivamente, dei
registi cinematografici di fama internazionale.58
cattolico-moderati (con lo sguardo rivolto a sinistra, secondo la nota formula di Alcide De Gasperi), ha avuto una
funzione importantissima di attento e quotidiano mediatore di un cambiamento che fu scandito secondo ritmi tumultuosi
e spesso contraddittori. Più che agente di mutamento essa è stata la garanzia che il mutamento avvenisse senza troppi
traumi (…) in quel progetto politico di governo del sistema televisivo vi era una solida intenzione di contribuire alla
crescita culturale del paese e di rafforzare il processo di modernizzazione e stabilizzazione del giovane esperimento di
democrazia repubblicana», Ib., 279, 280.
55
Secondo le nostre fonti, il tasso di analfabetismo, nel 1951, è pari al 12,9% della popolazione, mentre, nel 1961,
all’8,3% (Ib., 308). Si tratta però di dati che riguardano la totalità del paese; è facile supporre che ci fossero profonde
differenze nelle diverse aree geografiche; per esempio nel mezzogiorno o nelle zone rurali in genere (probabilmente
anche per l’assenza di strutture scolastiche), si può credere che tale tasso fosse più alto della media.
56
Rispetto a queste due funzioni che, la televisione ha ricoperto nel corso della sua storia, ci sembrano molto eloquenti
le parole di Franco Monteleone: «L’unificazione della lingua avviene parallelamente alla crescita delle antenne
televisive e determina la sconfitta dei dialetti come strumenti di separazione (…) per quanto riguarda i comportamenti,
le abitudini e gli stili di vita, sono convinto che la televisione sia stata, piuttosto, uno specchio per la maggioranza degli
italiani, che in essa hanno visto realizzati i loro sogni e rispettate le proprie convinzioni», Ib., 279.
57
Si tratta di un concetto sottolineato a più riprese anche nelle storie della tv: «(…) la tv delle origini manca di identità
mediologica, è ancora scarsamente consapevole delle proprie autonome potenzialità (…) È naturale quindi che essa si
rivolga ad altri riferimenti culturali, “saccheggiando” generi e repertori della radio, del teatro, del cinema, manifestando
in ogni caso, in tutta la sua produzione, un solido ed esplicito aggancio con le radici umanistiche della cultura e del
pensiero nazionale», Ib., 302, 303.
58
Tanto per fare degli esempi: «(…) dalla sede di Milano venne prodotto, nel 1957, Piccolo mondo antico di Antonio
Fogazzaro, il primo romanzo italiano portato in televisione senza alcuna particolare rielaborazione, introdotto da letture
dirette del testo, per la regia di Silverio Blasi (…) Sandro Bolchi, uno dei padri dello sceneggiato televisivo italiano,
diresse nel 1963 Demetrio Pianelli di Emilio De Marchi, rievocando una Milano ottocentesca, agli albori della sua
rivoluzione industriale. E fu proprio lo stesso Bolchi che per la prima volta tradusse televisivamente, coadiuvato per la
sceneggiatura da Riccardo Bacchelli, I promessi sposi: otto puntate sulla Rete 1 a partire dal 1° gennaio 1967, in prima
serata. Nel 1968 la sede di Milano produsse Questione di vita, di Francesca Sanvitale, regia di Silverio Blasi, girato con
l’elettronic-cam (…) con la quale poco tempo prima, Gianfranco Bettetini aveva fatto i primi esperimenti, riprendendo,
proprio a Milano, Ma non è una cosa seria di Pirandello (…) Nel 1974 Raffaele Meloni tornò al romanzo ottocentesco
con Malombra di Fogazzaro, così come Anton Giulio Majano, l’anno dopo, diresse il Marco Visconti di Tommaso
Grossi», A. GRASSO: 2000, 163.
27
Quella di riferirsi a modelli letterari, è una tendenza che prosegue per molto tempo (fino agli anni
’70 e oltre) e, grazie a essa, molte opere cardine della nostra cultura e tradizione vengono fatte
conoscere alla massa, raggiungendo la (quasi) dovuta fama e popolarità.
Forse è anche questo un altro dei grandi meriti della tv delle origini.
Tuttavia, il rimando al romanzesco o al letterario in genere è molto spesso non una semplice
ispirazione, una “vampirizzazione” di una trama, riproposta attraverso una forma di linguaggio
nuova, ma è al contrario una vera e propria riproposizione delle opere in toto, una riproposizione in
presa diretta, effettuata dal palcoscenico: il teatro diventa così l’appuntamento “clou” del venerdì
sera.59
Come la “paleo-fiction”, anche i cosiddetti “programmi di intrattenimento” si riallacciano, in
qualche modo, alla tradizione dello spettacolo pre-televisivo; in questo caso, il modello archetipico
di riferimento è la radio. Quello che, in tv, diventerà uno dei formati di maggior successo, cioè il
quiz, nasce infatti negli anni ’30 proprio in territorio radiofonico, dove diventa popolare grazie a I
quattro moschettieri60 di Nizza e Morbelli61.
Questo genere ottiene il favore della classe dirigente perché è quello che meglio si presta a
coniugare l’educazione con il divertimento: le domande e le risposte dei concorrenti contribuiscono
a completare e a consolidare quell’ “Hintergrund culturale”, la cui costruzione era affidata
primieramente agli appuntamenti pedagogici in senso stretto.62
Un'altra caratteristica del quiz (per lo meno nella modalità secondo cui viene “declinato” in Italia) è
quella per cui esso non è mai realizzato in forma “grezza” se così si può dire, cioè non è mai solo ed
esclusivamente una gara. La gara è infatti inserita in un “media event”, in un contesto spettacolare
più ampio: le performances dei concorrenti si inscrivono in una più estesa cornice fatta di musica,
cabaret, risate…
I programmi di intrattenimento (collocati, per lo più, al sabato sera) possono, in questo senso, essere
definiti “prodotti mediatici compositi”, nella misura in cui presentano, al proprio interno, generi
differenti, ispirati a loro volta a forme di linguaggio diverse: avanspettacolo, cinema seriale
popolare…
In ogni caso, ciò che va qui notato è che anche gli aspetti più “frivoli” si rifanno sempre a qualcosa
che esiste già, a qualcosa che è già stato ampiamente “fagocitato e digerito” in altri luoghi e
situazioni.
Molto spesso, si tratta poi di format importati addirittura dagli Stati Uniti e riadattati alla sensibilità
e ai consumi del nostro paese. È quello che accade con Lascia o raddoppia? (senza dubbio, uno dei
quiz di maggiore successo) condotto da Mike Bongiorno, versione italiana del The $ 64,000
Question. Nonostante la stretta dipendenza dal modello originale, le differenze rispetto a esso sono
abbastanza profonde: nell’ edizione americana, il programma era un quiz tout court, della durata di
mezz’ora, concentrato esclusivamente sulla performance del concorrente, e assurgeva alla funzione
di specchio di quegli ideali di “arrivismo”, “individualismo”, “competizione” e “successo
personale”, tipici della società americana; nel riadattamento italiano, la trasmissione diventa un
varietà dove prevale la mescolanza dei generi e dove l’elemento spettacolare (se così può essere
59
Anche qui vogliamo fornire degli esempi: «È un teatro televisivo ricostruito prevalentemente in studio – rare le
riprese in diretta – proposto nella tradizionale collocazione del venerdì (giorno di espiazione) e replicato la domenica
pomeriggio. Il repertorio è tradizionale ma il successo non manca. Dopo L’osteria della posta, nel 1954 si va da
Candida di G.B. Shaw a Così è se vi pare di Pirandello, da Romeo e Giulietta di Sheakespeare a Spettri di Ibsen ecc.
Negli anni successivi le trasmissioni di Teatro in tv reggono il ruolo di punto di forza della programmazione televisiva
con un cartellone solido, vasto, intelligente», F. MONTELEONE: 1992, 304.
60
Si tratta di una trasmissione particolarmente degna di nota in quanto, fra le altre cose, origina il primo fenomeno di
“merchandising”, realizzato per conto della Buitoni-Perugina.
61
Si veda in proposito il testo di Colombo (: 1996, 180/189).
62
Come scrive Fausto Colombo: «(…) la vocazione pedagogizzante mantenne la sua continuità con la giovane
tradizione radiofonica, modellando una cultura che da un lato doveva essere un genere come tanti, e dall’altro doveva
occupare un posto preminente (…) Persino la fortuna del quiz televisivo (a partire dalla trasmissione che viene
considerata la sua principale matrice, Lascia o raddoppia? con Mike Bongiorno) deve forse la sua longevità e la sua
capacità di successo alla mediazione fra l’intrattenimento e la vocazione pedagogica dei primi anni, che metteva in
scena uno spettacolo dell’erudizione», Ib., 224.
28
definito) viene moltiplicato all’ennesima potenza. Scompaiono i valori di matrice statunitense,
soppiantati da un’ “assiologia popolare” tipica della società post-contadina: “speranza nella
fortuna”, “arte di arrangiarsi”, “esibizionismo”…63
La trasmissione, in forza della popolarità e del successo ottenuti, porta alle estreme conseguenze
quelle modalità di consumo che caratterizzano la fruizione del mezzo durante gli anni ’50 (ovvero
una fruizione “comunitaria”).64 Lascia o raddoppia? diventa in breve tempo un appuntamento
imperdibile, un vero e proprio fenomeno di costume, un sinonimo del giorno della settimana in cui
viene mandato in onda: tutti gli italiani, il giovedì sera, alle ore 21, si ritrovano al bar, in parrocchia,
in osteria o in qualunque altro locale pubblico per guardare assieme questo popolarissimo
programma.65
Ma per quale ragione il quiz di Bongiorno ottiene così tanto successo?
Secondo Franco Monteleone66 a causa della partecipazione del pubblico, che esce dal quotidiano
anonimato per comparire sul teleschermo, quasi in un atto di eroismo, celebrato dalla nuova
eloquenza narrativa delle immagini. In questo frangente della storia, si avvia dunque un processo,
inizia un fenomeno, che condizionerà la tv degli anni ’90 prima e del nuovo millennio poi:
l’ingresso negli studi e la partecipazione attiva del telespettatore.67 In questo modo, le periferie,
quelle realtà rimaste per decenni nascoste agli occhi dei riflettori, vengono “liberate dalle tenebre
dell’ignoto” e mostrate a tutto il paese, a tutto lo stivale, senza barriere, confini o riduzioni di sorta.
Anche questo è, in fondo, un passo importante per la costruzione dell’identità nazionale, obiettivo
che la classe dirigente tenta di raggiungere ogni giorno a fatica.68
Un altro spettacolo, che ha come scopo proprio quello di dare voce alle comunità locali, è
Campanile Sera, condotto sempre da Mike Bongiorno. La trasmissione è un gioco a premi che ruota
attorno a una sfida fra comuni differenti, rappresentati dalle squadre che si contendono la posta in
palio. L’aspetto interessante è che, chiamando a partecipare diversi “campanili”, viene data
visibilità all’Italia “reale”, cioè a un’Italia caratterizzata dalla frammentazione, dall’eterogeneità,
dalle differenze, oltre che geografiche, anche sociali, culturali, linguistiche ed economiche. La
pretesa del programma di Bongiorno è perciò quella di raccogliere in unità tali differenze, di
rimettere assieme tali frammenti sotto l’egida di un’armonia superiore, come in un puzzle, dove il
singolo pezzo ha senso solo in relazione al tutto. È questa, probabilmente, una delle ragioni
principali dell’esistenza stessa di Campanile sera: contribuire in maniera forte alla costruzione di
un’idea di appartenenza comune.69
63
F. MONTELEONE: 1992, 332, 333.
Come scrive Monteleone: «(…) al suo apparire, la tv è uno strumento di intrattenimento comunitario: la si guarda al
bar, in parrocchia, nella sede del club, nelle sezioni di partito (…) Si consuma la televisione insieme ad altre persone,
prevalentemente al di fuori del nucleo familiare, con le quali si condivide una visione del mondo e una organizzazione
del tempo libero. Anche se di breve durata, questa prima fase del consumo televisivo è importante: essa rafforza il
sentimento di gruppo, alimenta la discussione, promuove la “conversazione” in un paese che conosce poco questo
strumento fondamentale della convivenza», Ib., 302.
65
Aldo Grasso scrive addirittura che: «(…) Lascia o raddoppia? (…) riuscì a creare un’attesa collettiva e un
immaginario che si insinuò fra le pieghe della società italiana cambiandone la fisionomia», A. GRASSO: 2000: 165.
66
Scrive infatti Monteleone: «Lascia o raddoppia? è per gli italiani il momento della scoperta della tv e, al tempo
stesso, il momento in cui la tv scopre l’Italia, legittimandosi come strumento privilegiato dello status culturale medio
(…) la chiave (del) successo era proprio la gente, senza distinzione di ceto o di classe. In particolare la provincia si
affacciava con prepotenza sui teleschermi e, nello stesso tempo, la presenza dell’apparecchio televisivo nei luoghi più
lontani produceva reazioni di confessione pubblica, di recupero storico, di solidarietà manifestate, di sfruttamento di
opportunità inconsapevoli (…) La televisione svelava una patria sconosciuta, fortemente simbolica, agli occhi del suo
stesso popolo, offrendo immagini, luoghi, situazioni che rompevano con l’esperienza quotidiana e aprivano orizzonti
fino allora rimasti chiusi o quantomeno circoscritti», F. MONTELEONE: 1992, 322, 323.
67
Per un’analisi approfondita e dettagliata di come, nel corso della storia del mezzo, il pubblico viene rappresentato
nelle trasmissioni rimandiamo a: M. P. POZZATO, Dal gentile pubblico all’auditel, VQPR, Eri Ediz. Rai, Torino, 1992.
68
Per una storia approfondita della trasmissione Lascia o raddoppia? rimandiamo a: A. GRASSO, Storia della
televisione italiana, Garzanti, Milano, 2000, 43/49.
69
«In questa fortunata trasmissione la televisione rivelò il suo ruolo unificatore della realtà sociale del paese che altri
strumenti dell’industria culturale, e la stessa scuola, non erano riusciti a realizzare; essa ebbe inoltre la funzione, non
64
29
È evidente, in entrambi i casi (Lascia o raddoppia? e Campanile Sera), quanto fosse forte l’istanza
pedagogizzante di matrice corvesco-grillesca, pur trattandosi di intrattenimento: da un lato abbiamo
infatti la diffusione di contenuti attraverso il divertimento del quiz, dall’altro la costruzione
dell’identità attraverso la sfida fra le realtà locali.
Tuttavia, qualcosa di estremamente importante sfugge alla classe dirigente, preoccupata di depurare
il mito del progresso dalla sua matrice ideale liberistico-capitalista: il fatto che programmi come
quelli in questione, così come il varietà in genere, contribuiscano in modo forte all’
“americanizzazione” della nostra cultura. Come la Coca Cola, gli elettrodomestici, i blue jeans, i
chewing gum, la televisione, nonostante l’opera epuratrice della politica, si rivela uno dei massimi
centri di diffusione del “mito” oltreoceanico, del sogno di una modernità/ricchezza a portata di
mano e facilmente raggiungibile70: nell’obiettivo di voler controllare ideologicamente tutte le forme
di messaggio, qualcosa sfugge a chi possiede il timone della tv.
Ma torniamo a noi.
Neanche la pubblicità può sottrarsi a un’ottica strettamente pedagogizzante e a un controllo rigido
dei contenuti; prova ne è la creazione della SACIS, istituzione avente il compito di vigilare sulla
moralità dei contenuti, attraverso precise normative interne.71 Da tali normative sarebbe scaturita la
forma tipica del messaggio promozionale in Italia: Carosello (a partire dal 3 febbraio 1957),
versione nazionale dell’advertising americano.
La pubblicità, di fronte agli occhi della classe dirigente, rappresenta una grande e irripetibile
possibilità per spingere il paese verso il progresso e la modernizzazione. Tuttavia, come nel caso
dell’intrattenimento, tale modernizzazione e tale progresso non devono ledere un certo sistema di
valori tradizionali, riconosciuto come buono e come possibile base di una civile e pacifica vita
comunitaria. In questo senso, viene realizzato un prodotto che, non solo fa riferimento a un sistema
assiologico cristiano-cattolico, ma che ha caratteristiche espressive proprie, tipicamente italiane,
riallacciandosi a una lunga tradizione di spettacolo leggero. Vengono così realizzati degli “spot”,
come li chiameremmo oggi, che hanno nella forma del “racconto breve” la loro “quidditas”: una
gag simpatica o una scenetta (più o meno corta) precede sempre il nome dell’oggetto pubblicizzato,
che compare sempre alla fine, quando lo sketch si è già concluso.72 La scelta di impostare in questo
modo il messaggio, lungi dall’essere limitativa e castrante, è invece una grande possibilità
espressiva, con la quale si sono misurati tutti i grandi personaggi del mondo dello spettacolo
meno importante, di integrare classi sociali diverse nel processo di formazione di una moderna società industriale», F.
MONTELEONE: 1992: 324.
70
Ragone sottolinea bene come l’americanizzazione dei consumi, realizzatasi nella seconda metà degli anni settanta,
abbia delle radici molto più lontane nel tempo, rintracciabili proprio nei primi anni della tv: «L’american way che si
afferma in questi anni non è il vero fine del consumismo, ma solo il mezzo per un’operazione culturale assai più sottile,
determinante, che è appunto quella di creare un nuovo conformismo, una omogeneizzazione di aspirazioni e di
comportamenti attraverso l’accentuazione delle specificità culturali di individui, gruppi, e categorie sociali. Il vero
consumismo inizierà infatti solo nel periodo successivo, verso la metà degli anni ’70, ma per potersi affermare e
diffondere, era appunto necessario che si creasse un terreno comune e che, quindi si azzerassero, per quanto possibile, le
differenti fisionomie culturali dei suoi protagonisti», C. RAGONE, Consumatori con stile, in: AA. VV., Tra sogno e
bisogno, Milano, 1986, 239.
Come, del resto, sottolinea anche Franco Monteleone: «La televisione rappresentò il veicolo primario attraverso il quale
la penetrazione statunitense si impose nel nuovo processo di socializzazione delle masse che l’Italia stava
sperimentando…», F. MONTELEONE: 1992, 320.
71
«La SACIS agì costruendo un sistema di norme che da un lato riguardavano il formato tecnico dei messaggi,
dall’altro costituivano una sorta di codice etico imposto dall’istituzione, e che teneva conto sia di una difesa dell’utente,
sia dei valori ritenuti fondanti nella società di quegli anni», F. COLOMBO: 1998, 238.
72
«Dal 3 febbraio 1957, fino all’immotivata e improvvisa abolizione del programma dopo la riforma del 1975, la
formula pubblicitaria del “racconto breve” – due minuti di spettacolo cui seguiva un rapido advertising – diventa un
appuntamento di grandissimo richiamo popolare. Ogni sera, dopo il telegiornale, al suono di trombe e mandolini, dietro
un sipario inventato dallo scenografo Giulio Coltellacci, si susseguono le piazze e le fontane più celebri d’Italia
disegnate dalla matita di Artioli: è la preparazione allo “spettacolo” per eccellenza che ha accompagnato le serate di
un’intera generazione di telespettatori», F. MONTELEONE: 1992, 318.
30
(peraltro ottenendo ottimi risultati).73 È attraverso questa specifica modalità linguistica che viene
declinato l’obiettivo primario della classe dirigente, poiché la reclamizzazione del prodotto,
emblema in se stesso di modernità e progresso, viene incarnata nelle forme espressive di una già
nota tradizione artistica, vessillo della dottrina morale sposata dalla classe politica.74
Accanto ai programmi “leggeri” con intento pedagogico, vi sono poi le trasmissioni pedagogiche
“tout court”, che non hanno altro obiettivo se non quello di diffondere contenuti, di elevare il grado
culturale della popolazione, soprattutto di quelle fasce rimaste escluse (per ragioni di diversa natura)
dalla dispensa dei benefici del sistema scolastico. Nel 1958, nasce così Telescuola (trasmissione che
proseguirà fino al 1966), vero e proprio corso completo di istruzione secondaria per l’avviamento
professionale75; sulla stessa lunghezza d’onda si colloca Non è mai troppo tardi di Alberto Manzi,
che si rivolge invece a quanti non possiedono neanche la licenza elementare, cioè agli analfabeti76.
Attraverso questo genere di trasmissioni, la tv italiana contribuisce davvero alla diffusione di saperi,
assolve davvero a quel compito pedagogico-educativo che aveva contraddistinto la sua nascita.
Grazie ad appuntamenti come Telescuola e Non è mai troppo tardi, ma anche grazie ai programmi
di intrattenimento (seppur in misura minore), viene fornito davvero quell’Hintergrund culturale
necessario per porre l’opera di modernizzazione su più solide basi. Una società con troppe e troppo
grandi differenze sociali e culturali, non può infatti essere ritenuta “progredita”, non può definirsi,
per l’appunto, moderna. Il merito della tv in questo senso sarà, quanto meno, quello di creare
un’unità linguistica, punto sul quale, da sempre, l’istruzione pubblica aveva fallito.
Ma una televisione che assolve a finalità pedagogico-educative non può non occuparsi dei ragazzi,
non può non coinvolgere nel suo progetto anche i più piccoli, coloro che più di tutti hanno bisogno
di essere istruiti, sia dal punto di vista del bagaglio di conoscenze, sia dal punto di vista dei valori
morali. È per queste ragioni che vengono inaugurate le fasce pomeridiane dedicate agli “under 14”;
la cosa singolare è che ragazze e ragazzi vengano considerati due bacini d’utenza distinti, a cui
riferirsi, ovviamente, con due generi di prodotto altrettanto distinti. Nascono così una serie di
trasmissioni caratterizzate dalla mescolanza di pedagogia e spettacolo, non ultimo Lo zecchino
73
«Carosello va inoltre ricordato come compendio di storia dello spettacolo e del cinema italiano. “Cassa integrazione”
per registi in difficoltà, come fu definito, il programma pubblicitario stimolò la fantasia di più di un autore: Age e
Scarpelli e Luigi Magni furono i più assidui. Ma anche Gillo Pontecorvo, Lina Wertmüller, Dino Risi, Ermanno Olmi,
Pupi Avati, i fratelli Taviani, Francesco Maselli, Sergio Leone, Ugo Gregoretti, Valerio Zurlini, lavorarono per la
pubblicità televisiva. Nelle scenette di Carosello, apparvero attori come Macario, Peppino De Filippo, Gassman,
Manfredi, Nino Taranto, Sergio Tofano, Dario Fo, Raimondo Vianello, Carlo Giuffrè, Rascel, Fabrizi, Paolo Panelli,
Totò. L’obiettivo pubblicitario, il tentativo di dare una giustificazione artistica a una forma di comunicazione
merceologica, fecero nascere un gusto e un linguaggio non banali», Ib., 318, 319.
74
Fausto Colombo, addirittura, parla di un doppio progetto morale, alla base di Carosello:«(…) Carosello era una
trasmissione obiettivamente rivolta agli adulti in quanto potenziali compratori, ma di fatto – quanto ai contenuti – ideale
per i bambini. Ne deriva che la sua progettazione fu doppiamente pedagogica, e del tutto inserita in una logica del grillo
allo stato puro (…) in quanto rivolta agli adulti, mostrava la via della modernizzazione rendendola compatibile con i
valori tradizionali protetti dai codici della Sacis: essa lasciava intendere alla massaia che l’uso di elettrodomestici o di
cosmetici era socialmente tollerabile, e anzi auspicabile nel salto di qualità della vita che la crescita economica avrebbe
comportato. In quanto rivolta ai bambini, questa medesima pedagogia insegnava loro (…) che c’era una società di cui
loro facevano parte, protetta da un mondo adulto che cominciava – con un alone di mistero – quando loro andavano a
dormire», F. COLOMBO: 1998, 240.
75
«Con la consulenza del Ministero della pubblica istruzione venne organizzato, nel 1958, il primo corso completo di
istruzione secondaria per l’avviamento professionale. Le trasmissioni si rivolgevano ai ceti più poveri e disagiati,
ragazzi domiciliati in piccoli paesi di montagna, in località mal collegate e non fornite dalle scuole secondarie. Nasce
così Telescuola, un esperimento di educazione a distanza che prosegue fino al 1966, con diverse impostazioni
metodologiche e sempre condotto attraverso una capillare anche se modesta organizzazione di posti d’ascolto collettivo.
Con l’inizio degli anni ’60 i corsi di Telescuola assumono addirittura carattere sostitutivo e si propongono di surrogare
le strutture scolastiche là dove non esistevano», F. MONTELEONE: 1992, 309, 310.
76
«Non è mai troppo tardi (…) Nacque il 15 novembre del 1960, in concomitanza con la campagna di alfabetizzazione
delle aree depresse voluta dai governi dell’epoca. Si trattava di un vero e proprio corso di insegnamento della lingua
italiana per analfabeti con trasmissioni trisettimanali, realizzate mediante l’installazione di 2.000 televisori collocati in
altrettanti punti di ascolto sparsi in tutta Italia. Ad Alberto Manzi, il maestro che assicurò il grande successo popolare
della serie, va riconosciuto il merito di aver fatto prendere la licenza elementare a più di un milione di analfabeti», Ib.,
310.
31
d’oro77 (la cui prima edizione risale al 1957), condotto dal famoso mago Zurlì (Cino Tortorella),
affiancato dal burattino Topo Gigio.
Si è parlato di generi televisivi e si è detto che essi nascono dalla “vampirizzazione”, dal
“saccheggio” da altri media. Si tratta in realtà di un processo che non caratterizza soltanto la tv e
che non è giustificato dalla relativa giovinezza di questa; è infatti un fenomeno che pervade tutto il
sistema mediatico, che pervade ogni settore dell’industria culturale. L’intermedialità78 che compare
nell’Italia degli anni ’50 (si veda per esempio quello che è successo al genere western79) è l’indizio
di un fatto ben preciso: la maturità della macchina comunicativa nel nostro paese. Proprio negli anni
’50 infatti, la suddetta cultura e la sua macchina subiscono un “processo di industrializzazione
globale”. È questo un concetto abbastanza altisonante, ma sta a indicare, in concreto, la popolarità,
la massificazione estrema della domanda di prodotti industrial-culturali. Se Cuore di Edmondo De
Amicis o Le avventure di Pinocchio (grazie ai quali, come si è visto, nasce l’industria culturale nel
nostro paese) erano oggetti destinati a soddisfare i bisogni posti da un pubblico, in certa misura,
ancora di nicchia (i giovani alfabeti), non solo la tv, ma anche tanti altri mezzi di comunicazione,
hanno in questo periodo la pretesa di rispondere a esigenze largamente diffuse, sono orientati cioè a
rivolgersi alla totalità dei consumatori: la tv si rivolge a tutti gli italiani e tutti gli italiani chiedono
più tv; siamo di fronte a un rapporto di tipo biunivoco (tv – vs – italiani, italiani – vs – tv).80
Dunque, la dipendenza dei generi televisivi da altri media e, nella fattispecie, da un certo tipo di
“cultura alta”, è un fenomeno che non dipende soltanto dalla formazione della classe dirigente e dai
suoi obiettivi pedagogizzanti (anche, ma non solo), ma anche da un macro-processo che coinvolge
tutti i media, cioè da una vera e propria “trasversalità dei generi”, data da una crescente
massificazione dei mezzi e di cui l’ascesa della tv rappresenta l’emblema.
C’è tuttavia un altro aspetto che qui ci preme analizzare brevemente (anche se verrà ripreso alla fine
del capitolo): in che modo il medium si inserisce nella vita degli italiani, vale a dire, qual è lo
schema orario delle trasmissioni?81
Se la televisione è maestra, se ricopre un ruolo educativo, essa allora non potrà “disturbare” i
telespettatori nel momento in cui si trovano in ufficio, a scuola o in fabbrica a svolgere la propria
attività lavorativa; dovrà inserirsi invece negli spazi dedicati al tempo libero, cioè al pomeriggio e
alla sera. Così, i programmi vengono predisposti su due fasce orarie: dalle 17,30 alle 19
(trasmissioni per i più piccoli) e dalle 20,45 alle 23 (trasmissioni per adulti).82 Quando si inaugurerà
77
Si tratta di una gara canora fra giovani artisti (solitamente “under 11”), che si svolge annualmente a Bologna, presso
il teatro dell’Antoniano.
78
F. COLOMBO: 1998, 205/213.
79
«È evidente la dipendenza della produzione fumettistica italiana da quella cinematografica statunitense (…) con le
loro grandi differenze “Il grande Blek”, “Pekos Bill”, “Oklahoma”, “Il piccolo Ranger” e “Il piccolo sceriffo”, nonché,
naturalmente, “Tex”, mostrano una straordinaria capacità di rielaborazione in chiave narrativa, stilistica, metalinguistica
del contenuto ideale americano…», Ib., 210.
80
«Due esempi: il primo è rappresentato dallo sviluppo della musica da un lato, dell’avanspettacolo dall’altro (…) Per
quanto concerne lo sviluppo della musica di massa, il boom dei cantanti napoletani, la nascita del Festival di Sanremo, i
nuovi assetti discografici sono esempi lampanti di una radicale messa in moto del fenomeno nel nostro paese (…)
Anche sul fronte dell’avanspettacolo la rielaborazione della rivista e dei suoi elementi (…) predispone un teatro
popolare di massa che in qualche modo farà da contraltare da un lato alla produzione dei grandi teatri, dall’altro a quella
versione nobile del dramma che fu costituita dal teatro televisivo della Rai (…) Un ulteriore elemento è costituito
dall’evoluzione e dallo slancio del fenomeno sportivo, dove – di nuovo – è perfettamente possibile leggere i sintomi
dell’evoluzione futura (…) Nel secondo dopoguerra (…) si costituisce embrionalmente un sistema di sport-spettacolo
fortemente legato a un certo immaginario sociale: il tifo cittadino e metropolitano di massa radicalizzato attorno a
figure-simbolo, il Totocalcio che connette lo sport all’ideologia della fortuna e della lotteria, un sistema di giornalismo
specializzato che ben presto assumerà i connotati peculiari tipici del nostro paese (…) Ce n’è abbastanza, insomma, per
ribadire la centralità del decennio ’50; e per dare il senso di quanto leggervi le tendenze in atto significhi riconoscere
alcune caratteristiche dell’attuale sistema italiano dei media», Ib., 212, 213.
81
Per una storia del palinsesto in Italia rimandiamo a: N. RIZZA, Costruire palinsesti, VQPT, Eri Ediz. Rai, Torino,
1989.
82
«Le ore di trasmissione erano divise in due grandi fasce: dalle 17,30 alle 19 lo spazio era dedicato ai ragazzi; dalle
20,45 alle 23 ci si rivolgeva agli adulti. La domenica le trasmissioni si aprivano di mattina per i consueti appuntamenti
religiosi…», F. MONTELEONE: 1992, 297.
32
anche una fascia mattutina, lo si farà per dare spazio ad appuntamenti educativi come Telescuola:
quelli che nella realtà sono gli “orari d’ufficio” restano tali anche in tv. Un tale schema, rimarrà
quasi invariato fino al 1968, quando qualcosa, nelle strategie di “impaginazione”, inizierà a
cambiare; tuttavia, modifiche davvero palesi, si riscontreranno solo nella seconda metà degli anni
’70, quando la concorrenza con i privati imporrà anche alla tv di Stato l’adozione di “tattiche di
palinsesto”, orientate a coprire il maggior numero di ore possibile.83
Altro punto da notare è che gli appuntamenti, inseriti all’interno della programmazione generale,
sono assolutamente autonomi, sono testi a sé stanti, senza soluzione di continuità con ciò che
precede e con ciò che segue84: ciascuna fascia oraria, di ciascun giorno della settimana, va a
identificarsi con il programma che contiene; è questa la “festività” tipica della tv delle origini,
fondata su trasmissioni con frequenza settimanale, le quali, proprio in forza di tale frequenza, sono
capaci di creare delle attese, di costruire un’aspettativa forte nel telespettatore.85 Anche su questo
punto dunque, il medium non ha ancora trovato una strada propria, una caratteristica che gli sia
peculiare; non ha ancora sperimentato in sostanza una vera “tecnica di palinsesto”, cosa che gli
avrebbe senz’altro giovato dal punto di vista dell’immagine e delle strategie di “marketing”.86 Del
resto, una parola come “marketing”, per l’appunto, è ben lontana dalla formazione culturale della
classe dirigente. “Marketing” è un termine che, molto spesso, si pone in antinomia a “educazione”,
la quale resta senza dubbio l’obiettivo principale del regime democristiano. La preoccupazione che
muove coloro che hanno in mano la gestione della Rai è innanzitutto quella di restare il più lontano
possibile dal modello americano, nel quale invece le logiche di palinsesto, inteso come “flusso”
continuo di immagini e suoni, giocano un ruolo decisivo. La televisione non deve essere “tentatrice”
(si potrebbe dire), non deve “affabulare” con la forza delle immagini, distraendo dai doveri e
inserendosi prepotentemente nella quotidianità. Essa deve semplicemente istruire oppure divertire
istruendo, cioè né più né meno che avere una funzione pedagogica. Probabilmente, anche per queste
ragioni (accanto a una misconoscenza delle possibilità espressive del mezzo), gli operatori
radiotelevisivi sono restii a creare un palinsesto di “flusso”.
Ecco dunque che cos’è la tv negli anni ’50: uno strumento nelle mani del corvo/grillo per dare
un’impronta anti-laicista alla società, per preparare questa stessa società a una modernizzazione
priva di “strappi” con la tradizione, una modernizzazione adattata a un sistema di valori cristianocattolici. La televisione, dal canto suo, ha davvero il merito di creare un’unità nazionale ideale, di
sottrarre la popolazione alle “tenebre dell’ignoranza”, di mostrare “la periferia al centro” e “il
centro alla periferia”, di dare visibilità alle realtà più nascoste.87 Per questo essa riscuote maggiore
83
Si veda: G. P. CAPRETTINI, La scatola parlante, Editori Riuniti, Roma, 2000, 40.
«Nella televisione degli anni Cinquanta, Sessanta e dei primi anni Settanta i programmi erano rappresentati come
blocchi di materiali ben distinti rispetto al proprio esterno e omogenei al proprio interno. Anzitutto le singole
trasmissioni erano nettamente separate rispetto agli altri programmi: le sigle, di una certa lunghezza e consistenza,
delimitavano inizio e fine in modo inequivocabile. All’interno dei programmi dominava l’omogeneità dei ritmi e dei
tempi delle inquadrature: in genere venivano largamente usati il piano medio e il primo piano, in quanto appropriati alle
esigenze rappresentative del piccolo schermo. La camera era statica nella maggior parte dei casi, in particolare
nell’informazione da studio…», Ib., 36.
85
«Nella televisione degli inizi si aspettava con ansia l’appuntamento settimanale con il genere preferito, come si
attendevano le feste. La tv della concorrenza diventava feriale perché non aveva più un palinsesto settimanale ma
tendeva a riprodurre ogni giorno la più ampia scelta di contenuti, per accontentare tutte le fasce del pubblico. Ciò
comporta il passaggio da un palinsesto settimanale a uno giornaliero», E. MENDUNI, I linguaggi della radio e della
televisione, Laterza, Roma-Bari, 2002, 125.
86
«Come è stato varie volte osservato, la tv delle origini manca di identità mediologica, è ancora scarsamente
consapevole delle proprie autonome potenzialità, è ben lontana dall’avere scoperto le opportunità di un “palinsesto” nel
quale si organizza tutta l’offerta delle trasmissioni. Questa è essenzialmente ispirata a due preoccupazioni: da un lato
costruire una sequenza cronometrica delle trasmissioni, dall’altro orientare il pubblico, con un intento chiaramente
pedagogico, a un ascolto “corretto”…», F. MONTELEONE: 1992, 302, 303.
87
Si tratta di un punto che Franco Monteleone sottolinea molto bene: «Gli italiani sentono per la prima volta di avere un
punto di riferimento nazionale e collettivo alle loro azioni private, al loro vissuto quotidiano. La tv allarga l’orizzonte
della comunità domestica, ma nello stesso tempo rende i membri di quella comunità consapevoli di una comune
appartenenza; mostra tutta la forza della sua novità, opera una violenta azione dirompente, apre orizzonti chiusi,
84
33
successo proprio nei luoghi più sfortunati, nelle zone più disagiate, in quei settori del paese rimasti
più lontani dallo sviluppo economico e industriale. Questo è un fatto evidente, riconosciuto da più
parti quasi come indiscutibile.
Ma accanto a questi aspetti positivi, la tv, nonostante l’attenta pianificazione democristiana, porta
con sé anche aspetti più deleteri come il mito del progresso, nella sua matrice più consumista, come,
del resto, si è già notato. Con questi ideali, con questi valori laici si fonderà il boom economico che,
nella prima metà degli anni ’60, renderà la nostra una delle nazioni più ricche al mondo: nulla di
religioso rimarrà più nell’Italia delle rivolte sessantottine e nell’Italia dei colletti bianchi; resterà
solo una società laicizzata e secolarizzata, contraddistinta da un’ideologia crescentemente borghese
e individualista. Un duro scacco matto a tutte quelle strategie attentamente progettate a tavolino
dalla nostra classe politica.
3. Dal “boom” economico alla guerriglia urbana: gli anni ‘60 e “la scomparsa
delle lucciole”88
Il nostro “viaggio” prosegue e l’itinerario prevede una “tappa” negli anni ’60, periodo abbastanza
delicato e difficile non soltanto per la televisione, ma per la realtà italiana nel suo complesso.
Anzitutto, la società è cambiata in modo profondo e ciò appare evidente agli occhi di tutti89. Lo
sviluppo economico (e quindi il miglioramento delle condizioni di vita) e la crescita democratica
del paese, a cui pure la tv aveva dato impulso, sono solo alcune delle principali ragioni della
metamorfosi socio-culturale che l’Italia sta subendo.
Detto questo, una domanda sorge spontanea: quando iniziano concretamente gli anni ’60?
Cominciano con la definitiva spinta alla modernizzazione, ovvero con l’emergere di quella
tendenza, che condurrà al “boom economico”, emblema e avvio di un benessere più generalizzato:
gli anni ’60 iniziano perciò con la “fine delle lucciole”, come sosteneva il grande Pier Paolo
Pasolini90.
Ma che cosa vuole dire “fine delle lucciole”?
Le “lucciole” che da sempre avevano rischiarato le tenebre, durante le sere di primavera,
improvvisamente, scompaiono91; scompaiono, si volatilizzano nel nulla, così come scompaiono e si
volatilizzano nel nulla quei valori che avevano rappresentato la “stella polare”, il “faro nella notte”
di tutta la cultura popolare negli anni precedenti. L’assiologia cristiano-cattolica, trasformata in
morale nazionale, subisce un radicale cambiamento, una metamorfosi, reincarnandosi e
riplasmandosi negli ideali consumisti, individualisti, liberisti, tipici della civiltà urbana
occidentale.92 È questo il prezzo della modernizzazione.
Quando terminano invece gli anni ‘60?
propone nuovi codici linguistici, insegna comportamenti più liberi, insomma porta letteralmente “il mondo in casa”»,
Ib., 296.
88
Per una cronistoria completa della tv negli anni sessanta, che tenga conto di tutti gli aspetti (soprattutto economici e
politici), rimando al testo già citato di Franco Monteleone: 1992, 333/376.
89
Per una storia della società italiana negli anni sessanta, rimandiamo a: P. GINSBORG, Storia d’Italia dal dopoguerra a
oggi, Einaudi, Torino, 1989, 344/468.
90
P. P. PASOLINI, Il vuoto del potere, in: Corriere della sera, 1.2.1975.
91
«Nei primi anni ’60, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento
dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato
fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più (…) Il regime democristiano ha avuto due fasi
assolutamente distinte, che non solo non si possono confrontare fra loro, implicandone una certa continuità, ma sono
diventate addirittura storicamente incommensurabili. La prima fase di tale regime (…) è quella che va dalla fine della
guerra alla scomparsa delle lucciole, la seconda fase è quella che va dalla scomparsa delle lucciole a oggi», Ib.
92
Come nota Fausto Colombo, proprio a proposito dell’articolo in questione: «Questi valori, continua Pasolini, erano
“reali”, perché oggettivamente radicati nelle “culture particolari e concrete” dell’Italia agricola e paleoindustriale. Ma,
nel divenire valori “nazionali”, essi non potevano che snaturarsi e falsificarsi in una cultura completamente “altra”
rispetto alla precedente. Questa nuova cultura è la cultura moderna e industriale, la cultura delle metropoli e del
consumismo, della meccanizzazione e della diffusione di gusti di massa», F. COLOMBO: 1998, 244.
34
Con la fine della pulsione al progresso economico, quando emergono cioè, dalle viscere della
società, delle forze che si oppongono a un modello di sviluppo capitalistico-consumistico: sono le
rivolte studentesche e operaie del 1968, che tentano di operare un’inversione di marcia, di far
prendere una piega diversa alla modernizzazione.93
Dunque, è proprio in questo periodo che a una tendenza generale allo sviluppo (che inizia ad
assumere connotati sempre più individualisti e consumisti), imposta al paese dalla classe dirigente,
si contrappone una neonata e opposta linea culturale, che ha il suo punto focale nell’opposizione
dialettica verso tutto ciò che esiste. Si tratta di due forze antitetiche e contrarie che percorreranno
trasversalmente tutto il decennio successivo, venendosi a scontrare, spesso in modo drammatico. È
anche a causa della coesistenza sullo stesso terreno di queste differenti correnti ideali (alla base
della disomogeneità del pubblico) che gli anni ’70 sono caratterizzati dalla frantumazione dei
consumi.
Al contrario, gli anni ‘60 sono contraddistinti da una assoluta omogeneità dell’offerta, laddove lo
scopo principale della classe politica è ancora quello di rendere gli italiani, la massa della
popolazione, un’entità unitaria.94 Tuttavia, qualcosa inizia a cambiare, qualcosa inizia a muoversi,
nel mondo della comunicazione e dei consumi: i giovani incominciano a diventare economicamente
autonomi e divengono pertanto un soggetto, un interlocutore interessante per tutta l’industria
culturale nel suo complesso95; si tratta chiaramente di un target unico, di un unico gruppo di
consumatori, cioè essi non sono ancora (come nel decennio successivo) un universo, un insieme
composito di individui, aventi gusti e bisogni differenti.96
Forse, la frazione temporale, che in questa sede ci stiamo accingendo ad analizzare, potrebbe essere
letta anche sotto quest’altra prospettiva: quella per cui gli anni ’60 sono il periodo che conduce
dall’omogeneità alla frantumazione dei consumi. Ma una tale chiave interpretativa ci sembra un po’
troppo centrata sull’aspetto economico-mercantile e non ci pare renda davvero giustizia delle cause
di natura sociale, che pure hanno avuto un ruolo, all’interno di quel processo che ha condotto alla
frammentazione del mercato.
A difesa di quanto sosteniamo sta il fatto che, nell’universo mediatico, si registrano cambiamenti
anche di altra natura, che nulla hanno a che vedere con l’economia, ma che hanno però un peso
nella modifica del sistema mass-comunicativo in generale. Registriamo per esempio l’inizio di una
certa autonomia e dignità culturale di alcuni linguaggi espressivi come il fumetto e la radio97;
pensiamo a un’opera editoriale come Linus, uno dei tanti vessilli della generazione sessantottina;
grazie a essa, il “comix” raggiunge una forma espressiva piena, una forma che lo rende meritevole
93
Su questo punto, cioè su un’interpretazione in termini “antimodernisti” delle rivolte sessantottine, ci riallacciamo a
delle affermazioni di Paul Ginsborg, riprese e condivise anche da Franco Monteleone: «(…) come ha acutamente
osservato Paul Ginsborg (op. cit.), la rivoluzione culturale del 1968, con tutti i suoi corollari, fu un tentativo
straordinario ma vano di sfidare i valori dominanti di una società in rapido cambiamento. “Essa era in diretto conflitto
con il percorso della modernizzazione” (P. GINSBORG: 1989, 463), e i progetti sociali e politici della generazione del
1968 erano in grave ritardo rispetto alle tendenze di lungo periodo della società italiana», F. MONTELEONE: 1992, 373.
94
Questo è un punto sul quale, Fausto Colombo, fa una profonda riflessione: «(…) la generazione nata con il boom
ebbe a disposizione per una lunga fase, in quanto consumatrice, una straordinaria e praticamente irripetibile omogeneità
di offerta. Ciò valse tanto a livello delle strategie, in quanto prevalsero largamente (…) quella del grillo e quella del
topo, quanto a livello dei mezzi e dei contenuti. Per quanto concerne i mezzi, si pensi a cosa significò avere a
disposizione una sola televisione, nel senso di emittente, fondata su un piano ideologico largamente condiviso anche
dalla scuola. Sul fronte dei contenuti si rifletta invece sul fatto che la musica di massa, o i fumetti, venivano letti non
secondo segmenti, ma – più o meno – dall’intera gioventù (…) la generazione nata e cresciuta durante e subito dopo il
boom fu un unico grande target che come un gigantesco polmone respirò un’atmosfera unitaria (…) Per quella
generazione i media furono davvero una “cultura sottile”, perché respirata ovunque, discussa fra i pari, incastrata fra le
pieghe della cultura alta, ancora assorbita e guardata con rispetto», F. COLOMBO: 1998, 241, 242.
95
Come scrive Paul Ginsborg, i giovani delle città iniziano a sperimentare una vera e propria autonomia dei consumi: «I
giovani delle città (…) godevano di una libertà mai conosciuta, con la possibilità di trovarsi lavoro da soli, di spendere i
propri guadagni, di rompere il soffocante circuito della vita familiare». P. GINSBORG: 1989, 339.
96
«Per la prima volta c’era un “mondo giovanile” astratto dal mondo adulto: un mondo che sarebbe stato protagonista
di varie avventure, e che infine si sarebbe sfrangiato e diviso, ma che comunque ancor oggi fa da base a molte strategie
di marketing e di comunicazione», F. COLOMBO: 1998, 242.
97
Ib., 246/253.
35
di essere inscritto a pieno titolo nei linguaggi della cosiddetta “cultura alta”. Le vignette riportate
sulle pagine del periodico vengono utilizzate come strumento di critica sociale, come “sprone per il
sommovimento delle coscienze”. Come si vede, (forse per la prima volta in assoluto) una ben
precisa élite (quella rivoluzionaria), che si era sempre rifiutata di mantenere contatti di sorta con la
comunicazione di massa, si serve di un prodotto seriale per criticare la stessa.
Per quanto riguarda la radio invece, un esempio emblematico del cambiamento in atto è il
programma Bandiera Gialla di Arbore e Boncompagni. La trasmissione, indirizzata
prevalentemente a un pubblico “under 25/30”, introduce un modo assolutamente nuovo di intendere
la radiofonia. Sulla scia delle onde “mitologico-alternative” di emittenti come Radio Montecarlo,
Radio Luxemburg, o le radio pirata, dopo anni di sudditanza alla tv, la “sorellina maggiore” sembra
avere ritrovato un’autonomia, sembra aver recuperato una propria peculiarità linguistica.
Nel contesto di questi cambiamenti, che cosa succede alla televisione, che cosa succede al mezzo
che, di fatto, è già diventato il centro di gravità di tutta la comunicazione di massa?
Bisogna registrare anzitutto un episodio molto importante: la nascita, alla fine del 1961, del secondo
canale.98 Accanto a questo avvenimento, si colloca l’importazione dall’America di nuove
invenzioni tecnologiche, che danno innegabilmente un “input” notevole all’evoluzione e allo
sviluppo in senso autonomo nella codifica e nella costruzione del messaggio.99 Di sostanziale
importanza, risultano, in particolare, le innovazioni in fatto di montaggio (offerte dalla registrazione
audiovisiva)100 e in fatto di collegamento in diretta (offerte dal satellite).
Sull’onda delle novità introdotte dalle nuove apparecchiature, la tv inizia a battere sentieri mai
percorsi, sentieri che la condurranno, lentamente, a maturare una completa autonomia dai mezzi di
comunicazione più anziani.
Dal punto di vista dei consumi poi, si registra una vera e propria svolta, una vera e propria modifica
delle modalità di fruizione del mezzo. Il miglioramento generalizzato delle condizioni materiali di
vita consente infatti una diffusione più capillare degli apparecchi, facendo sì che la tv prenda
definitivamente il posto della radio in salotto o in sala da pranzo, e si ponga dunque al centro della
98
«L’incremento dell’utenza e dei relativi abbonamenti avevano consentito all’azienda ingenti investimenti tecnici e
immobiliari, malgrado la diminuzione del canone. Alla fine del 1961 era stata completata la seconda rete televisiva.
Erano stati potenziati i centri di produzione di Roma e di Milano, iniziata la costruzione del centro di Napoli e della
nuova sede della direzione generale di Roma in viale Mazzini», F. MONTELEONE: 1992, 330.
99
«Dall’America arrivano (…) due grosse novità tecniche: la registrazione videomagnetica, brevettata dalla statunitense
Ampex, che rende possibile non solo registrare ma anche montare l’immagine elettronica; e il lancio dei primi satelliti
di telecomunicazione, che consentono di collegare in diretta i più lontani punti del globo. Va ricordato che il 18 ottobre
1961 era stata costituita la società Telespazio, con capitale ripartito fra la Rai e l’Italcable. Nel luglio del 1962 veniva
stipulata tra la nuova società e lo Stato una convenzione per la “concessione in esclusiva per dieci anni dell’impianto e
dell’esercizio a scopo sperimentale di sistemi atti a realizzare collegamenti televisivi, telegrafici e telefonici a mezzo di
satelliti artificiali”. Da quel momento la Rai conserverà per molti anni il monopolio delle trasmissioni via satellite sul
territorio nazionale. Nell’ottobre, lo storico avvenimento dell’apertura del Concilio ecumenico verrà seguito via satellite
in tutto il mondo. Due anni dopo Telespazio aderisce al consorzio di Washington acquistando una partecipazione nel
consorzio internazionale di telecomunicazioni spaziali (INTELSAT) per la gestione commerciale di un sistema
mondiale di satelliti», Ib., 341, 342.
100
Il fatto di poter “videoregistrare” e di poter poi montare con maggiore libertà di un tempo il materiale filmico,
produce inevitabilmente notevoli cambiamenti in fatto di codifica del messaggio; Franco Monteleone, analizzando
questo nuovo tipo di tecnica, pone l’accento su due elementi in particolare. Nello stesso tempo però, fa notare come,
accanto ad essi, vi siano anche dei fattori negativi e, sotto certi aspetti, pericolosi: «Il montaggio elettronico favorisce
l’abitudine dello spettatore al ritmo cinematografico del racconto, determinando un duplice effetto positivo: da un lato,
l’inizio di una programmazione cinematografica di alto livello filmico e culturale e, dall’altro, una autonoma
produzione di cinema per il piccolo schermo che porterà a lavorare per la Rai i più grandi autori italiani (…) Ma accanto
a questi risultati, il controllo della tecnologia ebbe anche esiti negativi attraverso la “rottura della contemporaneità” in
quelle trasmissioni che avrebbero dovuto consacrarne l’esaltazione: i programmi informativi. L’uso delle cronache
dirette è andato paradossalmente diminuendo nel corso degli anni (…) Soprattutto da parte delle sinistre si volle dare a
questa riduzione il significato di una pratica manipolatoria esercitata dall’apparato, con la conseguente rinuncia a volere
rappresentare liberamente la realtà. Una tesi ingenua, ma che impiegò molto tempo a invecchiare…», Ib., 342, 343.
36
vita familiare. Tutto questo ha un’immediata e logica conseguenza: la fruizione, da comunitaria,
diventa individuale.101
Di fronte a una simile penetrazione, l’azienda di Stato deve ripensare la propria offerta,
ridisegnandola in maniera tale da rispondere alle nuove esigenze di consumo e, quindi, da
soddisfare i nuovi bisogni. In questa direzione si inserisce la nascita del secondo programma
televisivo, alla fine del 1961, il cui segnale verrà esteso su tutto il territorio nazionale soltanto con il
passare degli anni.102 È proprio grazie all’entrata in scena di questo nuovo canale che la Rai sarà
incentivata a puntare di più sulle peculiarità del mezzo, creando dei prodotti strettamente
“televisivi”, in quanto aventi forme linguistiche proprie, a sé stanti (e non più vampirizzate da altri
settori dell’industria culturale).
Il primo segno di cambiamento lo si riscontra in quello che potrebbe essere definito il “bigliettino
da visita” di un’emittente, in quell’aspetto in cui (più di ogni altro) emerge la politica d’immagine
di un canale: il palinsesto. Solo con la nascita della futura Rai Due, l’azienda di Viale Mazzini
inizia a sperimentare delle strategie di programmazione pianificata, delle strategie che gli
consentono di allontanarsi, progressivamente, da quella disomogenità che aveva fino allora
caratterizzato la sua offerta.
Se l’obiettivo, lo scopo primario della tv, è quello di omogeneizzare il pubblico, il secondo
programma rappresenta una grandissima opportunità per ottimizzare gli ascolti, per ampliare il
numero degli utenti. Si tratta di un proposito di indubbia importanza, ma di oggettiva difficoltà. Il
problema principale in questo senso è la ricerca di un’identità di rete, di un qualcosa che possa cioè
caratterizzare il neonato canale, distinguendolo, per ciò stesso, dal primo. Viene istituito a tal fine
un organismo che si preoccupi di pianificare l’offerta su entrambe le emittenti, in gran parte
gestendo un magazzino di prodotti già confezionati e assemblati, grazie alle nuove tecniche di
montaggio.103 Il fatto che si tratti di cose pre-registrate consente poi un controllo capillare dei
contenuti, una censura di tipo “soft”: è una delle tante opportunità, offerte dalle nuove tecnologie.104
101
Ci sembra questa un’affermazione abbastanza delicata, in quanto coinvolge fattori numerosi e di diversa natura. Ci
sentiamo pertanto in dovere di riportare una citazione di chi, prima e meglio di noi, ha affrontato il problema: «La
dinamica sociale del miracolo economico aveva accentuato la dimensione privata e atomizzata della vita civile. Il ruolo
del singolo nucleo familiare, cellula produttiva e non più soltanto affettiva, ebbe un’importanza sempre maggiore nel
processo di rapida urbanizzazione (…) L’automobile e la televisione incoraggiano ulteriormente un uso del tempo
libero prevalentemente privato. Progressivamente, più cresce il numero degli abbonati, più il consumo della televisione
diventa di tipo domestico: alla data del 31 dicembre 1960 gli abbonati erano saliti a 2.123.000, mentre quelli della radio
erano circa 8 milioni (…) in soli cinque anni la televisione era diventato il mezzo di comunicazione dominante. Nel
1961, il numero degli apparecchi riceventi era così distribuito: 1.436.690 al Nord, 634.623 al Centro, 485 mila al Sud e
205.269 nelle Isole. Gli abbonamenti alla televisione erano aumentati di circa 500 mila unità», Ib. 334, 335.
Come sempre Monteleone riconosce: «il possesso e la fruizione della tv non rappresentano più un motivo di leadership.
Mutano le abitudini di consumo anche perché muta l’organizzazione della vita familiare. Chi lavora ormai quasi
esclusivamente fuori dell’abitazione è indotto a consumare a casa la maggior parte del suo tempo libero. Poco a poco
scompare il consumo comunitario della televisione tipico dell’esordio, e si afferma quello familiare. È in questa fase che
“la famiglia si ritrova intorno allo schermo”… È certo (…) che proprio la televisione riesce a creare le principali
occasioni dell’unità familiare», Ib. 338, 339.
102
«Con una convenzione del 7 febbraio 1963 (approvata con D.P.R. 18 aprile 1963 n. 983) la Rai si impegna a
estendere la rete del nuovo programma in modo da servire entro l’anno tutti i capoluoghi di provincia e arrivare per la
fine del 1966 a coprire l’80 per cento della popolazione», Ib., 339.
103
Sull’argomento, ci informa Nora Rizza: «(…) nel 1963 (…) fu istituito un “ Comitato per la programmazione”, che
riuniva il Direttore generale, i quattro direttori centrali e il direttore del nuovo servizio per la programmazione. Il
comitato aveva il compito di distribuire i programmi già pronti tra i due canali, costruendo le serate televisive, mentre
l’impostazione della produzione era demandata ad altri comitati. La separazione delle funzioni e l’accentramento delle
scelte di palinsesto in un’unica struttura risultò ulteriormente accentuata dopo la ristrutturazione del 1966 che istituì una
direzione per la programmazione cui erano interamente demandate il controllo, l’approvazione e la collocazione in
palinsesto di tutti i programmi. È significativa la netta separazione che questo tipo di organizzazione implica tra
produzione e programmazione (…) la programmazione consisteva decisamente nella gestione di un magazzino di
prodotti già confezionati, ideati e realizzati e “per sé”, perlopiù senza alcun riferimento specifico (…) alle caratteristiche
del pubblico», N. RIZZA: 1989, 167, 168.
104
Sempre Nora Rizza rileva bene come questo tipo di abitudine fosse ben radicata presso coloro che gestivano le
emittenti pubbliche: «(…) il sistema di programmazione fondato sulla gestione del magazzino dava ai programmatori la
possibilità di controllare i contenuti delle trasmissioni senza esercitare (o subire) pressioni troppo dirette, facendo
37
Ma che cosa viene fatto in concreto? Come vengono distribuiti i programmi sulle due reti?
Se l’obiettivo è quello di massimizzare l’ascolto, allora le due emittenti vanno governate secondo
una logica unitaria, in maniera tale che non siano in concorrenza l’una con l’altra, ma si “integrino”.
Si pensa allora che una strategia vincente possa essere quella di contrapporre a un appuntamento
forte su un canale un appuntamento debole sull’altro: è quello che Franco Monteleone definisce
“meccanismo di protezione del programma forte” e di “traino di quello più debole” (F.
MONTELEONE: 1992, 341).105
Evidentemente, la Rai comincia ad accorgersi che non è più possibile proporre in modo
relativamente casuale gli appuntamenti, sia da un punto di vista dell’immagine, sia da un punto di
vista ideologico-pedagogico. Una programmazione razionalizzata consente infatti da un lato di
definire (sulla base dei prodotti trasmessi) un’identità ben precisa, dall’altra di controllare a-priori il
valore contenutistico dei prodotti stessi.
Dunque, riassumendo, sono tre gli elementi principali che determinano l’evoluzione del mezzo
televisivo, nel decennio ‘60:
a. il cambiamento della società e dei suoi consumi;
b. una ristrutturazione sostanziale dell’offerta televisiva;
c. l’evoluzione tecnologica.
E proprio a causa dell’aspetto c., si animano numerosi dibattiti in parlamento: la scienza, in fatto di
ricezione e fruizione dell’immagine, fa ulteriori progressi (per esempio inventa il colore) e lo Stato
italiano deve prenderne atto.
La sperimentazione (: del colore) inizia nel 1962, quando viene installato un trasmettitore a Monte
Mario, in Roma.
L’anno successivo, sempre a Roma, viene allestito uno studio destinato a produrre programmi a
colori.
Nel 1965 però, il parlamento decide di rinviare al 1970 l’esordio del servizio, con notevole ritardo
rispetto agli altri paesi europei, che, già nel 1967, sono in grado di adoperare la nuova tecnologia su
larga scala. La storia ci insegna che la Rai, inizia a fare uso del colore solo nel 1975.106 Ma questo è
decantare trasmissioni “scomode” o “imbarazzanti” (per ragioni diverse, non sempre e non solo perché troppo
“sinistrorse”) fino a “dimenticarle” una volta per tutte, o viceversa valorizzando altri titoli già disponibili con
collocazioni in palinsesto tempestive e favorevoli», Ib., 168.
105
Nora Rizza, organizza una tabella, relativa al prime time, nei diversi giorni della settimana (1989: 172), mostrando
bene questo meccanismo di integrazione:
Appuntamento forte
Appuntamento debole
Film (PP)
Dibattito
Lunedì
Sceneggiato giallo (PP)
Culturale
Martedì
Film (SP)
Cultura spettac.
Mercoledì
Quiz (SP)
Tribuna Polit.
Giovedì
Giornalistico spettacolare (PP)
Prosa
Venerdì
Varietà (PP)
Culturale
Sabato
Sceneggiato (PP)
Giornalistico
Domenica
PP: Primo programma
SP: Secondo programma
106
Franco Monteleone ci illumina sulle ragioni di questo inspiegato ritardo: «(…) la Rai – che pure è attrezzata a farlo –
ne viene impedita da una allarmata e vasta polemica condotta parallelamente dal Partito repubblicano (per ragioni di
rigore economico), dalle industrie automobilistiche (che vedono nel nuovo consumo durevole una pericolosa alternativa
all’acquisto della seconda macchina) e, complessivamente, dalla carta stampata che intuisce quanto il nuovo mezzo
concorrente possa essere rafforzato dall’introduzione del colore soprattutto in ordine alla ripartizione del gettito
pubblicitario (…) La Rai viene così a trovarsi in una situazione di arretratezza tecnologica proprio nel momento e negli
anni in cui, sotto la spinta del rinnovamento proveniente dalla società, comincia a formarsi un vasto fronte politico e di
opinione pubblica che preme per la riforma del servizio radiotelevisivo (…) La responsabilità di questa mancata
espansione non era dell’azienda ma di alcuni partiti e della grande industria. Ancora una volta potenti lobbies politicoimprenditoriali lavorano contro i processi della modernizzazione in nome di una cultura elitaria che continuava a vedere
nella televisione non uno strumento di democrazia ma una minaccia alla conservazione del loro potere economico e
finanziario», F. MONTELEONE: 1992, 344, 345.
38
solo uno dei tanti punti su cui, nel corso degli anni ’60/’70, l’azienda di Viale Mazzini si dimostra
deficitaria.
Se da un lato però la radiotelevisione pubblica manca di tempismo nella gestione delle innovazioni
tecnologiche, da un altro lato è ancora in grado di inventare, di sperimentare nuove forme di
linguaggio. Per esempio, è proprio in questo periodo che nascono quei programmi che hanno
segnato (finalmente) la nascita di generi “televisivi”, di generi cioè fortemente emancipati dalle
tradizioni mediali precedenti. Queste novità si focalizzano intorno a tre aree tematiche (F.
MONTELEONE: 1992, 346/358):
a. Varietà e spettacolo in genere.
b. Musica leggera.
c. Programmi culturali e d’informazione.
Dal punto di vista dell’informazione (c.), si segnalano per esempio i rotocalchi, veri e propri
antesignani dell’odierno “info-tainment”.
Da un altro lato (ma sempre sul piano dell’ “information service”), si nota un inizio della
spettacolarizzazione degli eventi sportivi; ne sono una prova programmi come La Domenica
sportiva (che, da semplice notiziario, si trasforma quasi in un rotocalco di attualità della domenica
sera), che sopravive tutt’oggi (seppur in forme diverse) o come Processo alla tappa, in cui il
giornalista Sergio Zavoli intervista i protagonisti del Giro d’Italia (ciclismo), cercando di mostrare il
loro lato umano e scavando in aspetti che, per certi versi, riguardano la loro sfera intima (avviando
quel processo in base al quale la tv cerca di far emergere il lato più nascosto o, comunque, più
quotidiano del vip).107
Ma vi sono anche molti altri appuntamenti “giornalistici” degni di nota; per esempio quelli che
hanno il loro fulcro tematico nell’attualità, cioè quelli che hanno come obiettivo principale
l’approfondimento o la rilettura degli avvenimenti più importanti della settimana. Tv7 (nato il 20
gennaio 1963) è proprio uno di questi, noto per aver accompagnato e analizzato a fondo gli eventi
cardine della storia del paese e diventato poi paradigmatico del genere perché “ha fatto scuola”,
perché è stato un vero e proprio archetipo, al quale si sono ispirati gli autori dei rotocalchi
successivi.108 Tv7 è, in breve, un “fenomeno mediatico”, l’emblematico inizio di un nuovo genere.
Sempre sul piano informativo, si segnala poi la sperimentazione dei primi programmi di
divulgazione scientifica e storica, in parte liberati dalle eccessive pretese di pedagogismo. È così
che nasce il documentario, genere che avrà grande fortuna anche in seguito, quando diventerà il
centro della programmazione delle emittenti “all docu” (come per esempio “Discovery Channel”).
Tuttavia, le maggiori innovazioni si registrano nel campo dello spettacolo, dell’intrattenimento. Nel
settore musicale per esempio, vengono ideate delle trasmissioni di grandissimo seguito, di
grandissima popolarità, che consentono, proprio grazie alla fruizione generalizzata, di realizzare
quell’omogeneizzazione del pubblico, che costituiva (come si è visto) l’obiettivo primario della
classe dirigente. Canzonissima (dal palcoscenico della cui trasmissione vengono lanciate sul
mercato alcune delle voci più famose [tanto per fare un esempio: Mina]), collocata al sabato sera e
divenuta subito appuntamento di culto, e il Festival di Sanremo (manifestazione che sopravvive
tutt’oggi, nonostante una storia fatta di alti e bassi) sono inscrivibili proprio all’interno di questa
logica. Si tratta, in entrambi i casi, di programmi compositi, caratterizzati da una certa eterogeneità
dei materiali; in questo senso, grazie cioè a tale complessità linguistica, divengono strumento di
107
Come nota pure Monteleone: «(…) con Processo alla tappa (…) Sergio Zavoli, al seguito del Giro d’Italia, scoprirà
che i campioni possono diventare personaggi, che si può fare una grande televisione con le loro angosce e le vittorie, i
disinganni e le frustrazioni», Ib., 347.
108
Sull’importanza, da un punto di vista del linguaggio televisivo, della rubrica in questione ci informa sempre Franco
Monteleone: «(…) la rubrica ha saputo scandagliare la realtà italiana registrandone i cambiamenti e denunciandone i
ritardi, le disfunzioni e le ineguaglianze. Considerata una trasmissione di denuncia fino al punto di aver portato alla
saturazione quel modello di giornalismo televisivo, Tv7 è stato in realtà un programma che ha rivelato subito il gusto di
scrutare, in Italia e all’estero, nei segni del tempo, conquistando spazi di intervento lasciati liberi dalla cauta ufficialità
del telegiornale», Ib., 354.
39
“omogeneizzazione” e, nello stesso tempo, di “ottimizzazione degli ascolti”: è la complessità delle
forme linguistiche che consente di raggiungere le differenti nicchie di pubblico.109
Altro aspetto di non secondaria importanza è che, in forza della popolarità di questi “media event”,
può nascere uno “star system” televisivo completamente italiano e dai caratteri strettamente
popolari.110
Accanto a queste novità, sono rilevabili anche grosse innovazioni all’interno di quei generi che
avevano sempre attinto in modo passivo agli altri canali mediatici; il teatro televisivo per esempio si
trasforma in prosa, iniziando un percorso di avvicinamento progressivo alla moderna fiction. Se le
storie, le trame continuano a intrattenere dei rapporti di dipendenza con la cultura d’élite, con la
tradizione letteraria, le forme espressive, i moduli linguistici si muovono in piena autonomia. Anche
altri formati come lo sceneggiato e, ancor più, il teleromanzo si orientano in questa direzione.111
Ma mentre la tv perfeziona il suo linguaggio, nelle viscere più profonde della società italiana
qualcosa inizia a trasformarsi; forze sempre più incontrollabili si preparano a esplodere,
dimostrando l’inefficacia di quel tipo di strategie “omogeneizzanti”, adoperate dal potere politico. Il
“popolo” tende a diventare un’entità disomogenea, da molteplici punti di vista: dalle categorie
assiologiche di riferimento fino alle condizioni economiche. Tali differenze, tali elementi
disorganici, contrariamente a quanto avveniva poco tempo prima, fanno pressione per avere la
parola, fanno pressione per avere visibilità. In questo senso, una Rai nelle mani del solo governo è
sentita lontana dalle esigenze degli italiani, che sono diventati ormai un universo “frammentato” in
varie fazioni, un universo caratterizzato da visioni del mondo divergenti.112
Siamo all’alba delle rivolte del 1968; siamo all’alba di una nuova rivoluzione culturale: in questo
preciso momento della storia, l’azienda di Stato decide di ampliare i propri tempi di
programmazione, inaugurando, proprio nel gennaio del 1968, una fascia meridiana: dalle 12,30 alle
14 nei giorni feriali e fino alle 14,45 alla domenica. Si tratta di una prima apertura a quelle strategie
di pianificazione “all’americana” (abbracciate definitivamente negli anni ’80), che collocano il
mezzo televisivo, da un lato in piena continuità con i principi ideologici che avevano governato il
“boom” economico di inizio decennio, dall’altro in una certa contrapposizione alle forze
“rivoluzionarie” che animano le proteste (le cui idee, in qualche modo e in una seppur ristretta
misura, riescono a penetrare nel medium in questione).
Ecco dunque le due forze contrapposte, la tesi e l’antitesi della dialettica storica che caratterizzerà
gli anni ’70:
109
Si veda sempre il testo di Franco Monteleone (Op. Cit.), tra pagina 347 e 348.
Come scrive infatti Monteleone: «(…) il divismo assume una fisionomia del tutto particolare e “nostrana”. Senza
questo retroterra, senza l’assoluta centralità che la tv aveva assunto nella vita degli italiani, non sarebbe stato possibile il
nascere di personaggi come Pippo Baudo o Raffaella Carrà, soprattutto non sarebbe stato possibile creare uno star
system dai connotati così popolari. La concorrenza con le televisioni commerciali svilupperà ancora maggiormente
questo trend, ma negli anni sessanta le premesse c’erano già tutte», Ib., 347, 348.
111
«Il modello teatrale, che verrà progressivamente ridotto fino a scomparire quasi del tutto, era già stato messo in crisi
(…) dalla grande trasformazione dello sceneggiato tendente a stemperare la dicotomia dramma/racconto in una forma
più agile e più digeribile da parte di un pubblico popolare. Esso diventa così un prodotto tipicamente televisivo che
supera i modelli dell’esperienza teatrale, affermando un genere dotato di forti caratteristiche originali e, soprattutto,
realizzando un legame irripetibile tra la specificità della sua proposta linguistica e la domanda di immaginario del
pubblico espressa nella fase più omogenea di tutta la storia del consumo di televisione», Ib., 357.
112
Si tratta di affermazioni di un certo peso, che andrebbero giustificate in modo più approfondito. Riportiamo pertanto
di seguito l’attenta analisi di Franco Monteleone, della quale ci siamo serviti per maturare un simile giudizio: «Con il
passare degli anni lo scenario politico e sociale dell’Italia comincia a frammentarsi in molteplici direzioni e non tutte
corrispondono alla linea che i mezzi di comunicazione di massa, radio e televisione, avevano ormai assunto nel paese
(…) Dal 1964 l’Italia comincia ad assistere a numerosi tentativi di sovvertire l’ordine democratico (…) Una classe
politica ormai chiusa in difesa dei propri privilegi si preoccupava soprattutto di attutire l’urto dei nuovi rapporti di forza
(…) Il pubblico [dal canto suo] era diventato più maturo; l’informazione della carta stampata aveva aperto nuovi spazi
alle problematiche sociali che in televisione non “passavano” facilmente; in molte sedi si cominciava a discutere di tutto
di più (…) Silenziosamente la protesta stava allargandosi a moltissime fasce sociali del paese (…) la Rai [però] si
configurava sempre più con il volto dell’istituzione. Ma una crescente opposizione politica sollecitava nuovi ruoli e
nuove funzioni per l’azienda pubblica. Gianni Granzotto [l’allora presidente] comprese che era giunto il momento di
cambiare metodi di gestione e di ridimensionare la presenza democristiana», Ib., 367, 368, 369.
110
40
a. Da un lato una spinta (consumistica) verso un ulteriore progresso economico e una più
decisiva modernizzazione del paese, in piena continuità con i principi alla base dello
sviluppo di inizio decennio.
b. Una spinta anti-modernista, di matrice estremista (di destra o di sinistra), totalmente
contrapposta ad a., le cui espressioni più crude sono da ricercare nel terrorismo rosso e nella
strategia del terrore di matrice neo-fascista.
La lotta fra queste due correnti sociali condizionerà ampiamente il divenire socio-economicoculturale del decennio.
Tuttavia b. è una controtendenza, un’antitesi per l’appunto, un qualcosa cioè che si oppone a un
processo già avviato, a uno sviluppo già cominciato e cronologicamente radicato. Per questa
ragione, alla fine, uscirà vincitrice dallo scontro proprio la tendenza a., ulteriormente rafforzata e
ulteriormente libera di estrinsecare appieno le sue radici ideali di tipo consumistico-capitalistico.113
Inizia la fine del predominio assoluto delle strategie pedagogizzanti: come il corvo del film
Uccellacci Uccellini (figura che, in fondo, può rappresentare metaforicamente Pasolini stesso114)
finisce cotto, allo stesso modo gli obiettivi “ideologico educativi” vengono schiacciati dalla forza
delle logiche spettacolari (soprattutto del gatto): è la crisi dell’intellettuale tradizionale, in relazione
al suo progetto di orientamento della società.
Gli anni ’70 sono dunque alle porte e le forze intestine, ancora nascoste nelle viscere del paese,
stanno per esplodere in tutta la loro violenza.
4. The Catcher in the Rye e il ritorno a casa: gli anni ’70 tra rivoluzione e riflusso
Esiste una somiglianza impressionante fra la storia del “giovane Holden”, raccontata dallo scrittore
americano Salinger, nel suo famoso romanzo The catcher in the Rye115, e quello che succede alla
società italiana negli anni ’70.116
Siamo negli anni ’50 e ci troviamo in America, ma è un’America diversa da quella che conosciamo
oggi, lontana dallo stereotipo che i mezzi di comunicazione di massa alimentano quotidianamente
nel nostro immaginario. Si tratta di un paese le cui fondamenta ideologiche, riposano ancora su
valori tradizionali come la famiglia, il lavoro, il mito della libertà, il mito della costruzione
autonoma del proprio destino, il mito del “self made man”…
Holden è un adolescente come tanti altri, uno studente appartenente a una “middle class” sempre
più emancipata e sempre più ricca e, se non fosse stato per il suo spirito ribelle, per la stringenza di
un certo tipo di esigenze esistenziali, il suo destino sarebbe stato identico a quello di tanti suoi
coetanei: vivere nell’attesa di diventare adulto, studiare per avere un ruolo nella società di domani.
Proprio così funzionavano le cose negli Stati Uniti, nel secondo dopoguerra; i giovani non avevano
un’identità propria, non avevano un’autonomia di consumo, essi non erano altro che degli
113
Come nota sempre Monteleone: «(…) la dimensione sociale del progresso economico italiano, la prosecuzione,
nonostante tutto, del “miracolo” ebbero la meglio su tutte le spinte regressive, di destra e di sinistra. La
modernizzazione italiana, come quella di altri paesi, non fu il risultato dell’azione collettiva che, anzi, si manifestò
spesso in forme accentuatamente reazionarie o falsamente progressiste; fu il risultato delle grandi opportunità che un
modello di sviluppo economico crescente era in grado di offrire alle famiglie italiane per migliorare il proprio tenore di
vita», Ib., 372.
114
Come scrive Colombo: «Pasolini è davvero (…) il corvo di Uccellacci e uccellini: da un lato lo sorregge (almeno in
una prima fase) una fiducia, nella qualità universale dei suoi valori, nel sogno che su di essi si possa ricostruire una
società a misura d’uomo. Dall’altro lo inquieta la consapevolezza che questi valori hanno una concorrenza forte nelle
forme della società di massa, e che il modello consumistico rischia di essere vincente laddove l’ottica pedagogica non
sia più sorretta dalla forza delle istituzioni del sapere», F. COLOMBO: 1998, 245, 246).
115
J.D. SALINGER, The catcher in the Rye, tr. it.: Il giovane Holden, Einaudi, Torino, 1961.
116
Nel dare una simile interpretazione ci riallacciamo a uno studio di Francesco Anzelmo, nel quale si tenta di
descrivere metaforicamente, attraverso la figura di Holden, la parabola storica del medium libro durante gli anni ’70. È
nostra convinzione, invece, che tale metafora sia adeguata a descrivere tutto il decennio nel suo complesso. In ogni caso
rimandiamo alla lettura di chi “ha dato alla luce” questa idea: F. ANZELMO, Più di un decennio. Gli anni ’70 e i libri, in:
F. COLOMBO, Gli anni delle cose, I.S.U., Milano, 2000.
41
apprendisti, degli scolari che, nel mondo della scuola e nel calore dell’unità familiare, avrebbero
appreso i valori fondamentali e le regole per affrontare la vita: la civiltà americana era una civiltà
adulta, nel senso di fatta “da” e “per” gli adulti. Il divenire generazionale era perciò indolore, era un
divenire quasi esclusivamente biologico, allo stesso modo dell’andare delle stagioni, dello scorrere
degli anni: come l’alba annuncia un nuovo giorno che viene, così un ragazzo costituiva una nuova
promessa per un mondo futuro… per un mondo totalmente “adulto”.
Ma a Holden, questo tipo di valori, questa vita vissuta nell’attesa di essere grandi per diventare
qualcuno, questo preparasi a qualcosa che verrà, non va a genio: “la vita è adesso”, per questo
bisogna viverla appieno. Non si tratta semplicemente di una rivendicazione “cronologica” della
propria identità, perché quello che al protagonista del romanzo proprio non va giù è il “contenuto”
stesso della proposta del mondo dei grandi: egli ha un bagaglio cultural-assiologico completamente
nuovo, un bagaglio che definisce la sua identità, la sua personalità ed è per questo che ne rivendica
le esigenze.
Il nostro “Catcher in the rye” si sente diverso perché sente di non condividere più niente, di non
avere più niente in comune con quello che i suoi genitori e la società in cui aveva vissuto gli
stavano proponendo; per questo non accetta supinamente, passivamente, la schiera di idee, di
“Weltanschauungen” che, da decenni, venivano propinate ai suoi coetanei, nell’attesa che
diventassero qualcuno: egli scopre di avere un’identità propria, di avere un qualcosa che indica la
sua irripetibile individualità e che dunque è insopprimibile.
È dalla coscienza di essere “diverso” (e che è giusto che così sia), di essere un individuo “altro dagli
altri”, che nasce la ribellione di Holden.
La ribellione parte dalla scuola, cioè dal luogo che per tradizione ricopre il difficile ruolo di
“introduzione alla vita”. Il giovane si distingue dai suoi compagni perché parla una lingua diversa
(lo slang), perché legge dei libri diversi (quelli che «quando li hai finiti di leggere e tutto quel che
segue vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle e chiamarlo al telefono tutte le volte che ti
gira»117), fa delle cose diverse da tutti i suoi coetanei (dice bugie, beve alcolici, ha un’esperienza
sessuale con una prostituta, si fa beffa delle persone)…
Per questo decide di abbandonare sia la famiglia, sia la scuola della sua città, Pencey, verso la quale
ha ormai un rifiuto strutturale.
Lascia la sua città dunque, lascia la sua storia passata, lascia tutto il suo bagaglio di esperienze per
iniziare un viaggio, un viaggio verso la metropoli, verso la grande città, grande quanto la sua
chimera, la chimera cioè di trovare una risposta alle sue domande di senso. Già, perché l’identità di
Holden non è chiara, non è distinta, poiché egli non sa bene di cosa essa consista; egli capisce solo
che il mondo “dei grandi” non gli corrisponde, non realizza i suoi desideri. Ecco chi è “Cather in
the rye”, un individuo, non ancora uomo (non più bambino e non ancora adulto), che ha dei bisogni
ben precisi, che ha delle richieste ben definite che, nella società in cui vive, non trovano risposta;
l’essenza di questo personaggio consiste proprio in questo: in una domanda, che è una domanda di
senso ultimo, una domanda profonda sull’origine della propria identità. Da qui nasce l’idea del
viaggio.
Holden vuole liberarsi della propria infanzia, ma, nello stesso tempo, ne sente nostalgia; vuole
allontanarsi dal mondo degli adulti, ma, nello stesso tempo, vuole dare un significato alla sua vita,
per cambiare lo stesso mondo da cui proviene. Prima di partire, visita il suo vecchio insegnante di
inglese, il professor Spencer, convinto probabilmente del fatto che questo possa fornirgli una
risposta ai suoi “perché”, una risposta inserita ancora nell’assiologia di quel vecchio mondo
costruito dai genitori; niente di tutto questo, egli fa solo esperienza della caducità e della morte,
scoprendo, nel maestro di un tempo, soltanto un individuo capace di enunciare frasi prive di senso.
Prive di senso come quella per cui la vita è una partita; ma lo è, pensa Holden, solo nell’universo
dei “Grandi Calibri”; altrove non c’è nulla da giocare e, soprattutto, nulla da vincere. Allora decide
di partire, di iniziare un viaggio che possa illuminare i suoi interrogativi. Egli sente davvero di non
avere più legami con chi lo ha preceduto, ma nello stesso tempo vuole ugualmente diventare
117
J. D. SALINGER (tr. it.: 1961, 23).
42
grande, vuole ugualmente creare una società adulta, anche se migliore di quella da cui proviene. Per
questo prende una decisione che appare come un voler “tagliare le radici”, come un “lanciarsi verso
il futuro” senza guardare al proprio passato.
Ma il nostro eroe, alla fine, tornerà a casa, tornerà nel punto da cui era partito: la tradizione è un
dato che non si può cancellare. Abbraccerà la sua sorellina, l’unica alla quale aveva sempre potuto
raccontare tutto ciò che sentiva (è come se questo abbraccio fosse uno “stringersi accanto” di tutta
la generazione che egli rappresenta); poi si riavvicinerà ai suoi genitori (è il ritorno a casa) ai quali
racconterà la sua storia, sottolineando come fosse un peccato che loro non fossero lì con lui.
È il finale, carico di nostalgia: nel ricordo c’è sempre l’attesa che il momento felice vissuto (ma
anche non felice, come insegna la poetica del vago e dell’indefinito del grande Leopardi) possa
riaccadere; se ne sentono i rumori, gli odori, il calore umano di chi era presente.
Ma il viaggio, questo tentativo ribelle di trovare una risposta ai propri quesiti (risposta mai trovata),
non è stato inutile, non è stato vano; Holden ha accumulato delle esperienze di cui fa tesoro e che,
come si è visto, mette in comune con il vecchio mondo: la ribellione e il ritorno, ovvero “la
rivoluzione e il riflusso”, cioè la storia degli anni ‘70.
Perché è possibile fare un parallelo fra questo racconto e il divenire cronologico del decennio in
questione? In che senso la vicenda di Catcher in the rye chiarirebbe quello che stiamo dicendo?
Alla fine del paragrafo precedente, si era rilevata la presenza di due forze: a. una modernista e b.
una anti-modernista di matrice estremista (di destra o di sinistra).
Si è visto anche che si trattava di due elementi antitetici, in rapporto dialettico fra loro, rapporto che
sarebbe sfociato in un vero e proprio scontro. Ebbene a. può essere rappresentata metaforicamente
dal “mondo adulto” da cui Holden proviene (una cornice assiologica di tipo tradizionale), mentre b.
da Holden stesso, nel suo atto di ribellione e, successivamente, nel suo ritorno a casa.
Da un lato dunque la tradizione, che aveva contribuito alla crescita economica del paese e che era
ormai avviata verso uno sviluppo ulteriore, dall’altro chi riconosce, in questa crescita e in questo
sviluppo, qualcosa di “non corrispondente”, qualcosa di estraneo. È qui che scoppia la rivolta contro
l’ “universo dei padri”, la ribellione contro la società in cui si era cresciuti, una rivolta e uno
scontro, mossi da esigenze reali, da un’identità ben precisa, radicata in domande altrettanto ben
precise, a cui si tenta di rispondere (come nel caso di Catcher in the rye) con delle realtà
chimeriche, utopiche. Nella ricerca di tali risposte e nella progressiva coscienza
dell’irragionevolezza di molte utopie, le forze anti-moderniste maturano il proprio ritorno a casa,
tristi e malinconiche come il giovane Holden, in quanto quel “senso” che esse cercavano è
introvabile (perlomeno in ciò in cui credevano di trovarlo). Tuttavia anche la loro ribellione, il loro
viaggio non è stato vano, perché sono maturate e di questa loro maturità renderanno beneficio alla
società tutta.
In effetti, le istanze del sessantotto, delle proteste studentesche riusciranno, in qualche modo e sotto
certi aspetti, a penetrare la cultura dominante, modificando alcune visioni del mondo e alcuni
parametri assiologici: è un dato di fatto che, se un certo tipo di istanze non si fossero mai poste, la
nostra società e le sue regole, oggi, sarebbero totalmente differenti.
Quindi se da un lato la lotta fra tesi a. e antitesi b. vede una vittoria della a., dall’altro bisogna pur
riconoscere che vi è stata una sintesi che ha inglobato alcuni aspetti di b.
In ogni caso, quello che stiamo dicendo (in modo un po’ troppo libero, troppo poetico e, forse, poco
scientifico) risulterà più evidente da quello che ci accingiamo a esporre; la descrizione per mezzo
del romanzo di Salinger voleva essere una chiarificazione preliminare, una sorta di premessa che,
semplificando i termini in gioco, potesse aiutare a chiarire meglio i fatti.
Veniamo dunque alla storia: quando cominciano gli anni ’70?
Dalle righe che abbiamo scritto finora, credo risulti chiaro che, per noi, iniziano nel 1968, due anni
prima del 1970.118
E quando invece si concluderebbero?
118
Anche questa lettura non è “farina del nostro sacco”, come si suol dire, ma si rifà a una interpretazione di Fausto
Colombo che, per quel che ci riguarda, ci sembra abbastanza condivisibile. Si veda: F. COLOMBO: 2000, 7/12.
43
Nel 1980, quando 40.000 manifestanti, appartenenti a classi sociali differenti, si riversano per le
strade a protestare affinché si concluda un grande sciopero alla Fiat. Questo fatto dimostra che
qualcosa di importante, di storico, di epocale è avvenuto: le grida dei movimenti “rivoluzionari”,
“antagonisti”, si spengono per sempre; è il “riflusso”, la fine delle utopie e la vittoria del progresso
nella sua accezione più consumistico-individualista.
Chiaramente, stabilendo una datazione di questo tipo, diamo un taglio ben preciso alla nostra
ricerca; un taglio decisamente “politicizzato”, “ideologizzato”, in ogni caso molto forte. Tuttavia, ci
sembra di aver fatto una scelta abbastanza sensata, in quanto essa renderebbe giustizia dell’effettiva
realtà storica, dell’effettivo svolgersi dei fatti. È un dato, una evidenza che gli anni ’70 sono stati
caratterizzati da uno scontro politico-sociale molto forte e che tale scontro abbia indubbiamente
segnato il corso degli eventi in modo irreversibile.119
Ma lo scontro, la coesistenza “bellicosa” di due tendenze contrapposte e antitetiche condizionano
anche il mercato dei consumi mediatici, creando una situazione produttiva davvero singolare:
accanto ai “nuovi generi alti”, ovvero quelli in cui le forze rivoluzionario-oppositive rispecchiano le
proprie idee, vengono concepiti anche “beni” più commerciali, talvolta di bassa qualità (come per
esempio tutta una serie di prodotti trash/kitsch, che hanno nel filone [cinematografico] “eroticopecoreccio”120 il loro emblema); due logiche dell’oggetto culturale completamente diverse, da un
lato una logica del corvo, dall’altro una marcatamente del gatto.
È così che il mercato, una volta caratterizzato da un’offerta unitaria, inizia a frammentarsi in una
serie di “nicchie”, in una molteplicità di settori ai quali si indirizzano prodotti sempre più specifici.
È quello che succede per esempio al consumo giovanile: non esiste più una macro-categoria
commerciale chiamata “giovani”; il concetto stesso di “gioventù” diventa un universo, all’interno
del quale è possibile ritrovare domande, richieste, gusti, bisogni completamente differenti, se non
addirittura contrapposti.121 Si pensi al mondo della musica leggera: esso è davvero una
macrocategoria, un macroinsieme, una “terra di confine”, entro la quale “trovano dimora” le
sonorità più disparate (: discomusic, rock psichedelico, punk, hard rock…)122
In definitiva, si può parlare di una crescente complessità delle richieste dei consumatori, causata da
una sempre maggiore eterogeneizzazione della società. Qui sorge però una domanda: l’offerta (nella
fattispecie quella televisiva) risponde a questa frammentazione? O meglio, c’è un’effettiva risposta
a quello che, in definitiva, non è altro che un bisogno di pluralismo?
Come si è visto, la Rai, negli anni ’50 e ’60, era stato uno strumento utilizzato dal potere esecutivo
per dare corpo a un progetto unitario: plasmare la società italiana per renderla omogenea, e per
119
Riportiamo qui di seguito le ragioni che hanno spinto Fausto Colombo a scegliere una simile datazione: «Scegliendo
come inizio e fine del periodo eventi che riguardano la lotta sociale e politica si è dato un particolare taglio
interpretativo alla ricostruzione storica, taglio che qualcuno potrà non condividere. Questa scelta è comunque motivata
da due ordini di ragioni:
- Lo scontro politico e sociale ha segnato obiettivamente (anche se non in modo esclusivo) il periodo: basti
pensare alla durata delle contestazioni studentesche (assai più lunghe che in qualunque altro paese dopo la
fiammata del ’68), o al terrorismo come svolta radicale e drammatica dei conflitti di piazza, culminata con il
rapimento e l’uccisione di Moro nel 1978 (…)
- La rivolta giovanile è stata un’arma determinante nell’imprimere alla società italiana una spinta alla
modernizzazione dei costumi che forse avrebbe altrimenti richiesto più tempo e si sarebbe esercitata con più
mediazioni (…)
- Infine, il contrasto fra questo brusco scarto di modernizzazione e il successivo riflusso, che comunque fa propri
gli elementi del consumismo accentuando la pulsione alla soggettività, segnala l’ambiguità profonda delle
istanze che attraversarono la società italiana, che da un lato potevano apparire antagoniste, dall’altro possono
essere lette come puramente funzionali a uno sviluppo liberal-moderno, con l’accentuazione dei diritti di
consumo e di garanzia rispetto a quelli di partecipazione», Ib., 9, 10.
120
Per avere una rapida istantanea della realtà cinematografica negli anni ’70, si veda: A. BELLAVITA, Il cinema dei
mostri, in: F. COLOMBO (2000: 55/74)
121
Così si esprime Fausto Colombo: «(…) l’incremento dell’offerta generò la frammentazione dei consumi, la
differenziazione dei gusti e la specializzazione della fruizione. Il “mondo giovanile” divenne così quello che è oggi,
ossia una “galassia” in cui tendenze anche contraddittorie convivono e si scontrano», F. COLOMBO (1998: 242).
122
Per una breve storia della discografia negli anni ’70, si veda: L. FACCHINOTTI, L’industria discografica tra
produzione e consumo, in: F. COLOMBO: 2000, 83, 107.
44
lanciarla verso il progresso e la modernizzazione. Tale “mono-ideologia” fa sì che l’azienda di
Stato, all’alba degli anni ’70, si trovi strutturalmente e idealmente impreparata a operare secondo
criteri di “pluralismo” (unico valore corrispondente alla frammentata realtà dei consumi).
Per questa ragione, emergono esigenze dal basso che chiedono con forza una riforma della Rai,
affinché la radiotelevisione italiana possa essere davvero uno “specchio della società”, cioè possa
dare voce davvero alle diverse visioni ideologiche.123 Si tratta di un progetto senza dubbio legittimo,
ma, per due ordini di ragioni, di non così facile attuazione:
a. Perché ci troviamo in Italia e, in Italia, per attuare una riforma, è necessario che trascorrano
decenni.
b. Perché si tratta di dare spazio a istanze che, come si è visto, fanno capo a forze antitetiche,
contrapposte. Allora, se il principio di non contraddizione di cui parlava Aristotele è ancora
valido (cioè se a non può essere, nello stesso tempo, il suo contrario), non è possibile che
tesi e antitesi convivano nella stessa realtà, perché l’una esclude l’altra.
E in effetti, la storia della riforma della Rai, durante gli anni ’70, è caratterizzata proprio da un
continuo oscillare fra istanze rivoluzionarie e istanze di tipo “aziendalistico-capitalista”. Alla fine,
queste due tendenze si distruggeranno a vicenda e, nei fatti, verrà attuata un terzo tipo di politica,
magari suggerita dalla concorrenza con i privati: quella del capitalismo selvaggio.124
Ma torniamo a noi!
La prima proposta, la prima istanza in senso pluralista è quella di affidare il controllo dell’azienda
al parlamento, sottraendolo al governo, troppo orientato a una gestione “di parte”; il legislatore (si
credeva), in quanto maggiormente rappresentativo della realtà popolare, avrebbe potuto
amministrare in maniera più imparziale o quanto meno più in linea con la complessità delle
posizioni ideologiche.125
Alla fine degli anni ’60, arriva un documento firmato da tre membri del “management” della stessa
Rai (Bruno, De Rita, Martinoli), divenuto celebre con il nome di “documento dei tre esperti”, che
vuole una Rai riformata non soltanto in senso pluralista, ma soprattutto “aziendalista”, cioè in una
direzione che si pone perfettamente in sintonia con le spinte al progresso e alla modernizzazione. Si
tratta di un progetto di cui la Rai aveva certamente bisogno per vincere la sfida con i privati, con
quei privati che, di lì a qualche anno, avrebbero cominciato a popolare l’etere. Tuttavia, chi avrebbe
dovuto riconoscere il pregio di simili proposte preferisce arroccarsi su posizioni conservatrici,
benché formalmente rispettose di quelle idealità rivoluzionare che, in questo preciso momento
123
Come scrive Franco Monteleone: «Il ’68 non solo aveva mandato in frantumi il “miracolo economico” ma aveva
messo in crisi tutto l’assetto e il ruolo del sistema di comunicazione di massa, aveva fatto saltare le sue rigidità, aveva
liberato nuove forze ed espresso nuove domande sociali e politiche. Negli anni immediatamente successivi, il sistema
appare quindi improvvisamente arretrato e inadeguato rispetto ai livelli di coscienza sociale che si vanno producendo
(…) In quel clima nasce un movimento di opinione politico, sindacale, professionale e culturale, che dagli anni ’70
comincia a porsi concretamente l’obiettivo di riformare, o meglio di rifondare la Rai, ma che in realtà aveva già fatto
sentire la sua voce (…) fin dall’immediato dopoguerra, con lo scopo di dotare il paese di un servizio pubblico
radiofonico, e televisivo, rispondente a quelle caratteristiche di autonomia e di pluralismo che la Rai, nonostante i suoi
meriti e i suoi pregi, non aveva certo incoraggiato», F. MONTELEONE: 1992, 378, 379.
124
Anche in questo ci siamo affidati al giudizio di Franco Monteleone: «Forse, anche un po’ semplicisticamente, si può
affermare che la storia della radiotelevisione, per un periodo limitato che va dal 1970 al 1975, può essere vista come
una continua oscillazione tra fermenti rivoluzionari e istanze di ristrutturazione capitalistica. Nel compromesso che si
stabilì tra l’una e l’altra di queste opzioni finirà per vincere una terza strada, quella di un mercato da capitalismo
selvaggio, che inizialmente sembrava accontentare un po’ tutti ma che, durante il tormentato ultimo decennio, riuscirà a
imporre l’assolutismo del duopolio», Ib., 378.
125
Nel porre le istanze di riforma della Rai, Franco Monteleone riconosce tre grandi gruppi: «(…) un primo gruppo
comprende le maggiori forze politiche, tra le quali si distingue il Partito socialista che, della battaglia riformatrice finirà
per fare il suo fiore all’occhiello; un secondo gruppo raccoglie tutte quelle istanze che emergono dai sindacati, dagli
uomini di cultura, dai costituzionalisti e anche dalle numerose frange del movimentismo di ispirazione francofortese; un
terzo gruppo si identifica con lo stesso management della Rai ben consapevole che occorre mutare qualcosa affinché,
gattopardescamente, tutto resti uguale», Ib., 381.
45
storico, hanno il grosso demerito di rallentare l’evoluzione e la modernizzazione del sistema
radiotelevisivo nazionale.126
Intanto, nel 1969, viene preparato l’Ordine di servizio, mai firmato dall’allora presidente
dell’azienda; da qui prendono il via feroci polemiche, che, lungi dallo “spegnersi”, si protraggono
oltre il 1980.
In realtà però non c’è molto tempo per polemizzare dato che, il 15 dicembre 1972, sarebbe scaduta
la convenzione fra Stato e Rai, mentre le prime emittenti radiofoniche e televisive via cavo
sarebbero sbocciate come fiori in primavera, seminando breccia sul terreno della sempre indiscussa
predominanza della radiotelevisione pubblica.
Ed è proprio questo il secondo problema su cui si discute e ci si divide: l’apertura ai privati.
Su questo “Schwerpunkt” si formano due fazioni:
a. I partiti politici che premono affinché venga riformata a fondo la Rai e venga lasciato il
minore spazio possibile ai privati.127
b. Un movimento di opinione e di stampa, di cui si fa portavoce in un articolo128 anche
l’opinionista Eugenio Scalfari (che, negli anni ’90, sarebbe stato stranamente uno dei
maggiori oppositori di Silvio Berlusconi e, dunque, delle tv private), che vede nelle neonate
emittenti “libere” una possibilità concreta per creare un effettivo pluralismo.
Da quanto abbiamo detto finora, risulta chiaro che i “nodi al pettine”, i punti su cui infuria la
polemica sono sostanzialmente due:
a. La riforma della Rai.
b. L’apertura ai privati.129
Ma la storia della televisione commerciale in Italia ha in realtà radici più lunghe nel tempo e risale
agli anni ’50, quando, nel 1957 (grazie anche all’intervento della società americana RCA), nasce a
Milano la TVL. Tuttavia, prima ancora che questa emittente possa cominciare a trasmettere,
facendo magari diretta concorrenza alla tv di Stato, un commissario di Pubblica sicurezza mette
sotto sequestro le apparecchiature. Nel 1960 poi, arriva anche una sentenza della Corte
Costituzionale, la numero 59, che decreta l’impossibilità, per dei privati, di operare in campo
televisivo (a causa di un evidente rischio per la formazione di oligopoli).130 Da questo momento in
126
Nella lotta fra quelle due forze contrapposte di cui abbiamo parlato, le istanze rivoluzionarie ottengono una qualche
vittoria che tuttavia, qualche anno più tardi, in un regime di concorrenza, sarebbe costata davvero cara all’azienda di
Stato, incapace, per obsolescenza di strutture gestionali, di reggere il passo con i privati: «Gli ideali di una radicale
eguaglianza sociale ed economica erano in forte contrasto con la direzione di marcia che la società italiana aveva
assunto fin dal miracolo economico. La modernizzazione del paese stava prendendo altre strade, prima fra tutte quella
dell’individualismo (non a caso cardine del successo della televisione commerciale e della cosiddetta neo-tv). A molti
anni di distanza si prova un forte disagio nel rileggere certi atti dei numerosi convegni preparatori della riforma della
Rai, gli interventi della stampa di sinistra, le dichiarazioni dei politici. Questi ultimi, soprattutto, mostrano di essere
costantemente in ritardo nella capacità di prevedere le trasformazioni rapidissime di un paese industriale (…) sotto una
pesante ipoteca di tipo collettivistico, che animava ogni discussione a quell’epoca, le istituzioni e le strutture pubbliche
non vennero mai trasformate in senso moderno, né si fu in grado di porre un freno ai peggiori eccessi di uno sviluppo
non programmato, come dimostrò la rapidità con cui si accrebbe la dimensione caotica della presenza commerciale
nell’etere», Ib., 380.
127
«Quanto ai partiti (…) Ciò che li accomuna è il consenso generale nel respingere la privatizzazione. Sulle altre
questioni, la Democrazia Cristiana insite per la riforma interna della Rai e invoca un intervento più efficace del
parlamento; il Partito comunista vuole un rafforzamento della funzione di servizio pubblico, la sua regionalizzazione, il
controllo democratico sulla sua gestione e l’assoluta separazione dal potere esecutivo; il Partito socialista rifiuta ogni
concessione ai privati e auspica la creazione di un ente pubblico a statuto speciale, con una più precisa accentuazione
del monopolio, un controllo parlamentare, una forte spinta al decentramento», Ib., 383.
128
E. SCALFARI, E ora, libertà d’antenna, in: L’espresso, 23 gen. 1972.
129
Per un’analisi dettagliata di tutto il dibattito legislativo attorno alla tv privata e alla riforma della Rai, si veda sempre:
F. MONTELEONE: 1992, 384/402.
130
La storia ci viene raccontata da Aldo Grasso: «(…) il primo aprile 1952 confluirono a Milano per seguire i lavori di
impianto e preparare i programmi da trasmettere: gli ingegneri Andrea Cuturi, Sergio Bertolotti, Andrea Magelli,
Renato Mori e Ugo Motta; i primi registi specializzati Franco Enriquez, Mario Landi e Daniele D’Anza; i cameramen:
tutti pronti a dare vita alla magia del nuovo medium. Il 16 maggio del 1957 nacque la Spa TVL (televisione libera) con
l’obiettivo di creare una rete televisiva in concorrenza con la Rai, William Berns, dirigente della Radio Corporation of
America, proprietaria del network NBC, fornì i macchinari, i tecnici e molte trasmissioni pronte per essere doppiate,
46
avanti, non ci sarà più nessun’altra iniziativa nel settore, finché… nel 1971, in Piemonte, nasce
Telebiella, stazione via cavo (tecnologia abbastanza inusitata nel nostro paese). Dopo questo primo
esperimento, altre emittenti dello stesso genere sorgono in tutto lo stivale, generando un vero e
proprio fenomeno di costume.
Tuttavia, l’avventura della tv piemontese rischia di concludersi pochi anni più tardi, nel 1973,
quando la magistratura interviene a farne chiudere le attività; sarà un successivo pronunciamento
dello stesso organo giuridico a permetterne la riapertura.
Ma accanto alle tv via cavo, esiste un altro importantissimo fenomeno: quello delle tv estere. I
fratelli Marcucci installano, sul territorio italiano, antenne destinate a ripetere il segnale della
ticinese RTSI e dell’istriana Capodistria, creando una situazione di forte concorrenza con la Rai.
Queste due emittenti rappresentano un pericolo da due punti di vista:
a. Da un punto di vista pubblicitario, in quanto offrono delle possibilità promozionali
all’investitore italiano, senz’altro più concorrenziali rispetto all’azienda di viale Mazzini.
b. Da un punto di vista tecnologico, perché possiedono già il colore, servizio che gli
apparecchi, nelle case degli italiani, sono predisposti a ricevere. Molti spettatori infatti, per
questa ragione, preferiranno seguire i mondiali di calcio del 1974 (quelli che hanno avuto
luogo nella Germania Federale) sulle reti estere invece che sulla Rai.
Ma il 7 giugno del 1974, un decreto del ministro Togni impone lo smantellamento dei ripetitori
installati dai fratelli Marcucci, impedendo quindi alle reti straniere di operare sul nostro territorio.
Questo fatto causa una serie di scontri politici alla Camera come al Senato e una vera e propria
“partita di tennis” fra il parlamento e la Corte Costituzionale; nel luglio del medesimo anno infatti,
la stessa Corte pronuncia due sentenze, la n. 225 e la n. 226, con le quali stabilisce l’illegittimità di
alcuni articoli del Codice postale del 1973, affermando due principi sostanziali:
a. La parzialità e la faziosità di una Rai governata dall’esecutivo, quindi la necessità di
attribuire al legislatore i compiti di gestione, per garantire maggiori condizioni di
pluralismo.
b. L’illiceità di quei provvedimenti che hanno interrotto le attività delle tv estere via etere e
delle tv locali via cavo.131
Dunque, quanto meno indirettamente, i privati sono incentivati a continuare per la strada che
avevano iniziato a battere; tuttavia, accanto a quello delle emittenti via cavo, vi è un’altro fenomeno
importante: la nascita delle tv e delle radio locali via etere. Siamo all’alba della “stagione dei cento
fiori”.
Intanto, il parlamento si mette in moto per trovare una soluzione legislativa ai problemi posti dalla
Corte. Le direzioni in cui si muove sono sostanzialmente tre:
a. Dare spazio alle iniziative in ambito radiotelevisivo a livello locale, attribuendo alle Regioni
e al Ministero delle Poste e delle Telecomunicazioni il compito di regolarne l’accesso.132
mentre Giovanni Vittorio Figari mise parte del capitale iniziale, ma prima che l’emittente potesse trasmettere, gli
impianti di TVL vennero sequestrati. La nuova televisione, infatti, avrebbe dovuto prendere il via il 6 novembre con la
presenza in studio di Frank Sinatra, ma una sera d’ottobre dello stesso anno un commissario di pubblica sicurezza si
presentò al grattacielo di piazza della Repubblica e sigillò le porte dei quattro appartamenti che erano diventati sede di
TVL. Il 13 luglio 1960 la Corte Costituzionale depositò la sentenza n. 59, che riaffermava l’oggettiva esistenza di un
“monopolio naturale”, determinato dalla limitatezza dei canali utilizzabili (…) la Corte stabilì che la comunicazione via
etere non potesse essere lasciata in mano a privati per non creare pericolose situazioni oligopolistiche; inoltre solo lo
Stato era stato in grado di garantire le condizioni di imparzialità, obiettività e completezza affinché il servizio televisivo
fosse di utilità pubblica», A. GRASSO: 2000, 174, 175.
131
Questo è quanto scrive Roberto Zaccaria nel 1977, dunque molto tempo prima di diventare presidente della Rai:
«[Nella prima sentenza], in sette punti la corte trovò il modo di dire che il monopolio radiotelevisivo per essere
legittimo avrebbe dovuto escludere una preponderanza del potere esecutivo nella gestione, lasciando ampio spazio a
direttive tese a garantire l’imparzialità dei programmi e il pluralismo delle idee, assicurando al contempo indipendenza
ai lavoratori interni ed in particolare ai giornalisti, il diritto di accesso e di rettifica ed adeguate limitazioni ai proventi
pubblicitari per tutelare in termini sostanziali la libertà di stampa (…) [Nella seconda sentenza] si dichiarava invece la
illegittimità delle nuove disposizioni del Codice postale del 1973, quelle cioè che avevano determinato la chiusura delle
varie stazioni sorte in Italia nei mesi precedenti, affermando, per la televisione via cavo di carattere locale il principio
della piena liberalizzazione». R. ZACCARIA, Radiotelevisione e Costituzione, Giuffrè, Milano,1977, 74.
47
b. Riformare in senso “aziendalista” la Rai, rendendola un’azienda privata a totale
partecipazione pubblica.133
c. Realizzare nel miglior modo possibile un decentramento interno e regionale della suddetta
azienda.134
Si tratta di tre punti contenuti in un progetto di legge della Democrazia Cristiana; tuttavia, un testo,
un disegno deve seguire vie abbastanza tortuose, prima di venire effettivamente approvato. Di
conseguenza, l’atto di promulgazione di una nuova normativa in materia radio-tv deve passare
attraverso accesissimi dibattiti parlamentari.
Il governo Rumor, proprio a causa di questo “Schwerpunkt” è costretto a dimettersi. Per superare i
contrasti all’interno della camera, il nuovo esecutivo, presieduto dall’onorevole Aldo Moro, sceglie
la via del decreto. Il documento prevede:
a. Una riqualificazione della Rai, in quanto azienda privata a totale partecipazione pubblica.
b. Una giustificazione del monopolio della radiotelevisione di Stato, sulla base del “carattere
pubblico” del suo servizio.
c. La creazione di un terzo organo (accanto al Consiglio di amministrazione e alla
Commissione parlamentare): il Comitato nazionale per la radiotelevisione, composto da
delegati del parlamento, delle Regioni e dei sindacati, più alcuni membri eletti dal
Presidente della Repubblica.135
Allo scadere della validità del provvedimento, il testo non diventa legge per un’opposizione
dell’MSI, che non si vede rappresentato nel Comitato. Allora, il 22 gennaio 1975, il governo decide
di doppiare il decreto, lasciandolo fondamentalmente identico, nella sostanza dei suoi contenuti.
Tuttavia, l’esecutivo ha coscienza del fatto che, quella che ha scelto, è una via tortuosa, una via che
incontrerà sempre l’opposizione del partito della fiamma tricolore (il quale peraltro, per far valere le
sue posizioni, non farà altro che proporre emendamenti, con l’unico risultato di bloccare un iter già
di per sé impervio).
Il decreto allora viene trasformato in un disegno di legge che:
a. lascia pressoché immutati i punti principali del precedente provvedimento,
b. elimina definitivamente il Comitato nazionale per la radiotelevisione, per evitare un ulteriore
ostruzionismo missino.
È l’8 febbraio 1975.
Questo testo diventa normativo nell’aprile dello stesso anno, il 14 per la precisione, mentre viene
pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il 17: è la famosa “legge 103” per le “Nuove norme in materia
radiotelevisiva”.
I nodi fondamentali sono i seguenti:
132
Lo stesso Zaccaria ci informa su come un progetto dell’allora Democrazia Cristiana intendeva risolvere questo
problema: «La proposta di legge D.C. (…) Dettava norme sulla installazione dei cavi e sull’esercizio delle trasmissioni;
attribuiva alla Regione, oltre che al ministero delle Poste, la competenza in materia di autorizzazioni, ma soprattutto
imponeva ai privati di utilizzare cavi pluricanali, concedendo spazi gratuiti agli enti locali, alle istituzioni pubbliche…
erano, poi, posti limiti all’estensione della rete, onde evitare ipotesi oligopolistiche e limiti erano posti anche
all’impiego della pubblicità commerciale…», Ib., 77.
133
Anche in merito a questo punto rimandiamo a una citazione di Zaccaria: « (…) il testo (…) indicava una concreta
soluzione di compromesso riguardo alla natura dell’ente, scartando l’ipotesi dell’ente pubblico ma prefigurando una
società privata a totale partecipazione pubblica (con il capitale ripartito fra Stato e Regioni…)», Ib., 76.
134
« (…) il testo (…) conteneva alcune originali soluzioni sul piano del decentramento interno ed in particolare di
quello regionale». Ib., 76.
135
Così Zaccaria: «Il monopolio esteso alla radio e alla televisione via etere e via cavo di carattere non locale, per la
prima volta, veniva giustificato facendo leva sul carattere di servizio pubblico riprendendo così un indirizzo manifestato
dalla Corte costituzionale (…) La forma privata della società restava sì inalterata, ma con profonde modificazioni
strutturali e con l’attribuzione dell’intero pacchetto alla mano pubblica. Accanto alla commissione parlamentare (…)
veniva costituito un organismo (…) il Comitato nazionale per la radiotelevisione (…) con il compito di sovrintendere
alla delicata materia dell’accesso». Ib, 80.
48
a. Attribuzione allo Stato (in forza dell’articolo n. 43 della Costituzione) del compito di curare
il servizio radiotelevisivo, in quanto “servizio pubblico essenziale”, impedendo l’iniziativa
privata nello stesso settore.136
b. Concessione ai privati (art. 1) di trasmettere via cavo in ambito locale.
c. Attribuzione (art. 2) del compito di installare gli impianti per la trasmissione via etere al solo
Stato, ad eccezione delle emittenti estere, già operanti sul territorio italiano.
Con un “colpo di spugna”, vengono cancellate tutte le imprese radiofoniche e televisive via etere (si
tratta di diverse decine): la loro attività, diventata ormai consuetudinaria per un gran numero di
telespettatori/ascoltatori, affonda “nel mare dell’illegalità”. Ma la domanda che a questo punto
sorge spontanea è la seguente: può il legislatore intervenire a modificare uno stato di cose già
ampiamente radicato, cioè, nella fattispecie, può interrompere l’azione di tanti operatori massmediali, che hanno trasformato in breve tempo la loro impresa in una vera e propria azienda? La
risposta è chiaramente negativa, soprattutto se si considera il fatto che, nel momento in cui le tv
nascono, non sono teoricamente in contraddizione con i principi contenuti nel Codice postale:
perché le emittenti locali dovrebbero essere considerate “piratesche” o “anarchiche”, se non esiste
alcuna normativa che permetta di stabilirne la condizione legale?
È questo il punto fondamentale: il legislatore, nel corso di questo decennio (ma anche di quello
successivo), si dimostra incapace di creare delle regole lungimiranti, capaci cioè di prevedere, a
partire dal presente, una potenziale situazione futura. Il parlamento, pertanto, si troverà sempre di
fronte a delle situazioni di fatto, che non potrà far altro che registrare; come si può far chiudere i
battenti, di punto in bianco, a migliaia di aziende? Come si può far cessare, senza preavviso,
l’attività di così tante imprese? Dove andranno a finire gli occupati del settore, in un paese che non
è certo noto per le sue infinite possibilità di impiego?
A difendere le radio e le tv locali, ci pensa la Corte Costituzionale che, nel luglio 1976, emana
un’altra sentenza, la n. 202, con cui dichiara incostituzionali gli articoli 1, 2, 14 e 45 della legge
103/1975137: viene lasciato così libero il passo agli imprenditori “via etere”, operanti in ambito
locale.138 È questo il primo colpo al monopolio Rai; crolla così una di quelle solide certezze (:il
monopolio) che avevano accompagnato l’attività dell’azienda di Stato, durante tutti gli anni ’50 e
’60. L’unica esclusività, che la radiotelevisione pubblica conserva, è il diritto a trasmettere su tutto
il territorio nazionale (resta cioè l’unico “network” riconosciuto dalla legge).139
Roberto Zaccaria, attraverso un suo intervento al VII Convegno nazionale sulle comunicazioni
sociali, organizzato dalla Pia Società San Paolo, nel 1977 ad Ariccia, ci aiuta a capire quali sono i
principi fondamentali contenuti nel documento140:
a. Pluralismo: libertà di espressione in ambito locale e rappresentanza, all’interno dell’azienda
pubblica, di tutte le posizioni esistenti all’interno della società civile.
136
Su questo aspetto ci informa sempre Zaccaria: «Così il primo comma della 1. n. 103 del 1975: “La diffusione
circolare di programmi radiofonici via etere o, su scala nazionale, via filo e di programmi televisivi via etere, o, su scala
nazionale, via cavo e con qualsiasi altro mezzo costituisce, ai sensi dell’articolo 43 della costituzione, un servizio
pubblico essenziale ed a carattere di preminente interesse generale, in quanto volta ad ampliare la partecipazione dei
cittadini e concorrere allo sviluppo sociale e culturale del paese in conformità ai principi della costituzione. Il servizio è
pertanto riservato allo stato” (…) Questa riserva (…) impedisce qualsiasi attività imprenditoriale privata nello stesso
settore e si pone, al tempo stesso, come presupposto per la definizione dell’ambito del monopolio statale». Ib., 86, 87
137
Si veda sempre: F. MONTELEONE: 1992, 391.
138
Come fanno notare Doglio e Richeri: «La radiotelevisione considerata fino a questo momento (…) “un servizio
pubblico essenziale e di preminente interesse generale” viene ricondotta nel sistema del mercato. Si riconosce quindi
anche per essa la correlazione fra libertà di informazione, di espressione e libertà di impresa…», D. DOGLIO – G.
RICHERI, La radio, Mondadori, Milano, 1980, 189.
139
In questo ci rifacciamo a un’idea di Robero Zaccaria: « (…) la Corte (…) ha dichiarato (…) parzialmente illegittimi,
sia l’art. 1 che l’art. 2 della legge del 1975, per il fatto che includevano indebitamente nella riserva allo stato anche
l’installazione e l’esercizio degli impianti radiotelevisivi, via etere, di carattere locale e così ha determinato una
restrizione nell’ambito del monopolio statale che ora risulta circoscritto alla sola e sia pure rilevantissima dimensione di
carattere nazionale». R. ZACCARIA: 1977, 89.
140
R. ZACCARIA, La disciplina delle radio private di carattere locale, in: G. GAMALERI, Un posto nell’etere, Ediz.
Paoline, Roma, 1978, 41.
49
b. Economicità di gestione: creazione di realtà economicamente autosufficienti, attraverso il
ricorso a risorse pubblicitarie.
c. Preminenza del servizio pubblico: priorità della Rai nell’utilizzo delle frequenze.
Resta però un problema sostanziale: la sentenza lascia un grosso vuoto normativo in merito alla
disciplina dell’accesso.
Per esempio, non chiarisce che cosa si intende per “ambito locale”, contrariamente alla 103 che
invece ne dava una chiara spiegazione:
a. Aree topografiche che non superano il perimetro di un centro abitato.
b. Aree costituite da una continuità di comuni o centri abitati che non superano il raggio di 115
chilometri.
c. Aree metropolitane con un raggio inferiore ai 20 chilometri.141
Si tratta dunque di una disciplina molto chiara, molto precisa, ma sulla quale restano delle
perplessità: è giusto basarsi solo su elementi geografico-topografici nella definizione di un concetto
come quello di “ambito locale”? Ci pare, sinceramente, di no!
Mentre una tv di Milano può trovare risorse pubblicitarie facilmente, anche nel raggio di un
chilometro, un’emittente lucana farà magari invece molta fatica, nel raggio di diversi chilometri. E
poi, non è forse oggettivamente più utile la presenza di una stazione televisiva in Basilicata, realtà
poco rappresentata dai mezzi di comunicazione ufficiali, piuttosto che a Milano (almeno da un
punto di vista semplicemente informativo)?
Nell’analisi della storia della legislazione del mezzo, ci pare che simili interrogativi non abbiano
giocato un ruolo forte, non abbiano avuto quella dovuta attenzione che meritavano.
Per quel che concerne invece le nuove normative riguardanti la Rai, la 103 resta valida; i punti più
importanti sono i seguenti: gestione dell’azienda da parte del parlamento e non solo del governo,
pluralismo accentuato all’interno dell’impresa, attribuzione di poteri (diritto di accesso e di rettifica)
alle regioni, accentuazione della dimensione aziendale e creazione di un terzo canale che avrebbe
dovuto dare voce alle realtà locali.
Tuttavia, una riforma di questo tipo si dimostrerà inadeguata (e ciò in modo ancora più
macroscopico nel settore radiofonico) a rispondere alle esigenze di una società ormai già
radicalmente cambiata rispetto ai decenni precedenti; in breve, la nuova normativa non è nient’altro
che un “ultimo sussulto” di una logica del grillo che, nell’imporre ideologicamente i suoi contenuti,
fa propri gli strumenti del corvo.142 Il pubblico, tutto il pubblico, di tutte le posizioni ideologiche, ha
una sola esigenza, una sola richiesta (è questo in fondo l’unico minimo comun denominatore tra le
due forze culturali in lotta): la partecipazione, ovvero la rottura di quel muro di separazione, di
quella distanza, esistente da sempre, tra “mittente e destinatario”. In questo senso, sarebbe stata
necessaria, immediatamente, una Rai “de-istituzionalizzata”, un’azienda dotata di un apparato
organizzativo veloce, de-burocratizzato e capace di cogliere, nell’immediato, le richieste del
pubblico.143 Nonostante le innovazioni (di cui la tv di Stato pure è capace), la radiotelevisione
pubblica risponde spesso troppo tardi alle esigenze del mercato (per esempio, nel caso del colore
141
Sull’argomento si veda: G. RICHERI, Radiotelevisione: verso un monopolio imperfetto, in: Ikon, Sett. 1978, 142.
Nel merito, Franco Monteleone esprime un giudizio ancora più negativo del nostro: «La riforma del 1975 (…) aveva
rappresentato il tipico prodotto di una cultura della comunicazione paleoindustriale e anticapitalistica, frutto di un
compromesso politico fra ideologie spesso addirittura contrapposte che consisteva nel fare proprie le istanze della
sinistra mantenendo inalterate le premesse culturali della tradizione cattolica. Il risultato fu un rilancio difficile della
programmazione e la perdita di competitività tecnologica (tra cui l’abbandono di qualsiasi strategia nell’utilizzazione
del cavo)», F. MONTELEONE: 1992, 398.
143
In questo senso, sempre Franco Monteleone nota come, in realtà, sia per effetto della domanda del pubblico (che
trova risposta più nella televisione commerciale) e quindi della conseguente ascesa della tv privata che il monopolio
viene rotto; tale rottura, alla lunga, sarà un beneficio per la stessa Rai, la quale riuscirà a dotarsi di una struttura più
snella e aziendalizzata: «La tv cambia volto, cambia la domanda e l’atteggiamento del pubblico nel momento in cui
cambia la società italiana. La rottura del monopolio non fu una causa ma un effetto necessario di questa trasformazione
che la politica riuscì a governare solo in parte. Soltanto con la rottura del monopolio, l’azienda, anche se a tentoni
inizialmente, ma con forte dinamismo nel volgere di due anni, riuscirà a superare il vecchio modello di consumo
recuperando la sua dimensione d’impresa. Senza il contesto esterno, per quanto turbinoso e sregolato, la Rai sarebbe
rimasta un ente monopolistico e ministeriale (tentazione mai sconfitta) del tutto scollato dalla realtà del paese», Ib., 398.
142
50
[servizio che diviene ufficiale solo il primo febbraio 1977144] o nel caso dell’apertura di una terza
rete [avvenuta nel 1979, ben 4 anni dopo la pubblicazione della legge 103145]).
Ma mentre la Rai non si può dire che navighi in buone acque, con un timone retto da una classe
dirigente non proprio al passo con i tempi, i privati iniziano a costruire la propria ascesa, legittimati
dagli interventi della Corte costituzionale.146
Il 24 settembre 1974 inizia a trasmettere Telemilano via cavo; l’emittente dell’allora costruttore
Silvio Berlusconi si rivolge a un utenza abbastanza limitata: i residenti del quartiere di Milano due.
Si tratta di una stazione di servizio dunque, che gli affittuari/proprietari degli appartamenti trovano
compresa nel pacchetto di optional che “Edilnord” (l’impresa edile del futuro capo di governo) offre
ai suoi clienti. Nulla di pretenzioso dunque: una serie di annunci letti da una ex-centralinista alle 12
e alle 19, più qualche film, di tanto in tanto, alla sera.
Ma il cavo è una tecnologia costosa, non soltanto per quel che riguarda la sua messa a punto, ma
anche e soprattutto per la sua manutenzione. È per questa ragione di ordine economico che gli
imprenditori radiotelevisivi preferiscono l’etere.
Iniziano a fiorire così le prime emittenti; solo per fare qualche esempio, citiamo le più importanti,
quelle cioè che diventeranno, più in là, dei network: Antenna Nord dell’editore Rusconi,
Telealtomilanese (acquistata dal gruppo Rizzoli-Corriere della Sera nell’aprile del 1978), Antenna 3
Lombardia di Enzo Tortora e Renzo Villa, Telenova della Pia Società San Paolo…
Nel frattempo, Berlusconi trasforma la sua tv di quartiere in una vera e propria emittente: nel
maggio 1978, Telemilano cavo si trasforma in Telemilano 58 (via etere). Inoltre, l’imprenditore
milanese tenta di dare fin da subito una struttura aziendale solida al proprio canale, segmentando e
ripartendo le varie occupazioni, attraverso la creazione di apposite società:
- Publitalia, per la vendita degli spazi pubblicitari.
- Videoprogram, per la produzione.
- Reteitalia, per l’acquisto e la vendita delle trasmissioni.
- Videotecnica, per il controllo dei materiali e per il servizio di assistenza.
Tutte sono sottoposte al controllo finanziario della COFINT.
È possibile intravedere perciò fin da ora il grande successo che avrebbero ottenuto le imprese
radiotelevisive del futuro Presidente del Consiglio dei ministri.
Dopo aver accennato brevemente all’evoluzione storica, si comprende meglio il discorso relativo
alla lotta di due forze contrapposte: la progressiva ascesa dei privati, nella seconda metà degli anni
’70, dimostra in modo ineluttabile come un tipo di logica liberal-capitalistica (con gli annessi valori
di tipo individualista) si sia inesorabilmente affermata, a discapito di qualunque ideologia
collettivistico-anticapitalista. Questo è il segno più evidente di quanto la società sia cambiata e stia
cambiando.147
144
Si tratta di un ritardo che causa pesanti ripercussioni: «Soltanto dal 1° febbraio 1977 la Rai aveva avviato
ufficialmente le trasmissioni televisive a colori: un ritardo che aveva pesato su tutto il comparto della nostra industria
elettronica», Ib., 398.
145
Il creare una terza rete televisiva era in realtà un vero e proprio errore politico, scaturito sempre da una logica
politica vecchia, “lottizzante”.Questo è quanto riferisce Franco Monteleone: «Con l’inizio delle trasmissioni della terza
rete, il 15 dicembre del 1979, la Rai intende continuare ad assolvere ad alcune funzioni ormai del tutto decadute dai
palinsesti delle altre due (…) dal punto di vista del palinsesto la terza rete rappresentava già allora una scelta di
retroguardia (…) la Rai scelse, o meglio fu costretta a scegliere, per la terza [rete], la strada del regionalismo e della
programmazione paraculturale. Contro questa neonata creatura si formò subito una santa alleanza. All’interno, i direttori
della prima e della seconda, impegnati a farsi concorrenza fra loro, vedevano mal volentieri l’irrobustimento di un terzo
soggetto; all’esterno, gli interessi economici e politici legati al mondo dell’emittenza privata lavoravano per mantenere
basso il profilo di questa rete. La spiegazione del suo sostanziale fallimento, negli anni dell’esordio, non sta nella scarsa
diffusione del segnale (…) e neppure negli stanziamenti modesti, nella mancanza di pubblicità e nella qualità non
sempre eccellente dei suoi programmi, ma sta nel fatto che si era dato vita a qualcosa che nessuno aveva veramente
voluto, tranne le forze politiche e sindacali locali che si battevano da anni per il “decentramento ideativo e produttivo
della Rai”», Ib. 400, 401.
146
Per una storia in breve delle televisioni commerciali in Italia, si veda: A. GRASSO: 2000, 174.
147
Franco Monteleone riconosce tre tipi di fenomeni che incidono sullo sviluppo televisivo: «Il primo cambiamento
riguarda l’area della convivenza sociale: c’è un ritorno al privato, un’ansia di soddisfare bisogni individuali. Si assiste a
una mutazione nei bisogni del pubblico, delle sue attese, dei suoi rapporti con i consumi culturali. Un secondo
51
Ma una società che cambia implica nuove richieste, nuove domande nel mercato dei consumi e,
nella fattispecie, nel mercato del consumo televisivo. Per questa ragione, la tv deve rinnovare il suo
panorama, deve rivedere l’offerta. Risalgono a questo periodo, cioè alla fine degli anni ’70, quelle
innovazioni che segnano da un lato la fine della “paleo-televisione” e dall’altro l’inizio di un nuovo
fenomeno chiamato “neo-televisione”.
Vogliamo qui rilevare solo sommariamente le maggiori novità.148
In primo luogo, l’azienda pubblica estende le sue fasce d’ascolto, inserendo le prime “strisce
quotidiane” (cioè quegli appuntamenti che si ripetono tutti i giorni alla stessa ora) e le strategie
tipiche del palinsesto di “flusso” (elemento distintivo della tv commerciale degli inizi).
In secondo luogo, nascono i generi della neo-tv, caratterizzati, nella maggior parte dei casi, da una
fusione di formati diversi:
a. Programma contenitore: trasmissione il cui obiettivo è massificare il più possibile gli
ascolti149, proponendo agli spettatori momenti spettacolari differenti (talk show, musica,
cabaret, balletto, fiction…). I primi esempi di programma contenitore sono L’altra domenica
(1976) e Domenica in, (Rai Uno, 1979).
b. Talk Show: genere che debutta con Bontà loro di Maurizio Costanzo (Rai, 1976). Si tratta di
un programma in cui domina non il “discorso”, bensì la “chiacchiera”; ospiti illustri e non
vengono invitati a parlare “del più e del meno”, da una prospettiva del tutto personale. Inizia
quel fenomeno della “confessione” e della “personalizzazione” che caratterizzerà la tv degli
anni ’90.
c. Fiction seriale: telefilms, soap operas, cartoons, telenovelas… che abituano gli spettatori a
un ascolto di flusso, con ricorrenza quotidiana.
d. Prime ibridazioni di generi “alti” con l’intrattenimento. È il caso di quelle inchieste
giornalistiche e di quei documentari che puntano sull’aspetto sensazionalistico (sono gli
antenati dei più moderni “info-tainment”, “docu-tainment” e “culture-tainment”).
Siamo all’inizio di un cambiamento epocale nel sistema della comunicazione di massa, di un
cambiamento i cui effetti saranno visibili solamente dieci anni più tardi.
Se, come si è detto, l’istanza comune a tutta la società, è la domanda di partecipazione150, allora è
necessario che la tv tenti di rispondere meglio a questa esigenza, che tenti di avvicinarsi di più “a
coloro che stanno dall’altra parte”. Tutte le strategie (ma lo si vedrà meglio in seguito) di cui
abbiamo parlato, cioè tutti gli elementi di novità introdotti hanno proprio questo come obiettivo
ultimo: “appiattirsi sulla vita quotidiana dell’ascoltatore”. È questa la finalità del flusso (scandire la
programmazione sul ritmo della quotidianità), la finalità del talk show (restituire allo spettatore un
vip dal volto “umano”).
Nello stesso tempo, le emittenti scoprono che il pubblico non è più “uno”, ma che esistono diversi
pubblici, diversi soggetti, diverse nicchie di mercato alle quali devono rivolgersi (a questo fine
cambiamento riguarda le innovazioni tecnologiche messe a disposizione dal progresso scientifico in tutti i campi
dell’elettronica, che moltiplicano i canali di diffusione, di distribuzione e di utilizzazione dei segnali televisivi. Un terzo
cambiamento si verifica nella sfera economica, dove si espande l’ideologia dell’impresa e della competizione che sta
alla base degli innegabili successi del sistema produttivo italiano nell’ultimo decennio», F. MONTELEONE: 1992, 426,
427.
148
Per un sunto del cambiamento dell’offerta televisiva nel corso degli anni ’70 si veda: Ib., 396/418.
149
Si tratterebbe, secondo Monteleone, di una strategia che caratterizzerebbe in realtà tutta la neo-televisione, le cui
radici vanno ricercate addirittura alla fine degli anni ’60: «Se nel vecchio progetto pedagogico le fasce di pubblico
erano alquanto rigidamente separate, al contrario, nella nuova offerta che tende alla massimizzazione dell’ascolto
concorrenziale (in un primo tempo fra le reti Rai e, in un secondo tempo, fra queste e i network commerciali),
l’obiettivo del genere leggero è quello di accontentare contemporaneamente i gusti e gli interessi più contrastanti. Il
modello di questo nuovo stile è già presente in un programma del 1969, Speciale per voi di Renzo Arbore», Ib., 414.
150
L’ascesa di un fenomeno come quello delle radio libere non fa che dimostrare questo; si veda sull’argomento:
- E. MENDUNI, La radio nell’era della tv, Il Mulino, Bologna, 1994.
- D. DOGLIO – G. RICHERI, La radio, Mondadori, Milano, 1980.
- M. GAIDO, Radio libere?, Arcana, Roma, 1976.
- P. HUTTER, Piccole antenne crescono, Savelli, Roma, 1978.
- P. DEL FORNO – F. PERILLI, La radio… che storia!, Larus, Bergamo, 1997.
52
nasce il contenitore): la frammentazione dei consumi, di cui parlavamo all’inizio, è sostanzialmente
già avvenuta.
A queste istanze e a questi bisogni sembrano rispondere, per certi versi, molto meglio le neonate
emittenti commerciali, piuttosto che la “vecchia azienda di Stato”, ancora arroccata su posizioni di
tipo grillesco-corvesco, ormai obsolete.
Allora, se le cose stanno in questo modo, perché non dare spazio a iniziative che, almeno
apparentemente, sembrano garantire un maggiore pluralismo e offrire davvero ciò che il
telespettatore vuole?
È questo l’argomento su cui fanno leva coloro che difendono l’operato della radiotelevisione
commerciale.151 Tuttavia, anche questa è una posizione poco lungimirante: pochi si accorgono del
fatto che in Italia c’è davvero il rischio del formarsi di oligopoli, il rischio che il vecchio monopolio
si trasformi in duopolio. Un mercato “anarchico”, “deregolato”, non è infatti caratterizzato
dall’assenza di regole, ma, al contrario, dalla legge del più forte. Del resto, il fatto che diversi
soggetti, appartenenti al mondo dell’alta finanza, entrino in campo fa prevedere che i futuri gruppi
mediatici possano essere più d’uno, che dunque possa realizzarsi davvero un regime di concorrenza.
Questo non avverrà e soltanto uno degli attori in gioco si dimostrerà capace di saper gestire
un’impresa televisiva; l’assenza di una normativa anti-trust pensata ad hoc gli permetterà poi di
realizzare un vero e proprio impero. Il legislatore, come sempre, si troverà ad operare con troppo
ritardo, non potendo poi far altro che prendere atto di un certo stato di cose.152 Del resto, come si è
detto anche prima, è davvero giusto cancellare con un colpo di spugna un’azienda già consolidata?
Dove andranno a finire le centinaia (se non migliaia) di persone ivi occupate?
Le regole vanno decise prima che il gioco cominci, giammai dopo.
Così, inizia la scalata al successo della televisione commerciale e questo rappresenta il segno più
evidente del “riflusso”, ovvero (come si diceva all’inizio) della vittoria delle “logiche di mercato”,
nella loro accezione individualista e consumista.
Il giovane Holden, dopo un lungo viaggio, dopo aver arricchito il suo bagaglio di nuove esperienze,
ritorna a casa; ritorna in quel vecchio mondo che i genitori avevano costruito per lui, in quel
vecchio mondo nel quale non si riconosceva più e al quale si era ribellato. Le domande e i desideri
nei quali aveva riposto tutte le sue speranze sono rimasti senza risposta, senza una soluzione ben
precisa, ma il suo peregrinare in lungo e in largo per l’America non è stato inutile, perché la sua vita
è cambiata: ora può guardare i suoi genitori e riabbracciare la sua sorellina con una coscienza
diversa.
151
Monteleone ci sembra metta a fuoco molto bene la situazione: «Con la nascita dei nuovi soggetti, che in breve tempo
si organizzano e assumono precise identità, si scopre che ci sono tanti pubblici che hanno caratteristiche, gusti e
interessi sempre più frammentati. La scolarità di massa e il benessere economico li ha inoltre resi anche più attenti ed
esigenti. Una domanda culturale così diversificata e cresciuta non avrebbe mai potuto trovare nella televisione
monopolistica il proprio soddisfacimento. In secondo luogo, nel breve perdurare dell’assetto monopolistico riformato il
sevizio pubblico era il garante della libertà di espressione e del pluralismo. Con il sorgere di una situazione di
concorrenza parve che gli spazi di libertà e di pluralismo sarebbero stati da questa assicurati più e meglio del
monopolio. In terzo luogo, non sembrò scandaloso che la legittimità della riserva allo Stato del diritto di diffusione
circolare dei messaggi, in base alla nozione giuridica di interesse generale, potesse essere applicata anche a tutte quelle
imprese che avessero esercitato, con regole definite e condivise, il medesimo servizio. (…) da un lato un servizio
pubblico che deve continuamente ricercare la propria identità e combattere per la sua sopravvivenza minacciata da
molteplici fattori di cambiamento; dall’altro una televisione privata che assume subito una precisa identità, quantomeno
merceologica, che lotta anch’essa per la sua affermazione, ma che finisce per assumere una posizione di monopolio
commerciale inversamente proporzionale alla perdita di monopolio culturale e istituzionale del servizio pubblico», F.
MONTELEONE: 1992, 427, 428.
152
«L’assenza di una normativa in grado di regolamentare fin dall’inizio l’insieme del sistema radiotelevisivo, così
come le dinamiche economiche, sociali e politiche lo stavano trasformando, ha comportato in un primo tempo uno
sviluppo anarchico e frammentato e, in un secondo tempo, il formarsi di una gigantesca concentrazione, il gruppo
Fininvest, che nella seconda metà degli anni ’80 disporrà di tre network televisivi, un network radiofonico, oltre a
notevoli partecipazioni nell’editoria, nel cinema, nell’industria televisiva europea e alcuni giornali. Si possono
distinguere due fasi: la prima, dal 1976 al 1979, riguarda la proliferazione delle radio e delle televisioni private a
carattere locale, nonché il susseguirsi di numerosi progetti di regolamentazione legislativa: la seconda, dal 1980 al 1984,
vede la formazione di un solo gruppo privato, quello di Silvio Berlusconi…», Ib., 428, 429.
53
C’è stato un momento in cui una parte della società italiana, figlia del “boom” economico, della
televisione democristiana, si è interrogata sulle premesse, sui valori (apparentemente incrollabili) su
cui era cresciuta e si è accorta che tali valori erano diventati lontani, insufficienti a rispondere a un
certo tipo di domande percepite stringenti. Sull’onda di tali domande e in risposta a un sistema
assiologico che appariva astratto, scoppia la rivolta, una rivolta attraverso la quale frange (anche
abbastanza estese) del corpo sociale chiedono di poter essere ascoltate. Esigenze dunque, domande,
alle quali questa generazione tenta di rispondere, inseguendo realtà chimeriche, utopiche come un
mondo di eguali, senza differenze di classe, collettivistico (oppure attraverso l’anarchia)…
Ma la nazione italiana, nel suo complesso, come Monteleone stesso nota, aveva già intrapreso una
direzione di marcia diversa, una rotta difficilmente deviabile; non si potevano perciò più mettere in
discussione i principi dello sviluppo economico, del progresso, soprattutto se essi conducevano a un
benessere materiale generalizzato, ovvero indirizzato alla popolazione in tutta la sua complessità.
Non è possibile cancellare il passato, non è possibile cancellare “il mondo dei propri genitori”(come
avrebbe voluto fare il giovane Holden), non è possibile eliminare le tracce di una tradizione che ci
ha preceduto con un improvviso colpo di spugna. In una lettura dialettica della storia, i movimenti
di rivolta hanno forse creduto che ciò fosse possibile, hanno creduto davvero che un’antitesi potesse
ribaltare una tesi, generando una nuova sintesi; i fatti avrebbero poi dimostrato il contrario. Quando
si recidono improvvisamente i legami con qualcosa o con qualcuno, accade sempre di essere pervasi
da una improvvisa malinconia, o meglio, da una nostalgia (per quanto irrazionale possa essere) che
ci spinge a tornare indietro: è questo il ritorno a casa di Catcher in the rye e il riflusso della società
italiana.
I movimenti di rivolta studenteschi e operai, il terrorismo, di fronte alla crescita economica del
paese, vedono sfumare all’orizzonte le utopie che avevano inseguito153, ma, come Holden, hanno
maturato una nuova coscienza: possono ora osservare la vecchia realtà con occhi diversi. Così,
anche il nostro paese resta segnato da questo “viaggio”, da questo tentativo di cambiamento di rotta:
l’Italia è ormai una nazione completamente laica, dove quei vecchi valori pseudo-cattolici (che con
il cattolicesimo avevano già da prima poco a che vedere) sono ormai completamente scomparsi;
l’esistenza di una legge sul divorzio prima e sull’aborto poi dimostrano proprio questo.154
Tuttavia, per quel che riguarda la comunicazione di massa, la più grande eredità che il movimento
di rivolta lascia a tutta la società è una sola: la domanda di partecipazione, aspetto che caratterizzerà
in modo crescente la codifica del messaggio, fino a diventare, con un fenomeno come Big Brother,
l’elemento centrale della televisione degli anni ’90.
Il viaggio dei “ribelli” si conclude qui, in questo preciso momento della storia; ora non resta che
tornare indietro per “riabbracciare il vecchio mondo”.
5. La centralità del “gatto”: gli anni ’80 e ’90 tra logica di mercato e politica
industriale
L’industria culturale, come si è visto, assume una dimensione propriamente “industriale” (nel senso
di macchina orientata alla produzione massificata di beni), per l’appunto, fin dagli anni ’50. Essa
tuttavia, a differenza dell’industria tout court, fa completamente proprie le logiche di mercato solo
trent’anni più tardi, quando il monopolio inizia a trasformarsi in duopolio.155 È solo con
153
Ciò avviene probabilmente anche in conseguenza della presa di coscienza di ciò che tali utopie avevano causato nei
paesi del blocco comunista, dove, appariva evidente anche agli occhi della nostra sinistra, c’era davvero ben poco di
democratico ed egualitario.
154
Per verificare tutto quello che stiamo dicendo, rimandiamo sempre al testo di P. GINSBORG: 1989.
155
Ecco quanto scrive in proposito Fausto Colombo: «Se gli anni ’60 vedono le strategie pedagogica e d’intrattenimento
confrontarsi per la prima volta sul terreno dei nuovi consumi, e in fondo contaminarsi inavvertitamente; se gli anni ’70
segnano una fase di conflitto e di crisi di un modello pedagogico che trova nel movimentismo una paradossale
reincarnazione, gli anni ’80 sono caratterizzati da una rapida ascesa della logica del gatto, ossia della valorizzazione
assoluta del successo di pubblico come criterio di qualità, e della centralità del marketing nel processo di ideazione e
produzione dell’industria culturale italiana», F. COLOMBO: 1998, 261.
54
l’instaurarsi di un regime di concorrenza, con la lotta per la conquista di “porzioni” di pubblico, che
le strategie di marketing prendono il sopravvento sulle logiche di tipo pedagogizzante o di
“percezione empatica” (:topo) dei gusti dell’utenza: ciò che decide della riuscita, della qualità di un
prodotto televisivo, non è più la sua bontà oggettiva, stabilita in base a una schiera di valori di
riferimento, bensì la quantità degli ascolti.156
Ma perché, per quale ragione il successo di pubblico assume una tale importanza? Perché diventa
un elemento così centrale, così sostanziale da determinare, in taluni casi, una vera e propria
“dittatura dell’audience”?
Come fa notare Fausto Colombo, per rispondere a queste domande e dunque per isolare le cause che
hanno determinato l’ascesa della logica del gatto, è necessario comprendere il peso che la
pubblicità ha crescentemente assunto. Un fenomeno come quello della “settimanalizzazione dei
quotidiani”157, a metà degli anni ’80, indica proprio quanto le inserzioni possano incidere sull’
“attivo” di un’ azienda.
In effetti, in che modo possono auto-sostenersi delle imprese “no pay” come le tv locali, se non
offrendo piccole porzioni di palinsesto agli investitori? E una volta che queste emittenti, ancora a
gestione “familiare”, sono diventate network nazionali, non hanno forse un’esigenza ancora
maggiore di entrate sicure?
Queste domande chiariscono molto il motivo per cui la televisione, alla soglia degli anni ’80, ha
come obiettivo principale la conquista di una massa crescente di spettatori: quanto più gl’indici di
ascolto di una data emittente sono alti, tanto più gli inserzionisti saranno interessati ad acquistare da
quella gli spazi pubblicitari. Una logica di questo tipo cambia il concetto stesso di “prodotto”: esso
non è più il programma trasmesso, bensì il pubblico che vede tale programma (poiché è esso ciò che
concretamente, come in un unico pacchetto, viene venduto all’investitore)158; tanto per chiarire i
termini in gioco: l’offerente è l’emittente televisiva, il cliente è l’inserzionista pubblicitario, mentre
il prodotto è il pubblico. È la vittoria definitiva del mercato.
Ma prima di fare bilanci, andiamo a vedere come si svolgono concretamente i fatti.
Come si è visto, il decennio precedente si era aperto con l’entrata in scena nel mercato televisivo di
ben 4 grossi imprenditori: Berlusconi, Rusconi, Rizzoli e Mondadori.
Nel 1980, Telemilano 10 diventa Canale 5, un circuito di emittenti locali che diffondono il segnale
irradiato dal capoluogo lombardo su tutto il territorio nazionale.
La stessa strategia viene adottata da Rusconi per Italia 1 e da Mondadori per Rete 4: in breve tempo,
all’inizio degli anni ’80, ci sono già tre network, tre canali a dimensione iperregionale che possono
porsi in diretta concorrenza con la Rai.
Dal 1982, compare sul palcoscenico un altro soggetto: dalla fusione di due agenzie pubblicitarie, la
STO e Radiovideo, nasce Euro Tv, di proprietà di Callisto Tanzi, ma controllata dalla finanziaria
Fincom; gli attori diventano addirittura quattro.
156
Anche su questo punto ci rifacciamo a una posizione di Fausto Colombo: «Negli anni ’80 tutto cambia: è la fruizione
concreta del pubblico a dire cosa piace e cosa no (…) il modello di pubblico è davvero autoreferenziale: i grandi, i
grandissimi ascolti sono il punto di riferimento strategico delle emittenti», Ib., 263.
157
Colombo riporta alcuni esempi che dovrebbero chiarire meglio il concetto di “settimanalizzazione”: «Nel 1985 viene
superato il tetto di sei milioni di copie di quotidiani al giorno: un record nel nostro paese. Infine, nel 1987, “Repubblica”
lancia “Portfolio”, un gioco che ne aumenterà la tiratura di circa 200.000 copie (due anni dopo anche il “Corriere”
lancerà un gioco di formidabile successo, “Replay”), e il “Corriere della Sera” realizza il nuovo supplemento
settimanale, “Sette”, ottenendo una eccellente risposta (il numero con la prima uscita si attesta attorno alle 900.000
copie). Perché ho scelto proprio questi eventi e non altri? Perché mi sembra che essi significhino (in forma diversa) un
passaggio a un nuovo modo di intendere il quotidiano, che altri ha definito la “settimanalizzazione”, ovvero la decisione
di abbandonare l’empireo dell’opinione pubblica in senso nobile per allargare come che sia il numero dei lettori, e
soprattutto per rendere più appetibile il prodotto in quanto veicolo pubblicitario», Ib., 262.
158
È proprio quello che nota Fausto Colombo: «Quello di cui immediatamente non ci si avvede è che mettere al centro
la pubblicità significa modificare il concetto stesso di prodotto televisivo, e quindi cambiarne la funzione. Il pubblico
diviene oggettivamente il centro del processo, non più il destinatario del prodotto. Si tratta di un fenomeno nuovo nel
nostro paese, in queste proporzioni, anche perché quel pubblico viene identificato non tanto con i target differenziati che
popolano il mondo del consumo, quanto piuttosto con le audiences oceaniche dei grandi prodotti massivi», Ib., 263.
55
Rizzoli nel frattempo è costretto a ritirarsi da un lato per una serie di vicende “torbide”, dall’altro
per una male oculata gestione del palinsesto.159
Dopo qualche tempo, anche la politica di Rusconi a Italia 1 si dimostra fallimentare e l’editore
milanese è costretto a vendere. La battaglia per l’acquisto del network vede in prima fila Berlusconi
e Mondadori, anche se, alla fine, è il primo a spuntarla: è il 1982 e l’imprenditore di Arcore
possiede già due network.
Poco tempo dopo, anche Rete 4 viene “baciata dalla cattiva sorte”. Tra le concorrenti della
Fininvest, è probabilmente questa l’unica che, fin dall’inizio, crede in ciò che sta facendo e proprio
per questo investe molto da un punto di vista ideativo. Essa non è però in grado di gestire
ponderatamente le risorse del suo magazzino, le risorse di un archivio fatto di prodotti senza dubbio
di grande qualità, ma che devono però essere distribuiti in maniera oculata nel palinsesto: in
sostanza, l’emittente in questione risulta priva di un’adeguata logica di programmazione.
Un’altro punto su cui Rete 4 risulta perdente è la sua politica di immagine: Mondadori, provenendo
dal mondo dell’editoria, ci tiene a costruire un’identità di rete che richiami il suo marchio di
fabbrica, ovvero un marchio legato alla produzione di libri e periodici: è un tentativo estremo di far
vivere una nuova giovinezza alla logica del grillo.160
Così, nel 1983, Rete 4 perde (nell’attività di esercizio) ben 25 miliardi di lire, accumulando 106
miliardi di debito con creditori terzi, più 14 miliardi (sempre di debito) con la Mondadori stessa: in
una tale situazione, la casa editrice milanese è costretta, evidentemente, a vendere tutto. Tramite la
mediazione di Enrico Cuccia, la Fininvest “assoggetta” al proprio impero un terzo network,
trasformando il regime di concorrenza in duopolio: da una parte la Rai, dall’altra Berlusconi.161
Ma la scalata dell’imprenditore di Arcore continua: nel 1983 per esempio, acquista anche il circuito
Rete A dell’Editore Peruzzo.
Tuttavia, l’ascesa non può essere misurata soltanto con parametri di tipo finanziario. Già qualche
anno prima infatti, Berlusconi aveva sfidato la Rai su un duro campo di battaglia: quello della
diretta (una delle ultime prerogative rimaste all’azienda di viale Mazzini). I fatti si svolgono nel
modo seguente: nel 1980, Canale 5 acquista i diritti televisivi di un torneo di calcio sudamericano, il
“Mundialito”162 ma, affinché possa mandarlo in onda in contemporanea (“live”), è necessario che
159
La vicenda nel settore televisivo dell’editore Rizzoli resta tuttora nel torbido; sul suo operato ci informa Franco
Monteleone: «(…) Rizzoli fu in breve tempo costretto a ritirarsi dalla competizione, anche per la sua gestione
dissennata e politicamente assai torbida condotta dal suo amministratore delegato Bruno Tassan Din. Il tentativo dela
gruppo si era infranto su tre ostacoli: una cattiva valutazione delle condizioni in cui stava nascendo l’industria della
televisione privata che produce pubblicità e non programmi; lo scontro perdente ingaggiato con la Rai sull’informazione
radiotelevisiva; e infine la questione della Loggia P2 nella quale l’intero gruppo dirigente si trovò invischiato fino al
collo», F. MONTELEONE: 1992, 431, 432.
160
Ecco come Monteleone racconta la storia di Rete 4: «Fra le reti private Retequattro sembra quella che, più di ogni
altra, anche per il know how editoriale che ha alle spalle, voglia realmente “fare televisione”. Tuttavia il network esita a
fare un palinsesto che produca contemporaneamente anche pubblico. Saranno proprio alcuni clamorosi errori di
programmazione – in seguito ai quali “pacchetti” importanti del magazzino di Retequattro furono praticamente buttati
in pasto alla concorrenza – a determinare la sconfitta dell’emittente di Mondadori che, tra l’altro, non seppe neanche
sfruttare fino in fondo le geniali intuizioni di un giovane programmatore, Carlo Freccero, in un primo tempo strappato
alla Fininvest e rientratovi successivamente insieme all’assorbimento di Retequattro da parte del biscione (…) I
dirigenti del network si sentivano responsabili dell’immagine culturale della Mondadori. Non a caso a presiedere la
Telemond, la società che tutelava gli interessi televisivi del gruppo, era stato mandato un giornalista del prestigio di
Piero Ottone (…) nel maggio del 1982 Retequattro firmò un accordo con l’americana ABC per lo scambio di
programmi: news, sport, cartoni animati, telefilm, programmi culturali. Un altro accordo con il network brasiliano Tv
Globo avrebbe dovuto assicurare alla rete di Mondadori l’esclusiva delle telenovelas (…) Ma durante il 1983
Retequattro diventa un peso troppo grande per i suoi azionisti», Ib., p. 440.
161
Così si sono svolti i fatti: «Con la mediazione di Enrico Cuccia, la Fininvest acquista infine Retequattro, in un
momento in cui il deficit stava aggravandosi in misura non più sostenibile, a condizioni estremamente vantaggiose: 120
miliardi di lire dei quali 105 scaglionati in quattro anni senza interessi e 25 sotto forma di spazi pubblicitari sui canali
Fininvest a favore dei periodici Mondadori. L’editore cede inoltre tutto lo stock dei programmi e offre un credito di 12
miliardi per spazi pubblicitari sui propri giornali a favore dei programmi televisivi delle reti Fininvest. Berlusconi aveva
salvato non solo Retequattro ma la stessa Mondadori le cui perdite, in due anni, si aggiravano intorno ai 200 miliardi»,
Ib., 440, 441.
162
Per una sintesi della storia relativa al Mundialito si veda: A. GRASSO: 2000, 177.
56
richieda al Ministero delle Poste e delle Telecomunicazioni l’autorizzazione per l’utilizzo del
satellite Telespazio. L’organo statale si pronuncia negativamente, dando il via a una vera e propria
diatriba. La soluzione arriva il 22 dicembre del 1980, in base alla quale: la Rai avrebbe trasmesso in
diretta tutte le partite dell’Italia e la finale, mentre Canale 5 tutte le altre partite (in diretta in
Lombardia e in differita nelle restanti parti d’Italia). Si tratta di una vittoria fondamentale non
soltanto per le future reti Fininvest, ma per la tv privata in generale, poiché la concessione rilasciata
dal Ministero alla stazione di Segrate (non ancora di Cologno Monzese) rappresenta un primo passo
verso la rottura del diritto esclusivo all’utilizzo della diretta, da parte delle tv pubbliche.
Non sempre però procede tutto per il verso giusto.
Nel 1981 infatti, arriva una nuova sentenza della Corte Costituzionale, la 148, con la quale viene
impedito all’emittente dell’editore Rizzoli di mandare in onda il notiziario, che deve rimanere una
prerogativa della sola Radiotelevisione pubblica; viene esortato inoltre, secunda facie, il legislatore
a varare una normativa immediata che regoli un sistema misto (quale quello vigente, di fatto, in
Italia).163 Nel dicembre dello stesso anno, l’allora ministro Remo Gaspari presenta perciò un
disegno di legge… che resta tuttavia tale.
Dunque, la ragione vera per cui la Fininvest può assoggettare a sé indisturbatamente altre reti, più
Rete A, è proprio la mancanza di una regolamentazione in materia.
Ma torniamo ai fatti.
Nel 1984, arrivano altre sorprese. Alcuni pretori in Piemonte, Lazio e Abruzzo decidono di oscurare
le tv di Berlusconi. Per evitare che tali provvedimenti ostacolino troppo a lungo l’attività di Canale
5 e Italia 1, il governo interviene con un Decreto (che si trasformerà in legge nel febbraio del 1985
[legge n. 10]), grazie al quale viene permessa l’interconnessione ai “ripetitoristi”, per mezzo di
videocassette pre-registrate. La magistratura romana, attraverso un’altra sentenza, pronunciata lo
stesso anno, sancisce la legalità di tale provvedimento.
Tuttavia, all’inizio del 1986, alcuni giudici torinesi intervengono nuovamente per interrompere i
programmi Fininvest, nel territorio di propria competenza. La situazione viene chiarita attraverso
l’appello ai principi contenuti nella 202, emessa dalla Corte Costituzionale nel 1976.
In tutto questo guazzabuglio, bisogna riconoscere un merito alla legge n. 10: quello di aver
realizzato, se non altro, una piccola riforma della Rai, attribuendo maggiori poteri al direttore
generale e limitando quelli del consiglio di amministrazione.
Nel frattempo, mentre tutto quello che abbiamo raccontato sta accadendo, un nuovo soggetto
compare sulla scena a complicare la situazione: la brasiliana Rete Globo, che acquista
Telemontecarlo (si tratta di una tv originariamente straniera, ma che, con il passare degli anni, inizia
a rivolgersi esclusivamente al pubblico italiano, coprendo tutto il territorio nazionale).
Berlusconi164 resta però ancora il soggetto principale e nel 1986 ha modo di “estendere i confini”
del suo impero (e non soltanto in territorio televisivo):
- Inizia a prendere possesso della Mondadori, pur restando questa ancora nelle mani
della famiglia Formenton (almeno a livello gestionale).
- Crea dei canali tv nei seguenti paesi: Spagna, Portogallo, Grecia, Germania, Francia
e Belgio.
- Ottiene la gestione per inserzioni pubblicitarie in: Polonia e Unione Sovietica.
Nel 1987:
- Acquista “Il Giornale” di Indro Montanelli.
- Stipula un accordo con la Società Telespazio che gli consente: di utilizzare due
canali dell’Intelsat, l’uso di una stazione mobile e l’installazione di 14 parabole che
gli avrebbero permesso di usufruire della diretta.
- Attraverso Publitalia, inizia a controllare la tv iugoslava Capodistria (avendo così
maggiori possibilità di utilizzare la diretta).
Nello stesso anno:
- Callisto Tanzi fonda il network Odeon Tv.
163
164
Si veda: F. MONTELEONE: 1992, 436, 437.
Per una storia esaustiva di tutto quello che qui si sta affermando, rimandiamo a: Ib., 468/473.
57
- Dalla dissoluzione di Euro-Tv nasce Italia 7.
- Nasce il circuito Cinquestelle con una forte partecipazione della Rai.
All’alba dell’87, nel mercato televisivo, troviamo dunque anche altri soggetti, accanto ai due
oligopoli Rai/Fininvest; vi sono infatti degli attori minori (che minori rimarranno) come:
Telemontecarlo, Italia 7, Cinquestelle, Odeon e Capodistria.
Il 1988 si apre con una proposta di legge del Ministro Mammì, la famosa “opzione zero”, in base
alla quale (qualora essa diventasse normativa di fatto) diventerebbe illegale possedere un quotidiano
e una rete televisiva insieme; il disegno prevede inoltre l’istituzione della figura di un Garante per le
telecomunicazioni, che abbia il compito di dirigere, dirimere e governare le questioni nell’ambito
radio-tv-telefonia e in tutti quegli ambiti legati al mondo delle trasmissioni via etere. Tale proposta
diventa legge nel giugno dello stesso anno, ma senza “opzione zero”; in sostituzione, viene istituita
una normativa anti-trust, in base alla quale ogni operatore non può possedere più di tre canali: anche
in questo caso, come si vede, si è agito legalizzando uno stato di cose preesistente.
Il mese successivo, la Corte interviene nuovamente per ribadire la provvisorietà della normativa
appena nata.
Nel frattempo, Berlusconi acquista anche la squadra di calcio A.C. Milan, i supermercati Standa, la
Mondadori e la Penta Film, mentre la Ferruzzi Finanziaria di Raul Gardini compra il 40% delle
azioni di Telemontecarlo.
La legge definitiva sulla radio e sulla televisione, arriva nell’agosto 1990 (legge 6 agosto n.°
223/1990), quando il futuro Presidente del Consiglio lancia sul mercato anche tre canali “pay”: i tre
programmi Tele +.
I punti fondamentali della nuova normativa sono i seguenti:
a. In base all’articolo 6, viene istituita la figura del “Garante per la radiodiffusione e
l’editoria”. Si tratta di una carica della durata di 3 anni, ricoperta da un soggetto nominato
dal Presidente della repubblica, sotto proposta del Presidente della Camera dei deputati, e
scelto fra le seguenti categorie: professori universitari di materie giuridiche, aziendali o
economiche, esperti nel settore delle comunicazioni o fra persone che hanno ricoperto la
carica di Presidente della Corte Costituzionale. Le funzioni del garante sono stabilite al
comma 10 e sono quelle di: «(…) tenere il registro nazionale delle imprese radiotelevisive
(…); esaminare i bilanci e l’annessa documentazione dei concessionari privati (…), della
concessionaria pubblica, nonché, ove lo ritenga, bilanci e documentazioni delle imprese di
produzione e distribuzione di programmi o concessionarie di pubblicità (…); compiere
l’attività istruttoria e ispettiva necessaria per lo svolgimento delle funzioni di cui al presente
comma, avvalendosi anche dei competenti organi dell’Amministrazione delle poste e delle
telecomunicazioni, nonché dei servizi di controllo e vigilanza dell’Amministrazione
finanziaria dello Stato (…); a vigilare sulla rilevazione e pubblicazione degli indici d’ascolto
delle emittenti e reti radiofoniche e televisive pubbliche e private anche avvalendosi di
organismi specializzati».
b. Con l’articolo 7, vengono istituiti poi dei “Comitati regionali per i servizi radiotelevisivi”, le
cui funzioni sono stabilite al comma 1: «Ogni Consiglio regionale elegge, con voto limitato
almeno a due terzi dei membri da eleggere e da scegliersi fra esperti di comunicazione
radiotelevisiva, un comitato regionale per i servizi radiotelevisivi. Il comitato regionale è
organo di consulenza della regione in materia radiotelevisiva, in particolare per quanto
riguarda i compiti assegnati alle Regioni dalla presente legge. Il Comitato altresì formula
proposte al Consiglio di amministrazione della concessionaria pubblica in merito a
programmazioni regionali che possano essere trasmesse sia in ambito nazionale che
regionale; regola l’accesso alle trasmissioni regionali programmate dalla concessionaria
pubblica».
c. All’articolo 8 invece vengono stabilite le “Disposizioni sulla pubblicità”, diventata fin
troppo opprimente sulle televisioni commerciali.
- «La pubblicità radiofonica e televisiva non deve offendere la dignità della persona,
non deve evocare discriminazioni di razza, sesso e nazionalità, non deve offendere
58
convinzioni religiose e ideali, non deve indurre a comportamenti pregiudizievoli per
la salute, la sicurezza e l’ambiente, non deve arrecare pregiudizio morale o fisico a
minorenni, e ne è vietato l’inserimento nei programmi di cartoni animati» (: comma
1).
- «La pubblicità televisiva e radiofonica deve essere riconoscibile come tale ed essere
distinta dal resto dei programmi con mezzi ottici o acustici di evidente percezione» (:
art. 2).
- «Il Garante, sentita un’apposita commissione, composta da non oltre cinque membri
e da lui stesso nominata tra personalità di riconosciuta competenza, determina le
opere di alto valore artistico, nonché le trasmissioni a carattere educativo e religioso
che non possono subire interruzioni pubblicitarie» (: comma 4).
- «È vietata la pubblicità radiofonica e televisiva dei medicinali e delle cure mediche
disponibili unicamente con ricetta…» (: comma 5)
- «La trasmissione dei programmi pubblicitari da parte della concessionaria pubblica
non può eccedere il 4 per cento dell’orario settimanale di programmazione e il 12 per
cento di ogni ora; un’eventuale eccedenza, comunque non superiore al 2 per cento
nel corso di un’ora deve essere recuperata nell’ora antecedente e successiva» (:
comma 6).
- «La trasmissione di messaggi pubblicitari televisivi da parte dei concessionari privati
per la radiodiffusione televisiva in ambito nazionale non può eccedere il 15 per cento
dell’orario giornaliero di programmazione e il 18 per cento di ogni ora; una
eventuale eccedenza, comunque non superiore al 2 per cento nel corso di un’ora,
deve essere recuperata nell’ora successiva…» (: comma 7).
- «La trasmissione di messaggi pubblicitari televisivi da parte dei concessionari privati
per la radiodiffusione televisiva in ambito locale non può eccedere il 20 per cento di
ogni ora di programmazione e il 15 per cento dell’orario giornaliero di
programmazione. Un’eventuale eccedenza, comunque non superiore al 2 per cento
nel corso di un’ora, deve essere recuperata nell’ora antecedente o successiva» (:
comma 9).
- «I programmi non possono essere sponsorizzati da persone fisiche o giuridiche la cui
attività principale consista nella fabbricazione o vendita di sigarette o di altri prodotti
del tabacco, nella fabbricazione o vendita di superalcolici, nella fabbricazione o
vendita di medicinali ovvero nella prestazione di cure mediche disponibili
unicamente con ricetta…» (: comma 14).
- «Entro il 30 giugno di ciascun anno il Presidente del Consiglio dei Ministri su
proposta del Ministro delle poste e delle telecomunicazioni, di concerto con il
Ministro delle partecipazioni statali e sentiti il Garante e il Consiglio dei ministri,
stabilisce il limite massimo degli introiti pubblicitari quali fonte accessoria di
proventi che la concessionaria pubblica potrà conseguire nell’anno successivo…» (:
comma 16).
c. Con l’articolo 15 invece, viene regolato il mercato, per evitare che vi siano posizioni
dominanti.
- «Al fine di evitare posizioni dominanti nell’ambito dei mezzi di comunicazione di
massa è fatto divieto di essere titolare:
• di una concessione per radiodiffusione televisiva in ambito nazionale,
qualora si abbia il controllo di imprese editrici di quotidiani la cui tiratura
annua abbia superato nell’anno solare precedente il 16 per cento della
tiratura complessiva dei giornali quotidiani in Italia;
• di più di una concessione per la radiodiffusione televisiva in ambito
nazionale, qualora si abbia il controllo di imprese editrici di quotidiani la
cui tiratura superi l’8 per cento della tiratura complessiva dei giornali
d’Italia;
59
•
di più di due concessioni per la radiodiffusione televisiva in ambito
nazionale qualora si abbia il controllo di imprese editrici di quotidiani la cui
tiratura complessiva sia inferiore a quella prevista dalla lettera b (sopra)» (:
comma 1).
- «Le concessioni in ambito nazionale riguardanti sia la radiodiffusione televisiva che
sonora, rilasciate complessivamente a un medesimo soggetto, a soggetti i quali a loro
volta controllino altri titolari di concessione, non possono superare il 25 per cento del
numero di reti nazionali previste dal piano di assegnazione e comunque il numero di
reti nazionali previste dal piano di assegnazione e comunque il numero di tre» (:
comma 4)
- «Qualora i concessionari privati, la concessionaria pubblica o i titolari di
autorizzazione (…) si trovino in situazioni di controllo o di collegamento nei
confronti di imprese concessionarie di pubblicità, queste ultime non possono
raccogliere pubblicità per più di tre reti televisive nazionali, o due reti nazionali e tre
reti locali o una rete nazionale e sei locali ivi comprese quelle di cui sono titolari i
soggetti controllati o collegati…» (: comma 7).
La normativa prevede poi una nuova regolamentazione delle funzioni degli organi interni della Rai,
più nuove disposizioni relative al pagamento del canone.
La ragione per cui ci siamo soffermati così a lungo sulla 223 deriva dal fatto che essa rappresenta il
primo e unico provvedimento valido (cioè non provvisorio) per la regolamentazione del mercato
radiotelevisivo, a partire dal 1976: devono trascorrere ben quattordici anni (dal momento in cui la
Corte Costituzionale pone all’attenzione del legislatore il problema dell’accesso e della
regolamentazione delle imprese) prima che il parlamento trovi una soluzione definitiva, una
soluzione che piaccia a tutte le parti politiche e metta d’accordo tutti gli attori in gioco.
Ma quattordici anni sono tanti e chi aveva avuto la possibilità economica di espandersi il più
possibile, lo aveva fatto. E di nuovo (come era sempre accaduto), di fronte a uno stato di fatto (cioè
di fronte a dei soggetti che si sono economicamente espansi), la Camera non può far altro che
registrare passivamente uno stato di cose, può cioè soltanto evitare che la situazione degeneri
ulteriormente.
In ogni caso, una normativa arriva e resta valida, nella sostanza, fino ai giorni nostri.
Piccole modifiche, o semplici precisazioni, si rilevano nella Legge n. 229 del 31 luglio 1997, per l’
“Istituzione dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e norme sui sistemi delle
telecomunicazioni e radiotelevisivo”.
All’articolo 1, vengono stabilite le norme di elezione e le funzioni della detta autorità. All’articolo
2, invece (e questo è l’oggetto del nostro interesse), vengono stabiliti i principi relativi al “Divieto
di posizioni dominanti”. Ecco quanto viene stabilito al comma 6: «Ad uno stesso soggetto o a
soggetti controllati da o collegati a soggetti i quali a loro volta controllino altri titolari di
concessione in base ai criteri individuati nella vigente normativa, non possono essere rilasciate
concessioni né autorizzazioni che consentano di irradiare più del 20 per cento rispettivamente delle
reti televisive o radiofoniche analogiche e dei programmi televisivi o radiofonici numerici, in
ambito nazionale, trasmessi su frequenze terrestri, sulla base del piano delle frequenze. Al fine di
consentire l’avvio dei mercati nel rispetto dei principi del pluralismo e della concorrenza,
relativamente ai programmi televisivi o radiofonici numerici l’Autorità può stabilire un periodo
transitorio nel quale non vengono applicati i limiti previsti nel presente comma…».
Al comma 8 viene inoltre stabilito che: «i soggetti destinatari di concessioni televisive in ambito
nazionale per il servizio pubblico, di autorizzazioni per trasmissioni codificate in ambito nazionale,
ovvero di entrambi i provvedimenti possono raccogliere proventi per una quota non superiore al 30
per cento delle risorse del settore televisivo in ambito nazionale riferito alle trasmissioni via etere
terrestre codificate. I proventi di cui al precedente periodo sono quelli derivanti da finanziamento
del servizio pubblico al netto dei diritti dell’Erario, nonché da pubblicità nazionale e locale, da
spettanze per televendite e sponsorizzazioni, proventi da convenzioni con soggetti pubblici, ricavi
da offerta televisiva a pagamento, al netto delle spettanze delle agenzie di intermediazione…»
60
In sostanza, con questo provvedimento vengono rafforzati i principi relativi alla non predominanza
di un soggetto nel mercato televisivo e, in più, vengono stabiliti dei criteri per la raccolta
pubblicitaria, in maniera tale che gli spot non siano in proporzione predominante rispetto alla
normale programmazione. L’urgenza di creare una simile normativa è data, del resto, da un fatto
abbastanza singolare: l’entrata in politica del proprietario della Fininvest; si tratta di un episodio che
scatena dure polemiche e violenti dibattiti, ma che tuttavia, di fatto, non risulta essere contrario ai
principi contenuti nella Costituzione, la quale consente la candidatura di qualunque cittadino abbia
la maggiore età. Questo non toglie il fatto che si tratti di una situazione abbastanza anomala, alla
quale è necessario porre un rimedio immediato. Nella sostanza, vengono trovati degli espedienti
(che Berlusconi, questo bisogna riconoscerlo, ha accettato) per impedire che egli abbia accesso
diretto ai mezzi di informazione e per garantire le pari opportunità, durante le campagne elettorali.
Questo è tuttavia un problema diverso, che non ci sembra opportuno discutere in questa sede;
lasciamo ai giuristi l’onere di “sbrogliare una tale matassa”.
Il discorso sugli aspetti legislativi ci ha fatto allontanare forse un po’ troppo dal prodotto televisivo
in quanto tale, che è, in fondo, l’elemento determinante nell’ascesa della tv commerciale.165
La cosa davvero innovativa introdotta dai privati è il modo in cui i programmi sono assemblati
assieme, vale a dire la tecnica di palinsesto166; come si è visto, la Rai non si era mai curata troppo di
strategie efficaci in questo senso, avendo come preoccupazione principale quella di non invadere
troppo il tempo dedicato al lavoro o quella di proporre il maggior numero possibile di trasmissioni
pedagogizzanti. Ne risulta un “mix” di ingredienti abbastanza composito, caratterizzato dal
contrasto e dalla giustapposizione, piuttosto che dalla simbiosi e dall’armonia.
La ricorrenza dei programmi (durante gli anni ’50, ’60 e poi ’70) aveva poi una scadenza
settimanale, in maniera tale che lo spettatore potesse identificare un determinato giorno e una
determinata ora con il nome di una certa trasmissione: su questo faceva leva la cosiddetta festività
della “paleo-televisione”.
Questo tipo di meccanismo, viene messo fortemente in discussione dalle emittenti commerciali. In
primo luogo, esse cominciano a colonizzare gli spazi in cui la Rai o è più debole, o non trasmette
affatto, in secondo luogo si servono di prodotti “seriali”, cioè realizzati per una emissione
quotidiana: viene creato così una sorta di “flusso televisivo”, che, come si vedrà meglio in seguito,
rappresenta l’esatto opposto della “festività”. Il fatto che la tv privata si serva di: soap opera,
telefilm, telenovelas, cartoni animati… (cioè oggetti industriali nati laddove quel processo di
“quotidianizzazione del mezzo” era già in fase avanzata) ha introdotto un nuovo modo di intendere
il palinsesto, più vicino a quelle strategie americane, contro cui l’azienda pubblica si era sempre
battuta: a causa della loro cadenza (giornaliera), gli appuntamenti vengono “routinizzati”.
Ma la caratteristica del flusso è proprio quella di essere “fluido”, per l’appunto, quindi di rendere
omogeneo tutto ciò che è al suo interno; in questo modo, quei “paletti” posti fra un programma e
l’altro iniziano a scomparire e le trasmissioni vanno a fondersi l’una con l’altra. In questo modo, il
palinsesto tutto diventa paragonabile a una vera e propria terra di confine, in cui soggetti diversi per
tradizione e cultura vivono armoniosamente. Anche questa caratteristica è data dal ricorso a generi
che hanno nella mescolanza il loro tratto distintivo: sono i “programmi contenitore”, l’ “infotainment” e il “talk show” che, accanto alla eterogeneità, presentano anche tratti “quotidiani”
(attivando il processo di “quotidianizzazione”).
La programmazione tende in generale a prolungarsi nel tempo fino a diventare ininterrotta,
scorrendo come le acque di un fiume e insinuandosi negli angoli più nascosti della routine degli
spettatori. È la fine delle trasmissioni che fanno clamore, relegate ora nel “prime time”, rimasto
l’unico luogo del “media event” e terreno principale, su cui si combatte la guerra degli ascolti. La
maggior parte dei prodotti mandati in onda è “discreta”, “silenziosa”, tanto discreta e silenziosa da
165
Per avere uno sguardo sinottico e sintetico della programmazione della tv negli anni ‘80, rimandiamo nuovamente al
testo di F. MONTELEONE: 1992, 447/468.
166
Ci siamo già occupati delle strategie di palinsesto della neo-televisione in: F. MARINOZZI, La frammentazione
testuale nella televisione italiana, in:www.medienanalyse-online.de.
61
potersi inserire nella vita di tutti i giorni: la tv deve diventare come la radio, un medium di flusso167,
un medium che, proprio come la radio, non sia né più né meno che un “rumore di fondo”.168
Sembra strano affermarlo ma è proprio su questo sfondo che la tv tenta di costruire un rapporto con
il proprio pubblico: scandendo il ritmo della programmazione sulla base del ritmo della vita, riesce
a entrare nell’intimità dello spettatore, come una vecchia amica.
È questa una “quotidianizzazione dei tempi” che si affianca a una più generale “quotidianizzazione
dei contenuti”. Si tratta di un punto centrale, di un punto che può essere inteso in due modi:
a. Molti più telespettatori partecipano attivamente alla costruzione del messaggio.
b. Il messaggio ruota attorno a temi o contenuti “comuni”, o meglio, “quotidiani”; ma questo
concetto (= “quotidianizzazione”) è suscettibile a sua volta di due ulteriori significati:
- Il discorso si incentra su temi davvero quotidiani.
- Si mostra il volto umano e quotidiano del personaggio famoso o del politico di
turno.169
Dunque, gli elementi di novità che si affermano sempre di più come caratteristiche peculiari del
mezzo, sono fondamentalmente due:
- flusso ininterrotto di suoni e immagini
- quotidianizzazione e routinizzazione del messaggio.170
È più chiara ora la ragione per cui si è sostenuto che, negli anni ’80, sia avvenuta una vera e propria
metamorfosi al livello di ideazione e proposizione del prodotto.
Ma se, come si è detto, il suddetto prodotto è fatto per essere fruito dal maggior numero di persone
possibile, o meglio, se il maggior numero di persone possibile è il vero prodotto che l’emittente
vende agli inserzionisti, diventa necessario costituire un organismo che possa monitorare in modo
preciso, immediato e tempestivo la quantità degli ascolti. Dopo una serie di esperimenti di poco
successo, nel 1984, viene istituto l’Auditel, un ente autonomo che ha il pregio di servirsi di un
meccanismo modernissimo nella rilevazione dei dati: sul televisore di alcune famiglie campione
viene posizionato un “meter”, ritrovato che comunica in tempo reale, mediante rete telefonica, tutti
gli spostamenti effettuati da quel nucleo umano, attraverso il telecomando.
I numeri diffusi da questo organismo costituiscono il “tribunale” che decreta la riuscita, la
popolarità e anche la qualità di una dato programma. Le quantità di telespettatori che le emittenti
commerciali “vendono” agli investitori, si basano principalmente sui dati diffusi dall’Auditel.
Si vede chiaramente come vi sia al fondo una logica marcatamente industriale, marcatamente seriale
del prodotto; è questa quella che si definiva all’inizio logica del gatto, cioè né più né meno che
l’inseguimento accanito di una massa di numeri. È un tipo di strategia che è comprensibile da parte
delle emittenti private (che hanno nella pubblicità l’unica fonte di sostegno); tuttavia, per effetto
della concorrenza, questo “morbo dei grandi risultati” ha contagiato anche le emittenti di Stato, le
quali, sintomaticamente, hanno iniziato a perdere di vista le finalità pedagogiche. Il grillo e il corvo
restano un retaggio del passato.
Per riassumere in breve quello che si è detto finora, le caratteristiche della tv negli anni ’80 e poi
’90, sono le seguenti:
a. Un palinsesto inteso come flusso ininterrotto di immagini e suoni.
b. Una “quotidianizzazione” dei contenuti e dei ritmi televisivi.
c. Una fusione dei generi.
d. Un’abbandono quasi totale delle logiche pedagogizzanti e informative in luogo delle
strategie spettacolari.
e. Il successo di pubblico come obiettivo principale e come criterio di giudizio del prodotto.
167
Quello di utilizzare la tv come rumore di sottofondo è una caratteristica introdotta proprio dai “programmi
contenitore”, lanciati dalla tv pubblica.
168
In questa sede, ci sembra opportuno trattare velocemente questi argomenti. Per approfondimenti ulteriori
rimandiamo sempre all’articolo sopra citato.
169
Nell’elaborazione di queste strategie, come abbiamo sottolineato nell’articolo già citato, giocherà un grosso ruolo
anche la costruzione spaziale.
170
Si avrà comunque modo in seguito di riflettere meglio e in modo più approfondito su questi aspetti.
62
Sono queste le conseguenze estreme di un’industria come quella televisiva che, per la prima volta
nella sua storia, fa i conti con un mercato concorrenziale, un mercato capitalistico “tout court”, dove
la rincorsa al soddisfacimento dei bisogni del consumatore (quindi del maggior numero possibile di
utenti) diventa la finalità principale.
Per quanto riguarda la televisione non satellitare in chiaro, abbiamo oggi in Italia tre grandi
soggetti:
La Rai, con tre canali televisivi (+ altri 5 canali radiofonici); Mediaset con tre reti televisive (Canale
5, Italia 1 e Rete 4); La 7 (nata dalle ceneri di Telemontecarlo).
A questi si aggiungono due network minori (Italia 7 e Odeon), più due tv musicali: l’ormai
internazionale MTV e Rete A (una volta VIVA). Da qualche tempo, ha cominciato a trasmettere sul
segnale terrestre anche un’altra emittente musicale, Video Italia Solo Musica Italiana, ma non copre
ancora tutto il territorio nazionale.
Tuttavia, chi detta le regole del gioco sono ancora soltanto la tv di Stato e Mediaset, cioè coloro
che, fin dalla nascita delle stazioni commerciali, hanno sempre giocato “più duro degli altri”,
centrando lo scontro non soltanto sulla programmazione in quanto tale, ma anche sulle strategie di
costruzione dell’immagine, cioè sul marketing.
In questo forse, Berlusconi ha avuto delle carte in più degli altri, poiché proveniva da un mondo che
ha poco a che vedere con l’editoria. Probabilmente è questo che gli ha permesso da un lato di avere
a disposizione subito una certa consistenza di capitali (ricordiamo che l’imprenditore si occupava
precedentemente di edilizia), dall’altro di sperimentare, al livello del messaggio, qualcosa di
completamente nuovo, che non fosse in qualche modo legato a quelle visioni del mondo dipendenti
dalle logiche del grillo o del corvo.171 Inoltre, e questo va ricordato con forza, egli ha saputo
fronteggiare una situazione quanto mai difficile, ovvero una situazione data dall’assenza totale di
una legislazione ad hoc. Laddove esiste un vuoto normativo, è vero che è possibile agire
liberamente e senza vincoli, ma è anche vero, nello stesso tempo, che non vi è alcuna tutela
dell’impresa, la quale è lasciata assolutamente in balìa di tutti i contraccolpi del caso. Checché se ne
dica, Berlusconi si è saputo muovere bene.
È questo dunque quello che avviene negli anni’80 e poi ’90: il trionfo del cosiddetto riflusso,
ovvero l’affermazione di una logica di mercato “tout cour”, che dipende in gran parte dalla
diffusione di valori consumistici e individualisti; il fantasma contro cui la classe dirigente, per più di
un ventennio, aveva lottato, si afferma nella sua più piena forza reale. Di quella vecchia tv degli
anni ’50 e ’60, non resta più nulla.
171
Ecco quanto scrive Aldo grasso: «La possibilità di una liquidità finanziaria immediata e non legata alla televisione
rappresentò, certamente, un fattore di decisiva importanza e in parte spiega come gruppi editoriali, quali Mondadori,
Rizzoli o Rusconi, che dovevano investire ingenti finanziamenti nella nuova attività televisiva, furono costretti ad
abbandonare la via dell’etere per cedere il passo all’intraprendente neoeditore. Indubbiamente l’ascesa di Berlusconi fu
caratterizzata da un forte elemento innovativo che portò all’introduzione in Italia di un diverso modo di fare televisione,
tale da diventare modello trainante perfino per la Rai. Il fatto di non provenire dal mondo dell’editoria (…) costrinse
Berlusconi a tentare strategie di comunicazione completamente nuove che, anche se prive di esperienza a cui fare
riferimento, erano almeno distanti da quelle derivate dalla stampa che i grandi gruppi editoriali avevano imposto alle
loro televisioni (…) Innanzitutto la programmazione doveva essere regolata dagli indici di ascolto: la quantità di
pubblico era il fattore fondamentale per attirare la pubblicità; in secondo luogo era importante dare un’immagine molto
forte di rete attraverso la continua promozione del marchio e dei programmi di successo; si doveva inoltre fornire un
panorama internazionale, soprattutto americano, e rispondere alle esigenze spettacolari ed evasive che la Rai, ancora
cosciente della sua funzione educativa, non soddisfaceva fino in fondo», A. GRASSO: 2000, 179.
63
6. Il paese dei balocchi e la fine del “grillo”: dalla paleo- alla neo-televisione172
Gli anni ’70 e poi ’80, come si è visto, sono attraversati da un vento di rinnovamento che riguarda la
società tutta e che, di conseguenza, coinvolge anche i mezzi di comunicazione di massa in generale
e la tv in particolare. Nella fattispecie, si assiste all’abbandono quasi totale delle logiche
pedagogizzanti in luogo dell’adozione di strategie spettacolari, finalizzate alla conquista di fette di
pubblico, il più estese possibile.
È nell’arco di questo ventennio che si consuma il passaggio dalla paleo- alla neo-televisione, due
categorie di paternità echiana, che racchiudono al proprio interno visioni del mezzo e universi di
valori completamente opposti. In un articolo173, ci siamo già occupati in modo abbastanza analitico
di questo aspetto e vorremmo riportare in questa sede soltanto i guadagni ivi ottenuti174; tale breve
digressione ci aiuterà a comprendere meglio quali sono le caratteristiche della tv di oggi, cioè della
neo-televisione, alla luce della storia del medium.
In quella sede (cioè nel nostro articolo), preliminarmente al discorso sui programmi in quanto tali,
avevamo utilizzato il concetto di “testo”, affinché potessimo meglio chiarire il valore “semiotico” di
una trasmissione televisiva in particolare e del medium in generale.175
Che cos’è un testo? Nient’altro che un sistema ordinato e organicamente strutturato di segni
fortemente coesi (anche se talvolta [come nel caso del testo televisivo] di natura diversa) fra loro.
Ma “nel” testo e nella fruizione “del” testo giocano un ruolo fondamentale due categorie, quelle di
tempo e di spazio; si tratta di macro-paradigmi complessi, che cambiano di significato in relazione
alla prospettiva dalla quale si guarda il testo stesso. In questo senso, abbiamo cercato di individuare
tutte le variabili possibili, rilevando tre accezioni per le categorie temporali, e quattro per le
categorie spaziali.
Procediamo con ordine e partiamo dal primo dei due termini in gioco.
Esiste un:
a. Tempo dell’enunciato, cioè il tempo del racconto rappresentato, il tempo a cui la vicenda
rimanda.
b. Tempo dell’enunciazione, cioè il tempo in cui la storia viene rappresentata, il tempo
dell’atto di enunciazione della storia, per l’appunto.
c. Tempo della lettura, ovvero il tempo della fruizione della vicenda rappresentata.
È chiaro che, nel caso del cinema e della tv, b. e c. coincidono: l’attualizzazione della storia è
contemporanea alla lettura.
Veniamo ora al secondo punto, ovvero allo spazio.
Abbiamo riconosciuto:
a. Uno spazio del testo, vale a dire il singolo programma.
b. Uno spazio dei testi, cioè lo spazio in cui il singolo programma è inserito (:il palinsesto).
172
I concetti di paleo- e neo-televisione, ormai universalmente accettati come paradigmi esplicativi della differenza fra
la tv degli ultimi anni e quella delle origini, sono di paternità echiana, coniati in: U. ECO, Sette anni di desiderio,
Bompiani, Milano, 1983.
173
F. MARINOZZI, Op. Cit..
174
Per un approfondimento ulteriore delle ragioni che ci hanno condotto a condividere e ad abbracciare determinate
posizioni, rimandiamo alla lettura del brano in questione. Ci sembra però opportuno riportare qui di seguito alcuni testi
fondamentali di cui ci siamo serviti:
- G. BETTETINI, L’audiovisivo, Bompiani, Milano, 2001.
- G. BETTETINI, Tempo del senso, Bompiani, Milano, 2000.
- G. P. CAPRETTINI, Del Maurizio Costanzo Show e della religione rumorosa, Aleph, Torino-Enna, 1992.
- G. P. CAPRETTINI, La scatola parlante, Editori Riuniti, Roma, 2000.
- F. CASETTI, Dentro lo sguardo, Bompiani, Milano, 1986.
- E. MENDUNI, I linguaggi della radio e della televisione, Laterza, Roma-Bari, 2002.
- M. P. POZZATO, Dal “gentile pubblico” all’Auditel. Quarant’anni di rappresentazione televisiva dello
spettatore, Vqpt – Nuova Eri Ediz. Rai, Roma-Torino, 1992.
- M. WOLF, Tra informazione ed evasione i programmi televisivi di intrattenimento, Eri Ediz. RAI, Torino,
1982.
175
Si tratta di un concetto sul quale si tornerà successivamente in modo più approfondito.
64
c. Uno spazio nel testo, ovvero la costruzione spaziale e la rappresentazione di tale costruzione
(studio, arredamento, ma anche inquadrature…).
d. Uno spazio psicologico-astratto, che è ciò che separa lo spazio domestico dall’istituzione
televisiva.
A causa delle strategie introdotte dalla neo-televisione, attraverso i nuovi programmi, questi quattro
strumenti macro-paradigmatici, subiscono una vera e propria metamorfosi.
Ma quali sono, nello specifico, le trasmissioni portatrici di maggiori novità?
Come abbiamo già fatto nel lavoro citato, potremmo cominciare l’analisi dalla fiction, o meglio dal
modo in cui le reti di Berlusconi fanno uso della stessa, introducendo una “serialità” di tipo
industriale nelle logiche di programmazione.
Il serial in questione è Dallas, mandato in onda qualche anno prima (: nel 1981) proprio dalla Rai,
ma rivelatosi un fiasco. La ragione del “flop” risiede tutta nella strategia che le emittenti pubbliche
decidono di utilizzare nella sua messa in onda (peccando di obsolescenza). Che cosa fa l’azienda di
viale Mazzini che non va? In che cosa sbaglia?
La soap opera di cui stiamo parlando è prodotta in America dalla televisione americana, la quale è
caratterizzata da una programmazione seriale e di “flusso”. Il prodotto in questione è pertanto
concepito alla luce di queste caratteristiche, di caratteristiche cioè che incentivano il telespettatore a
seguire la storia nel suo intero, costringendolo ad accendere il suo apparecchio tutti i giorni alla
stessa ora.
Ma come si può realizzare un simile obiettivo? Semplicemente lasciando che la storia resti aperta,
facendo sì che ogni puntata non sia semanticamente autonoma, ma rilanci la conclusione
all’appuntamento successivo.
Dunque, come si vede, non è il singolo episodio a “fare testo”, bensì tutta la serie nel suo
complesso. È su questo piano che si pone l’errore commesso dalla Rai, la quale decide di mandare
in onda la soap non secondo la cronologia effettiva dello svolgersi degli eventi, bensì secondo una
scelta casuale delle puntate, come se esse fossero delle unità semantiche autonome, come se fossero
cioè dei singoli film. Ne consegue una disgregazione totale di quell’omogeneità che caratterizza
l’opera, e questo (come è ovvio che sia) genera un disinteresse da parte dello spettatore.
Al contrario, Canale 5 rispetta fedelmente la cronologia degli eventi: quello di Dallas è infatti un
appuntamento settimanale, nel quale lo spettatore ha la possibilità di seguire lo svolgersi delle
vicende, secondo l’ordine che la casa di produzione aveva inteso dargli. Inoltre, l’emittente
berlusconiana enfatizza molto (attraverso una vasta campagna promozionale, fatta di promo
disseminati in tutto il palinsesto) la contemporaneità fra la programmazione italiana e quella
americana, sottolineando così la novità assoluta dell’evento.
Questo fatto (la messa in onda di Dallas da parte di Canale 5) è, da un punto di vista storico, di
fondamentale importanza, perché introduce elementi di assoluta novità.
Ma quali sono in concreto questi elementi?
In primo luogo (come già si è visto), la “logica orizzontale”, introdotta mediante la programmazione
di un prodotto concepito alla luce di tale logica (vale a dire un prodotto che si inserisce in una
programmazione in cui gli appuntamenti hanno una cadenza quotidiana): comprando un prodotto di
tipo “orizzontale”, per l’appunto, è necessario inscriverlo in una strategia dello stesso genere, pena
la perdita della sua unità semantica.
In secondo luogo, la “serialità”, una caratteristica dell’industria “tout cour”, ma che, soltanto ora,
dopo anni di grillo e di corvo, si insinua definitivamente nel mondo della televisione: Dallas è come
un puzzle costituito di tanti tasselli, ciascuno dei quali ha senso in rapporto agli altri, cioè solo in
rapporto all’insieme. Allo stesso modo, tutti i programmi di questo tipo (= di tipo seriale), sono
costituiti da una serie di appuntamenti che “significano”, non autonomamente, ma in relazione a un
“tutto” di cui sono parte.
In terzo luogo, le strategie promozionali, utilizzate nella reclamizzazione che Canale 5 fa della soap
in questione; esse rientrano in una logica di marketing che la televisione pubblica non aveva mai
adottato prima; il marketing, per l’appunto, è un qualcosa che può essere implicato soltanto da un
“ideologia” (se così la si può definire) di tipo commerciale, anzi marcatamente commerciale,
65
marcatamente liberista, un’ideologia insomma contro la quale la vecchia classe dirigente si era
sempre battuta: è su questo piano che si consuma la vittoria definitiva del gatto.
In ultimo, con Dallas, la tv privata inizia ad attaccare la Rai direttamente e, per di più, sul terreno in
cui è più forte: il “prime time”. Inizialmente, le reti di Berlusconi, Rizzoli e Rusconi concentravano
i propri programmi di successo nei momenti della giornata in cui le emittenti di Stato erano più
deboli, oppure in cui non trasmettevano affatto (è la cosiddetta logica verticale).
Con la proposizione di un “appuntamento forte” in prima serata invece, Canale 5 si confronta con le
reti pubbliche nel loro punto di forza. Il successo ottenuto è enorme, tant’è che la dirigenza
dell’emittente lombarda decide di proporre un secondo episodio settimanale.
La serialità dunque; è questo il primo guadagno in senso forte.
Passiamo ora a un altro dei punti caratteristici della “neo-televisione”, ovvero la
“quotidianizzazione”. Si tratta di un aspetto che è senz’altro legato alla serialità del telefilm, nella
misura in cui il programma seriale tende a inserirsi nel ritmo della vita quotidiana; tuttavia, tale
aspetto, prima ancora che nella soap opera, lo si ritrova in altri due generi, apparsi in annate
precedenti a Dallas e lanciati incredibilmente proprio dal servizio pubblico; stiamo parlando del
talk show e del programma contenitore.
Il primo talk show della storia della tv italiana va in onda il 18 ottobre 1976, in seconda serata, ed è
condotto da Maurizio Costanzo, cioè dall’uomo che sarebbe diventato, qualche anno più tardi, il
talk show man per antonomasia. Si tratta di Bontà loro, una trasmissione di grandissimo successo,
sebbene sia realizzata con poche risorse.
Tutto viene organizzato in uno studio, allestito con una scenografia abbastanza scarna: né più né
meno che un salotto di un normale appartamento, con le classiche poltrone (sulle quali vengono fatti
accomodare gli ospiti) e uno sgabello riservato al conduttore (spostato a seconda del centro fisico
della conversazione).
Dunque, come si vede, una “quotidianizzazione” si ha già nell’organizzazione dello studio.
Ma quale fine, quale obiettivo ha la riproduzione di un ambiente “domestico”?
L’instaurazione di un clima di intimità, di un clima di confidenzialità, che permetterà all’anchor
man di “strappare” una confessione improbabile al “V.I.P.”, alla “very important person” di turno. I
partecipanti sono dunque persone di prestigio, persone che ricoprono un ruolo di primo piano nel
mondo della politica o dello spettacolo; tuttavia, a esse vengono affiancati molto spesso soggetti più
comuni (i futuri “talkin’ heads”), che il fiuto, il sesto senso di Costanzo (vero genio della
comunicazione di massa) percepisce adeguati alla telecamera. La rivoluzione vera e propria avviene
però sul piano delle tematiche: il divo di turno o il politico non sono chiamati, in linea di massima, a
discutere di problemi che attengono alle proprie competenze, bensì alla vita privata, alle
inclinazioni, agli hobbies…
A parlare delle cose importanti, quelle che riguardano l’economia domestica, le inadempienze della
burocrazia nazionale, ci penseranno infatti i “talkin’ heads”, persone comuni, la cui notorietà deriva
solo ed esclusivamente dalla partecipazione a questo genere di trasmissioni.
Il vip deve essere restituito al telespettatore nel suo aspetto più quotidiano, dunque più umano; la
persona comune, o meglio il fatto che essa prenda parte al dibattito, deve invece suggerire al
pubblico a casa l’idea, l’impressione che attraversare quella soglia, quel muro che divide mittente e
destinatario non sia poi così difficile, che lo studio sia qualcosa a portata di mano.
Ma, nel talk show, vi è poi un altro attore importante: il pubblico in sala. Esso è un soggetto che può
partecipare attivamente alla trasmissione nei seguenti modi:
- ponendo delle domande;
- sottolineando con degli applausi il proprio accordo;
- intervenendo in altri modi predisposti dal conduttore.
In tutti i casi, egli rappresenta, all’interno del “testo-programma”, proprio il fruitore, colui cioè che,
a casa, in salotto, è seduto davanti all’apparecchio.
Infine, c’è l’anchor man, che è in fondo l’attante principale. È lui infatti il “demiurgo semantico”,
vale a dire colui che crea, che attribuisce, che dona senso al messaggio: il conduttore cuce i discorsi
fra loro, disapprova o sottoscrive mediante le espressioni del volto, interpella il pubblico a casa
66
attraverso gli sguardi verso la telecamera, benedice o maledice mediante la mimica… in breve ha
sempre l’ultima parola su tutto e ciò vale in maniera particolare proprio per Maurizio Costanzo176.
I punti di novità del talk show sono dunque due:
- Una quotidianizzazione dello studio, funzionale a una quotidianizzazione delle
tematiche.
- Una prima rottura del muro di separazione fra mittente e destinatario o, detto in altri
termini, una dissimulazione dell’esistenza di un canale comunicativo.
Passiamo ora all’altro dei due generi in questione: il programma contenitore.
Il primo esempio in questo senso è rappresentato da Domenica In, trasmissione che nasce alla fine
degli anni ’70 e che abbraccia temporalmente tutta la domenica pomeriggio (ed esiste tuttora).
Proprio a causa della sua lunghezza, è necessario che essa non sia indirizzata soltanto a una nicchia,
bensì a tutto il pubblico; in questo senso, cioè per soddisfare gusti differenti, presenta diversi generi
al proprio interno: uno spazio riservato alla musica, uno riservato all’informazione o allo sport, uno
al talk show, uno al telefilm… e procede per quattro, cinque o sei ore in questo modo, senza
interruzione, dalle 14 alle 20: si tratta di un vero e proprio flusso di immagini e suoni, che
accompagna, come un sottofondo, come una colonna sonora, la domenica pomeriggio della famiglia
italiana media (composta, per l’appunto, da persone aventi esigenze e inclinazioni differenti).
Accanto al “flusso”, l’altra novità introdotta da questa tipologia di programma è la “rottura dei
generi”. Che cos’è in definitiva Domenica In? Nient’altro che un programma che contiene in se
stesso tutto ciò che il panorama televisivo può offrire. La conseguenza estrema di una
programmazione intesa come “fluire” è la cancellazione definitiva delle frontiere fra un programma
e l’altro.
Ma chi è che garantisce che un simile formato sia davvero un “flusso”, ovvero un “testo composito”
dove le varie unità narrative sono raggruppate in un “unicum” omogeneo (invece che essere
giustapposte a mò di accozzaglia amorfa)? Né più né meno che il conduttore.
A questo punto però sorge un altro interrogativo: che cosa fa concretamente tale conduttore per
costruire tale omogeneità? Egli cuce, mette assieme, attraverso il linguaggio e attraverso le sue
abilità narrative, i vari pezzi del puzzle. Si vede come, nel regno dello scorrere delle immagini, ciò
che attribuisce unità al tutto è ancora la “parola”.
In conclusione, le novità introdotte dal programma contenitore sono fondamentalmente due:
- Flusso (interno).
- Rottura dei generi.
Le caratteristiche fin qui descritte di serial, talk show e contenitore si ritrovano tutte assieme in un
programma di Rai 1, cronologicamente collocabile a metà degli anni ’80: è Pronto Raffaella,
condotto dalla show girl (anche se, data l’età già allora avanzata, sarebbe il caso definirla “show
woman”) Raffaella Carrà, per la regia di Japino.
Per quale ragione si sostiene che tale trasmissione riassuma in se stessa tutte le caratteristiche dei
generi appena analizzati?
Fondamentalmente, per quattro ordini di motivi.
Primo perché Pronto Raffaella è principalmente un programma contenitore, che, in quanto tale,
riprende tutte le caratteristiche del genere.
In secondo luogo, perché è una striscia quotidiana, mandata in onda tutte le mattine, dal lunedì al
venerdì, fino alle ore 14; si serve dunque della serialità tipica del telefilm.
In terzo luogo, perché concede ampio spazio alla discussione con gli ospiti, che avviene nel solito
salotto; in questo senso, sconfina anche nel territorio del talk show.
Da ultimo, perché lascia ampio spazio alla partecipazione del pubblico, attraverso il quiz telefonico.
Ecco dunque che si ritrovano assieme tutte le innovazioni tipiche della neo-tv:
- Flusso.
- Quotidianità.
- Rottura dei generi.
176
Si veda a questo proposito: G. P. CAPRETTINI, Del Maurizio Costanzo Show e della religione rumorosa, Aleph,
Torino-Enna, 1992.
67
-
Rottura del muro di separazione tra mittente e destinatario/dissimulazione
dell’esistenza di un canale comunicativo.
- Serialità del prodotto.
Ma vediamo che cosa succede alle categorie spazio-temporali con le quali avevamo descritto il
prodotto audiovisivo.
Da un punto di vista dei tempi, c’è sempre una maggiore identificazione tra “tempo del racconto”
(che tende a riprodurre la temporalità della vita stessa), “tempo dell’enunciazione” e “tempo della
fruizione” (che coincide con la quotidianità): racconto, enunciazione e fruizione si appiattiscono
sulla vita.
Anche da un punto di vista degli spazi, si riscontra una crescente simbiosi e sintesi fra le quattro
categorie; per effetto del flusso, lo spazio del testo tende a fondersi con quello dei testi, così come lo
spazio nel testo tende a essere riprodotto sulla base di quello domestico: lo spazio psicologico
astratto esistente fra mittente e destinatario viene dissimulato.
Dunque, l’aspetto più macroscopico prodotto dalla neo-televisione è senza dubbio la
“quotidianizzazione”, che ha come risultante finale la rottura della distanza fra la televisione (intesa
come istituzione) e lo spettatore. La tv non è più una finestra (per lo meno non solo) sul mondo,
bensì uno specchio della realtà.177 Non si tratta però, come nel caso dell’esperienza speculare, di
una riproduzione fedele, di una riproposizione per intero dei particolari dell’oggetto, ma di una
rappresentazione che, in quanto tale, descrive soltanto alcuni aspetti dell’archetipo.178
E quali sono allora gli elementi del quotidiano (ovvero dell’archetipo) che la tv intende
rappresentare?
Quelli più individuali, più intimi, più soggettivi, che coincidono con la sfera affettiva e passionale:
la neo-televisione fa leva sull’empatia con l’ascoltatore, per creare un rapporto di confidenzialità179.
Ma riproducendo la realtà, a partire da una certa prospettiva, da un certo modo di osservare la
stessa, ne produce, in qualche modo, un’interpretazione, che, per ciò stesso, ha carattere normativo.
Ecco che ricompare dal nulla, quasi come un “deus ex machina”, la funzione pedagogica. Che cosa
fa la tv rappresentando la società e il mondo? Molto semplicemente, cambia la società e cambia il
177
Si tratta di un’interessante interpretazione che riprendiamo da Renato Stella, che afferma quanto segue: «(…)
- La televisione diventa un dispositivo etnografico: “la televisione si trova a replicare costantemente l’universo
quotidiano: essa non solo funge da finestra aperta sulla realtà, attraverso cui cogliere i profili delle cose, ma
anche da specchio delle forme di socialità (e di sociabilità) diffuse nel mondo della vita. Detto altrimenti essa
riproduce non solo il nostro visibile ma anche il vivibile (F. CASETTI, Tra me e te. Strategie di coinvolgimento
dello spettatore nei programmi della neotelevisione, Eri Ediz. Rai, Torino, 1988, 24) (…)
- Il dispositivo etnografico funziona attraverso un circuito normativo: “La televisione mutua dalla realtà
quotidiana dei comportamenti che elegge a fonte della propria attività comunicativa; contemporaneamente
però essa restituisce alla vita quotidiana un’immagine di questi comportamenti che diventa norma per l’attività
comunicativa ordinaria (…) Perciò il mondo di vita, che pur funziona da referente del mondo televisivo, nel
momento in cui viene rappresentato diventa principio di se stesso” (F. CASETTI: 1988, 25) (…) la
rappresentazione mediale del mondo vero (…) si sposta ai mondi possibili, di pura invenzione, i quali
allargano l’esistente alla dimensione del virtuale.
- Attraverso l’uno e l’altro la neo-tv riconquista un ruolo pedagogico: “ la televisione non si propone soltanto
come un enorme dispositivo etnografico, ma anche pedagogico; è davanti ad essa che impariamo la
grammatica del vivere” (F. CASETTI: 1988, 26) (…) La neotelevisione non mostra la realtà del “mondo vicino
e domestico” (…) ma lo interpreta, nel senso che lo rimette in scena con regole di verosimiglianza proprie (…)
essa illustra e dice quali sono e quali dovrebbero essere i canoni della quotidianità cui lo spettatore si socializza
secondo standard etici e negoziali e predefiniti», R. STELLA, Box Populi, Donzelli, Roma, 1999, 21, 22.
178
Anche su questo punto rimandiamo a un affermazione di Stella: «(…) la realtà sociale in cui vive lo spettatore e la
rappresentazione televisiva tendono a mischiare e sovrapporre i loro linguaggi definendo un continuum fondato su un
contratto comunicativo di verosimiglianza», Ib., 46.
179
È quella che Stella definisce “femminilizzazione dei palinsesti”: «[Si parla di femminilizzazione dei palinsesti] sia
dal punto di vista della maggiore attenzione prestata agli aspetti emozionali degli eventi, sia per il massiccio impiego di
saperi che si rifanno a competenze quotidiane; tanto per l’accento posto ai problemi connessi al corso di vita, quanto,
infine, per il più stretto legame venuto a crearsi tra bisogni proiettivi ed empatici delle audience e struttura dei
programmi. “Femminilizzazione” significa non solo un più largo utilizzo del mezzo televisivo da parte delle donne (che
hanno più tempo da dedicargli), ma anche una riscrittura dei confini che separano la dimensione privata dello spazio
domestico, dalla dimensione pubblica neotelevisiva», Ib., 60, 61.
68
mondo, attraverso il mondo stesso. In questo senso, si può affermare che la televisione conservi
ancora la sua vecchia funzione “socializzante”.
La tv in sostanza fornisce una rappresentazione della realtà, che è presentata come verosimile, tanto
verosimile da creare l’illusione che sia vera (esattamente come avviene nell’esperienza
speculare180), mentre in realtà essa non è altro che una “presentazione parziale in prospettiva”.
Questa verosimiglianza, questa pseudo-esperienza speculare, utilizzata dal mezzo, non ha come
obiettivo quello di fornire una visione distorta del mondo, cioè di mentire, bensì di creare una
“nuova verità” accanto alla verità del mondo.
La cosa che si deve sottolineare però è che, se da un lato ricompaiono delle finalità pedagogiche,
dall’altro esse sono state pure ridefinite, mediante un progetto “negoziale”, fondato sulla
“mediazione dei contenuti”. È questo ciò che emerge dall’analisi di un genere come quello del talk
show, senz’altro uno degli strumenti privilegiati per una riproduzione pseudo-speculare della realtà.
Nel “talk” infatti, i comportamenti e i valori proposti emergono dalla discussione, dal dibattito tra
gli ospiti (fra i quali ve ne sono sempre alcuni che fanno le veci del pubblico): la realtà è portata sul
palcoscenico e giudicata assieme; il giudizio che ne emerge sarà alla base di una nuova schiera di
valori o di un possibile atteggiamento da adottare.181
Dunque, attraverso la quotidianità (espediente per avvicinarsi alle esigenze del pubblico), la tv
riacquista un vecchio ruolo, una vecchia funzione; la cattedra, “scaraventata dalla finestra”, “rientra
dalla porta principale”.
Non si può parlare tuttavia di una strategia pedagogizzante vera e propria, in quanto l’obiettivo
primario della tv di oggi non è assolutamente educare, fornire insegnamenti, bensì produrre
pubblico (come del resto si è già visto). Data questa premessa, i contenuti di tipo moralisticocomportamentale di cui si è detto non sono altro che strumenti per ottenere un risultato
completamente “altro”, di natura completamente diversa; in altri termini, la tv propone dei modelli
solo in quanto e nella misura in cui ciò crea audience. Detto in modo un po’ più puntuale, non si sta
qui dicendo che faccia audience proporre un determinato comportamento, bensì il fatto che tale
comportamento sia la risultante di un’attività di negoziazione e che sia proprio una siffatta attività
di negoziazione a produrre audience. Dunque, il segreto del successo è il dibattito e in particolare il
dibattito con i vicari dell’ascoltatore (cioè gli spettatori in sala). Risulta più chiaro ora come il
centro di gravità della neo-televisione sia evidentemente, sempre e assolutamente il pubblico.
Prima di abbandonare definitivamente questo argomento, vorremmo aprire brevemente una
discussione che riguarda i concetti stessi di paleo- e neo-televisione. Fausto Colombo, personalità
verso la quale siamo debitori di molte idee, relativamente a questi due concetti fa le seguenti
affermazioni:
«(…) da quanto abbiamo messo in rilievo sin qui, dovrebbe risultare chiaro che i limiti di questa
opposizione [paleo – vs – neo] sono di doppia natura: da un lato essa non tiene conto
dell’evoluzione dell’intero sistema dei media nazionale, dall’altro offre una visione assai parziale e
semplificatoria delle due fasi anche relativamente al solo piccolo schermo» (F. COLOMBO: 1998,
265).
180
Nell’esperienza speculare, l’oggetto è riprodotto sulla superficie dello specchio in tutta la sua totalità. Al contrario, in
tv, i particolari da rappresentare sono selezionati e ridotti a una schiera parziale. Tale selezione e rappresentazione è
realizzata però secondo il criterio della verosimiglianza, che tende a dissimulare il processo di rappresentazione. In
questo senso, la tv tende a porsi come “specchio della realtà”, vale a dire che offre all’utente un’immagine di se stessa
come quella di uno strumento di visione “vera” del reale.
181
«(…) la televisione moderna trasmette progressivamente meno conoscenze intese, in senso cognitivo, quale offerta
di informazioni rispetto a fatti e circostanze ignorate da chi guarda. Essa mette a disposizione invece la
rappresentazione di esperienze che sono condivise, più che apprese, scambiate e rielaborate, piuttosto che acquisite,
grazie a un’accentuazione delle modalità di “dialogo” consentite dal mezzo. Con ciò diviene molto stretto il rapporto tra
il ruolo della televisione come contenitore di storie, raccontate in un talk show o in un film ad esempio, e il ruolo della
televisione quale attore che quotidianamente interagisce con la propria audience in molte forme diverse», Ib., 47.
69
Certamente i due concetti sono “semplificatori” e non valgono se presi in assoluto (nel senso che è
inaccettabile affermare che ad un certo momento, quasi di punto in bianco, sia avvenuto come uno
“strappo”, una “frattura” rispetto a ciò che c’era prima). Se però li si intendono come definizioni
che indicano un processo di trasformazione lungo un intero decennio (gli anni ’80), che soppianta
un vecchio modo di intendere la comunicazione televisiva, un intero universo di valori, allora ci
sembra possano valere. È vero, come abbiamo riconosciuto all’inizio, che tutte le strategie
enumerate (corvo, gatto, topo, grillo) convivono assieme, ma è pur vero del resto che, a seconda
della fase storica, una prevale su tutte le altre.
È quello che è avvenuto nel caso della neo-televisione, la quale, seppur nell’arco di un decennio, ha
introdotto una schiera di novità che hanno occupato il posto della vecchia logica corvo/grillesca.
Ma se da un lato non si può affermare che vi sia stato un cambiamento istantaneo e radicale, un
varco di confine repentino, dall’altro bisogna pur riconoscere che, in un dato momento della storia,
determinati programmi hanno introdotto degli elementi di assoluta originalità, azionando un
processo che ha cambiato radicalmente il modo di comunicare. È evidente il fatto che tra la tv degli
anni ’60 e quella degli anni ’80 c’è un abisso ed è perciò altrettanto evidente che le due categorie
descrivono molto bene tale differenza.
Se le cose vengono lette in questi termini, se si intende cioè il passaggio dalla paleo- alla neotelevisione come non repentino, ma fatto di diverse variabili in gioco, ci sembra che i due paradigmi
possano rappresentare un’interpretazione davvero interessante.
Ecco dunque quello che è avvenuto negli anni ’80 e ’90: la logica spettacolar-commerciale vince su
quella educativa; dopo più di un secolo dalla pubblicazione de Le avventure di Pinocchio, la società
spettacolare può prendersi una rivincita: il corvo è finito arrosto, mentre il grillo resta imprigionato
nelle pareti di una classe scolastica. Comincia l’epoca del paese dei balocchi.
7. L’identità attraverso il flusso: i palinsesti di paleo- e neo-televisione a
confronto
Arriviamo così al punto probabilmente principale della nostra ricerca, quello in cui le strategie di
impaginazione dei programmi di paleo- e neo-televisione vengono messi a confronto.
Il palinsesto rappresenta infatti il luogo fisico in cui le diverse logiche si concentrano, essendo esso
una sorta di “interfaccia fra produzione e consumo”, il territorio in cui, concretamente, l’emittente
offre il suo prodotto al pubblico. È qui, su questa “griglia” (se così la si può definire), che viene
costruita l’identità di una rete, la quale, inevitabilmente, emerge dalla totalità delle parti che
compongono la programmazione.
Come fa notare Nora Rizza182, ciò che deve essere trasmesso, durante l’arco di tutto un anno (quindi
di che tipo, quali e quanti film, quali e quante soap, quali e quanti show…), viene deciso in sede di
pianificazione dell’offerta, cioè sono coloro che si occupano della scrittura del palinsesto a decidere
questioni centrali del tipo: produzione, acquisto e messa in onda finale delle trasmissioni.
In linea di massima, l’anno solare viene diviso in tre macro-stagioni: autunno/inverno, primavera ed
estate. La massima attenzione da parte dei programmatori è indirizzata però verso il periodo
invernale, quando, per ragioni climatico-fisiologiche, lo spettatore è portato a trascorrere più tempo
in casa, davanti alla televisione. È in questa fase che gli appuntamenti di punta, i media event, i
formati più popolari vengono messi in onda, attingendo a un magazzino, i cui prodotti sono
anch’essi stabiliti in sede di pianificazione dell’offerta. Una volta decisi con criteri di massima i
generi e i programmi da trasmettere, le griglie vengono perfezionate di continuo, (quasi) fino al
momento in cui diventano operative.
La stagione a cui, in assoluto, viene riservata minore (o quasi nulla) attenzione è l’estate, quando
l’audience complessiva cala; è il periodo in cui i responsabili “rispolverano” i prodotti d’archivio,
182
Per un’analisi completa e approfondita delle strategie e della storia del palinsesto in Italia si veda: N. RIZZA,
Costruire palinsesti, VQPT, Eri Ediz. Rai, Torino, 1989.
70
cioè (in genere) film e fiction del passato. In questo senso, come nota la Rizza, il periodo caldo è
importante anche da un punto di vista finanziario, in quanto permette di recuperare le perdite
accumulate in inverno e in primavera.
La ragione per cui, nel corso degli anni, il palinsesto ha assunto una sempre maggiore importanza,
dipende dal fatto che, in un certo momento della storia del mezzo, gli operatori hanno compreso che
esso poteva diventare lo strumento privilegiato, attraverso il quale costruire un’identità di rete e un
rapporto solido fra pubblico ed emittente. Così, esso è diventato in breve una sorta di “Treffpunkt”
fra il produttore e il consumatore.
In forza della centralità assunta negli ultimi anni, abbiamo ritenuto doveroso dedicare alcune pagine
all’analisi di questo aspetto.
Preliminarmente, è necessario però chiarire le ragioni di alcune delle nostre scelte.
Anzitutto, siccome la tv non sviluppa inizialmente alcuna strategia di palinsesto, cominceremo il
nostro studio a partire dal 1963 (anno di nascita della nascita della seconda rete), quando vengono
sperimentate le prime proto-forme di impaginazione.
In secondo luogo, porremo la nostra attenzione sulla programmazione del 1980, anno in cui
l’emittenza privata è diventato un fenomeno consolidato e la terza rete Rai (nata alla fine del 1979)
trasmette ormai regolarmente.
Ci sposteremo poi al 1985, quando la concorrenza si fa più agguerrita e quando, naturalmente, la
sfida si trasforma in un faccia a faccia.
Successivamente, vedremo come cambiano le cose dieci anni più tardi, nel 1995, quando si
consuma il passaggio dalla paleo- alla neo-televisione.
Infine si vedrà che cosa succede oggi.
In tutti questi casi, si è deciso di analizzare un palinsesto invernale, che, come si è visto, è quello su
cui si concentrano gli sforzi maggiori dei programmatori.
Ma prima di partire definitivamente con l’analisi, ci sembra doveroso chiarire anche le categorie
attraverso le quali si è deciso di etichettare le trasmissioni.
Si è detto, che una delle tante caratteristiche della neo-tv è la continua fusione fra formati, come
conseguenza estrema di quel flusso incessante di suoni e immagini, prodotto proprio dai palinsesti.
Tale fusione è all’origine di una grande quantità di “sottogeneri”, all’origine di nuove forme di
organizzazione strutturale del linguaggio audiovisivo: culture-tainment, docu-tainment, soap opera,
serial, film per la tv…
Per questo, abbiamo deciso di adottare dei paradigmi interpretativi di tipo “macro”, che inglobino al
proprio interno le eventuali “micro-differenze”.
Abbiamo così enumerato ben 15 categorie:
- Informazione: si sono inclusi sotto questa dicitura soltanto i telegiornali, le
informazioni metereologiche e i notiziari sulla vita parlamentare. Gli
approfondimenti, le discussioni, le analisi, sono stati invece inseriti nell’insieme
rotocalco oppure info-tainment.
- Rotocalco o info-tainment: come si è visto, si tratta di quei programmi che
intendono approfondire i fatti di maggiore rilevanza. Resta però il problema di
distinguere i due formati. La questione è stata risolta in questi termini: fino agli anni
’70, le trasmissioni di analisi avevano una funzione meramente ed esclusivamente
informativa, pertanto le si è etichettate con il termine “rotocalco”. A partire dagli
anni ’80, tale funzione ha iniziato a mescolarsi con quelle istanze spettacolari e
sensazionalistiche, tipiche dei programmi di intrattenimento; per questa ragione, essi
(tali programmi) sono stati indicati con ambo le nomenclature (“rotocalco/infotainment”). Negli anni ’90 invece l’aspetto “entertainment” inizia a prendere piede in
modo più deciso, producendo un effetto “info-tainment” vero e proprio; per questa
ragione, gli appuntamenti di riflessione, di approfondimento, ma anche più
propriamente di studio di questioni non strettamente di cronaca, sono stati inglobati
nella suddetta categoria.
71
-
Sceneggiato: si tratta dell’antenato della moderna fiction, di cui si è ampiamente
parlato nei paragrafi precedenti. Il genere, a partire dalla fine degli anni ’70, inizierà
a venire soppiantato dalla fiction.
- Fiction: macro-categoria all’interno della quale sono stati inclusi tutti i racconti
seriali: soap operas, telenovelas, serials, film per la tv a più puntate, sit-com…
- Sport: non solo gli avvenimenti sportivi, ma anche i programmi di informazione, di
sintesi e di approfondimento.
- Musica: hit-parade, trasmissioni fatte di video-clip, settimanali di informazione
musicale…
- Ragazzi: Cartoni animati, fiction, programmi di intrattenimento destinati ai più
piccoli.
- Entertainment: Show, cabaret, varietà…
- Tv Verità: è uno degli aspetti più interessanti della neo-tv; rientrano in questa
categoria tutte quelle trasmissioni che intendono offrire un aiuto concreto
all’ascoltatore, tentando di risolvere i suoi problemi personali (cercando per esempio
delle persone scomparse), i problemi legati alle disfunzioni pubbliche o
burocratiche…
- Contenitore: è, come si è visto, l’emblema della neo-televisione, in quanto “summa”
di tutti i generi.
- Documentario: credo che tale categoria non abbia bisogno di presentazione.
- Cultura: con questa dicitura si sono etichettate tutte le trasmissioni centrate
sull’approfondimento delle tematiche legate al mondo della cultura scolasticoaccademica.
- Educazione-educational: programmi aventi finalità pedagogizzanti, istituite o per la
diffusione di massa della scolarizzazione (anni ‘50/’60), o per la diffusione di
contenuti di tipo scolastico.
- Religione: rientrano in questa categoria non solo le messe, ma anche i rotocalchi e i
programmi di informazione religiosa.
- Prosa/Teatro.
Questi sono i paradigmi interpretativi principali dei quali ci siamo serviti; verranno talvolta
utilizzate altre nomenclature, tuttavia il lettore non avrà problemi a comprendere il genere di
riferimento.
Procediamo con ordine e partiamo dal 1963.183
Già a una prima occhiata, risulta evidente tutto quello che si diceva nel paragrafo relativo alla
televisione degli anni ’50 e ’60; il concetto di flusso non esiste, così come non esiste un’idea di
serialità. Gli unici appuntamenti ricorrenti tutti i giorni, alla stessa ora, sono i notiziari e Carosello.
Il mattino è riservato ai programmi educativi, che terminano alle ore 14, per riprendere alle 16,45;
sono queste le trasmissioni attraverso le quali la logica del grillo meglio si dispiega: la tv, negli
orari in cui la maggioranza degli italiani si trova a scuola o a lavoro, non deve costituire una
tentazione alla fuga, bensì assolvere a una funzione educativa.
Per la stessa ragione (cioè per il fatto che non possono essere occupate le fasce orarie in cui gli
spettatori lavorano), non può esistere un “flusso”.
Notiamo poi dei formati che, con il trascorrere degli anni, scompariranno del tutto; in particolare,
pensiamo allo sceneggiato o alla prosa. Questo per quel che concerne la prima rete. Per quanto
riguarda invece il secondo canale, l’esordio delle trasmissioni è collocato alle 21, in prima serata
(eccetto alla domenica). Tale limitatezza dell’offerta indica in modo ineluttabile il carattere
meramente accessorio e subordinato della seconda rete rispetto alla prima.
Facciamo un salto di ben diciassette anni e passiamo al 1980, quando compare una terza rete Rai.
Alcune caratteristiche tipiche della neo-televisione sono già palesi.
183
Le tabelle relative all’organizzazione dei programmi sono state poste tutte in appendice.
72
Anzitutto rileviamo una netta differenza di impaginazione fra il week-end e i giorni infrasettimanali.
In secondo luogo, notiamo come i palinsesti siano retti da una sorta di proto-programmazione a
“flusso”, con trasmissioni che, dal lunedì al venerdì, prima del prime time, vengono mandate alla
stessa ora: la serialità della tv privata si introduce nelle stazioni di Stato.
Da ultimo, registriamo la nascita di nuovi formati e la metamorfosi dei vecchi: il rotocalco si
trasforma in info-tainment, lo sceneggiato in fiction e viene alla luce il talk show …
Vi sono poi, ovviamente, anche altri elementi degni di nota.
Per esempio, la distinzione fra il “pre prime time” (luogo del flusso) e il “prime time” stesso (luogo
del media event), in cui è collocato, ogni sera, un appuntamento diverso e, tendenzialmente, di forte
richiamo.
Da un punto di vista dell’immagine, Rai Due sembra aver fortificato la sua identità, attraverso il
consolidamento di un palinsesto, che resta deficitario solo al mattino: la subordinazione al primo
canale è finita.
La neonata Rai Tre, dal canto suo, appare chiaramente accessoria, con una programmazione che
comincia a partire dalle 18,15.
Spostiamoci allora al 1985, quando le emittenti commerciali sono diventate già dei veri e propri
network e quando l’imprenditore Silvio Berlusconi riesce a controllare le tre maggiori stazioni del
paese.
Partiamo dai canali pubblici.
Rai Uno conserva uno schema di flusso ben preciso, fino al prime time, mentre Rai Due e Rai Tre
attuano un flusso di massima, con piccole differenze di orario fra un giorno e l’altro: le diversità
relative ai programmi sono di poco conto e riguardano esclusivamente il secondo canale.
Per quel che concerne la terza stazione invece, essa risulta ancora deficitaria nella fascia postprandiale, fino alle ore 15,25/16,10, in cui si rileva un vero e proprio vuoto di programmazione: il
flusso, se è realmente tale, non ha pause.
Si nota poi come i generi tipici della paleo-tv tendano a scomparire: il rotocalco si trasforma quasi
completamente in info-tainment, si affermano il talk show e la fiction, viene fatto ampio uso del
contenitore…
Rileviamo infine la distinzione fra il week-end e i giorni infrasettimanali.
Passiamo ora alle tv berlusconiane: anzitutto, il flusso è realizzato perfettamente, con appuntamenti
che, a partire dal mattino, dal lunedì al venerdì, fino al “prime time”, vengono mandati alla stessa
ora.
In secondo luogo, vediamo come il palinsesto di queste reti ci fornisca davvero un’immagine ben
precisa di ciascuna: Canale 5 è una televisione generalista per tutta la famiglia (con programmi che
si rivolgono un po’ a tutte le fasce di età), Rete 4 è generalista anch’essa, ma diretta soprattutto alle
casalighe (con una gran numero di fiction [soap operas/telenovelas]) e Italia 1 è per i più piccoli o
per i teen agers (con ampi spazi dedicati ai cartoni animati, alla musica, alle sit-com americane…).
In terzo luogo, notiamo che le griglie di programmazione sono state riempite esclusivamente con
generi tipici della neo-tv: non compaiono voci come “teatro”, “sceneggiato”, “prosa” o “rotocalco”.
Esiste poi, ovviamente, una differente strategia per il week-end rispetto alla settimana.
Spostiamoci al 1995, quando la situazione di concorrenza dovrebbe essersi stabilizzata.
Cominciamo sempre dalle televisioni di Stato.
Il flusso viene realizzato perfettamente: le trasmissioni iniziano ogni giorno tra le 6,30 e le 6,45 e
ricorrono quotidianamente, alla stessa ora. Per quanto riguarda il prime time poi, ciascuna emittente
tende a proporre degli appuntamenti forti, seguendo una strategia contraria alla vecchia logica di
subordinazione di una rete all’altra.
Si nota poi come Rai Tre sembri aver trovato un’identità: quella di canale “culturale”, con ampi
spazi di palinsesto dedicati all’educazione, alla cultura, al teatro…
In più, fatto di non secondaria importanza, essa lancia uno dei generi più tipici della neo-tv: la tv
verità.
Dal punto di vista dei formati, scompaiono il rotocalco e lo sceneggiato, mentre prendono
ampiamente piede i “neo-generi”: talk, contenitore, info-tainment…
73
Viene prolungata infine la fascia notturna: la televisione si avvia a coprire le 24 ore.
Passiamo alle reti commerciali.
Il primo dato rilevabile è che compare la voce “informazione”, e “informazione” vuol dire TG; solo
all’alba degli ’90 infatti le reti berlusconiane hanno la possibilità di servirsi della diretta, espediente
tecnico che gli consentirà, tra l’altro, di trasmettere gli eventi sportivi (per questo si moltiplicano
anche le voci relative allo sport).
Si nota poi che ciascun canale tende a rafforzare la propria immagine e che, anche in questo caso, le
fasce notturne vengono estese quasi fino a coprire l’arco delle 24 ore.
Veniamo ai giorni nostri, al 2002.
Partiamo di nuovo dalle reti di Stato.
I formati prevalenti sono quelli della neo-tv e la cultura o l’educational si trasformano in “culturetainment”. La logica di flusso sostanzialmente rimane, anche se, talvolta, sembra venire
compromessa dalla presenza degli eventi sportivi. Le strategie spettacolari, relative alla prima
serata, vengono poi in parte accentuate: ciò che viene proposto assume il carattere di evento, di
appuntamento unico e irripetibile. Lo stesso prime time appare poi posticipato rispetto alla
collocazione in cui lo spettatore era tradizionalmente abituato a trovarlo: le 21 (20,55) in luogo delle
20,30. Altro aspetto sostanziale, relativamente a questa fascia, è la sua estensione temporale:
obiettivo dell’emittente è quello di non perdere, in seconda serata, gli spettatori conquistati nella
prima.
Per quel che concerne invece le tv commerciali, il flusso pare persistere ancora in modo
pronunciato, nonostante qualche piccola differenza fra un giorno e l’altro. Le tre reti Mediaset
sembrano aver consolidato definitivamente la propria immagine, rafforzando le tre differenti
identità di cui si era parlato in precedenza. La serialità scompare ovviamente nel prime time, che è il
terreno sul quale avviene lo scontro con le reti pubbliche; come si è già ricordato, è in questo
preciso momento della giornata che si concentrano i maggiori sforzi dei programmatori, è qui cioè
che viene collocato il “media event”.
Anche nel caso delle tre emittenti di Berlusconi poi (così come in quello delle emittenti Rai) esiste
una strategia diversificata per il week-end e per i giorni infra-settimanali. Per quanto riguarda i
generi, sono quasi completamente scomparsi quelli che hanno segnato la nascita della televisione;
formati come l’educazione o la cultura ricoprono settori marginali del palinsesto, probabilmente
anche in conseguenza della nascita di canali satellitari appositi (Rai Sat Art, Rai Sat Leonardo…).
È poi evidente come, in ogni caso, la programmazione tenda a coprire completamente l’arco delle
ventiquattro ore, senza pausa alcuna: l’idea per cui la tv non può occupare il tempo dedicato allo
studio/lavoro è ormai vecchia, all’alba del nuovo millennio ciò che conta è “rosicchiare” ascolti al
concorrente con ogni mezzo e in qualunque istante della giornata.
Giungiamo così alle conclusioni.
Le differenze fra la tv di oggi e quella delle origini sono molto più che macroscopiche e, in ogni
caso, rendono giustizia delle categorie di paleo- e neo-televisione.
Si è detto che, oggi, in piena era “neo-televisiva”, il palinsesto è lo strumento privilegiato attraverso
cui un’emittente definisce e mostra la sua immagine e, nello stesso tempo, l’ “artiglieria” con cui
partecipa alla battaglia, allo scontro con i propri concorrenti. In questo senso, sono state sviluppate
delle vere e proprie strategie per competere “ad armi impari” col proprio avversario. Paolo
Caprettini (La scatola parlante, op.cit.: 74/76) ne enumera dieci:
I.
«Counter programming: la collocazione di un programma di genere diverso da
quello mandato in onda dalla rete concorrente nella stessa fascia oraria.
II.
Competitive programming: si compete con l’avversario utilizzando lo stesso
formato.
III.
Checkerboarding: posizionamento, in una stessa fascia oraria, di un programma
ogni giorno differente.
IV.
Stripping: o striscia, indica la strategia tipica della neo-tv di proporre
quotidianamente, alla medesima ora, la medesima trasmissione.
74
V.
Lead in e lead out: principi per cui si presuppone che il pubblico di un
determinato appuntamento televisivo possa seguire anche l’appuntamento
successivo.
VI.
Spinoffs: è la tecnica di costruire, attorno a personaggi già noti per altre ragioni,
dei programmi appositi e “ad hoc”.
VII. Hammocking: un programma nuovo e poco seguito viene collocato tra due
appuntamenti di forte richiamo.
VIII. Bridging: posizionamento di formati “di grido” in corrispondenza della messa in
onda, sulle reti concorrenti, di altri appuntamenti, in maniera tale da bloccare il
pubblico sulle proprie frequenze.
IX.
Blocking: incasellamento in sequenza di trasmissioni aventi lo stesso target di
riferimento.
X.
Stunting: consiste nel cambiamento improvviso di formato.» (F. MARINOZZI, La
frammentazione testuale nella televisione italiana, in: www.medienanalyseonline.de)
Si capisce dunque quanto siano importanti le logiche di impaginazione e di come la sequenza dei
programmi non possa avvenire assolutamente in modo casuale.
Risulta più chiaro perciò quanto si sosteneva in precedenza, il fatto cioè che il palinsesto costituisca
l’immagine, il “bigliettino da visita” di una certa emittente. Ma se l’insieme delle trasmissioni è il
“paradigma identitario” di un dato canale, il suo “segnale di riconoscimento”, si comprende quanti e
quanto diversi volti ha assunto il mezzo televisivo nel corso della sua storia. L’analisi delle griglie
ci ha mostrato in effetti proprio questo: la tv è un mezzo in evoluzione continua che, nel suo
divenire storico, ha ricoperto funzioni differenti, si è incarnata in forme comunicative eterogenee,
ha risposto a bisogni di consumo contrapposti…
In questo processo di metamorfosi, il medium trova e sviluppa un linguaggio che gli è proprio, trova
delle peculiarità che lo rendono indipendente dai modelli, nel seno dei quali era cresciuto. In questa
ricerca e scoperta della propria identità mediale, esso abbandona, lascia alle sue spalle alcune di
quelle funzioni fondamentali che avevano costituito la sua stessa ragion d’essere (funzione
pedagogica, educativa…). Nel tramonto della figura del grillo, la tv assume tutte le caratteristiche,
anzi diventa essa medesima, il “paese dei balocchi”, restando vittima delle strategie affabulatrici
dello spettacolo: il messaggio diventa così sempre di più una proiezione fittizia della realtà, sempre
più un’entità virtuale.
Ma che cos’è in realtà lo spettacolo? Che cos’è questo concetto di cui tutti parlano, ma di cui ben
pochi si azzardano a dare una definizione?
Cercheremo di chiarirlo nel capitolo successivo.
75
76
Rai Uno184
(24-30/IX/1963)
h
Domenica
h
Lunedì
h
Martedì
08, 30 Educazione (fino 08,30 Educazione
alle 14)
alle 14
10,15
11,00
11,30
15,30
16,15
16,45
17,30
18,30
Rotocalco
Religione
Educazione
Sport
Sport
Sport
Ragazzi
Sceneggiato/Fict.
19,00
19,15
20,05
20,30
20,55
21,05
22,40
23,00
Informazione
Sport
Sport
Informazione
Carosello/Pubblic.
Sceneggiato/Fict.
184
Balzac?
Sport
16,45
17,30
18,30
19,00
19,15
20,00
20,30
20,55
21,05
22,05
22,30
23,10
Educazione
Ragazzi
Educazione
17,30
18,30
19,00
Informazione
19,15
Show
19,55
Sport
20,15
Telegiornale
20,30
Carosello/Pubblic. 20,55
Rotocalco.
21,05
Sceneggiato/Fict. 22,40
Musica
23,00
Informazione
23,25
Fonte: Radiocorriere Tv, 24/30 nov. 1963.
h
Mercoledì
h
Giovedì
(fino 08,30 Educazione (fino 08,30 Educazione
alle 14)
alle 14)
Ragazzi
Educazione
Informazione
Cultura
Religione
Sport
Informazione
Carosello/Pubblic.
Sceneggiato/Fict.
Documentario
Rotocalco
Informazione
16,45
17,30
18,30
19,00
19,15
Educazione
Ragazzi
Educazione
Informazione
Rotocalco
20,15
20,30
20,55
21,05
21,55
22,25
Sport
Informazione
Carosello/Pubbl.
Teatro
Entertainm.
Informazione/roto.
Informazione
17,00
17,30
18,30
19,00
19,15
19,45
20,15
20,30
20,55
21,05
h
Venerdì
h
(fino 08,30 Educazione (fino 08,30
alle ore 14)
Rotocalco
Ragazzi
Educazione
Informazione
Cultura
Rotocalco
Sport
Informazione
Carosello/Pubbl.
Entertainm.
16,45
17,30
18,30
19,00
19,15
Educazione
Ragazzi
Educazione
Informazione
Musica
17,30
18,30
19,20
19,50
20,15
20,15 Sport
20,30
20,30 Informazione
20,55
20,55 Carosello/Pubblic. 21,05
21,05 Sceneggiato/Fict. 22,15
22,25 Rotocalco
23,00
Informazione
23,15
Sabato
Educazione (fino
alle ore 14)
Ragazzi
Educazione
Rotocalco
Sceneggiato/Fict.
Sport
Informazione
Pubblicità
Entertainm.
Cultura
Religione
Informazione
Rai Due185
(24-30/IX/1963)
h
Domenica
h
Lunedì
h
Martedì
h
Mercoledì
h
21,05
21,15
22,05
22,50
23,15
Informazione
Rotocalco
Pubblicità
Ragazzi (Cartoni)
Sport
21,05
21,15
Informazione
Sceneggiato/Fict.
Pubblicità
21,05
21,15
22,15
22,20
23,35
Sport
Giovedì
h
Venerdì
h
Sabato
18,00 Teatro
20,00
20,15
21,05
21,15
22,30
22,35
185
Ragazzi
Rotocalco
Informazione
Show/Musica
Pubblicità
Sport
21,05
21,15
22,50
22,55
Informazione
Film
Pubblicità
Sport
Informazione
Docum./Cult.
Pubblicità
Sport
21,05
21,15
22,30
22,35
23,00
Informazione
Entertainm.
Pubblicità
Documentario
Sport
21,05
21,15
22,10
22,55
23,10
Informazione
Scenggiato/Fict.
Musica
Documentario
Sport
Fonte: Radiocorriere Tv, 24/30 novembre 1963.
78
Rai Uno186
(20-26/I/1980)
h
11,00
11,55
12,30
13,00
13,30
14,00
20,00
20,40
21,45
22,45
23,05
Domenica
Religione
Religione
Fiction
Rotocalco
Informazione
Contenitore
Informazione
Fiction
Sport
Rotocalco
Informazione
h
Lunedì
12,30
13,00
13,30
14,00
14,25
17,00
18,00
18,30
18,50
19,20
19,45
20,00
20,40
22,15
Educazione
Cultura
Informazione
Rotocalco
Educazione
Ragazzi
Educazione
Ragazzi
Religione
Fiction
Rotocalco
Informazione
Film
Religione
23,00
Telegiornale
h
Martedì
Mercoledì
h
Giovedì
h
Venerdì
12,30
13,00
13,30
14,00
Educazione
Rotocalco
Informazione
Rotocalco
12,30
13,00
13,30
14,10
Educazione
Cultura
Informazione
Educazione
12,30
13,00
13,30
14,10
Educazione
Rotocalco
Informazione
Rotocalco
12,30
13,00
13,30
14,10
Educazione
Rotocalco
Informazione
Educazione
17,00
18,00
18,30
19,00
19,20
19,45
20,00
20,40
22,20
Ragazzi
Educazione
Rotocalco
Ragazzi
Fiction
Rotocalco
Informazione
Film tv/Fiction
Documentario
17,00
18,00
18,30
19,00
19,20
19,45
20,00
20,40
21,10
22,15
Ragazzi
Educazione
Ragazzi
Rotocalco
Fiction
Rotocalco
Informazione
Fiction
Talk Show
Sport
17,00
18,00
18,30
19,00
19,20
19,45
20,00
20,40
21,55
22,30
23,05
Ragazzi
Educazione
Ragazzi
Rotocalco
Fiction
Rotocalco
Informazione
Fiction/Scengg.
Rotocalco
Rotocalco
Informazione
17,00
18,00
18,30
19,00
19,20
19,45
20,00
20,40
21,30
Ragazzi
Educazione
Rotocalco
Ragazzi
Fiction
Rotocalco
Informazione
Rotocalco
Film
23,15 Informazione
186
h
Informazione
h
Sabato
12,30 Rotocalco/Docu.
13,30
14,00
16,10
17,00
18,40
18,50
Informazione
Sport
Sport
Entertainm.
Religione
Rotocalco
19,20
19,45
20,00
20,40
21,55
Fiction
Rotocalco
Informazione
Entertainm.
Fiction/Scenegg.
23,00 Informazione
23,35 Informazione
Fonte: Radiocorriere Tv, 20/26 gennaio 1980.
79
Rai Due187
(20-26/I/1980)
h
Domenica
12,30 Ragazzi
13,00 Informazione
13,30 Fiction
h
12,30
13,00
13,30
14,05 Fiction
15,00 Rotocalco
Lunedì
h
Martedì
h
Mercoledì
h
Giovedì
h
Venerdì
h
Sabato
Rotocalco
12,30 Rotocalco
12,30
Informazione
13,00 Informazione
13,00
Educazione (fino 13,30 Educazione (fino 13,30
alle 14)
alle 14)
14,25
Rotocalco
12,30 Rotocalco
12,30 Rotocalco
12,30
Informazione
13,00 Informazione
13,00 Informazione
13,30
Educazione (fino 13,30 Educazione (fino 13,30 Educazione (fino 13,30
alle 14)
alle 14)
alle 14)
Sport
14,00
15,00 Telecronaca di un
14,30
evento pubblico
Fiction
Informazione
Rotocalco
17,00 Ragazzi
18,00 Educazione
18,30 Informazione,
Sport
18,50 Entertainm.
19,45 Rotocalco
17,00
18,00
18,30
17,00 Ragazzi
18,00 Educazione
18,30 Informazione,
Sport
18,50 Entertainm.
19,45 Rotocalco
17,00 Ragazzi
18,00 Educazione
18,30 Informazione,
Sport
18,50 Entertainm.
19,45 Rotocalco
17,00
18,15
Ragazzi
Rotocalco
18,50
19,45
Ragazzi
Educazione
Informazione,
Sport
Entertainm.
Rotocalco
19,00
19,45
Sport
Rotocalco
20,40 Entertainm.
20,55 Fiction
20,40
Sceneggiato
21,40
Film
23,35
Informazione
Rotocalco
Educazione (fino
alle 15)
15,15 Sport
16,30 Teatro
Sport
Fiction
Informazione
Sport
Entertainm.
18,50
19,45
Ragazzi
Educazione
Informazione,
Sport
Entertainm.
Rotocalco
20,40
Fiction/Scenegg.
20,40 Rotocalco
20,40
Fiction/Scenegg.
20,40 Fiction
21,55 Rotocalco
22,50 Informazione
23,05 Musica
21,40
22,40
23,15
Rotocalco
Religione
Informazione
21,30 Film
21,45
22,25
Rotocalco
Fiction
21,50 Rotocalco
22,45 Documentario
22,55 Rotocalco
23,20
Informazione
23,30 Informazione
23,30 Informazione
17,50 Fiction/Scenegg.
18,15 Sport
18,40
18,55
19,50
20,00
20,40
17,00
18,00
18,30
23,25 Informazione
187
Fonte: Radiocorriere Tv, 20/26 gennaio 1980.
80
Rai Tre188
(20-26/I/1980)
h
Domenica
h
Lunedì
h
Martedì
h
Mercoledì
h
Giovedì
h
Venerdì
h
Sabato
09,00 Sport (fino alle
ore 13)
18,15
18,30
19,00
19,15
19,20
20,30
21,15
21,30
22,00
22,15
188
Info-Tainm.
Talk
Informazione
Entertainm.
Rotocalco
Sport
Sport
Fiction
Informazione
Entertainm.
18,15
18,30
19,00
19,15
19,30
Info-Tainm.
Educazione
Informazione
Entertainm.
Sport
18,15 Info-Tainm.
18,30 Educazione
19,00 Informazione
18,15
18,30
19,00
Info-Tainm.
Educazione
Informazione
18,15
18,30
19,00
Info-Tain.
Educazione
Informazione
18,15 Info-Tainm.
18,30 Educazione
19,00 Informazione
18,15
18,30
19,00
Info-Tainm.
Educazione
Informazione
19,30 Rotocalco
19,30
Rotocalco
19,30
Rotocalco
19,30 Documentario
19,30
19,35
Entertainm.
Rotocalco
20,00
20,05
21,00
21,30
22,00
Entertainm.
Rotocalco
Educazione
Informazione
Entertainm.
20,00
20,05
20,45
21,30
22,00
20,00
20,05
Entertainm.
Film
20,05
Fiction
Talk
Informazione
Entertainm.
Entertainm.
Musica
Rotocalco
Informazione
Entertainm.
20,00 Entertainm.
20,05 Teatro
21,35
22,05
22,35
20,00
20,05
21,00
21,30
22,00
21,30
22,00
Informazione
Entertainm.
Entertainm.
Rotocalco
Documentario
Informazione
Entertainm.
22,10 Informazione
22,40 Entertain.
Fonte: Radiocorriere tv, 20/26 gennaio 1980.
81
Rai Uno189
(27/I-2/2-1985)
h
Domenica
h
10,00
11,00
11,55
12,15
13,00
13,30
14,00
Musica
Religione
Religione
Rotocalco/Inf.Tai.
Rotocalco
Informazione
Contenitore
10,00
Videotext
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10,00
Videotext
10,00 Videotext
10,00 Videotext
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Informazione
Contenitore
11,55 Informazione
12,05 Contenitore
11,55
12,05
Informazione
Contenitore
11,55 Informazione
12,05 Contenitore
11,55
12,05
13,30
14,00
Informazione
Contenitore
13,30 Informazione
14,00 Contenitore
13,30
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Informazione
Contenitore
13,30 Informazione
14,00 Contenitore
15,00
15,30
16,00
16,30
17,00
17,05
18,10
Informazione
Educazione
Fiction
Sport
Informazione
Ragazzi
Rotocalco
15,00
15,30
16,00
16,25
17,00
17,05
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Rotocalco/Inf.Tai.
Educazione
Fiction
Fiction
Informazione
Ragazzi
Rotocalco
15,00
15,30
16,00
16,25
17,00
17,05
18,10
18,40
18,50
19,35
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20,30
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Rotocalco
Informazione
Film
18,40
18,50
19,35
20,00
20,30
21,40
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Ragazzi
Rotocalco/Inf.Tai.
Rotocalco
Informazione
Talk
Informazione
Film
18,40
18,50
19,35
20,00
20,30
21,35
22,15
22,25
22,30
Informazione
Inf./Tain.
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20,00 Informazione
20,30 Fiction
21,35 Sport
Lunedì
22,50 Fiction
189
Martedì
h
Mercoledì
h
Giovedì
h
13,30
14,00
14,05
Ragazzi
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Educazione
15,30 Educazione
15,30
Fiction
16,00 Sport
16,00
Fiction
16,30 Fiction
16,25
Informazione
17,00 Informazione
17,00
Ragazzi
17,05 Ragazzi
17,05
Rotocalco
18,10 Cultura
18,20
Ragazzi
18,40 Ragazzi
18,40
Rotocalco/Inf.Tai. 18,50 Rotocalco/Inf.Tai. 18,50
Rotocalco
19,35 Rotocalco
19,35
Informazione
20,00 Informazione
20,00
Fiction
20,30 Entertainm.
20,30
Musica
Venerdì
Informazione
22,30
22,40
22,45
23,45 Informazione
23,55 Educazione
Sabato
Ragazzi
Document.
Informazione
Fiction
Info/Tain.
Informazione
Info/Tain.
Informazione
Sport
22,00
22,10
Informazione
Film
23,50
Informazione
Informazione
Ragazzi
Religione
Rotocalco
Entertainm.
Rotocalco
Informazione
Entertainm.
22,15 Informazione
22,25 Musica
Informazione
Inf./Tain.
Sport
Informazione
h
10,00
11,00
Informazione
11,55
Contenitore
12,05
12,30
Informazione
13,30
Contenitore
14,00
Documentario
14,30
Rotocalco/Inf.Tai. 15,00
Educazione
Sport
Fiction
Inforamzione
17,00
Ragazzi
17,05
18,10
Rotocalco
18,20
Ragazzi
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Rotocalco/Inf.Tai.
Rotocalco
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Informazione
20,00
Film
20,30
22,00 Informazione
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22,50 Musica
23,20
23,45 Informazione
h
23,10 Info/Tainm.
23,30 Informazione
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23,45 Informazione
Fonte: Radiocorriere Tv, 27 gennaio – 2 febbraio 1985.
82
Rai Due190
(27/I-2/II-1985)
h
Domenica
h
Lunedì
h
Martedì
H
Mercoledì
h
Giovedì
h
Venerdì
h
Sabato
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10,00 Videotext
10,00
Videotext
10,00 Videotext
10,00 Videotext
10,00
10,45
Info/Tainm.
Teatro
10,55 Sport
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11,50 Film
11,55 Entertainm.
11,55 Entertainm.
11,55
Entertainm.
11,55 Entertainm.
11,55 Sport
11,55
Sport
13,00 Informazione
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13,00 Informazione
13,30 Fiction
13,00 Informazione
13,30 Fiction
13,00
13,30
14,00
Informazione
Contenitore
Sport
13,00 Informazione
13,30 Fiction
13,00 Informazione
13,30 Fiction
14,30 Informazione
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14,30 Informazione
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14,30 Informazione
14,35 Contenitore
13,00
13,30
14,00
14,30
14,40
Informazione
Info/Tainm.
Educazione
Informazione
Film
16,00 Ragazzi
16,00 Ragazzi
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Info/Tainm.
Educazione
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Informazione
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17,30 Informazione
16,25 Educazione
16,55 Fiction
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17,30
17,35
Informazione
Info/Tainm.
Entertainm.
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17,40 Entertainm.
Informazione
Fiction
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18,30 Fiction
Informazione
Fiction
Informazione
15,30
16,00 Ragazzi
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17,50 Info/Tainm.
18,40 Sport
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20,00 Sport
20,30 Show
16,25
16,55
17,30
17,35
Educazione
Fiction
Informazione
Entertainm.
Contenitore
16,00 Ragazzi
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16,55 Fiction
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17,40 Entertainm
16,25
16,55
17,30
18,05 Spaziolibero
18,20 Informazione
18,30 Fiction
18,20 Informazione
18,30 Fiction
17,40
18,05
18,20
18,30
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19,45 Informazione
19,45
Informazione
19,45 Informazione
19,45 Informazione
18,30
18,40
19,45
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20,30
21,30
Fiction
Film
20,30 Film
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20,30
Film
22,00
Informazione
Spaziolibero
21,35 Fiction
21,50 Fiction
22,00 Informazione
190
Fonte: Radiocorriere Tv, 27 gennaio – 2 febbraio 1985.
83
22,15 Informazione
22,20 Fiction
22,15
Informazione
22,30 Info/Tainm.
22,35 Rotocalco/Inf.Tai. 22,35
Informazione
22,20 Informazione
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22,15 Sport
Informazione
22,05
Film
23,25
Sport
00,10
Informazione
22,25 Informazione
22,35 Rotocalco/Inf.Tai.
23,05 Educazione
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23,05 Religione
23,35 Informazione
23,40 Educazione
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23,10
Fiction
Documentario
23,45
Informazione
22,40 Informazione
22,50 Info/Tain.
23,30 Informazione
23,40 Sport
23,55 Informazione
84
Rai Tre191
(27/I-2/2-1985)
h
Domenica
h
Lunedì
h
Martedì
11,45 Videotext
alle 13)
h
(fino 11,45
Mercoledì
Videotext
alle 13)
h
Giovedì
(fino 11,45 Videotext
alle 13)
h
Venerdì
(fino 11,45 Videotext
alle 13)
h
Sabato
(fino
12,15 Musica
12,45 Musica
13,45 Entertainm.
13,50
Sport
14,45 Sport
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15,25
Sport
15,20 Sport
16,10
Educazione
16,10 Educazione
15,45
Educazione
16,45
Film
18,25
19,00
19,35
Info/Tain.
Informazione
Info/Tainm.
20,15
20,30
21,30
21,45
Info/Tainm.
Info/Tainm.
Sport
Informazione
22,20
Fiction
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Musica
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17,10
Entertainm.
17,10 Entertainm.
17,15 Entertainm.
17,20 Film
18,15
Musica
18,15 Musica
18,15
Musica
18,15 Musica
18,15 Musica
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Informazione
19,00 Informazione
19,00
Informazione
19,00 Informazione
19,00 Informazione
20,05
Educazione
20,05 Educazione
19,35
20,05
Cultura
Educazione
20,05 Educazione
19,35 Rotocalco
20,05 Educazione
20,30 Sport
21,30 Entertainm.
20,30
21,30
21,40
Entertainm.
Informazione
Educazione
20,30 Rotocalco/Inf.Tai.
21,30 Musica
20,30
Film
20,30 Film
20,30 Teatro
22,05 Informazione
22,10
Sport/Talk
19,20 Sport
19,40 Entertainm.
22,00 Sport
22,30 Sport
22,15
22,30
Sport
Fiction
23,15
Informazione
22,45 Informazione
23,15 Musica
23,15
Informazione
22,15 Informazione
22,25 Sport
22,40 Informazione
22,50 Musica
23,15 Musica
23,20 Fiction
191
Fonte: Radiocorriere Tv, 27 gennaio – 2 febbraio 1985.
85
86
Canale 5192
(27/I-2/II-1985)
h
Domenica
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h
Martedì
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Mercoledì
h
Giovedì
h
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Fiction
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08,30
Fiction
08,30
Fiction
08,30 Fiction
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Film
09,30 Film
09,30
Film
09,30
Film
09,30 Film
11,30
Entertainm.
11,30 Entertainm.
11,30
Entertainm.
11,30
Entertainm.
11,30 Entertainm.
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Entertainm.
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12,10
Entertainm.
12,10
Entertainm.
12,10 Entertainm.
12,45
13,25
14,25
15,25
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Entertainm.
Fiction
Fiction
Fiction
Fiction
12,45
13,25
14,25
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16,30
Entertainm.
Fiction
Fiction
Fiction
Fiction
12,45
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16,30
Entertainm.
Fiction
Fiction
Fiction
Fiction
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Entertainm.
Fiction
Fiction
Fiction
Fiction
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13,25
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15,25
16,30
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Fiction
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Fiction
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17,30 Fiction
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Entertainm.
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Docu/Tainm.
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Sabato
08,30
09,00
09,30
10,00
Fiction
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Entertainm.
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Entertainm.
Film
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Film
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Fiction
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Sport
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Entertainm.
Entertainm.
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Info/Tainm.
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Film
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13,30 Contenitore
19,00 Fiction
Entertainm.
Fiction
Entertainm.
Fiction
Fiction
Entertainm.
Fiction
Fiction
Fiction
Fiction
Entertainm.
Fiction
Entertainm.
Fiction
22,30 Sport
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23,25
23,15
Info/tainm.
23,45
Sport
Sport
23,50
Informazione
00,00 Film
00,25 Film
00,25
Film
00,50
192
Film
Fonte: Radiocorriere Tv, 27 gennaio – 2 febbraio 1985.
87
Rete 4193
(24/I-2/II-1985)
h
Domenica
08,30 Film
h
Lunedì
h
Martedì
h
Mercoledì
h
Giovedì
h
Venerdì
h
Sabato
08,30
08,50
Fiction
Fiction
08,30 Fiction
08,50 Fiction
08,30
08,50
Fiction
Fiction
08,30 Fiction
09,40
Fiction
09,40 Fiction
09,40
Fiction
09,40 Fiction
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10,50
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Fiction
Fiction
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10,30 Fiction
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Fiction
Fiction
Fiction
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10,50 Fiction
11,20 Fiction
10,30 Fiction
10,50 Fiction
11,20 Fiction
12,00
Fiction
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12,00
Fiction
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12,00 Fiction
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Fiction
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12,45
Fiction
12,45 Fiction
12,45 Fiction
12,45 Fiction
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Fiction
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13,15
Fiction
13,15 Fiction
13,15 Fiction
13,15 Fiction
13,45
Fiction
13,45 Fiction
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14,15 Fiction
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16,20
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Fiction
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Ragazzi
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Fiction
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Entertainm.
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Fiction
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Sabato
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Satira
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h
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20,30 Film
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23,00 Info-Tainm.
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198
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Satira
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Repliche Inf.-Tai.
Repliche Inf.-Tai.
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Informaz.
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Informaz. (1 ediz.
Informaz. (1 ediz.
Informaz. (1 ediz.
(1
Repliche
Tai.
Informaz.
Inf.(1
Fonte: Radiocorriere Tv, 12/18 febbraio 1995.
97
ediz.
l’ora)
del
TG
del TG l’ora)
del TG l’ora)
del TG l’ora)
del TG l’ora)
ediz. del
l’ora)
TG
98
Rete 4
199
(12/18-II-1995)
h
Domenica
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Lunedì
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Martedì
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Mercoledì
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Film
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7 Fiction
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5 Fiction
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99
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Domenica
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Lunedì
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Martedì
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16,45
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20,45
Film
20,45 Film
20,45 Film
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22,40 Info-Tainm.
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22,40
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Sport
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Informazione
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00,00 Sport
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4 Fiction
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Fonte: Radiocorriere Tv, 12/18 febbraio 1995.
100
04,30 Fiction
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06,00 Fiction
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1 Film
3 Fiction
1 Film
1 Film
1 Film
1 Fiction
101
Rai Uno201
(21/X/02 - 27/X/02)
h
Lunedì
06,00 Informazione
(2 Programmi))
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(2 Trasmiss.)
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h
Martedì
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Mercoledì
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Giovedì
h
Venerdì
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Sabato
h
Domenica
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Informazione
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Contenitore
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Contenitore
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Contenitore
Info-Tainm.
Info-Tainm.
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Contenitore
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Religione
Religione
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Entertainm.
Entertainm.
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Entertainm.
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Entertainm.
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Informazione
Fiction
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Entertainm.
Entertainm.
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Entertainm.
Entertainm.
Informazione
Fiction
Entertainm.
Fiction
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Cultur-tain.
Informazione
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Info-Tainm.
Contenitore
14,15
15,30
16,00
17,00
17,15
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18,45
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20,40
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Documentario
Documentario
Documentario
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Entertainm.
Informazione
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Informazione
Film
Film
Documentario
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Entertainm.
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Contenitore
Informazione
Film
Info-Tainm.
Entertainm.
Informazione
Talk Show
Film
Documentario
Fiction
Entertainm.
Fonte: La tele, n° 24, 16 Ottobre 2002 (per i programmi da lunedì 21/X a venerdì 25/X) e Telepiù, Mondadori, Anno 16, n° 43 (per i programmi di sabato 26/X e domenica 27/X).
102
Rai Due202
( 21/X/02 - 27/X/02)
h
Lunedì
06,05 Info-Tainm.
06,30 Info-Tainm.
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07,00
08,55
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Ragazzi
Ragazzi
Religione
10,00 Informazione
(6 Trasmiss.)
11,00 Entertainm.
13,00 Informazione
(3 Trasmiss.)
14,05 Entertainm.
15,30 Info-Tainm.
16,30 Entertainm.
(2 Trasmiss.)
17,20
Ragazzi
17,50 Informazione
(3 Trasmiss.)
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18,40 Fiction
19,05 Fiction
20,00 Ragazzi
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20,55 Entertainm.
23,10 Entertainm.
23,40
Religione
00,15 Informazione
(3 Trasmiss.)
00,40 Info-Tainm.
00,45 Sport (2 Tr.)
04,15 Cultura
202
h
Martedì
h
Mercoledì
h
Giovedì
h
Venerdì
h
Sabato
h
Domenica
06,05 Info-Tainm.
06,25 Info-Tainm.
06,30 Info-Tainm.
(Ancora 3
Trasmiss.)
07,15 Ragazzi
06,45 Info-Tainm.
06,15 Info-Tainm.
06,20 Info-Tainm.
06,00 Info-Tainm.
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06,25
06,45
Docu.
Info-Tainm
Contenitore
07,15 Ragazzi
07,15 Ragazzi
07,15 Ragazzi
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10,00
Informazione
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08,45 Ragazzi
08,45 Ragazzi
08,45 Ragazzi
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10,05
Ragazzi
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09,20 Fiction
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Ragazzi
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10,00 Informazione
11,00 Entertainm.
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13,25 Sport
13,00
13,25
Informazione
Informazione
13,00 Informazione
14,05 Entertainm.
15,30 Info-Tainm.
13,00 Informazione
14,00 Entertainm.
15,30 Info-Tainm.
13,00 Informazione
14,05 Entertainm.
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13,00 Informazione
14,05 Entertainm.
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14,00 Entertainm.
15,00 Fiction
15,45 Film
13,45
14,55
17,10
Sport
Sport
Sport
16,30 Entertainm.
16,30 Entertainm.
16,30 Entertainm.
16,30 Entertainm.
16,40 Ragazzi
18,00
Info-Tainm.
17,20
Ragazzi
17,20 Ragazzi
17,20 Ragazzi
17,00 Ragazzi
16,50 Ragazzi
18,50
Info.
17,50
18,20
18,40
19,05
20,00
20,30
20,55
22,40
Informazione
Info-Tainm.
Fiction
Fiction
Ragazzi
Informazione
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Film
Info-Tainm.
Fiction
Ragazzi
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Informazione
Film
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19,05
20,00
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00,10
Fiction
Ragazzi
Informazione
Film
Sport
Informazione
Sport
Religione
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18,15
18,20
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20,00
20,20
20,30
20,55
Sport
Informazione
Sport
Fiction
Ragazzi
Entertainm.
Informazione
Film
17,40
17,55
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20,55
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00,15
00,40
00,45
Inform.(3 Tr.)
Sport
Informazione
Film
Entertainm.
Informazione
Info-Tainm.
Sport
17,15
17,50
18,20
18,,40
19,05
20,00
20,30
20,55
Informazione
Informazione
Info-Tainm.
Fiction
Fiction
Ragazzi
Informazione
Entertainm.
18,15
19,05
20,00
20,20
20,30
20,55
22,45
23,20
00,15 Informazione
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Sport
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00,10 Inform.(3 Pr.
00,40 Info-Tainm.
00,45 Sport
05,45 Infotainm.
00,15 Informazione
00,40 Info-Tainm.
00,45 Sport
00,35 Prosa
02,35 Info-Tainm.
03,10 Entertainm.
04,15
Cultura
Fonte: La tele, n° 24, 16 Ottobre 2002 (per i programmi da lunedì 21/X a venerdì 25/X) e Telepiù, Mondadori, Anno 16, n° 43 (per i programmi di sabato 26/X e domenica 27/X).
103
05,45 Info-Tainm.
04,15 Cultura
04,15 Cultura
104
Rai Tre203
(21/X/02 - 27/10/02)
h
Lunedì
h
Informazione
Info-Tainm.
Info-Tainm.
Entertainm.
Entertainm.
Informazione
(2 Trasmiss.)
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Martedì
Mercoledì
h
Giovedì
h
Venerdì
06,00 Informazione
08,05 Culture-Tain.
06,00 Informazione
08,05 Culture-Tain.
09,05 Entertainm.
09,50 Entertainm.
12,00 Informazione
09,05 Entertainm.
09,50 Entertainm.
12,00 Informazione
09,05 Entertainm.
09,50 Entertainm.
12,00 Informazione
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13,10 Fiction
12,25 Info-Tainm.
13,10 Fiction
12,25 Info-Tainm.
13,10 Fiction
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(2 Trasmiss.)
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15,10 Ragazzi
15,20 Ragazzi
14,00 Informazione
14,00 Informazione
14,10 Informazione
12,25 Info-Tainm.
12,55 Informazione
(2 Trasmiss.)
13,40 Entertainm.
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(3 Trasmiss.)
20,10 Satira
20,30 Fiction
20,50 TV-VERITÀ
23,00 Informazione
(3 Trasmiss.)
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00,10 Informazione
00,20 Documentario
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203
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20,00
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Informazione
Info-Tainm.
Info-Tainm.
Entertainm.
Entertainm.
Informazione
h
06,00 Informazione
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06,00
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Cultura
Info-Tainm.
Ragazzi
Ragazzi
Satira
Fiction
Info-Tainm.
Informazione
Entertainm.
Informazione
Documentario
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Trasmiss.)
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00,40
14,50
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15,10
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Cultura
Infotainm.
Ragazzi
Sport
17,25 Info-Tainm.
17,50 Info-Tainm.
19,00 Informazione
14,50 Cultura
15,00 Sport
.
16,50 Info-Tainm
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h
h
Domenica
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Entertainm.
Film
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Culture-Tain
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Informazione
Info-Tainm.
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18,00
Entertainm.
Sport
Sport
Sport
Sport
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20,00
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Informazione
Entertainm.
Satire
Talk Show
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Informazione
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Informazione
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Film
Film
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Informazione
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Info-Tainm.
Ragazzi
Trasmiss.)
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16,30
17,00
17,30
(2 18,00
14,00
14,50
15,00
15,10
Sabato
Info-Tainm.
Info-Tainm.
Film
Informazione
Fiction
Informazione
20,10
20,30
20,50
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Satira
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Informazione
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20,30
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Satira
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Satira
Fiction
Film
Informazione
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00,00
00,10
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Entertainm.
Informazione
Cultura
Info-Tainm.
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00,20
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Documentario
Informazione
MUSICA
Info-Tainm.
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00,15
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Entertainm.
Informazione
Cultura
Info-Tainm.
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00,50 Documentario
01,30 Entertainm.
Documentario
Informazione
TV-VERITÀ
Film
01,00 Entertainm.
Fonte: La tele, n° 24, 16 Ottobre 2002 (per i programmi da lunedì 21/X a venerdì 25/X) e Telepiù, Mondadori, Anno 16, n° 43 (per i programmi di sabato 26/X e domenica 27/X).
105
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01,50 Entertainm.
02,00 Informazione
01,50 Entertainm.
02,00 Informazione
01,50 Entertainm.
02,00 Informazione
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106
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h
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05,00
204
Lunedì
Informazione
(4 Trasmiss.)
Info-Tainm
Informazione
Talk Show
Entertainm.
Fiction
Informazione
Fiction
Fiction
Entertainm.
Entertainm.
Fiction
Info-Tainm.
Entertainm.
Informazione
Satire
Film
Informazione
Satire
Fiction
Informazione
Fiction
Informazione
Fiction
Informazione
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h
Martedì
h
Mercoledì
h
Giovedì
h
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h
Sabato
h
Domenica
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Informazione
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Informazione
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Informazione
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Informazione
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Informazione
06,00
Informazione
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Info-Tainm.
Informazione
Talk Show
Entertainm.
Fiction
Informazione
Fiction
Fiction
Entertainm.
Entertainm.
Fiction
Info-Tainm.
Entertainm.
Informazione
Satire
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Talk Show
Informazione
Satire
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Informazione
Fiction
Fiction
Informazione
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Info-Tainm.
Informazione
Talk Show
Entertainm.
Fiction
Informazione
Fiction
Fiction
Entertainm.
Entertainm.
Fiction
Info-Tainm.
Entertainm.
Informazione
Satire
Sport
Talk Show
Informazione
Satire
Fiction
Informazione
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Informazione
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Fiction
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Info-Tainm.
Informazione
Talk Show
Entertainm.
Fiction
Informazione
Fiction
Fiction
Entertainm.
Entertainm.
Fiction
Info-Tainm.
Entertainm.
Informazione
Satire
Fiction
Talk Show
Informazione
Satira
Fiction
Informazione
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Informazione
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Fiction
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09,30
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04,15
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05,30
Info-Tainm.
Informazione
Talk Show
Entertainm.
Fiction
Informazione
Fiction
Fiction
Entertainm.
Entertainm.
Fiction
Info-Tainm.
Entertainm.
Informazione
Satire
Entertainm.
Fiction
Talk Show
Informazione
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Fiction
Info-Tainm.
Fiction
Informazione
Fiction
Fiction
Informazione
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09,15
09,45
12,00
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00,00
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Info-Tainm.
Entertainm.
Film
Fiction
Informazione
Fiction
Entertainm.
Film
Film
Entertainm.
Informazione
Satire
Entertainm.
Entertainm.
Informazione
Satire
Film
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Informazione
Fiction
Fiction
08,40
09,20
09,50
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20,00
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03,45
04,15
05,00
05,30
Religione
Info-Tainm.
Film
Fiction
Informazione
Contenitore
Fiction
Contenitore
Informazione
Entertainm.
Info-Tainm.
Entertainm.
Informazione
Info-Tainm.
Film
Informazione
Fiction
Fiction
Informazione
Fonte: La tele, n° 24, 16 Ottobre 2002 (per i programmi da lunedì 21/X a venerdì 25/X) e Telepiù, Mondadori, Anno 16, n° 43 (per i programmi di sabato 26/X e domenica 27/X).
107
Italia 1205
(21/X/02 - 27/X/02)
h
Lunedì
07,00 Ragazzi
(5 Trasmiss.)
09,00 Fiction
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13,00 Fiction
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14,05 Ragazzi
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15,15 Fiction
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19,00 Entertainm.
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21,00 Fiction
23,05 Film
01,05 Informazione
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01,45 Sport
02,40 Fiction
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04,40 Film
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06,30 Fiction
205
h
Martedì
07,00 Ragazzi
09,00
09,30
11,30
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15,15
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05,25
Fiction
Film
Fiction
Informazione
Fiction
Ragazzi
Ragazzi
Entertainm.
Fiction
Ragazzi
Ragazzi
Ragazzi
Fiction
Fiction
Informazione
Entertainm.
Fiction
Entertainm.
Entertainm.
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Informazione
Sport
Fiction
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Informazione
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h
Mercoledì
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09,30
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01,10
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05,10
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Fiction
Film
Fiction
Informazione
Fiction
Ragazzi
Ragazzi
Entertainm.
Fiction
Ragazzi
Ragazzi
Ragazzi
Fiction
Fiction
Informazione
Entertainm
Fiction
Entertainm.
Entertainm.
Entertainm.
Informazione
Sport
Fiction
Entertainm.
Film
Entertainm.
Fiction
Entertainm.
Fiction
h
Giovedì
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09,00
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Fiction
Film
Fiction
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Fiction
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Fiction
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Ragazzi
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Fiction
Informazione
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Fiction
Entertainm.
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Informazione
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Entertainm.
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Fiction
Entertainm.
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h
Venerdì
07,00 Ragazzi
09,00
09,30
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Fiction
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Fiction
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Ragazzi
Ragazzi
Entertainm.
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Ragazzi
Ragazzi
Ragazzi
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Informazione
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Fiction
Entertainm.
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TV-VERITÀ
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Informazione
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Informazione
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Sabato
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07,30
11,00
11,55
12,25
13,00
13,30
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00,00
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Ragazzi
Fiction
Info-Tainm.
Informazione
Fiction
Entertainm.
Film
Film
Fiction
Informazione
Entertainm.
Entertainm
Film
Entertainm.
Entertainm.
Sport
Sport
Film
Film
h
Domenica
07,00 Info-Tainm.
07,30
12,00
12,35
13,00
13,35
13,40
15,30
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19,00
20,00
21,30
22,35
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01,30
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05,45
Ragazzi
Info-Tainm.
Informazione
Sport
Sport
Ragazzi
Film
Informazione
Fiction
Entertainm.
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Fonte: La tele, n° 24, 16 Ottobre 2002 (per i programmi da lunedì 21/X a venerdì 25/X) e Telepiù, Mondadori, Anno 16, n° 43 (per i programmi di sabato 26/X e domenica 27/X).
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Fonte: La tele, n° 24, 16 Ottobre 2002 (per i programmi da lunedì 21/X a venerdì 25/X) e Telepiù, Mondadori, Anno 16, n° 43 (per i programmi di sabato 26/X e domenica 27/X).
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Fonte: La tele, n° 24, 16 Ottobre 2002 (per i programmi da lunedì 21/X a venerdì 25/X) e Telepiù, Mondadori, Anno 16, n° 43 (per i programmi di sabato 26/X e domenica 27/X).
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Cap. II
“LOADING MATRIX”
L’universo televisivo tra spettacolo e simulazione
Dopo aver percorso la storia del mezzo, il nostro itinerario esplorativo all’interno del fenomeno tv
in Italia va a imbattersi nell’unico vero “Schwerpunkt” della presente ricerca: il concetto di
spettacolo e il processo di spettacolarizzazione.
Si tratta di una coppia di idee a cui ciascun individuo (anche quello comune) fa riferimento e a cui
tutti gli studiosi di comunicazione di massa spesso si richiamano; questo fatto tuttavia non deve
farci pensare che la loro comprensione, il loro significato sia immediatamente evidente. Infatti, di
fronte alla stringenza di domande del tipo: quale fenomeno denotano termini come
spettacolarizzazione e spettacolo? Quale potrebbe essere una loro definizione?, sembriamo incapaci
di indicare il referente reale, di additare quell’oggetto “per cui stanno” queste due entità verbali
rispettivamente di venti e di dieci lettere. Iniziamo allora a balbettare frasi prive di senso, o
comunque prive di quella incontrovertibile scientificità che il problema esigerebbe, frasi cioè che
additano, come esempio ineluttabile di spettacolarizzazione, da un lato lo stato attuale del medium
televisivo e dall’altro i nuovi usi e costumi sociali, introdotti nel “mainstream”, per effetto del
medium stesso. Ciò che ci appare evidente, assolutamente pacifico è il fatto che del suddetto
spettacolo i media siano il veicolo privilegiato e che la nostra quotidianità ne sia conseguentemente
invasa a causa della loro azione. Ma che cos’è questa “spettacolarità”, che cos’è questo aspetto
finzional-fittizio verso il quale si intrattiene un rapporto quasi erotico, espresso dalla contraddittoria
relazione di condanna (a livello ufficiale) e di desiderio (a livello intimo)?
Nell’atto stesso in cui tali quesiti si pongono in tutta la loro pregnante inesorabilità, le nostre facoltà
teoretiche restano quasi disarmate, si percepiscono cioè prive del contenuto di una nozione non solo
utilizzata, ma perfino abusata.
È una situazione paragonabile, per certi versi, alla questione del tempo in Agostino: “che cos’è il
tempo? Finché nessuno me lo chiede lo so, ma nel momento in cui qualcuno me lo chiede non lo so
più”.
La misconoscenza dunque di un concetto profondamente, si potrebbe dire ontologicamente legato
alla comunicazione mediale ci ha spinto ad approfondire le nostre risicate conoscenze e a dare
corpo e fondamento alle nostre intuizioni.
Il destino ha voluto che, lungo il percorso di ricerca, incontrassimo personalità insigni, veri e propri
decostruzionisti (oseremmo definirli) della società di massa208 (visionari o geniali, a seconda della
prospettiva abbracciata). Tali soggetti hanno tentato di tratteggiare e di descrivere in vario modo i
confini della nozione di spettacolo, ancorandola innanzitutto non ai mezzi di comunicazione, bensì
a un più o meno indefinito (talvolta definito, talvolta no) potere, che dei mezzi di comunicazione
stessi si servirebbe. Il quadro che ne deriva è quello di uno scenario desolante, di uno sfondo in cui
sembrerebbe impossibile, in certi momenti, trovare una via di fuga. Ciò che esiste, ciò che è vero,
ciò di cui la nostra quotidianità è costituita è la “concretezza di un mondo parallelo”, coesistente a
quello reale, alimentato da soggetti vivi che, con questo stesso atto di alimentazione, decretano la
propria morte, ovvero la fine della vita reale e l’inizio di una vita fittizia, l’abbandono del corpo
reale in luogo dell’appropriazione del suo simulacro. È un cosmo dai contorni futuristici, un cosmo
costituito interamente grazie alla demiurgica attività umana, un cosmo popolato non più da oggetti e
208
Il nostro percorso di ricerca attraverso gli archivi della critica della società dello spettacolo e del linguaggio mediale
ci ha fatto impattare con tre testi, nell’ordine cronologico:
- G. DEBORD, La société du spectacle, Gallimard, Paris, 1992 (si tratta dell’edizione di cui ci siamo serviti,
sebbene quella originale risalga al 1967 e sia stata pubblicata da Buchet-Chastel, sempre a Parigi).
- J. BAUDRILLARD, Le crime parfait, Galilée, Paris, 1995.
- J. DERRIDA – B. STIEGLER, Échographies de la télévision, Galilée, Paris, 1996.
soggetti reali, ma delle loro immagini, dai loro “fantasmi” (“fantômes”), da fantasmi che, per ironia
della sorte, sono più perfetti di quelli veri; è un cosmo in cui il tempo presente è artificialmente
prodotto209, in cui l’attualità si trasforma in “artefattualità” (“artefactualité”) e in “attuvirtualità”
(“actuvirtualité”): tutto ciò che è attuale è costruito, è fabbricato.210
La descrizione di questo scenario ci ha fatto tornare alla memoria due film, entrambi dei fratelli
Wachowski: si tratta dei celeberrimi Matrix e Matrix Reloaded, laddove il secondo costituisce il
seguito del primo.211
Il primo dei due racconti prende corpo nella stanza di un programmatore informatico (: Neo). Non
si tratta di un programmatore qualunque, ma di uno straordinario specialista, di uno cioè in possesso
di grandi abilità tecniche, di grandi conoscenze pratiche e teoriche, sfruttate per guadagnare più del
normale. La sua occupazione consiste infatti nel realizzare, per conto di terzi, dei “lavoretti” per
così dire illegali (ovvero violare “sistemi” protetti, rubare via rete informazioni nascoste…), dietro
pagamento di una lauta parcella: una sorta di “hackeraggio su committenza” insomma.
Nel corso di una delle sue tante “piratesche navigazioni” nel mondo della “rete”, si imbatte e riesce
a violare “il” Sistema, ovvero quello che poi scoprirà essere il “Matrix”. All’inizio, non è ancora
pienamente cosciente della vera natura di tale “Sistema”, di conseguenza non è in grado, per il
momento, di percepire l’enorme portata del suo imminente rinvenimento; il senso della quantità di
numeri e di codici che il suo computer registra, gli risulterà chiaro infatti soltanto con il passare del
tempo, dopo essere diventato a pieno titolo uno dei maggiori antagonisti della “Matrice”.
209
Si tratta di una citazione quasi letterale:
«Aujourd’hui plus que jamais, penser son temps, surtout quand on court à son sujet le risque ou la chance de la parole
publique, c’est prendre acte, pour le mettre en œuvre, du fait que le temps de cette parole même est artificiellement
produit. C’est un artefact». (J. DERRIDA : 1996, 11)
210
«Schématiquement, deux traits désignent ce qui fait l’actualité en général. On pourrait se risquer à leur donner deux
surnoms-valise : l’artefactualité et l’actuvirtualité. Le premier trait, c’est que l’actualité, précisément, est faite…», Ib.,
11.
211
In realtà, in un’intervista concessa a Le Nouvel Observateur del 19 giugno 2003, Jean Baudrillard prende
apertamente le distanze da Matrix. L’interesse della stampa alle sue opinioni in merito nasce fondamentalmente dal
rifiuto della proposta di collaborazione con i due registi ai lavori di Matrix Reloaded (nonostante la citazione del suo
Simulacres et simulation [del 1981] nel primo dei due film).
Dalla lettura di queste poche pagine, non ci sembra tuttavia che Baudrillard condanni i due film in questione; al
contrario, come descrizione della realtà simulata, paiono funzionare. Il punto su cui sono carenti, vale a dire l’aspetto
che non delinea in modo fedele lo stato reale della simulazione, quale entra in gioco nella ineludibile concretezza della
quotidianità, è invece il fatto che l’individuo, il soggetto umano può esistere o nella Matrice o nella città di Zion, quella
dei ribelli. Questo non funziona! La questione sostanziale e necessaria che andava meglio sviluppata era, al contrario,
vedere che cosa succedeva nel punto di congiunzione tra questi due cosmi.
La simulazione nasce dalla coscienza dell’illusione radicale della realtà, di fronte alla quale, o meglio, dall’angoscia
rispetto alla quale si è portati a “fabbricare” un mondo fittizio, finzionale, simulato per l’appunto, in cui l’illusione è
fatta fuori. Quindi, se ci è consentito interpretare questo concetto (ma tale problematica apparirà più chiara quando si
analizzerà nei dettagli il testo di Baudrillard citato in nota 1), l’individuo sarebbe co-presente in entrambi i cosmi:
quello reale simulato e quello reale illusorio, coscientemente negato. Ecco quanto dichiara il profeta della postmodernità
sulle pagine de Le Nouvel Observateur: « le dispositif y est plus grossier et ne suscite pas vraiment le trouble. Ou les
personnages sont dans la Matrice, c’est-à-dire dans la numérisation des choses. Ou ils sont radicalement en dehors, en
l’occurrence à Zion, la cité des résistants. Or ce qui serait intéressant, c’est de montrer ce qui se passe à la jointure des
deux mondes (…) Le monde vu comme illusion radicale, voilà un problème qui s’est posé à toutes les grandes cultures
et qu’elles ont résolu par l’art et la symbolisation. Ce que nous avons inventé, nous, pour supporter cette souffrance,
c’est un réel simulé, un univers virtuel d’où est expurgé ce qu’il y a de dangereux, de négatif, et qui supplante
désormais le réel, qui en est la solution finale» (Baudrillard décode ‘Matrix’, in : Le Nouvel Observateur, n° 2015, 19
giu 2003).
L’altro aspetto rispetto al quale Matrix risulterebbe carente è il fatto che non suscita nello spettatore quell’ “ironia
critica”, vista come condizione essenziale per l’inizio della presa di coscienza del meccanismo simulativo: «Ce qui est
très frappant dans ‘Matrix 2’, c’est qu’il n’y a pas une lueur d’ironie qui permette au spectateur de prendre ce
gigantesque effet spécial à revers» (Ib.).
L’unica cosa che Matrix descriverebbe in modo corretto è la “matrice della matrice”, ovvero l’atto di creazione della
matrice che produrrebbe la realtà simulata.
In questo senso e solo in questo, cioè in quanto affresco del mondo dei simulacri, ci riferiremo a questo film.
114
Durante la notte, viene “assalito” da un incubo, da un sogno perturbante, angoscioso; perturbante e
angoscioso in quanto sembra avere tutti i connotati della tangibilità, dell’esistenza reale: il confine
tra il concreto e l’onirico gli pare estremamente sfumato, estremamente sottile, quasi annullato,
comunque non immediatamente e totalmente presente alle sue facoltà percettive. Quello che gli si
configura è uno scenario desolante, uno scenario dominato dal nulla, dal puro vuoto. In questo
vuoto, gli esseri umani, nella loro essenza fisica, vale a dire nei loro corpi, costituiscono solo
l’appendice terminale di un sistema. Posti in vere e proprie bare trasparenti, immobili, quasi in uno
stato di “coma fisico”, sono collegati, attraverso dei cavi, a un elaboratore digitale che plasma,
istante per istante, tramite formule binarie, un’esistenza e una vita dal carattere esclusivamente
mentale. Già, mentale! Questi uomini, questi prolungamenti in carne e ossa di un demiurgo
“bioforo” centrale non sperimentano nulla di concreto, non saggiano nulla che abbia una qualche
consistenza: vivono e logorano i propri corpi fisici, per effetto di un rapporto sclerotico con delle
immagini, con delle entità virtuali, la cui esistenza ha luogo solo ed esclusivamente nel loro
intelletto. È questo il mondo di Matrix, un mondo digitale, un mondo di cifre, plasmato hic et nunc
da un computer che ne regola istantaneamente il divenire.
Di fronte a questo scenario, Neo, il nostro programmatore, non può far altro che svegliarsi di
soprassalto, cercare di cancellare l’angoscia derivante dall’aver visto ciò che ha visto. Ma tale
angoscia è ineludibile, tale angoscia è ineliminabile; nella mente del protagonista rimane il dubbio,
la preoccupazione che tutto ciò che ha percepito possa essere vero. Può essere vero? Se lo fosse,
questo significherebbe che quello che appare reale, in verità, è una simulazione, un gioco di oggetti
“fantasma”, generati da formule e privi di concretezza, mentre al contrario la realtà (quella vera)
sarebbe il nulla, il non senso. Come si potrebbe sopportare una simile evidenza?
È a questo punto che tale personaggio (già in qualche modo cosciente dell’inganno ontocosmologico) viene ricercato da due categorie di persone: da un lato dagli agenti di Matrix, che
cercheranno di ucciderlo, o meglio, che cercheranno di cancellare nella sua mente le evidenze da lui
raggiunte, da un altro lato dai ribelli della città di Zion (i quali vorrebbero coinvolgerlo nella loro
lotta al Sistema), che fanno dell’opposizione alla Matrice la loro ragione di vita.
Nel momento in cui Neo decide di ribellarsi e di combattere contro i fautori e i fattori del mondo
artificiale, impara a conoscerne anche i segreti e il funzionamento. Il suddetto mondo è un cosmo
creato digitalmente, dove tutto ciò che avviene e dovrà avvenire è stato già stabilito e dove ogni
avvenimento deve rispondere alla incontrovertibile razionalità del programma informatico, che
presiede alla produzione perpetua della “concretezza simulata”. In tale concretezza, vige il principio
della perfezione, laddove anche l’errore, il male, rientrano in un superiore disegno di bontà finale.
Ma un concetto di finalità superiore, rimanda al principio di causalità, che, in quanto espressione
suprema della ragione, in quanto vertice della razionalità, è ciò che presiede al divenire del cosmo,
dell’universo di Matrix. All’interno di questa razionalità, anche ciò che è per definizione
imprevisto, cioè l’avvenimento, l’evento (“événement”), è stato già ampiamente previsto, in quanto
finalizzato allo sviluppo del tutto. Ogni cosa funziona cioè come ognuno si aspetta che funzioni,
ogni cosa va come ognuno desidera che vada.
Ma questo universo profondamente logico, questo universo dotato di senso, questa dimensione
quasi idilliaca governata dai rapporti di causa-effetto è una pura simulazione, è la risultante finale
delle potenzialità quasi infinite di un software informatico. Gli oggetti, nella loro perfezione, le
città, i negozi, i parchi, l’esserci e il manifestarsi del tutto sono delle pure immagini, prive di
consistenza, prive di referenza, o meglio la cui consistenza e referenza non sono altro che un
insieme ordinato di numeri, un insieme ordinato di codici di tipo binario.
Come tutti i programmi però, anche Matrix non è privo di errori, non è privo di calcoli mal riusciti.
L’esempio più macroscopico di tali errori è costituito dai “déjà vu”, eventi psichici per mezzo dei
quali i soggetti umani hanno l’impressione di aver vissuto già ciò che stanno vivendo. In un simile
sistema informatico, non è escluso che una determinata esperienza sia già stata fatta.
Ma, come si diceva, la realtà è, per l’appunto, l’esito di tale siffatto sistema: è una realtà non reale,
non reale proprio in quanto reale, cioè proprio in quanto è come ognuno vorrebbe che fosse; in
questo senso è, da un punto di vista ontologico (e non ovviamente fenomenologico), il luogo dove
115
l’imprevisto, l’avvenimento, l’evento (inteso in tutta la sua pregnanza, in tutta la sua “quidditas”
significativa) non può verificarsi. Tutto infatti è spiegabile da una causa che viene prima, quindi
tutto è ontologicamente prevedibile.
Ovviamente però, ciò di cui si sta parlando è un qualcosa di virtuale, un qualcosa che fa parte della
mega-simulazione del reale.
Emblematico, da questo punto di vista, è il dialogo (in Matrix Reloaded) di Neo con una sorta di
“tombeur des femmes” francese (affiancato dalla bellissima quanto irreale [perché prodotta dal
computer] Monica Bellucci), che conosce molto bene i segreti oscuri di Matrix. Il gusto sublime
delle lussuose pietanze servite nel locale, in cui i due si incontrano, non è reale; il sapore delle
ostriche con caviale e champagne, la fragranza indescrivibile dell’aragosta, tutto questo non è reale.
In seguito a una piccola, lieve modifica al sistema di programmazione globale infatti, potrebbero
diventare piacevoli anche lo sterco o l’urina.
E come non sono concrete le sensazioni del palato, allo stesso modo non è concreto neanche quel
concetto magico che si chiama causalità; esso è qualcosa di inventato di sana pianta e posto come
principio alla base del divenire, regolato dal mega cervello elettronico. Nel mondo reale, non
esistono cause ed effetti, nel mondo reale non esiste una spiegazione razionale, non esiste un
qualcosa che precede qualcos’altro; nel mondo reale tutto accade perché deve accadere, nel mondo
reale tutto avviene per effetto di una misteriosa casualità, perché tale mondo è il regno del non
essere, dell’irrazionale, del caos, dell’illusione.
È dunque per riportare alla luce questo mondo reale e per smascherare la finzione che Neo e i ribelli
della città di Zion combattono; è contro gli agenti di Matrix, in quanto emblemi di un’ipostatica e
razionalistica (che tutto regola e stabilisce a priori [e quindi nega in definitiva un’esistenza libera])
logica, che i nostri protagonisti si scagliano.
E al di là di qualunque logica, al di là di qualunque spinta razionale, sembra essere l’atto di amore
della compagna di Neo (anch’ella ribelle), che, in un impeto di profonda affezione, salva la vita del
suo uomo perdendo la propria; un gesto forse irrazionale, ma profondamente umano.
Ma se la realtà vera è la negazione dell’essere, il regno dell’illusione, perché gli uomini dovrebbero
rinunciare a Matrix, che, in fondo, riproduce “il” tipo di realtà che essi desiderano?
O forse è proprio per questo che, di fatto, non vi rinunciano ed è proprio per questo che Matrix
viene inventato?
Di fronte al non senso, di fronte a una realtà ontologicamente illusoria, ontologicamente priva di
ontologia, l’uomo non può che mettere in atto un’opera di “disillusione”, di “invenzione del reale”.
L’idea che il mondo sia un’illusione radicale è inaccettabile.
È proprio questa la teoria di Jean Baudrillard, che scrive quanto segue:
«Donc, le monde est une illusion radicale. C’est une hypothèse comme une autre. De tout façon,
elle est insupportable. Et pour la conjurer, il faut réaliser le monde, lui donner force de réalité, le
faire exister et signifié à tout prix, lui ôter tout caractère secret, arbitraire, accidentel, en chasser les
apparences et extraire le sens, l’ôter à toute prédestination pour le rendre à sa fin et à son efficacité
maximale, l’arracher à sa forme pour le rendre à sa formule» (J. BAUDRILLARD : 1995, 35).
Dunque il mondo non esisterebbe e sarebbe un prodotto artificiale, mentre la realtà, non reale,
sarebbe illusoria. La verità è il nichilismo.
L’alternativa radicale è tra un mondo popolato di cose fasulle, fantasmatiche, e il regno
dell’illusione, del nulla, del non essere, ovvero tra due diversi tipi di non essere. Se la verità del
cosmo è il non essere, allora l’uomo, in quanto parte del cosmo, e dunque in quanto egli stesso non
essere, non può produrre dell’essere, ma solo un’apparenza di esso: dal non essere non può derivare
l’essere.
Il crocevia si colloca tra un nulla fittizio e un nulla reale.
116
1. Dalla “spettacolarizzazione” alla “simulazione” ovvero il perfezionamento del
dispositivo “artefattuale”
Il richiamo ai due film dei fratelli Wachowski può essere valido come descrizione esemplificativa di
quel tipo di realtà che ci siamo costruiti nella mente, dopo aver letto i testi citati in nota, senz’altro
molto affascinanti per quanto riguarda il linguaggio, la minuzia delle descrizioni e i ragionamenti,
ma tuttavia abbastanza perturbanti.
In fondo, tutte le letture del mondo in chiave catastrofica esercitano un grande interesse, una
passione morbosa, quasi un’attrazione erotica, e sarebbe interessante analizzarne la ragione; forse
essa risiede nel fatto che tali concezioni ci consentono di attribuire la colpa agli altri, che ci danno la
possibilità di provare quello straordinario piacere di tipo masochistico, legato alla percezione
dell’essere vittima di qualcosa, oppure nel fatto che ci offrono semplicemente la possibilità di
opporci a qualcuno, fornendoci dei presupposti esistenziali. In ogni caso, qualunque sia il movente
psicologico (movente che purtroppo, o per fortuna, non ci è dato di poter chiarire, né sarebbe
comunque questa la sede per farlo), ci sembra che tali teorie creino dei veri e propri “mulini a
vento” contro cui, esattamente come Don Quichotte e Sancho Panza, ci troviamo inaspettatamente a
combattere.
Cerchiamo però di procedere per gradi e di cercare di non emettere giudizi affrettati su ciò che,
magari, potrebbe rivelarsi non del tutto falso.
La prima grande lettura critica dello spettacolo in cui ci siamo imbattuti è quella di Guy Debord212,
uno dei tanti “profeti per caso” del movimento sessantottino.
Come si diceva all’inizio, comunemente, tale nozione si configura come uno degli aspetti peculiari
dei mezzi di comunicazione di massa, un aspetto che produrrebbe, a sua volta, un processo di
“spettacolarizzazione” generale, riguardante la società tutta. Questo è in parte vero, ma, dalle parole
del “decostruzionista” francese, una siffatta idea (= spettacolo) sembrerebbe prerogativa non dei
media, bensì di qualcuno che utilizza i media per spettacolarizzare il mondo intero. Dunque, la tv, la
radio, la stampa sono spettacolari “per accidens”, non “per substantia”.
Ma che cos’è, in definitiva, lo spettacolo? È possibile darne una definizione chiara?
Il testo di Debord inizia con una citazione della prefazione (in versione francese) alla dodicesima
edizione de L’essenza del cristianesimo di Feuerbach:
«Et sans doute notre temps… préfère l’image à la chose, la copie à l’original, la représentation à la
réalité, l’apparence à l’être… Ce qui est sacré pour lui, ce n’est que l’illusion, mais ce qui est
profane, c’est la vérité. Mieux, le sacré grandit à ses yeux à mesur que décroît la vérité et que
l’illusion croît, si bien que le comble de l’illusion est aussi pour lui le comble du sacré».
È una tesi che riecheggia le descrizioni della realtà prodotta da Matrix: è giunta l’epoca in cui alla
cosa si preferisce l’immagine, in cui all’oggetto si preferisce il suo simulacro. Non si tratta ancora
però di un tipo di visione paragonabile a quella che ritroviamo nei film dei fratelli Wachowski, la
quale è assimilabile, sotto un certo rispetto, a quella di Baudrillard o di Derrida; Debord, in effetti, è
figlio di una concezione del mondo marxiana o marxista, ovvero di una concezione che gli
impedisce di approdare al nichilismo, all’ontologia del nulla e alla realtà come illusione.
Ultimamente, l’uomo ha la possibilità di fuggire dall’universo dei fantasmi, dal cosmo delle
immagini, dal regno dell’inconcreto. Questo universo, questo cosmo, questo regno è una creazione
umana, o meglio una creazione di una parte della società umana che deve essere capovolta, che
deve essere rovesciata.
Lo spettacolo è inscindibilmente legato alle moderne condizioni di produzione, o meglio, è
l’espressione più eloquente di tali condizioni, in quanto generano una divisione, una lacerazione
all’interno della società.
212
G. DEBORD: 1992.
117
Lo spettacolo ha origine dal fatto che una piccola parte del mondo si pone e si rappresenta,
attraverso di esso (in quanto suo strumento inseparabile), come superiore alle altre.
«L’origine du spectacle est la perte de l’unité du monde, et l’expansion gigantesque du spectacle
moderne exprime la totalité de cette perte : l’abstraction de tout travail particulier et l’abstraction
générale de la production d’ensemble se traduisent parfaitement dans le spectacle, dont le mode
d’être concret est justement le spectacle. Dans le spectacle, une partie du monde se représente
devant le monde, et lui est superieure» (G. DEBORD : 1992, 30).
La lacerazione dell’unità, la separazione di una parte del mondo da tutte le altre: si tratta di un
lembo, di un brandello di società che intende collocarsi al vertice di essa, di una piccola scheggia,
ben cosciente di sé, che vuole signoreggiare incontrastatamente. Signoreggiare dunque, ma non è
questo un obiettivo semplice, non è questo un traguardo così facile da raggiungere. Per pervenirvi, è
necessario ristabilire i rapporti di forza tra le varie componenti del mondo, è necessario riscrivere le
regole del gioco delle parti, è necessario in breve ricostruire l’universo dei viventi, o meglio, un
universo parallelo che possa essere affiancato e sostituito a quello reale. È questo lo spettacolo,
nient’altro che una ridefinizione dei rapporti sociali, per mezzo delle immagini artificiali di essi, per
mezzo di simulacri che permettano di realizzare una divisione delle classi: la visione del mondo
della borghesia viene “reificata” in un mondo concreto.213
In questo senso, tutto ciò che è fabbricato nell’universo massificato e massificante della classe al
potere risulta essere simulacrale, risulta essere un’immagine intangibile di un oggetto reale. Tutta la
produzione nel suo complesso, dunque, non è altro che una generazione perpetua di “fantasmi”, di
ologrammi.214 La realtà si configura come mondo dell’astrazione.215
Ma se i rapporti, le relazioni tra gli individui sono mediate dalle immagini, in una realtà fatta essa
stessa di immagini, è evidente che la società è composta da individui alienati, da individui che si
identificano in ologrammi e, così facendo, si ritrovano nella condizione inesorabile di non poter
comprendere più la propria esistenza e la propria condizione di schiavitù. In questo senso, lo
spettacolo si configura come una gigantesca e perpetua attività produttiva di alienazione: è questo il
fine dell’economia e dell’industria, la fabbricazione continua di merce spettacolare in quanto merce
alienante.216
Tuttavia, un interrogativo si impone: come può l’uomo accettare una simile condizione di
sudditanza a delle entità, per così dire, ologrammatiche, a delle entità che lo collocano in una
213
Ci sembra che le parole di Debord, che qui di seguito riportiamo, possano essere proprio interpretate in questo modo:
«Le spectacle n’est pas un ensemble d’image, mais un rapport social entre des personnes, médiatisé par des images (…)
Le spectacle ne peut être compris comme l’abus d’un monde de la vision, le produit des techniques de diffusion massive
des images. Il est bien plutôt un Weltanschauung devenu effective, matériellement traduit. C’est une vision du monde
qui est objectivé», G. DEBORD : 1992, 16, 17.
214
Ed è per questo che Debord può affermare:
«Toute la vie des société dans lesquelles règnent les conditions modernes de production s’annonce comme une immense
accumulation de spectacles. Tout ce qui était directement vécu s’est éloigné dans une représentation (…) Les image qui
se sont détachés de chaque aspect de la vie fusionnent dans un cours commun, où l’unité de cette vie ne peut plus être
rétablie (…) La spécialisation des images du monde se retrouve, accomplie, dans le monde de l’image autonomisé, où le
mensonger s’est menti à lui-même. Le spectacle en général, comme inversion concret de la vie, est le mouvement
autonome du non vivant», Ib. 15, 16.
215
Debord fa notare, a questo proposito, che l’essere a contatto con un mondo di immagini produce un cambiamento
addirittura delle nostre modalità percettive:
«Là où le monde réel se change en simples images, les simples images deviennent des êtres réels, et les motivations
efficientes d’un comportement hypnotique. Le spectacle (…) trouve normalement dans la vue le sens humain privilégié
qui fut à d’autres époques le toucher ; le sens le plus abstrait, et le plus mystifiable, corrspond à l’abstraction généralisé
de la société actuelle. Mais le spectacle n’est pas identifiable au simple regard, même combiné à l’écoute. Il est ce qui
échappe à l’activité des hommes…», Ib. 23.
216
«L’aliénation du spectateur (…) s’exprime ainsi : plus il contemple, moins il vit ; plus il accepte de reconnaître dans
les images dominantes du besoin, moins il comprend sa propre existence et son propre désir (…) Le spectacle de la
société correspond à une fabrication concrète de l’aliénation. L’expansion économique est principalement l’expansion
de cette production industrielle précise», Ib. 31, 32.
118
dimensione “onirico-simulativa”? Che cosa trovano gli individui di così attraente nel proprio doppio
irreale e nel doppio irreale delle cose? Che cosa c’è di tanto affascinante in delle pure immagini
speculari?
La risposta è molto semplice: l’epifania della “copia” connota la stessa come il “maximum” di
bontà e di positività possibile. È questa la menzogna suprema dello spettacolo: “tutto ciò che appare
è buono e tutto ciò che è buono appare”. Di fronte a questa presunta evidenza non c’è alcuna
possibilità di replica.217
Così gli individui abbandonano, si “spogliano” della propria esistenza reale, si “spogliano” della
vita concreta per “indossare la maschera, gli abiti e il ruolo” proposti o imposti dal sistema
dominante, dalla logica di produzione della società borghese. Lo spettacolo, in quanto strumento di
controllo e di manipolazione della suddetta società, offre al singolo una “vedette”, ovvero il
personaggio in cui ciascuno dovrà identificarsi, contribuendo, a partire dalla propria individualità
(questa volta concreta), alla costruzione del corso generale degli eventi. È in questo modo che
l’uomo rinuncia a tutti i tratti che lo costituiscono come tale, a tutte quelle caratteristiche che
contraddistinguono, a livello ontologico, la sua irripetibile individualità. Si trasforma così in un
soggetto che non è più soggetto, bensì soggetto fittizio, oggetto dell’alterazione realistica, della
“fantasmatizzazione” generale del potere vigente: letteralmente, si auto-aliena, in quanto diventa
prigioniero di una falsa immagine di sé.218
Ma il processo di generazione di “vedette” è inscindibilmente legato al funzionamento del sistema
dominante, al funzionamento del sistema regolatore e manipolatore della società, dunque al sistema
produttivo, in quanto fabbricatore di immagini.
Bisogna però precisare che, nel mondo, non esistono uno solo, ma due tipi di sistemi, che, a loro
volta, si servono di due modelli differenti di spettacolo: lo “spettacolare concentrato” (“spectacle
concentré”) e lo “spettacolare diffuso” (“spectacle diffus”).219 Il primo è lo strumento nelle mani
del potere, figlio dell’ideologia stalinista, vigente nei paesi del blocco “rosso” (luogo del
“capitalismo burocratico” [“capitalisme burocratique”])220, il secondo è invece l’espressione
dell’abbondanza del mercato, inteso come realizzazione pratica del capitalismo moderno.221
217
È questa quasi la trasposizione letterale del pensiero di Debord:
«La spectacle se présente comme une énorme positivité indiscutable et inaccessible. Il ne dit rien de plus que ce qui
apparaît est bon, ce qui est bon apparaît. L’attitude qu’il exige par principe est cette acceptation passive qu’il a déjà en
fait obtenue par sa manière d’apparaître sans réplique, par son monopole de l’apparence», Ib. 20.
218
Ecco quanto scrive, in modo abbastanza dettagliato, Debord:
«En concentrant en elle l’image d’un rôle possible, la vedette, la représentation spectaculaire de l’homme vivant,
concentre donc cette banalité. La condition de vedette est la spécialisation du vécu apparent, l’objet de l’identification à
la vie apparente sans profondeur, qui doit compenser l’émiettement des spécialisations productives effectivement
vécues. Les vedettes existent pour figurer des types varié de styles de vie et de styles de compréhension de la société,
libres de s’exercer globalement (…) L’agent du spectacle mis en scène comme vedette est le contraire de l’individu,
l’ennemi de l’individu en lui-même aussi évidemment que chez les autres. Passant dans le spectacle comme modèle
d’identification, il a renoncé a toute qualité autonome pour s’identifier lui-même à loi générale de l’obéissance au cours
des choses», Ib., 55, 56.
Più in là, il nostro autore fa notare come anche gli individui umani concreti (in carne e ossa), presentati dal sistema
come modelli da imitare, come “vedette”, per l’appunto, sono offerti come tali non a causa dei loro caratteri individuali,
bensì a causa di quelli in cui il suddetto sistema si identifica e in cui loro decidono di incarnarsi. Essi sono divenuti
grandi scendendo al di sotto della soglia della propria individualità:
«Les gens ammirables en qui le système se personnifie sont bien connus pour n’être pas ce qu’ils sont ; ils sont devenus
grands hommes en descendant au-dessous de la réalité de la moindre individuelle, et chacun le sait», Ib., 57.
219
Ecco la modalità in cui Debord divide le due forme di spettacolo:
«Selon les nécessité du stade particulier de là misère qu’il dément maintient, le spectacle existe sous une forme
concentrée ou sous une forme diffuse. Dans les deux cas, il n’est qu’une image d’unification heureuse environnée de
désolation et d’épouvante, au centre tranquille du malheur», Ib., 58.
220
Così Debord definisce lo spettacolare concentrato, rendendo giustizia anche dell’uso del termine “capitalismo
burocratico”, applicato al sistema economico dei paesi del blocco comunista:
«Le spectaculaire concentré appartient essentiellement au capitalisme burocratique (…) La propriété burocratique en
effet est elle-même concentrée en ce sens que le burocrate individuel n’a des rapports avec la possession de l’économie
globale que par l’intermédiaire de la communauté burocratique, qu’en tant que membre de cette communauté (…) La
119
Se la caratteristica peculiare dell’apparato economico, che contraddistingue gli stati dell’area
“comunista”222, è quella dell’accentramento burocratico, di un accentramento cioè che riassume
tutto quello che esiste sotto il suo “onnipresente” controllo, allora in esso vi sarà una sola “vedette”,
un solo personaggio, nel quale il singolo individuo dovrà identificarsi. La totalità, il tutto, il fine di
un intero universo si concentra nell’immagine di un bene, nell’ologramma artificiale di una bontà
fittizia. Di fronte a questa “singolarità di positività”, di fronte a questo positivo unico, l’alternativa è
tra l’adesione e la sparizione. Tra l’adesione, realizzata attraverso l’annullamento della singolarità e
l’abbraccio del solo modello di vita esistente, e la sparizione, messa in atto dal potere dominante,
mediante la violenza poliziesca. È quello che è accaduto, per esempio, nella Cina di Mao.223
Al contrario, nel regno dello “spettacolare diffuso”, c’è una moltiplicazione talvolta anche
contraddittoria delle “vedette”: la società si realizza mediante una progettualità frammentata che
l’individuo, il soggetto reale è invitato a consumare.224
In entrambi i casi, cioè sia nel caso dello “spettacolare concentrato” che nel caso dello
“spettacolare diffuso”, ciò che viene offerto all’individuo è un ammasso di immagini, un ammasso
di entità prive di consistenza. Questo è il fine dell’apparato produttivo, la fabbricazione di fantasmi,
di simulacri che, poi, gli esseri umani andranno a consumare, nella convinzione che si tratti di
oggetti concreti: il consumatore è consumatore di pure illusioni. Tutto ciò a cui egli può ambire,
tutto ciò che può desiderare, tutto ciò che la sua forza di volontà gli permette di raggiungere è, di
nuovo, un immenso ammasso di illusioni.
«C’est la réalité de ce chantage, le fait que l’usage sous sa forme la plus pauvre (manger, habiter)
n’existe qu’emprisonné dans la richesse illusoire de la survie augmentée, qui est la base réelle de
l’acceptacion de l’illusion en général dans la consommation des marchandises modernes. Le
consommateur réel devient consommateur d’illusion. La marchandise est cette illusion
effectivement réelle, et le spectacle sa manifestation générale» (G. DEBORD : 1992, 43, 44).
Affinché l’opera sia perfetta, affinché un brandello, un lembo, una piccola cellula riesca davvero a
dominare, a signoreggiare, a manipolare a proprio piacere il tutto di cui è parte, è necessario che
diventi padrona unica, regina incontrastata delle strutture regolatrici dell’esistenza, vale a dire del
tempo (e dunque della storia) e dello spazio.
Il tempo è dunque anch’esso legato, o sarebbe meglio dire, piegato, prostituito al progetto di
controllo, esercitato dalla classe al potere; il tempo è perciò prodotto, fabbricato, modellato
esattamente come tutti gli altri oggetti. Il tempo è quindi un’illusione, un fantasma, un ologramma,
un’immagine priva di referente: è una produzione meramente artificiale.
dictature de l’économie burocratique ne peut maisser aux masses exploitées aucun marge notable de choix, puisq’elle a
dû choisir par elle-même...», Ib., 59.
221
Questo è quanto il decostruzionista francese riferisce a proposito dello spettacolare diffuso:
«Le spectaculaire diffus accompagne l’abondance des marchandises, le développement non perturbé du capitalisme
moderne. Ici chaque marchandise prise à part est justifiée au nom de la grandeur de la production de la totalité des
objets», Ib., 60.
222
Il termine è inserito nelle virgolette poiché l’attribuzione di questo aggettivo ai paesi dell’ex blocco sovietico è
nostra. Francamente non sappiamo se Debord avrebbe accettato la nostra scelta linguistica. Probabilmente no.
223
Debord insiste in modo particolare sul concetto di “vedette assoluta”, come garanzia della coesione del sistema
totalitario:
«La dictature de l’économie burocratique (…) doit s’accompagner d’une violence permanente. L’image imposée du
bien, dans son spectacle, recueille la totalité de ce qui existe officiellement, et se concentre normalement sur un seul
homme, qui est le garant de sa cohésion totalitaire. À cette vedette absolue, chacun doit s’identifier magiquement, ou
disparaître. Car il s’agit du maître de sa non-consommation, et de l’image héroïque d’un sens acceptable qu’est en fait
l’accumulation primitive accélérée par le terreur. Si chaque Chinois doit apprendre Mao, et ainsi être Mao, c’est qu’il
n’a rien d’autre à être. Là où domine le spectaculaire concentré domine aussi la police», Ib., 59.
224
«Des affirmations inconciliables se poussent sur la scène du spectacle unifié de l’économie abondante ; de même que
différentes marchandises-vedettes soutiennent simultanément leur projets contradictoires d’aménagement de la société
(…) Donc la satisfaction, déjà problématique, qui est réputée appartenir à la consommation de l’ensemble est
immédiatement falsifiée en ceci que le consommateur réel ne peut directement toucher qu’une succession de fragments
de ce bonheur marchand, fragments d’où chaque fois la qualité prêtée à l’ensemble est évidemment absente», Ib. 60
120
Ma tutto ciò non è nuovo, tutto ciò non è strettamente e prettamente tipico, in senso proprio, della
società spettacolare: l’uomo, in tutte le epoche, ha sempre voluto essere padrone del divenire
cronologico.
La storia, nella sua forma storica, non è mai esistita, non ha mai avuto una sussistenza reale. La
storia, come parte della storia naturale, è una costruzione umana; la storia, nella sua essenza, non è
altro che l’umanizzazione del tempo.225
Così, ciascuna epoca ha introdotto in questo tempo la propria visione del divenire, imponendo
l’ideologia della classe dominante.226 Si tratta però, come sempre, di un’immagine, di un fantasma,
di una sovrastruttura appiccicaticcia; tale immagine, tale fantasma, tale struttura appiccicaticcia non
è in grado di cancellare i veri rapporti di forza, le vere strutture esistenti nel mondo reale; in breve,
il simulacro non soppianta definitivamente ciò di cui è simulacro per il solo fatto che tutti lo
credono concreto. Esso è come un candido velo che lascia trasparire l’ineffabile tangibilità di ciò
che copre.
Questo discorso vale soprattutto per l’operazione storica della borghesia, ovvero per la creazione
del tempo come affermazione definitiva della storia, intesa nella sua accezione più marcatamente
storica, intesa cioè come divenire regolato dalla produzione economica227: il tempo borghese è in
sostanza il tempo delle cose, in quanto artefatti illusori e manipolatori.228 Ma anche in questo caso,
come nelle epoche precedenti, il meccanismo ingannatore può venire scoperto; il “velo” che ottunde
il reale può essere sollevato, perché c’è qualcuno che rivendica il diritto di prendere parte alla
costruzione della storia:
«Pour la première fois le travailleur, à la base de la société, n’est pas matériellement étranger à
l’histoire, car se maintenant par sa base que la société se meut irréversiblement. Dans la
revendication de vivre le temps historique qu’il fait, le prolétariat trouve le simple centre
inoubliable de son projet révolutionnaire» (G. DEBORD : 1992, 143).
Non è ancora chiaro tuttavia quali siano le caratteristiche peculiari, la “quidditas” che definisce il
tempo borghese, in quanto tempo spettacolare. Di che cosa è fatto? Di che cosa è costituito?
Esso è un tempo trasformato dall’apparato industriale, un tempo, si potrebbe dire, sintetico, un
tempo pseudo-ciclico, composto da un’infinità di intervalli equivalenti e regolari che lo rendono
scambiabile. Ecco la caratteristica di quella dimensione del Χρόνος, tipica del mondo d’oggi: la
“consumabilità”. Ciò che Aristotele aveva definito “la misura del divenire secondo il prima e il
poi”, diventa un oggetto d’uso, un oggetto da fruire con voracità, come i prodotti in vendita in un
supermercato. In questa logica ed esattamente in questa, si inserisce quel business tipico del main
stream contemporaneo, legato allo smercio e all’utilizzo del “free time”: le vacanze, il bricolage, il
225
Si tratta di un concetto che Debord riprende dalla dottrina marxiana:
«‘L’histoire est elle-même une partie réelle de l’histoire naturelle, de la transformation de la nature en homme’ (Marx).
Inversement cette ‘histoire naturelle’ n’a d’autre existence effective qu’à travers le processus d’une histoire humaine.
L’histoire a toujours existé, mais pas toujours sous sa forme historique. La temporalisation de l’homme, telle qu’elle
s’effectue par la médiation d’une société, est égale à une humanisation du temps. Le mouvement inconscient du temps
se manifeste et devient vrai dans la conscience historique», Ib., 125.
226
«Les possesseurs de l’histoire ont mis dans le temps un sens : une direction qui est aussi une signification», Ib., 131.
Nel discorso di Debord c’è però un ma:
«Mais cette histoire se déploie et succombe à part ; elle laisse immuable la société profonde, car elle est justement ce
qui reste séparé de ma réalité commune», Ib., 131.
227
La descrizione che Debord fa della storia borghese è quella di un movimento generale e generalizzato all’interno del
quale viene definitivamente soppresso l’individuo:
«La victoire de la bourgeoisie est la victoire du temps profondément historique, parce qu’il est le temps de la production
économique qui transforme la société, en permanence et de fond en comble (…) L’histoire (…) écrite comme histoire
événementielle, est maintenant comprise comme le mouvement général, et dans ce mouvement sévère les individus sont
sacrifiés», Ib., 141.
228
«L’histoire qui est présente dans toute la profondeur de la société tend à se perdre à la surface. Le triomphe du temps
irréversible est aussi sa métamorphose en temps des choses, parce que l’arme de sa victoire a été précisément la
production en série des objets, selon les lois de la marchandise», Ib., 142.
121
fitness… tutto è funzionale alla perpetuazione del divenire isterico dell’universo, concepito e creato
dall’attività demiurgica della borghesia.229
Come il tempo, anche lo spazio subisce un processo di manipolazione.
Due sono gli elementi che contraddistinguono la spazialità contemporanea: l’unificazione a livello
terrestre e l’urbanizzazione.
Il primo dei due aspetti, oggi incancrenitosi per effetto dell’esistenza della rete telematica (che
tende a cancellare, mediante l’istantaneità elettrica, la distanza fisica), è una delle tante opere di
banalizzazione, messe in atto dal sistema economico capitalista. Uno degli effetti di tale
banalizzazione è il turismo, strumento privilegiato del consumo del tempo, inteso come circolazione
di uomini, in quanto sottoprodotto della circolazione delle merci.230
L’urbanesimo corrisponde invece alla presa di possesso del territorio da parte del potere della
borghesia231, la cui finalità consiste nel tenere separati, cioè nell’atomizzare i lavoratori.232 La classe
dominante percepisce la pericolosità del raggruppamento cosciente del proletariato.
Ma come un simile gigantesco meccanismo può perpetuarsi? Come il “velo” può continuare ad
avvolgere le cose? Come, in sostanza, chi signoreggia può seguitare a signoreggiare?
Grazie alla cultura, e qui risulta chiaro il ruolo dei mezzi di comunicazioni di massa.
La cultura, divenuta pensiero e apologia dello spettacolo, pensiero e fondamento del non vivente, la
cultura, spettacolarizzata essa stessa, in quanto merce da consumare, è giustificazione dell’esistente,
vale a dire giustificazione della società dello spettacolo.
«L’ensemble des connaissences qui continue de se développer actuellement comme pensée du
spectacle doit justifier une société sans justifications, et se constituer en science générale de la
fausse coscience» (G. DEBORD : 1992, 188).
Dunque, l’opera dello spettacolo, in quanto perpetuazione di sé, si configura come un’enorme
attività culturale, ovvero come un’enorme attività produttrice di immagini, di simulacri, di figure
del vero, che tale vero hanno la funzione di nascondere. All’interno di questa concezione,
all’interno di questa fenomenologia cosmologica, possiamo far rientrare il ruolo dei media,
“fabbriche dell’immaginario” in senso proprio. In quest’ottica, la funzione di radio, tv, cinema, in
quanto leve di pilotaggio del mondo nelle mani del “potere”, sarebbe quella di erogare fantasmi, di
erogare ologrammi, di produrre oggetti in forma di apparenza, in una forma cioè menzognera,
poiché tali apparenze sono mostrate come reali, come aventi cioè le caratteristiche tipiche di ciò che
è concreto.
Si potrebbe dire, in definitiva, che i mezzi di comunicazione siano delle enormi fabbriche, degli
enormi apparati industriali, produttori di segni privi di referenza, privi di estensionalità. È qui che si
229
Risultano ora più chiare le parole di Debord:
«Le temps pseudo-cyclique est un temps qui a été transformé par l’industrie. Le temps qui a sa base dans la production
des marchandises est lui-même une marchandise consommable, qui rassemble tout ce qui s’était auparavant distingué
(…) Tout le temps consommable de la société moderne en vient à être traité en matière première de nouveaux produits
diversifiés qui s’imposent sur le marché comme emplois du temps socialement organisé», Ib., 151, 152.
230
La drammaticità di tutto questo è che, anche a livello spaziale, viene distrutta l’individualità; i luoghi perdono la
propria autonomia e le proprie qualità:
«La production capitaliste a unifié l’espace, qui n’est plus limité par des sociétés extérieures. Cette unification est en
même temps un processus extensif et intensif de banalisation. L’accumulation des marchandises produites en série (…)
dissoudre l’autonomie et la qualité des lieux. Cette puissance d’homogénéisation est la grosse artillerie qui a fait tomber
toutes les murailles de Chine (…) Sous-produit de la circulation des marchandises, la circulation humaine considéré
comme une consommation, le tourisme, se ramène fondamentalement au loisir d’aller voir ce qui est devenu banal.
L’aménagement économique de la fréquentation de lieux différents est déjà par lui-même la garantie de leur
équivalence», Ib., 163, 164.
231
«L’urbanisme est cette prise de possession de l’environnement naturel et humain par le capitalisme qui (…) peut et
doit maintenant refaire ma totalité de l’espace comme son propre décor», Ib., 165.
232
«L’urbanisme est l’accomplissement moderne de la tâche ininterrompue qui sauvegarde le pouvoir de classe : le
maintien de l’atomisation des travailleurs que les conditions urbaines de production avaient dangereusement
rassemblés. La lutte constante qui a dû être menée contre tous les aspects de cette possibilité de rencontre trouve dans
l’urbanisme son champ privilégié», Ib., 166.
122
pone l’inganno epocale, la trappola storica; ciò che per sua stessa natura è simulacrale viene
mostrato non solo come sommo vertice di positività, ma anche come totalità dell’esistente, come
tutto ciò che c’è: la virtualizzazione della materialità, mediante la genesi degli “Idola spectaculi”,
può dirsi completa.
La realtà si trasforma nella sua immagine e l’immagine decreta la morte delle cose.
«La grande question philosophique était : ‘Pourquoi y a-t-il quelque chose plutôt que rien’.
Aujourd’hui, la véritable question est : ‘Pourquoi y a-t-il rien plutôt que quelque chose ?’» (J.
BAUDRILLARD : 1995, 16).
Se l’apparenza uccide ciò di cui è apparenza, allora la domanda posta da Baudrillard diventa
drammaticamente, o meglio, tragicamente e disperatamente stringente. L’evidenza iniziale
sembrerebbe essere proprio quella a cui siamo pervenuti alla fine della lettura di Debord:
«…nous vivons dans un monde où la plus haute fonction du signe est de faire disparaître la réalité,
et de masquer en même temps cette disparition. L’art aujourd’hui ne fait pas autre chose. Les media
aujourd’hui ne font pas autre chose. C’est pourquoi ils sont voués au même destin» (J.
BAUDRILLARD : 1995, 20).
La rilevazione dell’inconsistenza del tutto si radicalizza: dal piano fenomenologico si sposta a
quello ontologico, per negarlo. Questo tutto, questa totalità reale è un simulacro, è una simulazione,
è un prodotto di un mega-sistema razionale e razionalizzatore che plasma, istante per istante, il
divenire e la vita così come essi ci appaiono. È il cosmo di Matrix, è il cosmo fabbricato da quel
perfetto congegno informatico, che maschera perpetuamente la verità dell’inconsistenza delle cose.
Ma tale cosmo, cioè il cosmo di Matrix, il cosmo della simulazione, è dominato dal delitto233,
dall’omicidio, o, sarebbe meglio dire, dal “parricidio”: l’immagine, figlia del mondo (poiché questo
è la sua matrice, la sua ipostasi), si ritrova a uccidere il proprio padre. Ma questo delitto, questo
omicidio, questo parricidio, per l’appunto, non è totalmente perfetto, non è ben riuscito poiché
l’artefice non riesce a sbarazzarsi del cadavere, non riesce a cancellare le tracce che indicano
inequivocabilmente il crimine che ha commesso234: la simulazione circonda, avvolge, “vela”, ma
non nasconde l’illusione.235 La verità del nulla, del non essere, cioè dell’origine dalla quale tutto
viene, per mezzo della quale tutto sussiste e verso la quale tutto tende, non può venire soppressa.
La verità è illusione e il reale è simulazione.
È questa evidenza primordiale dell’Αλήθεια, questa certezza del primato del non essere che l’uomo
non riesce a sopportare. Ecco dunque la ragione, la causa di tale delitto: la necessità psicologica di
cancellare una certezza insopportabile.
Allora la volontà umana, la volontà di un ente che si illude di essere autonomo236 raccoglie le sue
forze e si prepara a dominare il mondo, si erge su tutto per imporre un senso, per imporre una
233
È esattamente il concetto che si esponeva all’inizio. Il mondo non esiste proprio perché è reale, in quanto la verità
vera è l’illusione, non la realtà. Ma la verità è stata cancellata, è stata sterminata dal reale. Il crimine, il delitto consiste
nella sterminazione dell’illusione per mezzo della realtà.
Le parole di Baudrillard risultano allora più chiare:
«Ceci est l’histoire d’un crime – du meurtre de la réalité. Et de l’extermination d’une illusion – l’illusion vitale,
l’illusion radicale du monde. Le réel ne disparaît pas dans l’illusion, c’est l’illusion qui disparaît dans la réalité
intégrale», J. BAUDRILLARD : 1995, 13.
234
«… le crime n’est jamais parfait, car le monde se trahit par les apparences, qui sont les traces de la continuité du rien.
Car le rien lui-même, la continuité du rien laisse des traces. Et c’est par là que le monde trahit son secret. C’est par là
qu’il se laisse pressentir, tout en se dérobant derrière les apparences», Ib., 15.
235
È questa, crediamo, una delle ragioni per la quale Baudrillard ha misconosciuto la lettura di Matrix. Non ci sono due
mondi perfettamente separati, ma, nella misura in cui l’uno tenta di sostituire l’altro, sono quanto meno fisicamente
compresenti:
«…l’illusion ne s’oppose pas à la réalité, elle est une réalité plus subtile qui enveloppe la première du signe de sa
disparition», Ib. 127.
236
Baudrillard cerca di spiegarci la ragione per cui la volontà è un’illusione:
123
razionalità agli oggetti e al divenire. Tale volontà, cioè il nostro volere è “demiurgo creatore” e, in
quanto prima causa, è primo motore della causalità insita nel cosmo, nell’universo. È questo l’inizio
della genesi della realtà, è questo l’inizio dell’opera di produzione dell’illusione secondaria237,
dell’inganno, cioè della simulazione.
Ma la costruzione disillusoria è un falso; non esiste la realtà, non esiste la volontà e non esiste
dunque la causalità. Tutta la dottrina metafisica classica è dunque un’allucinazione; l’evidenza
generata dallo stupore dell’esistenza delle cose per cui, se esse vi sono, sono state volute, è una
menzogna, una menzogna radicale. Nel mondo vero, nel mondo dell’illusione non c’è causalità e
dunque non c’è volontà; nel mondo vero, nel mondo dell’illusione regna il non essere, regna il caos,
regna la casualità e, nella casualità, causa ed effetto si sovrappongono.238
Ma: «D’où vient alors qu’on veuille substituer la volonté de l’homme au cours aléatoire des
choses ? (…) Nous désiderons vouloir – là est le secret – comme nous désiderons croire, comme
nous désiderons pouvoir, parce que l’idée d’un monde sans volonté, sans croyance et sans pouvoir
nous est insupportable. Mais la plupart du temps nous ne pouvons que vouloir ce dont l’échance est
toujours déjà là» (J. BAUDRILLARD : 1995, 30, 31).
Ma se causa ed effetto non esistono, se la verità è il nulla, se l’origine di tutto è nulla, e quindi noi
stessi siamo nulla, come possiamo illuderci di dominare la storia, come possiamo illuderci di dare
vita a una rivoluzione o di creare un’ideologia che sovverta l’ordine della concretezza? Tutto ciò
non è possibile che nel mondo della disillusione, nel mondo dei simulacri. E il dominio della storia,
della rivoluzione e dell’ideologia sono dunque essi stessi simulacri, poiché non possono avere altro
effetto che quello di sostituire dei fantasmi con degli altri fantasmi. La realtà non esiste e il nulla, la
concretezza dell’illusione, non può essere manipolato.239
Nel tentativo disperato di imporre un senso, di imporre una razionalità a ciò che c’è, l’uomo deve
riconoscere questa inesorabile evidenza, questa ineludibile certezza: l’illusione del mondo,
l’illusione radicale, quale traspare dall’inconsistenza delle cose.240 Ma in cosa consiste questa
illusione radicale, di cosa sarebbe fatta questa incancellabile dimensione originale dell’universo?
Nel nulla. È questo l’aspetto insopportabile contro cui l’uomo si scontra, è questo il principio
dell’angoscia che egli vuole cancellare a ogni costo.
Il cosmo è sorto all’improvviso, dal niente, senza l’azione di alcuna causa e, dunque, privo di ogni
causalità al proprio interno. Ecco cos’è il mondo, ecco il volto vero e, per questo, non contemplabile
«L’existence est ce à quoi il ne faut pas consentir. Elle nous a été donnée comme lot de consolation, et il n’y faut pas
croire ? La volonté est ce à quoi il ne faut pas consentir. Elle nous a été donnée comme illusion d’un sujet autonome»,
Ib., 29.
237
Il concetto della realtà come illusione secondaria è espresso in queste poche righe:
«Le réel, lui, n’est que l’enfant naturel de la désillusion. Lui-même une illusion secondaire. La croyance en la réalité
est, de toutes les formes imaginaires, la plus basse, la plus triviale», Ib., 29.
238
«On insiste toujours sur l’antériorité de la volonté, comme de la cause sur l’effet. Mais le plus souvent elle se
confond avec l’événement comme sa mise en scène rétrospective, comme la séquence d’un rêve illustre la sensation
physique du corps endormi», Ib. 31.
239
Qui appare più chiara tutta la distanza che separa Baudrillard da Debord. Il secondo è infatti un materialista, quindi,
quanto meno ammette che vi sia qualcosa, che vi sia una “materia storica” da riportare alla luce; le immagini sono
strumenti nelle mani della borghesia, ma questa può essere rovesciata mediante la rivoluzione. A detta di Baudrillard
invece non vi sarebbe nulla e una eventuale rivoluzione sarebbe un tentativo estremo di riportare in gioco un’opera di
disillusione:
«Nous ne pouvons projeter dans le monde plus d’ordre ou de désordre qu’il n’y en a. Nous ne pouvons le transformer
plus qu’il ne se transforme lui-même. Là est la faiblesse de notre radicalité historique. Toutes les pensées du
changement, les utopies révolutionnaires, nihilistes, futuristes, toute cette poétique de la subversion et de la
transgression caractéristiques de la modernité apparaîtront naïves en regard de l’instabilité, de la réversibilité naturelle
du monde. Non seulement la transgression, mais la destruction même est hors de notre portée. Jamais nous
n’équivaudrons par acte de destruction à la destruction accidentelle du monde», Ib., 27, 28.
240
«Alors que l’illusion du monde, c’est la manière qu’ont les choses de se donner pour ce qu’elles sont, alors qu’elle
n’y sont pas du tout. Dans l’apparence, les choses sont ce pour quoi elles se donnent. Elles apparaissent et disparaissent
sans laisser transparaître quoi que ce soit», Ib. 36.
124
delle cose, che le cose stesse, attraverso i propri simulacri, nascondono: un’entità senza origine,
senza fine e soprattutto senza storia, cioè il contrario della realtà.241
Quest’ultima, dal canto suo, in quanto opera di disillusione, è continuamente, perpetuamente e
instancabilmente prodotta dallo sforzo umano, inteso come virtualizzazione generale del tutto,
ovvero come sterminazione della verità per effetto della sua copia. È qui, cioè all’interno di tale
sterminazione, che i mezzi di comunicazione di massa giocano il loro ruolo principale. Essi escono
dal proprio spazio, dal proprio recinto per insinuarsi nella quotidianità, nella struttura biologica del
fruitore. È una tesi questa che riecheggia, per certi versi, le letture di Marshall McLuhan, per il
quale non solo i media, ma tutti gli artefatti diventerebbero, per effetto dell’uso, un prolungamento e
un surrogato degli organi di senso.242
La radio, la tv, il computer, assieme a tutti gli altri apparecchi elettronici, entrano nella nostra
intimità, penetrano nella nostra coscienza, si infiltrano negli angoli più oscuri delle nostre facoltà
teoretiche e percettive; la radio, la tv e il computer, esattamente come i virus, attaccano le nostre
cellule, attaccano le nostre funzioni vitali e ne compromettono inesorabilmente le funzioni.243 Così,
non solo la realtà, ma anche la conoscenza di essa è simulata, non solo gli oggetti, ma anche la loro
cognizione è “fantomaticizzata”: la testa, il cervello, gli strumenti di apprendimento in generale
riproducono le caratteristiche di presa sul mondo della telecamera; ciò che della cosa viene
trattenuto, ciò che della cosa viene catturato è il suo doppio immateriale, il suo doppio fisicamente
inconsistente.
Ecco dunque la funzione ultima, lo scopo ultimo dell’esistenza dei mezzi di comunicazione di
massa: la produzione industriale e seriale dei simulacri. In questo, c’è una grossa differenza fra lo
spettacolo e la virtualizzazione universale di quel cosmo fantasmatico, dominato dalla disillusione:
«La virtualité est autre chose que le spectacle, qui lassait encore place à une coscience critique et à
une démistyfication. L’abstraction du ‘spectacle’, y compris chez les Situationnistes, n’était jamais
sans appel. Tandis que la réalisation inconditionelle, elle, est sans appelle» (J. BAUDRILLARD :
1995, 49).
Secondo la visione di Debord, era sempre possibile cambiare lo stato delle cose, era sempre
possibile che la parte sottomessa della società (il proletariato) prendesse coscienza dell’opera di
astrazione, messa in atto dalla borghesia, e rovesciasse un ingiusto quanto irreale status quo. Nel
mondo della simulazione cosmica al contrario, tutto questo non è possibile: nella realtà della
disillusione, tutti sono vittime e carnefici, tutti sono spettatori e attori dell’inganno ontologico; tutti
contribuiscono all’alimentazione della menzogna, dalla quale saranno imbrogliati.244
241
È esattamente questo che Baudrillard sostiene:
«Cette soudaineté, cette émergence à partir du vide, cette non-anteriorité des choses à elle-mêmes continue d’affecter
l’événement du monde au cœur même de son déroulement historique. Ce qui fait événement, c’est qui rompt avec toute
causalité antérieure. L’événement du langage, c’est ce qui le fait ressurgir miraculeusement tous les jours, comme forme
achevée, hors de toutes significations antérieures (…) Finalement nous préférons l’ex nihilo, ce qui tient sa magie de
l’arbitraire, de l’absence de causes et d’histoire», Ib., 90.
242
Si tratta di una tesi che percorre un po’ tutti gli scritti di McLuhan, ma nella quale, personalmente, ci siamo imbattuti
nella lettura di due testi:
- M. McLUHAN, Gli strumenti del comunicare, EST, Milano, 1999.
- M. & E. McLUHAN, La legge dei media, Ediz. Lavoro, Roma, 1994.
In ogni caso, abbiamo già discusso criticamente queste idee in un’altra opera:
- F. MARINOZZI, L’impero tecnologico, C.U.S.L., Milano, 2002.
243
Il linguaggio con cui Baudrillard descrive questo fenomeno di dispotismo mediatico è ben più catastrofico del
nostro:
«De toute façon, la caméra virtuelle est dans la tête. Pas besoin de médium pour réfléchir nos problèmes en temps réel :
cheque existence est télé présente à elle même. La TV et les médias sont depuis longtemps sortis de leur espace
médiatique pour investir la vie réelle de l’intérieur, exactement comme le fait le virus pour une cellule normale. Pas
besoin de casque ni de combinaison digitale : c’est notre volonté qui finit par se mouvoir dans le monde comme dans
une image de synthèse», Ib., 49.
244
Ib., 49.
125
E in questa attività di fabbricazione del vero, in questa genesi antropo-artificiale della realtà, in
questo “acting out” supremo di tutto ciò che esiste, tale vero, tale realtà divengono iperreali,
iperveri, cioè più reali e perfetti della realtà e del vero stessi. È quello che accade sul palcoscenico
del reality show, dove viene simulata un’esistenza umana a sua volta già simulata. Le storie di vita
coniugale o di cattivo vicinato vengono come “digitalizzate”, come “rimasterizzate” per assumere la
perfezione dell’astratto, dell’inconcreto che, in quanto tale, in quanto riproduzione ologrammatica
dell’idea dell’oggetto (e dunque non dell’oggetto in sé [c’è come un velo di platonismo in questa
teoria]) sono più perfette di ciò che rappresentano, di ciò a cui rimandano.245
Ma in questa generale compiutezza, in questa irreprensibile organizzazione del particolare anche
più minimo, c’è qualcosa che sfugge, c’è qualcosa che resta intangibile, c’è qualcosa che non si
mostra ai nostri sensi246: è la vendetta della tecnica che lascia trasparire, come corpo translucido, il
nulla, cioè quel non essere originario, da cui tutto proviene e in cui tutto sussiste. È questa l’ “ironia
della tecnica” (“L’ironie de la technique”), l’ironia di artefatti in tutto completi, in quanto supremo
dispositivo di fabbricazione e di donazione di senso. Nel momento in cui l’illusione, la vera forma
del cosmo senza forma sembra essere schiacciata dalla realtà iper-reale, ecco che essa ricompare
negli oggetti, nel mondo di quegli enti che l’uomo stesso ha creato.247 Le cose, al vertice estremo
della loro concretezza, diventano custodi del segreto dell’universo, custodi del segreto della
dimensione senza dimensioni, custodi dell’ineffabile, dell’invisibile inconsistenza del tutto. È
questo ciò che salverebbe l’uomo dalla disillusione, è questo ciò che rilancerebbe gli esseri verso la
tangibilità dell’intangibile, è questo in definitiva ciò che restituirebbe al disilluso l’illusione.
In questa prospettiva, si colloca la dottrina di Jacques Derrida, che riconduce l’attualità ai concetti
di “artefattualità” (“artefactualité”) e di “attuvirtualità” (“actuvirtualité”).248
L’attualità, intesa come ciò che accade, come ciò che avviene, è un’opera inesorabilmente
artificiale; è un oggetto, è un prodotto, fatto, eseguito e fabbricato in serie. Ciò che capita, ciò che
avviene, o meglio, ciò che viene all’essere, ciò che si impone nella sua verità sul piano ontico è
tragico, dolorosamente drammatico, in quanto contraddistinto da quell’irripetibile individualità che
lo rende unico e assolutamente intangibile. Di fronte alla sofferenza del tragico, l’attualità viene
rigenerata, riconcepita, riprocreata: l’attualità viene trasformata in “artefattualità”.
«Si singulière, irréductible, têtue, doulereuse ou tragique que reste la ‘réalité’ à laquelle se réfère l’
‘actualité’, celle-ci nous arrive à travers une facture fictionelle» (J. DERRIDA : 1996, 11,12.).
Tale processo di ricreazione delle evidenze del mondo, tale artificializzazione dell’attuale si impone
oggi più che mai in tutta la sua pregnanza: l’attuale diventa artefattuale e l’artefattuale si rivela
totalmente privo di attualità. La tv, la radio, la stampa, internet rappresentano in questo senso il
vertice di quell’immenso apparato industriale, finalizzato alla costruzione menzognera
dell’avvenimento. La notizia, l’evento, il fatto, in quanto veicolato dai media, è il risultato finale di
un’azione selezionatrice degli elementi dell’accadimento reale; la notizia, l’evento, il fatto sono ciò
che resta di un’operazione di filtraggio, di un’operazione di riduzione degli elementi concreti, a sua
volta dissimulata. Già, dissimulata, perché la grande industria mediale, la grande fabbrica di
245
Ib., 51.
«À l’apogée des performances technologique, il reste l’impression irrésistible que quelque chose nous échappe – non
parce que nous l’aurions perdu (le réel), mais parce que nous l’aurions plus en position de le voir : à savoir que ce n’est
plus nous qui l’emportons sur le monde, mais le monde qui l’emporte sur nous», Ib. 107.
247
È questa la riflessione di Baudrillard: all’apice della tecnica e della tecnologia, intese come creazioni perpetue del
senso, la verità dell’illusione inizia la sua epifania:
«Il semble en effet que si l’illusion du monde en est perdue, l’ironie, elle, soit passée dans les choses. Il semble que la
technique se soit chargée de toute l’illusion qu’elle nous a fait perdre, et que la contre-partie de la perte de l’illusion soit
l’apparition d’une ironie objective de ce monde. L’ironie comme forme universelle de la désillusion, mais aussi de
stratagème par lequel le monde se dérobe derrière l’illusion radicale de la technique, et le secret (celui de la
continuation du Rien) derrière la banalité universelle de l’information (…) L’ironie est la seule forme spirituelle du
monde moderne, qui les a toutes anéanties. Elle seule est dépositaire du secret, mais nous n’en avons plus le privilège»,
Ib., 109.
248
J. DERRIDA: 1996.
246
126
immaginario a buon mercato nasconde questo procedimento di trasformazione, questo
procedimento di traduzione operato sull’avvenimento, cioè su ciò che si dà, su ciò che si manifesta
nella sua brutalità più concreta.249
In questa gigantesca opera di “fantasmatizzazione” del reale, entra in gioco l’ “attuvirtualità”. La
virtualità dei nuovi strumenti telematici, riprodotta anche dai dispositivi di comunicazione più
tradizionali, si insinua nelle nostre facoltà cognitive, penetra nelle potenze adibite alla conoscenza,
modificando la nostra percezione di spazio e di tempo: il ritmo dell’elettronica soppianta il ritmo
della vita quotidiana.250 Così oggi, nell’epoca del villaggio globale, nell’epoca della caduta
tecnologica di ogni frontiera, nell’epoca dell’unificazione universale delle genti, attraverso la rete di
internet, l’ “artefattualità” si connota principalmente come una produzione a catena di prodotti
virtuali, come una gigantesca opera di virtualizzazione, ovvero come un’enorme operazione di
“attuvirtualità”.251
Ma quali sono gli effetti concreti di “artefattualità” e “attuvirtualità”? Quale aspetto del reale
cancellano? Su cosa, nello specifico, si esercita il loro potere censorio?
Esattamente su ciò di cui l’attualità è fatta, su ciò di cui l’attualità è costituita, vale a dire
sull’avvenimento (“événement”). Sull’avvenimento, sul non previsto, sull’evento nella sua
singolare e irripetibile individualità, sull’evento nel suo carattere differenziale. Il pensiero del reale,
nella sua accezione “evenemenziale”, si costituisce perciò come pensiero della differenza (“Le
pensée de la différence”), pensiero dell’imprevedibilità, pensiero della venuta dell’altro, in quanto
totalmente altro, ovvero pensiero di ciò che la ragione non riesce a prevedere, ma che deve pur
accogliere, in quanto depositario del senso.252 L’ “événement” è la venuta dell’arrivante
(“arrivant”), in quanto portatore dell’imprevisto, in quanto portatore dell’alterità assoluta, in quanto
portatore della potenza culturale dell’alterità.
Ma attenzione:
«L’événement ne se réduit pas au fait que quelque chose arrive. Il peut pleuvoir ce soir, il peut ne
pas pleuvoir, cela ne sera pas un événement absolu parce que je sais ce que c’est, la pluie, si du
moins et dans la mesure où je le sais, et puis ce n’est pas une singularité absolument autre. Ce qui
arrive là, ce n’est pas un arrivant. L’arrivant doit être absolument autre, un autre que je m’attende à
249
Le parole del filosofo francese relativamente a tutto ciò che viene trasmesso in televisione, o comunque veicolato dai
mezzi di comunicazione di massa, assumono dei connotati tragici:
«Ce mot-valise d’ ‘artefactualité’ signifiait d’abord qu’il n’y a actualité, au sens de ‘ce qui est actuel’ ou plutôt de ‘ce
qui se diffuse sous le titre d’actualités sur les radios et les télévisions’, que dans la mesure où un ensemble de dispositifs
techniques et politiques viennent en quelque sorte choisir, dans une masse non finie d’événements, les ‘faits’ qui
doivent constituer l’actualité : ce qu’on appelle alors ‘les faits’ dont sont nourries les ‘informations’», Ib., 52.
Più in là, viene poi rivelato come viene realizzata questa “artefattualità” e soprattutto a chi giova:
«Les choix, bien entendu, ne sont jamais neutres, qu’ils se préparent dans les chaînes de télévision et les station de
radio, ou qu’ils se décident déjà dans les agences de presse. Toute actualité compose avec l’artifice, en général
dissimulé, de ce filtrage. Mais déjà il aurait fallu préciser (…) que ces artifices sont contrôlés simultanément ou
alternativement par des instances privées ou par des instances d’État…», Ib., 52.
250
«Cet autre temps, le temps des médias, donne lieu surtout à une autre distribution, à d’autres espaces, rythmes, relais,
forme de prise de parole et d’intervention publique. Ce qui est invisible, illisible, inaudible sur l’écran de la plus grande
exposition peut être actif et efficace, immédiatement ou à terme, ne disparaissant qu’aux yeux de ceux qui confondent
l’actualité avec ce qu’ils voient ou croient faire en vitrine sur ‘grand surface’», Ib., 15.
251
Ci sembrava di poter interpretare così le seguenti parole di Derrida:
«J’insisterais non seulement sur la synthèse artificielle (…) mais d’abord sur un concept de virtualité (…) Cette
virtualité s’imprime à même la structure de l’événement produit, elle affecte le temps comme l’espace de l’image, du
discours, de l’ ‘information’, bref tout ce qui nous rapporte à ladite actualité, à la réalité implacable de son présent
supposé», Ib., 14.
252
Derrida sottolinea in modo molto forte il carattere di imprevedibilità e di alterità totale dell’evento:
«Le pensée de la différance est donc aussi une pensée de l’urgence, de ce que je ne peux ni éluder ni m’approprier,
parce que c’est autre. L’événement, la singularité de l’événement, voilà la chose de la différance (…) Il n’y aurait pas
de différence sans l’urgence, l’imminence, la précipitation, l’inéluctable, la venue imprévisible de l’autre vers qui se
portent la référence et la déférence. L’événement est un autre nom pur ce que, dans ce qui arrive, on n’arrive ni à
réduire ni à dénier (ou seulement à dénier). C’est un autre nom pour l’expérience même qui est toujours expérience de
l’autre. L’événement ne se laisse subsumer sous aucun autre concept, pas même celui d’être», Ib., 18, 19.
127
ne pas attendre, que je n’attende pas, dont l’attente est faite d’une non-attente, une attente sans ce
qu’on appelle en philosophie l’horizon d’attente, quand un certain savoir anticipe encore et amortit
d’avance. Si je suis sûr qu’il y aura de l’événement, cela ne sera pas un événement» (J. DERRIDA :
1996, 21).
In questo senso, se si vuole conoscere la verità del mondo, se si vuole lasciare che tutta la ricchezza
e la profondità del reale si manifesti, è necessario lasciare spazio all’avvenire, lasciare spazio
all’avvenimento, o meglio lasciare spazio all’avvenire in quanto avvenimento, all’avvenire in
quanto venuta inesorabile dell’arrivante, dell’imprevisto.
«L’impératif, disons, catégorique, le devoir inconditionnel de toute négotiation, ce serait en effet de
laisser de l’avenir à l’avenir, de le laisser ou de le faire venir, en tout cas de laisser ouverte la
possibilité de l’avenir», (J. DERRIDA : 1996, 98).
Ma l’idea dell’arrivante è inaccettabile, l’idea dell’arrivante va contro gli stessi presupposti degli
stati borghesi moderni, fondati innanzitutto sul diritto di difendere il proprio status quo. L’evento,
proprio in quanto imprevisto, proprio in quanto inaspettato, proprio in quanto improvviso, non è
controllabile, non è governabile, non è contenibile. Per questa ragione la politica cancella
l’avvenimento, cancella quel fatto inatteso, che rappresenta l’inesauribile ricchezza della realtà.
Laddove si rimuove l’epifania dell’arrivante, si rimuove con ciò stesso la possibilità della venuta
del nuovo, la possibilità della crescita del tutto, la possibilità dell’effettivo sviluppo del mondo.253
La tecnica e, nella fattispecie i mezzi di comunicazione di massa, sembrano ricalcare esattamente
questo atteggiamento254, sembrano riprodurre esattamente la logica del potere politico, pur
mettendolo spesso in discussione.255 Tutto ciò che viene messo in scena sul palcoscenico mediale è
sempre qualcosa di preventivamente concepito, di preventivamente preparato, di preventivamente
costruito a tavolino.
Ma questa operazione di costruzione, di fabbricazione, è dissimulata, è nascosta, è celata dagli
artifici rappresentativi, dal velo degli espedienti linguistici della finzione. In questo modo, la
televisione, la stampa, la radio appaiono il luogo fisico della venuta all’essere dell’evento, della
manifestazione dell’arrivante, del nuovo nel suo farsi “hic et nunc”. Ma tutto ciò è una menzogna,
253
Secondo Derrida, un esempio molto eloquente di quest’opera di cancellazione dell’arrivante è la politica
sull’immigrazione, adottata dalla maggior parte delle nazioni sviluppate:
«Le discours que je tenais tout à l’heure au sujet de l’arrivant est politiquement inacceptable, si du moins la politique se
règle, comme elle le fait toujours, en tant que telle, sur l’idée de l’identité d’un corps propre qu’on appelle l’État-nation.
Il n’existe pas aujourd’hui au monde un seul État-nation qui, en tant que tel, accepte de déclarer : ‘Nous ouvrons les
portes à qui que ce soit, nous ne mettons pas de limite à l’immigration’. À ma connaissance, tout État-nation se
constitue à partire du contrôle des frontières, du refus de l’immigration clandestine et d’une stricte limitation du droit à
l’immigration et du droit d’asile. Ce concept de frontière constitue, justement comme sa frontière même, le concept
d’État-nation», Ib., 25.
254
Non ci sembra di poter interpretare il pensiero di Derrida in termini di critica al sistema mass-mediale in quanto
strumento del potere politico. Ci pare, al contrario, più onesto sostenere che i mezzi di comunicazione hanno lo stesso
atteggiamento di censura dell’evento che contraddistingue lo stato borghese, per caso, non in quanto sono da tale stato
strumentalizzati.
255
Il filosofo francese ricorda spesso, infatti, come i mezzi di comunicazione attentino proprio alle fondamenta dello
stato moderno. Un medium come internet per esempio, ma anche la televisione, la radio e la stampa (seppur in misura
minore) modificano strutturalmente la percezione delle dimensioni spazio-temporali, rendendo inconsistenti a livello
pratico le frontiere nazionali, le quali, di conseguenza, risultano svuotate di significato.
Ma accanto a queste conseguenze di tipo “geo-politico”, i media hanno avuto anche la forza di concorrere a ridefinire
alcuni concetti giuridici come, per esempio, la testimonianza.
La cosa interessante da rilevare in tutto questo macchinoso processo, è che anche la politica, in Francia, riconosce il
proprio legame inscindibile all’universo mediatico, decretando il “diritto di supervisione” sugli audiovisivi: nel 1992, il
parlamento di questo paese decide infatti di creare una sorta museo nazionale dell’audiovisivo, nel quale ciascuno ha la
possibilità di prendere visione dei programmi del passato.
La cosa che colpisce maggiormente in tutta questa operazione è, a detta di Derrida, il fatto che lo stato senta la necessità
di stoccare in blocco la gigantesca quantità dei prodotti televisivi.
128
perché l’attualità è prodotta industrialmente, perché l’attualità è plasmata dalle mani degli uomini,
perché l’attualità è artefattualità.
Nella testualità classica, intesa come luogo di smarrimento della propria donazione di senso, come
luogo della creazione di un qualcosa di altro da sé, di cui non si ha il controllo256, erano presenti un
contenuto e una forma scaturiti da un atto di scrittura. Tale atto di scrittura, in quanto operazione
onto-genetica dell’alterità, era qualcosa di separato, di slegato, di assolutamente distinto dall’atto di
lettura, vale a dire che di tale atto non restava traccia alcuna nell’opera.
Al contrario, nel testo televisivo o nel testo radiofonico resta proprio questo atto di scrittura, questo
atto di fabbricazione: il suddetto testo è presentato nel suo farsi, o meglio come facentesi, come
producentesi, nell’esatto frangente spazio-temporale della sua fruizione.
Ma la caratteristica strutturale, la caratteristica ontologica del medium, proprio in quanto medium, è
quella di essere inestricabilmente legato a dispositivi di registrazione, a dispositivi di archiviazione
degli elementi reali. Ne deriva che tutto ciò che viene trasmesso, tutto ciò che viene offerto al
pubblico è in ogni caso trasmesso, offerto in differita, ovvero in seguito a una preventiva
memorizzazione e organizzazione dei dati.257
256
È questa la “différence” alla base della intertestualità di cui parla spesso Derrida (tale concetto viene analizzato in un
testo in particolare: J. DERRIDA, L’écriture et la différence, Paris, Minuit, 1967).
Il segno, ciascun segno, si definisce non solo a partire dalla differenza con tutti gli altri, ma anche dalla eterogeneità al
proprio interno. Il segno è “mobile”, ovvero è un’entità sottoposta a un processo di significazione continua, a un
processo che ridefinisce costantemente il suo senso e che lo rende quindi sempre diverso da se stesso.
«Il segno è la traccia lasciata da una catena infinita di ri-significazioni instabili all’interno di un contesto di
intertestualità, una parola che per Derrida evoca la dipendenza di ogni testo da una moltitudine di figure, convenzioni,
codici e altri testi precedenti. Il linguaggio per Derrida è quindi sempre inscritto in una complessa rete di scambi e di
tracce differenziali che non possono essere afferrate dal singolo parlante» (R. STAM – R. BURGOYNE – S. FLITTERMANLEWIS, Semiologia del cinema e dell’audiovisivo, Bompiani, Milano, 1999, 38).
Allo stesso modo del segno, anche il testo, che in fondo è un sistema ordinato per l’appunto di segni, è inserito nello
stesso processo dialogico, nello stesso processo di ridefinizione continua che rende la parola scritta sempre diversa da se
stessa e dunque dalle intenzioni dell’autore.
Nel linguaggio, domina dunque la “différance”:
«Derrida introduce il neologismo différance: un termine che in francese esiste in una sorta di sospensione tra “essere
diverso” e “rinviare” e in cui l’errore di ortografia (“a” invece della convenzionale “e” di “différence”) non è udibile ma
“visibile” solo per iscritto. Questo termine gli consente di riferirsi da un lato all’idea saussuriana di differenza (…) e
dall’altro a un processo attivo e temporale di produzione di differenza attraverso un rinvio nel tempo. Différance
designa il processo attraverso cui viene riprodotta un’opposizione tra due termini costitutivi, instaurando quindi
un’irrisolvibile alternanza tra struttura e ciò che viene represso da essa» (Ib., 38).
La teoria del linguaggio come altro, come alterità, riecheggia la dottrina lacaniana della fase dello specchio
(corrispondente pressappoco alla fase orale freudiana), in base alla quale il bambino costruirebbe la propria identità in
relazione alle immagini del proprio io. Da un lato l’infante si riconosce in un immagine di sé (che può essere anche la
propria, veduta in uno specchio), riconosciuta come superiore (è l’io ideale [narcisismo]), dall’altro è chiamato a
paragonarsi con un’immagine ulteriore, data dalla relazione con le figure parentali (è l’ideale dell’io, che costituisce
una sorta di istanza punitiva). La costruzione della propria personalità è determinata perciò dall’assunzione critica
dell’ideale dell’io, cioè da un atto di alienazione, in quanto negazione del proprio io ideale (istanza vera dell’identità).
Pertanto, la fase dello specchio è caratterizzata da tre elementi: narcisismo, misconoscimento e alienazione.
In tutto questo processo, vale a dire nella genesi della propria identità, gioca un ruolo fondamentale la comunicazione,
dunque il linguaggio, strumento privilegiato, attraverso cui ci viene comunicata la nostra cultura.
«…il bambino esce dall’unità pre-edipica con la madre, non solo per paura della castrazione, ma anche attraverso
l’acquisizione del linguaggio. Quindi il momento di acquisizione della capacità linguistica (l’abilità di parlare, di
distinguersi come soggetto parlante) è anche il momento in cui si inserisce nello spazio sociale» (Ib., 174).
Il linguaggio è quindi qualcosa che proviene dall’esterno e che non ci appartiene. Nonostante sia lo strumento
privilegiato attraverso cui si viene riconosciuti dalla società, lo strumento attraverso cui si entra nel mondo, esso implica
un’alienazione, una negazione originaria della propria immagine ideale.
In quanto oggetto materialmente costituito di “linguaggio” (ci si perdoni questa ampia digressione, ma non è possibile
capire Derrida senza far riferimento a tali presupposti), il testo è perciò da un lato inserito in un campo di forze
interpretative che lo rendono sempre altro, dall’altro generato da un mezzo di comunicazione (lo stesso linguaggio) che
è strutturalmente altro da me. Il testo è pertanto un’espressione incontrollabile.
257
La più grande operazione finzionale è di “captare” e registrare ciò che è stato vivente e di riproporlo, in differita,
come ancora vivente, lasciando che tutti credano che sia tale:
«Ces machines, il n’y en a toujours, et même au temps de l’écriture à la main, même au cours de ladite conversation
vive. Cependant, la plus grande compatibilité, la plus grande coordination, la plus vive affinité possible semble
129
L’artefattulità, in quanto attuvirtualità, nasconde tale differita, nasconde lo scarto temporale tra la
venuta all’essere dell’evento e la sua riproduzione sullo schermo. È questa la menzogna principale
dei mezzi di comunicazione, è questo l’inganno supremo della tecnica che, mediante la
rappresentazione dell’atto di scrittura, cancella la distinzione fra live e differita, o diversamente,
mostra la differita come live. Il prodotto televisivo appare allora qualcosa di vivente, qualcosa che
si sta facendo nel preciso istante in cui lo stiamo vedendo, qualcosa cioè che avviene una volta sola
e non si ripeterà mai più.258
Ma se la tecnica da un lato sembra negare l’esistenza dell’avvenimento, dall’altro essa presenta, in
se stessa, un aspetto assolutamente incontrollabile, assolutamente imprevedibile: il ritmo. Il flusso
televisivo e radiofonico, la tecnologia in genere, nel suo instancabile e intangibile divenire,
coinvolge tutto l’universo in una vorticosa accelerazione che rende impossibile qualunque genere di
previsione, qualunque genere di lettura preventiva di un fenomeno.259 È quasi la ricomparsa
inaspettata del cadavere dell’arrivante, la ricomparsa di chi era malamente celato dalla trasparenza
dei corpi degli assassini (= i fantasmi del reale).
Qual è l’elemento costitutivo dell’evento, qual è il carattere peculiare dell’avvenimento?
Il fatto che avviene una volta sola, il fatto che è unico e irripetibile, il fatto che viene all’essere solo
in un determinato “hic et nunc” per poi scomparire, il fatto, in breve, che è “singolare”. Ecco che
cosa cancellano, ecco che cosa tacciono, ecco che cosa nascondo i mezzi di comunicazione:
l’individualità.260 La tecnica, nella sua essenza, è nient’altro che potenzialità di archiviazione,
potenzialità di registrazione, potenzialità di catalogazione, in questo senso, essa apre
all’avvenimento, apre all’evento, ovvero lo anticipa. Ma, nella misura in cui è anticipato, nella
misura in cui è previsto, questo avvenimento, questo evento cessa di essere tale, cessa di essere ciò
s’imposer aujourd’hui entre ce qui paraît le plus vivant, live, et la différence ou le retard, le délai dans l’exploitation ou
la diffusion de ce vivant. Quand un scribe ou un écrivain du XVIII siècle ou du XIX siècle écrivait, le moment de
l’inscription n’était pas gardé vivant (…) Au contraire, maintenant, à l’instant, nous vivons un moment très singulier,
sans répétition, que nous nous rappellerons vous et moi comme un moment contingent, qui n’eut lieut qu’une fois,
d’une chose qui fut vivante, qui est vivante, qu’on croit simplement vivant, mais qui sera reproduite comme vivante…»,
J. DERRIDA : 1996, 47.
258
«Quand on regarde la télévision, on a l’impression que cela se passe une seule fois : cela ne reviendra pas, se dit-on,
c’est du ‘vivant’, du direct, du temps réel, alors que c’est produit, nous le savons aussi, d’autre part, par le machines à
répétition les plus puissantes, les plus sophistiquées», Ib., 102.
259
Derrida fa notare che se determinati fatti storici, in un universo dove l’attualità è trasformata in artefattualità,
potevano essere previsti, non poteva però essere previsto quando questi si sarebbero verificati.
«…tout ce dont nous parlons est engagé dans une transformation dont le rythme même est déterminant et de plus en
plus incalculable. Même si on pouvait prévoir tel ou tel des événements qui ont marqué d’un traumatisme, heureux ou
malheureux, notre génération ou même la dernière décennie, même si on pouvait prévoir ceci ou cela, la chute du mur
de Berlin par exemple, ou la poignée de main Rabin-Arafat, ou la fin de l’apartheid en Afrique du Sud, ce qu’il était
impossible de prévoir, même pour mes experts les plus avisés, et quasiment à la veille de l’événement, c’était l’instant
où cela allait se produire. Je présume que cette accélération dans la processus est liée de façon essentielle, et en tout cas
pour une large part, à la transformation télémédiatique, télétechnique, à ce qu’on appelle couramment le voyage ou la
route de l’information, le passage des frontières par les images, par les modèles, etc.», Ib., 82.
260
Su questo punto, Derrida, apre una discussione riguardo al concetto di simulazione coniato da Baudrillard; in
particolare, si riferisce all’analisi che questo fa dell’esperienza televisiva della guerra del golfo, nel 1991. Se è vero da
un lato che la tv ha simulato l’evento, dall’altro non bisogna dimenticare che dei morti vi sono pur stati. Ciò che i mezzi
di comunicazione, in questo caso (come in molti altri), hanno fatto è stato cancellare la singolarità:
«Ce que voulait dire Baudrillard, je suppose, ce n’était pas simplement qu’un processus général emportait tout cela,
mais aussi que, justement, les simulacres d’images, la télévision, la manipulation de l’information, le reportage avaient
annulé l’événement, qu’au fond on n’avait vécu cela qu’à travers du simulacre. C’est intéressant. Je crois que quelque
chose de tel ou d’analogue s’est produit (et se produit sans doute toujours, depuis toujours, dès que de l’itérabilité en
général structure l’évémentialité de l’événement), mais cela ne doit pas nous faire oublier – et l’événement ne se laisse
pas oublier – qu’il y a eu des morts, des centaines de milliers de morts, d’un côté du front et non de l’autre, et que cette
guerre a eu lieu. Si cet avoir-lieu se scelle dans ce que des morts ont d’ineffaçable, on doit ne pas l’oublier, ces morts
sont chaque fois, par centaines de milliers, des morts singulières. Chaque fois il y a singularité du meurtre. Cela arrive
et aucun processus, aucune logique du simulacre ne peut faire oublier cela; car, avec le processus, il faut aussi penser la
singularité», Ib., 89.
130
che dovrebbe, ovvero perde quelle caratteristiche di eccezionalità e di singolarità, che ultimamente
lo identificano.261
Dunque, i mezzi di comunicazione, in quanto riproduzione, infinita riproduzione, di ciò che è già
avvenuto, oppure generazione fittizia di esso (in ogni caso, anch’essa già avvenuta), distruggono
l’essenza stessa dell’evento, distruggono la struttura ontologica dello stesso. La fotografia, e oggi
tutti gli strumenti che si servono dell’immagine, sono fabbriche, industrie di fantasmi, gigantesche
macchine di procreazione in serie di entità ologrammatiche.262 In quanto tali (cioè in quanto entità
ologrammatiche), esse non hanno consistenza, non hanno concretezza263, non hanno immediata
referenza; esse sono la presenza di un’assenza, la presenza di un’assenza che è stata presente e che
ora non lo è più. Ma la grande menzogna, il grande inganno di questa neo-genesi dell’umano è che
questi corpi incorporali, queste fisicità non fisiche attirano la nostra attenzione, si avvicinano a noi,
ci guardano, ci parlano, ci domandano una reciprocità che non può essere in nessun modo donata:
ecco che cos’è il “fantasma televisivo”, un soggetto che ci guarda senza reciprocità.264 In questo,
l’ologramma del corpo assente è un punto zero, una sorgente di significato con cui non posso
dialogare, con cui non posso discorrere, di cui, ultimamente, non posso impossessarmi: è un
totalmente altro.265
Qui ricompare la presenza dell’arrivante, la presenza dell’imprevisto come donazione di significato,
la presenza dell’avvenimento come origine del mondo.
L’evento, nella misura in cui non è prevedibile, nella misura in cui non è precedentemente
rappresentato come possibile, è il totalmente altro, è l’assoluta diversità, è, in breve (come si è
detto), una singolarità. Ma proprio in quanto totalmente altro, in quanto diversità assoluta, in quanto
singolarità, è qualcosa di cui non mi posso appropriare, qualcosa che non posso toccare
completamente con la mia “mano bramosa”. La sorgente del significato è un punto zero, un
Nullpunkt intangibile, un totalmente altro (esattamente come il fantasma) con cui non posso
“barattare” il senso di cui mi viene fatto dono: il rapporto con l’arrivante implica dunque una
261
«Bien sûr, la puissance ou la pulsion d’archiviation peut ouvrir à l’avenir, à l’expérience de l’horizon ouvert :
anticipation de l’événement à venir et à ce qu’on pourra en garder en l’appelant d’avance. Mais du même coup, cet
accroissement, cette intensification de l’anticipation peut aussi bien annuler l’avenir. C’est le paradoxe de l’anticipation.
L’anticipation ouvre à l’avenir, mais du coup elle le neutralise, elle réduit, elle présentifie, elle transforme en mémoire,
en futur antérieur, donc en souvenir, ce qui s’annonce comme à venir demain», Ib. 118.
262
È un discorso che si ricollega a un’interpretazione che Derrida tenta di dare dell’opera di Roland Barthes:
«Quand Barthes donne une telle portée au toucher dans l’expérience photographique, c’est dans la mesure où ce dont on
est privée, justement, aussi bien dans la spectralité que dans le regard porté vers les images, le cinéma, la télévision,
c’est bien la sensibilité tactile (…) Le spectre, c’est d’abord du visible. Mais c’est du visible invisible, la visibilité d’un
corps qui n’est pas présent en chair et en os. Il se refuse à l’intuition à laquelle il se donne, il n’est pas tangible», Ib.
129.
263
L’immagine viene definita come “la luce della notte”, ovvero come la luce di ciò che non ha luce:
«C’est une visibilité de nuit. Dès qu’il y a technologie de l’image, la visibilité porte la nuit. Elle incarne dans un corps
de nuit, elle irradie une lumière de nuit. À l’instant, dans cette pièce, la nuit tombe sur nous. Même si elle ne tombait
pas, nous sommes déjà dans la nuit, dès lors que nous sommes captés par des instruments d’optique qui n’ont même pas
besoin de la lumière du jour», Ib., 129, 131.
264
Derida assimila questo fantasma, questo totalmente altro addirittura alla morte:
«Le spectre, ce n’est pas simplement quelqu’un que nous voyons venir revenir, c’est quelqu’un par qui nous nous
sentons regardés, observés, surveillés, comme par la loi (…) Le tout-autre – et le mort, c’est le tout-autre – me regarde,
et me regarde en m’adressant, sans toutefois me répondre, une prière ou une injonction, une demande infinie, qui
devient la loi pour moi (…) Le spectre (…) fait la loit là où je suis aveugle, aveugle par situation. Le spectre dispose du
droit de regard absolu, il est le droit de regard même», Ib., 135, 136.
265
La spettralità dice non solo dell’alterità, ma anche dell’antecedenza:
«Cette chose est l’autre en tant qu’il a déjà été là, avant moi, devant moi, me d’avançant, moi qui suis devant lui. Ma
loi. J’ai davantage encore sentiment du ‘réel’ quand ce qui est photographié, c’est un visage ou en regard (…) L’ ‘effet
de réel’ tient ici à l’irréductible altérité d’une autre origine du monde ; c’est une autre origine du monde. Ce que
j’appelle regard ici, le regard de l’autre, ce n’est pas simplement une autre machine à percevoir des images, c’est un
autre monde, une autre source de phénoménalité, un autre point zéro de l’apparaître», Ib. 138.
131
spettralità266: ciò da cui ha origine il mondo non è afferrabile (così come non lo è la sua eterna e
perpetua epifania) attraverso l’avvenimento. Il senso è uno sguardo senza reciprocità e la tecnica,
come possibilità di manipolazione del reale, riproduce questa strutturale, ontologica intangibilità del
reale stesso.
Per rimettere assieme le fila del discorso, l’attualità è dunque “artefattualità” e l’ “artefattualità” è
“attuvirtualità”, vale a dire negazione, attraverso il fantasma, della singolarità, dell’arrivante,
dell’evento in quanto sorgente vivificatrice, in quanto donazione di senso, in quanto ingresso
nell’universo di nuovo significato. Dell’avvenimento resta perciò un prodotto artificiale, ovvero
un’immagine, un ologramma, una mera impronta visiva, infinitamente riproducibile proprio in
quanto spogliata di ogni fisicità, di ogni concretezza, di ogni consistenza. L’attualità, in definitiva, è
fatta e il qualcosa di cui è fatta è un fantasma (una simulazione si potrebbe anche dire).
La realtà, invece, è eterna fonte sorgiva di significato, produzione continua di senso, “aletheiafania” che si compie, come espressione suprema di ricchezza infinita, nell’ “arrivo dell’arrivante”,
ovvero nella venuta all’essere dell’evento, in quanto imprevedibile, incalcolabile, totalmente altro,
in quanto cioè espressione di un’origine intangibile, intoccabile, ineffabile. La verità, incarnata nella
straordinarietà dell’avvenimento, è il sopraggiungere del qualcosa dal non qualcosa, è il
sopraggiungere del positivo dall’indefinito, è il venire all’essere dal nulla. Ecco che cos’è l’origine
del “Da-Sein”, l’origine della presenza hic et nunc delle cose: il niente, il non essere.
L’attualità è artefattualità e la verità è il nulla, vale a dire il fenomeno è artificialmente prodotto,
mentre la sostanza è il non essere.
L’epilogo di tutto questo è racchiuso nelle sconcertanti parole di Baudrillard:
«En conclusion : nous sommes devant une double tentative : celle d’un accomplissement du monde,
d’une réalité intégrale – et celle d’une continuation du Rien. Toutes les deux sont vouées à l’échec.
Mais tandis que l’échec d’une tentative d’accomplissement est forcément négative, l’éches d’une
tentative d’anéantissement est forcément vitale et positive. C’est ainsi que la pensée, qui sait qu’elle
échouera de toute façon, se doit le viser des objectifs criminels. Une entreprise qui vise des
objectives positifs ne peut se permettre d’échouer. Celle qui vise des objectifs criminels se doit
d’échouer. Telle est la pratique bien tempéré du principe du mal. Si le système échoue à être tout, il
n’en restera rien. Si la pensée échoue à n’être rien, il en restera quelque chose» (J. BAUDRILLARD :
1995, 209).
2. Dalla menzogna alla presenza, ovvero dalla simulazione alla realtà
Saremmo quasi tentati di sostenere che esiste un “filo conduttore” tra le teorie di matrice marxiana
di Debord e le teorie di stampo nichilista di Baudrillard e Derrida.
Alcune considerazioni di tipo storico sembrerebbero confermare questa tesi.
Nel capitolo precedente, avevamo stabilito un parallelo tra le vicende esistenziali del giovane
Holden e i movimenti di rivolta sessantottino e post-sessantottino: le aspettative di cambiamento
delle condizioni materiali di vita e dei rapporti di potere, alla base della società di massa, erano state
disattese e, di fronte alla sconfitta degli ideali egualitari, i fautori della contestazione avevano
maturato il cosiddetto “ritorno a casa”.
I grandi obiettivi economici, le grandi dottrine erano state riconosciute definitivamente utopiche,
perciò irrealizzabili e inattuabili. Nel prendere atto dell’impossibilità oggettiva di manipolare il
reale (come suggeriva il materialismo dialettico), è probabile che molte delle ex-“anime
rivoluzionarie” fossero approdate a visioni del mondo onto-pessimistiche e nichiliste, per certi versi
assimilabili alle idee di Baudrillard e di Derrida: dall’ingenua baldanza, derivante dall’illusione di
poter rovesciare un certo stato di cose, alla disillusione, causata dalla constatazione che la realtà non
266
«Pour renouer ce propos avec celui de la spectralité, disons alors que notre rapport à une autre origine du monde ou à
un autre regard, au regard de l’autre, implique une spectralité. Le respect pour l’altérité de l’autre dicte le respect pour le
revenant, et donc pour du non-vivant, pour ce qui est possiblement non vivant», Ib., 139.
132
è plasmabile, non è manipolabile, non è comprimibile in uno schema artificialmente prodotto.
Dall’ideologia al suo suicidio, dalla rivoluzione al caos, ovvero dall’utopia al nulla.
Se da un lato è possibile che questa sorta di “filo rosso” descriva l’evoluzione, il percorso
esistenziale di molti individui che, nelle idee del movimento sessantottino, avevano creduto
fermamente, dall’altro non ci è dato di poter affermare che il nichilismo, la teoria del nulla come
essenza, sia la conseguenza storica (quindi un accidente fenomenologico) della sconfitta pratica del
marxismo. Da un punto di vista teoretico, crediamo che una simile affermazione non sia proprio
sostenibile; in ogni caso, quand’anche lo fosse, implicherebbe una responsabilità che non abbiamo
intenzione di addossarci.
Una cosa resta però evidente: le posizioni, riassunte nel precedente paragrafo, si collocano su
diversi piani e pongono una serie di domande, le cui risposte rimandano a criteri metodologici
differenti.
Anzitutto, il dire che la realtà è illusione (dunque nulla), mentre l’apparenza è simulazione, oppure
il dire che il mondo è apparenza spettacolare, mentre la realtà è un gioco di rapporti di forza ingiusti
(ma eventualmente rovesciabili), situano il problema al livello ontologico-metafisico. Ovvero: chi
dice che la verità e l’origine di tutto coincidono con il non essere? Come può darsi il non essere? In
che misura la realtà è manipolabile?
In secondo luogo, affermare che l’origine delle cose non può essere conosciuta, che il “senso” è un
qualcosa che si dona improvvisamente e imprevedibilmente e che, per questo, è inconoscibile,
intangibile, rimanda a considerazioni di tipo gnoseologico: chi dice che la sostanza delle cose sia
inconoscibile? Chi mi dice che l’altro sia, davvero, totalmente altro? Che cosa posso allora
conoscere?
Da ultimo, si pongono degli interrogativi su un piano linguistico-semiotico: se lo spettacolo o la
simulazione producono (attraverso i mezzi di comunicazione) immagini, simulacri, fantasmi,
ovvero oggetti illusori, in quanto mostrano come presente ciò che è assente, in che misura è
possibile che il linguaggio (di qualunque tipo esso sia) menta? In che misura il segno, alla base del
codice linguistico e quindi della lingua, può essere privo di un referente concreto?
Senza dubbio, vi sono, nei testi analizzati, altri punti oscuri, altre questioni che noi, qui, non
abbiamo rilevato (per esempio di natura sociale, politologica, economica…), tuttavia, da un punto
di vista strettamente teorico, ci sembrava che fossero questi gli “Schwerpunkte” principali.
Certamente, si sarebbe potuto dare spazio all’importantissima concezione del “testo” in Derrida, ma
essa è inscindibilmente legata a dottrine di tipo psicanalitico, che non ci sembrava il caso di
discutere (per lo meno non in questo lavoro).
A ogni modo, ciò che a noi interessa è il livello linguistico della questione, ovvero l’ultimo fra i tre
punti segnalati.
Che cos’è lo spettacolo? Che cosa significa spettacolo per Guy Debord?
Si è detto che esso è un fenomeno che nasce dalla “lacerazione dell’unità”, dal fatto che una parte
della società ambisce a diventare quella dominante. A tal fine, questo lembo, questo brandello,
questa piccola scheggia del cosmo umano crea delle immagini, dei simulacri del mondo reale, che
vengono sostituiti al mondo reale stesso, per ridefinirne i rapporti di forza. Ecco dunque che cos’è
lo spettacolo: un linguaggio fatto di “fantasmi”, di “ologrammi”, vale a dire di “segni” che
rimandano a stati di cose inesistenti.
Baudrillard, fa un passo ulteriore: oggi non saremmo più nell’epoca dello spettacolo, ma in quella di
una simulazione generale, che ha avuto come esito l’uccisione della realtà. Tutto ciò che c’è è
simulacro, perché ciò che è vero non c’è. L’apparenza delle cose è, per l’appunto, una pura
apparenza, una pura immagine priva di consistenza.
I mezzi di comunicazione di massa non farebbero altro che alimentare tale apparenza, parlerebbero
cioè un linguaggio di parole vuote, un linguaggio di parole senza riferimento.
Ma quale sarebbe la caratteristica peculiare, l’elemento distintivo, la quidditas di questa
“artefattualità”?
Secondo Derrida, la cancellazione della singolarità, cioè dell’evento (concetto su cui si fondava la
concezione classica di spettacolarità), di ciò che si dà hic et nunc.
133
Quest’ultimo punto, rimanda, per certi versi, a quello che si diceva nel precedente capitolo sulla
“quotidianizzazione”, cioè a quel processo tipico della neo-televisione che ha prodotto, tra gli altri
effetti, una crescente routinizzazione, una sorta di continua “ricostruzione finzionale della
normalità” (capace di soppiantare quasi definitivamente la “festa” del media event classico): la
“extra-ordinarietà”, suggerita dal fatto che un determinato evento si verifica una volta sola e non si
ripeterà mai più, viene cancellata dalle scadenze degli appuntamenti consuetudinari. Quello che
conta, nella tv di oggi, è rappresentare la vita di tutti i giorni, l’ordinario, mostrandolo proprio come
tale.267
Ma tornando al nostro discorso, si può sostenere che esista un minimo comun denominatore, alla
base delle tre posizioni analizzate. Lo spettacolo, la simulazione e l’artefattualità non sono infatti
altro che tre modalità differenti di produrre immagini, di produrre ologrammi, di produrre
rappresentazioni fittizie, che non hanno nessun riscontro concreto.
Appare ora chiara l’enorme portata semiotica di una siffatta teoria.
La produzione e l’offerta di simulacri è un’operazione comunicativa. Ora, la comunicazione è
nient’altro che lo scambio di una certa quantità di conoscenze, di una certa quantità di contenuti.
Tali conoscenze e contenuti si concentrano in un prodotto, definibile come testo, luogo
imprescindibile dello scambio. Ma un testo presuppone a sua volta un linguaggio, vale a dire una
sorta di codice che consenta di esprimere un’idea, comprensibile da un altro individuo. A sua volta
però tale nozione di linguaggio, di codice rimanda a quella di segno, ovvero a quella di un qualcosa
che, nella frase, nell’espressione linguistica (di qualsivoglia tipo essa sia), stia al posto di
qualcos’altro, stia al posto, ad esempio, di un oggetto reale.
Dire che i media sono strumenti di simulazione, cioè che sono macchine industriali, produttrici di
simulacri, equivale a dire che si servono di segni, “stanti per” entità inesistenti. In questo
consisterebbe il loro inganno, in questo risiederebbe la loro strutturale menzogna.
Per appurare se tutto questo si verifica realmente, ci sembra utile suddividere il nostro discorso in
tre parti:
a. Una discussione del concetto di segno, per vedere se esso possa essere privato del referente
(è questo il problema del presente paragrafo).
b. Un chiarimento del concetto di testo, nella fattispecie del testo televisivo, in quanto luogo
dello scambio tra mittente e destinatario.
c. Rilevazione delle regole del “gioco comunicativo” nei testi offerti dalla tv, per appurare se e
in che misura possa darsi una simile manipolazione o un simile inganno.
Il mondo sarebbe dunque popolato di ologrammi, di fantasmi, di segni privi di referente, di segni
che stanno per qualcosa che non esiste.
Tale dottrina ci fa tornare alla memoria la definizione di semiotica, offerta da Umberto Eco, nel suo
celeberrimo Trattato di semiotica generale:
«La semiotica ha a che fare con qualsiasi cosa possa essere ASSUNTA come segno. È segno ogni
cosa che possa essere assunto come un sostituto significante di qualcosa d’altro. Questo qualcosa
267
Ci sembra importante riportare la seguente citazione di Bettetini, da un lato perché àncora il concetto di spettacolo a
quello di festa, dall’altro perché esplicita meglio quello che si è affermato qui sopra, cioè il fatto che la neo-tv uccide la
festività:
«Tradizionalmente, la nozione di spettacolo si è sempre accompagnata con quella di festa. È sempre stata l’istanza
festiva a motivare le occasioni di spettacolo; nello stesso tempo, la manifestazione spettacolare è sempre stata vissuta
come un’occasione di festa (…) La festa del cinema era già comunque lesa e incrinata dalla ripetitività e dalla
riproducibilità dei suoi testi, che facevano presagire possibili e imminenti riduzioni a uno stato di continuativa ferialità.
Queste riduzioni si sono verificate con l’avvento della televisione, che è riuscita a conservare un ruolo di festività, per
quanto già strutturalmente compromesso, fino a quando ha potuto gestire in modo univoco, privo di alternative e
pedagogicamente verticistico il suo rapporto con l’udienza. Una volta perdute queste caratteristiche, la televisione ha
preteso di assurgere a una dimensione di festiva spettacolarità anche la sua routine e la sua pratica di informazione,
sollecitando usi degenerati, consumistici delle sue immagini e travolgendo nella propria caduta verso l’appiattimento
della feria il cinema e, in buona parte, il teatro. La televisione trasforma la realtà in uno spettacolo realistico,
cancellando ogni istanza rappresentativa…», G. BETTETINI, La conversazione audiovisiva, Bompiani, Milano, 2002,
173, 174.
134
d’altro non deve necessariamente esistere, né deve sussistere di fatto nel momento in cui il segno sta
in luogo di esso. In tal senso la semiotica, in principio, è la disciplina che studia tutto ciò che può
essere usato per mentire.
Se qualcosa non può essere usato per mentire, allora non può essere usato neppure per dire la verità:
di fatto non può essere usato per dire nulla.
La definizione di “teoria della menzogna” potrebbe rappresentare un programma soddisfacente per
una semiotica generale».268
Il segno è qualcosa che sta al posto di un qualcos’altro che non esiste, o per lo meno che non esiste
qui ed ora, che non si dà in questo momento presente. Da qui nasce la possibilità di infinita
replicabilità, di infinita riproducibilità dell’artificio simbolico; l’indipendenza del segno
dall’oggetto che denota sarebbe cioè la condizione imprescindibile per la libertà dello stesso.
L’inganno, la menzogna si pongono proprio a questo livello, in quanto questa condizione di
indipendenza, di libertà, nel gioco semiotico del linguaggio, è nascosta, è celata: l’espressione viene
perciò presentata come esperienza speculare della cosa, esperienza speculare del referente.
L’elemento peculiare di tale esperienza risiede nel legame tra l’immagine, riprodotta sulla
superficie riflettente, e l’oggetto, posto davanti allo specchio. Se non vi fosse tale oggetto non ci
sarebbe neppure la sua immagine, ovvero la presenza di esso è assolutamente necessaria alla
produzione del suo ologramma. Detto altrimenti, il fatto che lo specchio riproduca una figura è
garanzia del fatto che c’è un qualcosa di concreto che la genera.
Il linguaggio (non necessariamente quello scritto o parlato) crea questa illusione, crea questo
artificio magico: esattamente come nel caso dell’esperienza speculare, dà l’impressione di essere
strettamente dipendente da una realtà oggettiva, di “stare per” un quid reale al quale, in qualche
modo, rimanda.269
La verità è invece che un segno può significare sempre qualcosa, anche se questo qualcosa non
esiste, può significare un evento anche se esso non si è mai verificato, può significare uno stato di
cose che, di fatto, non esiste (per es. l’idea di ippogrifo); un segno è, in sostanza, strutturalmente
segnato dalla possibilità di mentire.270
Se questo è vero, come si spiega allora il problema della referenza? Cioè qual è il significato di un
vocabolo? Le parole sarebbero solo un “flatus vocis”, come volevano i nominalisti medievali?
268
U. ECO, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano, 2002 (I ediz.: 1975), 17.
Ecco quanto Elisa Floriani ci dice di questa teoria:
«La caratteristica dell’immagine speculare è il suo legame con il referente. Essa è infatti determinata nella sua origine e
nella sua sussistenza fisica, da un oggetto, da un referente appunto. L’oggetto, dice Eco (U. ECO, Sugli specchi,
Bompiani, Milano, 1985, p. 20) “nomina un solo oggetto concreto, ne nomina uno per volta, e nomina sempre e solo
l’oggetto che sta di fronte”. Questo aspetto fa la sua differenza con un segno che è sempre una categoria universale che,
se anche designa, non è legato al suo referente (…) Per Eco il nostro sogno semiotico di nomi propri, legato
immediatamente a un referente, viene dal fascino che su di noi esercita l’immagine speculare. Il potere incantatorio
dello specchio è alla base della convinzione profonda che l’immagine rappresenti la realtà, ne costituisca una sorta di
doppio (…) L’immagine non è realtà, non perché sia meno reale della realtà, possiede anzi la sua specifica realtà fatta di
carta, di inchiostro, di pietra, di segnali luminosi o elettronici, di bit. Ma perché è un segno della realtà. E un segno è
una realtà che ci rimanda a un’altra realtà, anche se questa non esiste o è creata dall’immagine stessa come avviene nel
mondo fantastico o dell’immaginario a opera della moderna tecnologia, in cui l’immagine è referente a se stessa. Per
quanto possa assomigliare, un segno non è l’oggetto di cui è segno, è sempre un’altra cosa (…) In altre parole
l’immagine riproduce alcune caratteristiche dell’oggetto, attua cioè, rispetto al modo in cui lo percepiamo, un processo
di selezione di quegli aspetti che rendono il senso di un oggetto (…) Il suo scopo non è quello di creare immagini
somiglianti, ma immagini efficaci rispetto alle sue esigenze di comunicazione», E. FLORIANI, Grammatica della
comunicazione, Lupetti, Milano, 1998, 59, 60, 61.
270
Il modo in cui Eco esprime questo concetto è molto più radicale rispetto al nostro:
«(…) ogni volta che si manifesta una possibilità di mentire siamo in presenza di una funzione segnica. Funzione
segnica significa possibilità di significare (e dunque di comunicare) qualcosa a cui non corrisponde alcuno stato reale di
fatti. Una teoria dei codici deve studiare tutto ciò che può essere usato per mentire. La possibilità di mentire è il
proprium della semiosi, così come per gli scolastici la possibilità di ridere era il proprium dell’uomo come animale
razionale. Ogni volta che c’è menzogna si ha significazione. Ogni volta che c’è significazione si dà la possibilità di
usarla per mentire», U. ECO, 2002: 89.
269
135
Il significato di una proposizione, il significato di un segno non sono incatenati all’esistenza di uno
stato del mondo, vale a dire non sono inscindibilmente legati alla natura “estensionale” della
semiosi.
Il significato di una proposizione, il significato di un segno designano non un oggetto, ma un
contenuto culturale, condiviso da una certa comunità di uomini; detto in altri termini, tale
proposizione, tale segno si riferiscono a un’idea mentale dell’oggetto, non all’oggetto stesso.271
L’esistenza o meno di questo riguarda semmai il problema della verità o della falsità
dell’espressione, non quello del suo senso.
«Prendiamo il termine |sedia|. Il referente non sarà la sedia x su cui siedo mentre scrivo. Anche per i
sostenitori di una semantica referenziale il referente sarà in tal caso tutte le sedie esistenti (esistite o
che esisteranno). Ma “tutte le sedie esistenti” non è un oggetto percepibile coi sensi. È una classe,
una entità astratta. Ogni tentativo di stabilire il referente di un segno ci porta a definirlo nei termini
di una entità astratta che rappresenta una convenzione culturale» (U. ECO: 2002, 98).
Dunque, quando si parla di contenuto, secondo Eco, si fa riferimento a un’unità culturale, a un
concetto universale, a una rielaborazione di un percetto, che può essere differente fra una cultura e
l'altra.
Vari casi esemplificano quello che si sta dicendo.
Per esempio, il fatto che gli eschimesi utilizzino quattro vocaboli diversi (che implicano a loro volta
altri quattro differenti concetti) per il corrispondente italiano di “neve”.
Oppure il caso di tre lingue (italiano, francese e tedesco) che utilizzano tre modi dissimili per
riferirsi a tre tipi di fenomeni. Laddove l’italiano ha legno, bosco e foresta, il francese ha bois
(corrispondente a “legno” e “bosco” e [in tedesco] a “Holz” e a [una parte] di “Wald”), e forêt
(corrispondente alla nostra “foresta” e al “grosser Wald” tedesco), mentre il tedesco ha Holz
(corrispondente al nostro “legno” e a parte del francese “bois”) e Wald (cioè il nostro “bosco” e la
nostra “foresta”, oppure la “forêt” e la restante parte di “bois” in francese).272
O ancora il caso limite del termine inglese bachelor, che possiede ben quattro significati,
apparentemente slegati fra loro:
a. Scapolo/Celibe;
b. Cavaliere;
c. Colui che sta conseguendo il baccalaureato;
d. Maschio di foca che non si è accoppiato.273
Del resto, che cosa avviene quando si vuole spiegare un vocabolo? Si utilizza un altro segno. Se si
volesse poi spiegare anche questo, si adopererebbe, di nuovo un segno e così all’infinito. Si avvia
cioè quel processo di semiosi illimitata di cui parlava Peirce.274
271
Si veda tutto il discorso sul tema “Contenuto e referente”: Ib., 88, 97.
A onor del vero, Eco, nel suo esempio, fa riferimento anche alla parola albero e, le lingue che prende in
considerazione (rifacendosi a un discorso di Hjemslev) sono: tedesco, francese e svedese. Si veda: Ib. 109.
273
Eco si riferisce, in questo caso a un famoso modello (Katz e Fodor: J. J. KATZ – J. A. FODOR, The structure of
language, Prentice Hall, Englewood Cliff, 1964) che poi, tuttavia rielaborerà a suo modo, perché, in se stesso,
inefficace. Ci sembrava tuttavia significativo riportare il caso di questo termine, in quanto esemplifica quanto si stava
dicendo poc’anzi. Vedi: Ib. 141.
274
Ci sembra utile, a questo proposito, citare due passi in particolare. Nel primo, Eco accenna al concetto di semiosi
illimitata, facendo riferimento alla categoria di “Bedeutung” di Frege:
«Se si assume che la Bedeutung è uno stato del mondo, la cui verifica prova la validità del segno, ci si deve allora
domandare come avvenga la percezione e la verifica di quello stato del mondo e come la sua esistenza sia definita e
dimostrata quando la funzione segnica è decodificata. Si vedrà allora che, per sapere qualcosa circa la Bedeutung,
occorre indicarla attraverso un’altra espressione, e così via: come ha detto Peirce, un segno può essere spiegato solo da
un altro segno», Ib. 91.
Nel secondo passo, Eco fa espressamente riferimento alla teoria della semiosi illimitata di Peirce:
«(…) per stabilire il significato di un significante (Peirce parla però di ‘segno’) è necessario nominare il primo
significante attraverso un altro significante, che a sua volta ha un altro significante che può essere interpretato da un
altro significante e così via. Abbiamo così un processo di SEMIOSI ILLIMITATA. Per quanto paradossale la soluzione
272
136
Ma allora dov’è l’oggetto? Se il segno indica un’idea e l’idea è a sua volta un segno, dov’è la
percezione? Dov’è il percetto, inscindibilmente legato alla presenza fisica della cosa?
Il percetto c’è ed è l’origine del processo semiotico, ma è, per ciò stesso, anch’esso un’entità
semiotica. Tutto ciò che conosciamo, tutto ciò che apprendiamo passa attraverso il filtro di quelle
categorie, che ci siamo costruiti nel corso delle esperienze precedenti. La percezione non è dunque
altro che la rielaborazione, la reinterpretazione, attraverso il concorso di nozioni precedentemente
prodotte, di dati sensoriali caoticamente sconnessi. Quello che ci accade, tutto quello che ci accade,
non è mai direttamente compreso, non è mai direttamente “registrato”. Di fronte all’esperienza, di
fronte al mondo, così come si dà, siamo costretti a elaborare delle idee, senza il concorso delle
quali, non potremmo neanche conoscerlo.275 Per questo:
«… affermare che |questo è un gatto| significa “le proprietà semantiche comunemente correlate dal
codice linguistico al lessema |gatto| coincidono con le proprietà semantiche che un codice zoologico
correla a quel dato percetto assunto come artificio espressivo”. In altri termini, sia la parola |gatto|
che il percetto o oggetto ||gatto|| stanno culturalmente per lo stesso semema» (U. ECO: 2002, 220).
Dunque, quanto conosciamo, la nostra conoscenza in generale è un insieme di idee, un insieme di
nozioni; l’oggetto, la cosa in se stessa ci è inconoscibile, poiché i dati, che da lei provengono, sono
riplasmati attraverso l’attività demiurgica delle categorie. Un nome, un termine, un segno,
rappresentano il risultato di un processo astrattivo.276
Se riflettiamo un attimo su quanto abbiamo appena detto, la dottrina di Eco potrebbe essere letta, da
un certo punto di vista, in una chiave ben più drammatica di quella di Derrida o di Baudrillard: il
linguaggio è una menzogna perché non potrebbe essere altrimenti.
In Baudrillard, come si è visto, l’inganno, la disillusione, nasceva dall’insopportabilità della
coscienza del nulla come origine, dall’insopportabilità della coscienza del vero come illusione
radicale. Ora, affinché questo vero potesse generare tale sentimento di angoscia insopportabile, era
necessario che fosse conosciuto: questo non essere originale poteva, in qualche modo, in una certa
misura, venire compreso, venire percepito come tale.
In Derrida, l’artefattualità si qualificava invece come negazione della singolarità dell’evento, in
quanto espressione della fonte vivificatrice del mondo, in quanto epifania “hic et nunc” del senso, in
quanto donazione di significato. Se da un lato tale fonte vivificatrice, in sé, restava ignota,
intangibile, da un altro era però possibile “saggiarne” le manifestazioni empiriche, vale a dire
godere dell’evento, dell’ “événement”.
In Eco, al contrario, il linguaggio è per sua stessa natura illusorio. La realtà, gli oggetti, le cose non
possono essere dette in quanto esse sono, in se stesse, inconoscibili. Il livello più infimo della nostra
intenzionalità, della nostra attività gnoseologica implica già un intervento delle categorie: tutto ciò
che vediamo, tutto ciò che percepiamo passa attraverso una sorta di lente deformante che ci
impedisce di “toccare”, di “venire a contatto” con l’essenza di ciò che abbiamo di fronte.
È interessante notare come questo discorso, nato sul piano semiotico, sconfini in quello
gnoseologico.
possa sembrare, la semiosi illimitata è la sola garanzia di un sistema semiotico capace di spiegare se stesso nei propri
termini», Ib. 101.
275
Nel sostenere questa teoria, Eco si richiama direttamente a Peirce:
«C’è un breve passaggio di Peirce dove egli suggerisce un nuovo modo di considerare gli oggetti reali. Di fronte
all’esperienza, egli dice, noi elaboriamo idee per conoscerla. “Queste idee sono i primi interpretanti logici dei fenomeni
che li suggeriscono e che, in quanto li suggeriscono, sono segni di cui essi sono… interpretanti.” Questo passaggio ci
porta al problema della percezione come interpretazione di dati sensori sconnessi che sono organizzati da un processo
transattivo in base a ipotesi conoscitive basate su un’esperienza precedente», Ib. 222.
276
In questo si vede l’atteggiamento critico di Eco verso una certa tradizione filosofica. Riferendosi a Locke, egli
sostiene:
«Le idee non sono (come volevano gli scolastici) l’immagine speculare delle cose, ma sono il risultato di un processo
astrattivo (in cui, è da notare, sono ritenuti solo alcuni elementi pertinenti) che non ci dà delle cose l’essenza individuale
ma l’essenza nominale; la quale è in se stessa un riassunto, una rielaborazione della cosa significata. Il procedimento
che porta dall’esperienza delle cose a quel segno delle cose che è l’idea», Ib. 224.
137
Peirce (personaggio a cui Eco pure si richiama), tuttavia, sosteneva che la realtà segnica potesse
essere intesa in tre modi differenti:
a. Indice
b. Icona
c. Simbolo.
Nei casi a. e b., la relazione con un certo stato di cose è “de facto” inevitabile: a. è in effetti
qualcosa che “punta” l’oggetto (ed è pertanto fisicamente connesso con questo), mentre b. è una
rappresentazione di esso, governata dal principio della similitudine (è, quindi, un necessario
“rimando ad” altro, un necessario “rimando a” una matrice originale). Da ciò discende che gli indici
e le icone sono inscindibilmente legati a tale oggetto, che implicano cioè una referenzialità
necessaria.
Del resto, il Wollen, in una famosa opera sul segno cinematografico277, si era già richiamato alla
concezione di Peirce, per mostrare come vi fosse una sorta di collegamento strutturale fra segno e
ciò “per cui esso starebbe”. Se l’interpretazione del cinesemiologo americano è, in parte, vera, sono
però non del tutto vere le conclusioni a cui il suddetto studioso perviene. Non esiste infatti
un’identità assoluta (in ogni caso non nel sistema di Peirce) fra l’entità semiotica e il suo referente,
cioè non si dà la possibilità di poter sostenere, a partire dalla dottrina peirciana, un realismo
esagerato.278 Come fa notare Bettetini, l’oggetto, secondo Peirce, non era infatti la cosa nella sua
materialità, nella sua brutalità, bensì un costrutto sociale e279 le categorie erano un orizzonte
intrascendibile.280
Tornando a noi, avevamo affermato poc’anzi che realtà quali l’indice e l’icona implicano (quasi)
necessariamente, (quasi) strutturalmente la presenza, o meglio, l’esistenza di ciò per cui stanno,
l’esistenza di ciò che rappresentano (come, del resto, la loro radice etimologica indicherebbe).
Tuttavia, Eco cerca di rivedere anche questa presunta certezza, a partire dalla rilettura critica di chi,
a tale certezza, aveva dato corpo e fondamento teoretico (=Peirce).281
Costui aveva infatti sostenuto che gli indici fossero dei segni causalmente connessi al proprio
oggetto, in quanto “sintomi”, oppure “tracce” di esso. Se si prendesse per buono un siffatto assunto,
sarebbe evidente, assolutamente pacifico, il fatto che entità come i suddetti indici non possano non
implicare una costruzione semiotica di tipo referenziale.
Ma ciò che contraddistingue termini come “questo” o “quello” (=indici) è innanzitutto la
prossimità, in quanto caratteristica “spazio-psicologica” (per così dire). Il significato di tali
vocaboli, in effetti, è compreso anche in assenza di un oggetto, per l’appunto, prossimo.
«… supponiamo che qualcuno dica |non approvo una frase come questa| senza che qualcuno abbia
detto precedentemente qualcos’altro (né lo dica in seguito). Il destinatario del messaggio avverte
277
Si tratta di un testo diventato ormai già un classico:
- L. WOLLEN, Signs and meanings in the cinema, Secker and Warburg, London, 1969.
278
Bettetini rileva la fallacia delle conclusioni a cui Peirce era pervenuto: «Wollen assimilava segno e oggetto,
riducendo e cancellando così il processo semiosico che trasforma l’oggetto in segno…», G. BETTETINI: 2001, 25.
279
«(…) per il filosofo-semiotico americano l’ “oggetto” (…) non è l’oggetto bruto della realtà, ma è già un costrutto
semiotico sociale e, quindi, appartenente all’universo dell’idealità e della cultura», Ib. 18.
280
Nel fornire questa interpretazione, Bettetini si riallaccia sempre al concetto della semiosi illimitata:
«Peirce (…) nonostante un istintivo realismo tipico dello scienziato, di fatto arrivava a dissolvere la possibilità della
conoscenza del reale nella moltiplicazione della infinità delle rappresentazioni, che costituivano per lui un orizzonte
intrascendibile e rendevano quindi impossibile un vero e proprio giudizio di verità, che veniva invece sostituito dal
consenso della comunità illimitata dei ricercatori come nuovo elemento fondante il reale», Ib. 71.
281
Ed è esattamente sulla seguente teoria che si indirizza il discorso confutativo di Eco:
«Peirce aveva definito gli indici come tipi di segni causalmente connessi col loro oggetto e aveva classificato tra gli
indici i sintomi, le tracce, ecc.; ma era stato tentato almeno a due riprese di escludere gli indici gestuali e i
‘commutatori’ (shifters o embrayeurs) verbali perché essi non presentano una connessione necessaria e fisica con
l’oggetto a cui si riferiscono, non sono naturali ma artificiali e spesso sono fissati per decisione arbitraria. Peirce li
aveva chiamati “subindici” o “iposemi”. Ora anche gli stessi subindici, in quanto connessi con l’oggetto verso cui
puntano e da cui pare ricevano il loro significato, non potrebbero entrare nel quadro di una semiotica non referenziale»,
U. ECO: 2002, 164, 165.
138
che il linguaggio è stato usato ‘a sproposito’ e comincia a chiedersi a cosa mai si riferisse il mittente
(magari cercando di ricordare l’ultima conversazione avuta con lui per trovare una qualche
presupposizione attendibile). Ciò significa che il mittente aveva più o meno presupposto, attraverso
l’uso dell’indice verbale: “Io sto nominando qualcosa che non è qui e che ha preceduto il presente
enunciato”. Dunque il significato di |questo| è capito anche se la cosa o l’evento linguistico
presupposto non esiste o non ha mai avuto luogo. Una volta di più è pertanto possibile usare
espressioni anche per mentire, e quindi per veicolare un contenuto a cui non corrisponde alcun
referente verificabile. La presenza del referente non è necessaria alla comprensione di un indice
verbale» (U. ECO: 2002, 165).
Dunque, ciò che un indice denota è una prossimità, una vicinanza di un qualcosa che potrebbe
anche non esserci, che potrebbe anche non esistere, che potrebbe anche non manifestarsi affatto.
E cosa ne è invece dell’icona, di quel segno “motivato da”, “simile a”, “analogo a”, “naturalmente
legato a” ciò di cui è segno?
Anche in questo caso, il discorso di Eco è teso a recidere il legame con il referente.
In che modo può essere inteso il segno iconico? Secondo il nostro autore in quattro modi:
a. Quel segno che possiede le stesse proprietà dell’oggetto.
b. Quel segno che è simile all’oggetto.
c. Quel segno che è analogo all’oggetto.
d. Quel segno che è motivato dall’oggetto.
Procediamo per gradi:
a. Si tratta di una definizione abbastanza ambigua. Che cosa significa avere le stesse proprietà
dell’oggetto? Vuol dire averne le stesse proprietà fisiche? Se riflettiamo un attimo,
un’affermazione del genere è assurda:
«Consideriamo allora il disegno schematico di una mano: la sola proprietà che il disegno
possiede, una linea nera continua su una superficie bidimensionale, è l’unica che la mano
non possiede (…) la linea nera del disegno costituisce la semplificazione selettiva di un
processo assai più complicato. Pertanto una CONVENZIONE GRAFICA autorizza a
TRASFORMARE sulla carta gli elementi schematici di una convenzione percettiva o
concettuale che ha motivato il segno» (U. ECO: 2002, 258, 259).
Che cos’è allora il disegno di una mano su un foglio di carta? Che cosa fa una
rappresentazione fittizia di una parte del corpo che fisicamente, materialmente, non ha nulla
a che vedere con la parte reale, con la parte in carne e ossa?
Tale disegno, tale rappresentazione fittizia non è altro che uno stimolo sensoriale282,
provocato da una riproduzione altamente convenzionalizzata. L’icona, dunque, non fa altro
che produrre, che determinare, che causare la stessa sensazione percettiva che si proverebbe
se si fosse in presenza dell’oggetto concreto in questione.
Ecco dunque come si connota una siffatta entità semiotica: un’esperienza sensitiva
determinata da una costruzione sociale.
b. È questa la teoria di Peirce: un segno è iconico quando rappresenta un oggetto per via di
similarità.
Ma che cosa significa similitudine? Quando due oggetti sono simili?
Eco, si riallaccia ai principi della geometria: due figure sono simili, quando sono identiche
in tutto tranne che nel formato, vale a dire che tale cambiamento è regolato per
convenzione.283
282
Ecco dunque quanto Eco afferma:
«(…) i segni iconici non hanno le ‘stesse’ proprietà fisiche dell’oggetto, ma stimolano una struttura percettiva ‘simile’ a
quella che sarebbe stimolata dall’oggetto imitato», Ib. 258.
283
Secondo il nostro autore, la nozione di similitudine è qualcosa che ha una connotazione ben precisa:
139
Gli stessi grafi, utilizzati da Peirce per rappresentare un sillogismo del tipo: “tutti gli uomini
sono soggetti a passioni – tutti i santi sono uomini – tutti i santi sono soggetti a passioni”,
disegnati nella seguente maniera:
P
M
S
sono possibili soltanto in forza di una convenzione, la quale stabilisce che una determinata
relazione tra proposizioni può essere rappresentata mediante un certo rapporto fra insiemi.284
Di conseguenza, tutto ciò che è simile a qualcosa lo è per una sorta di patto, per una sorta di
legge “ad hoc”, socialmente stabilita.
c. Lo stesso vale per i casi di analogia.285
Sia che essa si fondi su una relazione proporzionale, sia che essa si fondi su una relazione di
diverso tipo, essa (esattamente come la similitudine) è una convenzione.
d. Questa definizione è, per certi versi, riconducibile a fenomeni come la riflessione (per
esempio quella speculare), come la replica o come lo stimolo empatico.
L’immagine riflessa su uno specchio, secondo Eco, non è assolutamente assimilabile a
un’entità segnica. Che cos’è un segno? Nient’altro che qualcosa che sta per qualcosa d’altro!
Ma ciò che appare sulla superficie dello specchio non sta per qualcosa d’altro, non fa le veci
di un oggetto, cioè non è una rappresentazione, bensì è una realtà che esiste solo e nella
misura in cui un “quid” si pone di fronte alla sorgente del fenomeno della riflessione; senza
tale “quid”, la suddetta immagine non vi sarebbe affatto, non si offrirebbe ai nostri sensi
come possibile percetto.286 Pertanto, la riflessione non è un segno.
«In ogni caso esiste la nozione di SIMILITUDINE che ha uno status scientifico più preciso che quella di ‘avere le stesse
proprietà’ o di ‘assomigliare a…’. In geometria si definisce la similitudine come la proprietà di due figure che sono
uguali in tutto salvo che nel formato. Visto che la differenza di formato non è affatto trascurabile (la differenza fra un
coccodrillo e una lucertola non è di poco conto per la vita quotidiana), decidere trascurare il formato non sembra affatto
qualcosa di naturale, e ha tutta l’aria di riposare su una convenzione culturale – in base alla quale certi elementi sono
giudicati pertinenti ed altri vengono del tutto obliterati», Ib. 260.
284
Esattamente dall’inesistenza reale di una relazione fra rapporti spaziali e proposizionali, muove l’argomentazione di
Eco per mostrare la convenzionalità dei grafi di Peirce:
«(…) i diagrammi di cui sopra esibiscono relazioni spaziali, ma queste relazioni spaziali non stanno in luogo di altre
relazioni spaziali! Essere o non essere soggetto a passioni non è materia di collocazione spaziale (…) il grafo (…)
trascrive (…) la nozione moderna di appartenenza a una classe. Ma far parte di una classe non è proprietà spaziale (…)
ed è una relazione puramente astratta. Come accade allora che nella rappresentazione grafica l’appartenenza a una
classe diventi l’appartenenza a uno spazio? Accade per forza di una CONVENZIONE (…) che stabilisce che certe
relazioni astratte siano ESPRESSE da certe relazioni spaziali», Ib. 263.
285
In tal caso, abbiamo ridotto ai minimi termini il discorso che il nostro autore racchiude in un intero paragrafo. Si
veda: Ib. 265, 266.
286
L’immagine speculare non potrebbe neanche essere definita immagine:
«(…) una riflessione speculare non può essere assunta come segno (se ci si attiene alla nostra definizione di funzione
segnica). Non solo l’immagine dello specchio non può essere detta ‘immagine’ (dato che non è altro che immagine
virtuale e non consiste di una espressione materiale) ma anche se si ammettesse l’esistenza materiale dell’immagine
bisognerebbe riconoscere che essa non sta per qualcosa d’altro ma sta DI FRONTE a qualcosa d’altro. Essa non esiste
invece di ma a causa della presenza di qualcosa: quando questo qualcosa scompare, ecco che scompare la pseudo
immagine nello specchio», Ib. 266.
140
Per quanto riguarda il fenomeno della replica, Eco distingue le repliche governate da ratio
facilis, da quelle governate da ratio difficilis.287
Il primo caso (ratio facilis), allo stesso modo della riflessione, non può essere considerato
fenomeno iconico a pieno titolo per due ordini di motivi:
- da un lato perché il tipo espressivo, che presiede al fenomeno di replica, impone
anche il continuum materiale288 da utilizzare, cosa che non avviene nella produzione
iconica in cui, per esempio (come dice lo stesso Eco) un triangolo disegnato su un
foglio di carta può essere ritenuto simile a un triangolo inciso su un pezzo di rame,289
- da un altro lato perché il rapporto “tipo-occorrenza” non è un teorema da dimostrare
(come nel caso dei segni veri e propri), bensì quasi un postulato offerto una volta per
sempre.290
Profondamente diverso è invece il secondo caso (ratio difficilis), che è assimilabile alle
entità semiotiche propriamente dette.
Anche il cosiddetto fenomeno della stimolazione non rientrerebbe nella categoria dei segnali
iconici (ma neppure in quella di “segno” in generale). Esso consiste infatti nella produzione
di impulsi, che hanno l’effetto di generare, nel destinatario dell’atto comunicativo, una
“sensazione di somiglianza” tra un certo segnale e una data emozione.
Pertanto, un caso come questo, in se stesso (vale a dire nella sua fenomenologia causale),
non è propriamente materia semiotica (proprio in quanto consiste nell’ «indurre un
determinato sentimento di somiglianza tra segnale ed emozione» [U. ECO: 2002, 269]), ma
di altre discipline scientifiche (come per esempio la fisiologia), che dispongono di quegli
strumenti metodologici, capaci di stabilire quali siano gli eventuali meccanismi (organici o
psichici) e l’origine di una determinata “emozione stimolata”. Come sostiene il nostro
autore:
«(…) considereremo questi fenomeni di empatia come casi di STIMOLAZIONE che devono
essere studiati dalla fisiologia del sistema nervoso: ma in un quadro semiotico non sembra
287
Cerchiamo di comprendere proprio a partire dalle parole di Eco di cosa si tratta. Anzitutto che cos’è una replica?
«Ogni replica è un’occorrenza che si accorda al proprio tipo. Essa è dunque governata da un rapporto tra tipo e
occorrenza o, secondo la formula anglosassone, una type|token-ratio. Questo rapporto (ratio, l’espressione anglosassone
coincide con quella latina) può essere di due generi: chiamiamoli RATIO FACILIS e RATIO DIFFICILIS», Ib. 246.
Ma che tipo di processo stanno a indicare?
«Si ha ratio facilis quando un’occorrenza espressiva si accorda al proprio tipo espressivo, quale è stato istituzionalizzato
da un sistema dell’espressione e – come tale – previsto dal codice. Si ha ratio difficilis quando un’occorrenza espressiva
è direttamente accordata al proprio contenuto, sia perché non esiste tipo espressivo preformato, sia perché il tipo
espressivo è già identico al contenuto. In altre parole si ha ratio difficilis quando il tipo espressivo coincide con il
semema veicolato dall’occorrenza espressiva», Ib. 246.
288
Ci sembra necessario chiarire il concetto di continuum materiale.
Eco (2002: 76/81), nello spiegare la funzione segnica, si riallaccia a un discorso di Hjemslev, per il quale tale funzione
sarebbe caratterizzata da 2 elementi sostanziali: contenuto ed espressione. Questi presentano, a loro volta, al proprio
interno, altri tre aspetti: materia, sostanza e forma
Un segno risulterebbe dunque composto nel modo seguente:
Ciò che Hjemslev chiama “materia” è definito da Eco “continuum materiale”, vale a dire ciò di cui il segno e il suo
contenuto sono fatti.
289
Si veda: Ib. 268.
290
Si veda: Ib. 268, 269.
141
molto fruttuoso voler stabilire se essi si basino o meno su strutture universali della mente
umana o non siano piuttosto soggetti a variabili biologiche e addirittura non culturali» (U.
ECO, 2002: 269).
Tuttavia, si danno dei casi in cui una disciplina dello studio dei segni sia interessata a
fenomeni di questo genere.
«(…) la semiotica può avere presa su questi fenomeni almeno in due casi:
(i)
quando il preciso effetto usualmente stimolato da una data forma è
CULTURALMENTE REGISTRATO, così che la forma stimolante per il suo
eventuale produttore, funziona come il SEGNO CONVENZIONALE DEL
PROPRIO POSSIBILE EFFETTO, quando non funzioni come segno anche per un
destinatario ormai abituato a riconoscere un legame tra quella e un dato risultato
emotivo;
(ii)
quando un dato effetto è chiaramente dovuto a una ASSOCIAZIONE
CULTURALIZZATA e un dato segnale non suggerisce, diciamo, un sentimento di
‘grazia’ a causa di strutture universali della mente, ma a causa di una relazione
ampiamente codificata tra quel segnale e quel sentimento
(…)
In entrambi i casi si deve comunque parlare di STIMOLAZIONE PROGRAMMATA» (U.
ECO: 2002, 269, 270).
Dunque, anche le icone (considerate dalla tradizione peirciana simili, somiglianti all’oggetto
che rappresentano) sono un fenomeno di “semiosi convenzionalizzata”, che non implica
necessariamente la presenza della cosa.
La cosa, l’oggetto, la realtà simbolizzata non è conoscibile, non è tangibile, non è percepibile in se
stessa; per fortuna però, il soggetto dell’atto di conoscenza, il protagonista della dinamica
gnoseologica è da tale cosa, da tale oggetto, da tale realtà assolutamente indipendente,
assolutamente non necessitato. Le sue categorie, il processo di costruzione e di elaborazione dei
segni, di elaborazione e costruzione delle entità rappresentanti funziona indipendentemente dalla
presenza o dall’assenza degli esseri concreti a cui gli apparati simbolici si riferirebbero.
Una teoria dell’oggetto molto simile a quella di Eco la ritroviamo in Greimas,291 in particolare, in
quell’ampio passo del celeberrimo Du sens II, nel quale lo studioso lituano tenta di stabilire quali
sono le strutture narrative alla base di un testo, osservando il comportamento dei soggetti coinvolti
nel racconto.
Che cosa spinge un certo personaggio ad agire?
Nient’altro che un oggetto, un qualcosa che egli ambisce a possedere. In questo senso (in quanto
cioè termine ultimo del desiderio), tale oggetto si configura come la realizzazione fisica, la
concretizzazione pratica di un valore.
Ma allora, di che cosa è costituito, di che cosa deve essere fatto, quali caratteristiche deve avere tale
oggetto, per essere paradigmatico di un siffatto valore?
Rispondere a questa domanda è impossibile, perché l’oggetto, in se stesso, è inconoscibile,
intangibile:
«(…) lorsque, nous interrogeant sur les conditions de l’apparition de la signification, nous avons été
amené à postuler :
a. que tout objet n’est connaissable que par ses déterminations et non en soi ;
b. que ses déterminations ne pouvaient être appréhendées que comme des différences se
profilant sur l’objet, ce caractère différentiel leur conférant le statut de valeur linguistique ;
291
Ci riferiamo a una testo molto noto:
A. J. GREIMAS, Du sens II, Éditions du Seuil, Paris, 1983.
142
c. que l’objet, tout en restant inconnaissable en tant que tel, était néanmoins présupposé,
comme une sorte de support, par l’existence des valeur», (A. J. GREIMAS : 1983, 22).
Dunque l’oggetto verso cui un personaggio tende, l’oggetto in quanto valore, l’oggetto in quanto
perno della narrazione è, in se stesso, indicibile, intoccabile e definibile solo negativamente. Ci
troviamo di fronte a un paradosso: come si può tendere verso qualcosa che non si conosce? Come
qualcosa di ineffabile può costituire il movente dell’azione?
Greimas afferma però esattamente questo:
«Jusq’à présent, nous n’avons utilisé le terme de valeur que dans son acception linguistique comme
un terme arbitrairement dénnomé recouvrant une structure sémantique indicible et qui ne peut être
définie que négativement, comme un champ d’exclusion par rapport à ce qu’il n’est pas et fixé
toutefois en un lieu syntaxique nommé objet. Toutefois, une telle définition de la valeur qui la rend
opérationnelle en sémiotique n’est pas très éloignée de son interprétation axiologique, ne serait-ce
que parce que, fixée en ce lieu-dit dénommé objet et présente pour le manifester, la valeur se trouve
en relation avec le sujet» (A. J. GREIMAS : 1983, 23).
Se il discorso di Eco fosse vero, se il linguaggio in generale fosse davvero una menzogna, se il
segno rimandasse davvero a qualcosa che non esiste, o meglio, se rimandasse infinitamente a
qualcosa che non è possibile percepire, il mondo sarebbe la realtà di Matrix, ovvero una pura opera
di disillusione.
Se le entità semiotiche fossero assolutamente prive di referenza, se l’immagine televisiva (in quanto
segno) fosse, come tutte le altre entità simboliche, una pura costruzione finalizzata all’inganno,
allora le visioni catastrofiche di Debord, Derrida e Baudrillard rispetto alla comunicazione di massa
sarebbero quanto mai realistiche.
È evidente la grande distanza che separa queste teorie, dalla concezione di un “grande” come Pier
Paolo Pasolini, il quale sosteneva che il cinema non farebbe uso di alcun filtro simbolico, ma
ipostatizzarebbe (semplicemente) su una pellicola in celluloide la “segnicità” del reale. In questo
senso, egli riteneva che fosse molto più gravida di risultati una semiotica del reale che non una
semiotica del film.292
Dopo questa breve citazione, per così dire, positiva, ci sembra giunto il momento di invertire la
“rotta” della nostra navigazione. Fatte a pezzi tutte le certezze legate all’espressione linguistica, ci
pare necessario iniziare a ricostruire qualcosa, iniziare a ricucire un legame con un possibile
referente; crediamo insomma che sia necessario uscire dalle “tenebre” della “pars destruens” per
cercare la luce di una eventuale “pars costruens”.
Procediamo dunque per gradi.
Alcune parti del discorso di Eco ci sembrano condivisibili; ci sembra vero, per esempio, che il
segno sia un’entità significante, in quanto socialmente riconosciuta come tale, e che esso sia il
corrispondente di un’idea mentale, derivata dall’esperienza sensibile; ci pare assurdo però che:
a. il segno sia un’entità priva di referenza;
b. il segno menta;
c. (che, per ciò stesso) tutto il linguaggio sia una menzogna.
Facciamo un esempio molto banale, prima di affrontare il problema da un punto di vista
strettamente scientifico. Se io dicessi, in questo preciso istante: “ho una voglia matta di pappardelle
ai porcini con pioggia di tartufo bianco!!!”, sono evidenti almeno tre cose [tutte concrete]:
a. Che io ho avuto esperienza delle “pappardelle ai porcini con pioggia di tartufo bianco”.
292
Ci richiamiamo, in particolare, a quanto affermano Stam, Burgoyne e Flitterman-Lewis (1999: 48):
«In “Il cinema di poesia” (in: P.P. PASOLINI, Empirismo eretico, 1972) il teorico e regista Pier Paolo Pasolini suggerisce
che il cinema è un sistema di segni la cui semiologia corrisponde a una possibile semiologia del sistema dei segni della
realtà stessa. In altri termini, il cinema comunica perché ripropone i segni già presenti, nel mondo che ci circonda.
Contrariamente alla letteratura, il cinema non possiede alcun filtro simbolico o convenzionale tra il regista e la
“realtà”».
143
b. Che quelle “pappardelle ai porcini con pioggia di tartufo bianco” erano così buone che l’idea
di “pappardelle ai porcini con tartufo bianco” che ho nella mente corrisponde proprio alla
realtà esperita.
c. Che adesso, mentre sto desiderando “le pappardelle ai porcini con tartufo bianco”, ho voglia
proprio di quelle che ho avuto modo di assaporare quella volta lì.
Dov’è la menzogna?
Io ho avuto esperienza delle “pappardelle ai porcini con tartufo bianco”, tant’è che mi sono piaciute
e ora voglio proprio quelle. Più che di inganno si tratterebbe di “imbroglio”, o meglio di “sfortuna”
(come si direbbe in perfetto italiano): cioè, purtroppo, le pappardelle, qui e ora, non ci sono. È
evidente che, nel mio enunciato, la succulenta pietanza di origine piemontese sta per qualcosa di
concreto, per qualcosa di esperito.
Si potrebbero fare degli esempi anche più stimolanti, dal punto di vista dei sensi, ma il caso
riportato ci sembrava già abbastanza ardito, per uno studio di tipo scientifico.
Se un individuo, che ha vissuto tutta la vita in una cucina di un Mc Donald’s (che non ha dunque
[poverino!] esperienza né delle pappardelle, né dei porcini e né tanto meno del tartufo bianco),
sentisse la nostra frase, si domanderebbe: “che cosa sono queste pappardelle ai funghi porcini con
pioggia di tartufo bianco?”
L’unico modo che avrebbe per formarsi un’idea chiara e distinta di questa realtà, sarebbe quella di
mangiare la suddetta pietanza (capirebbe, per altro, che mangiare è anche un piacere; ma questo è
un altro problema). Anche se vedesse una foto, si costruirebbe un’immagine mentale che non
corrisponde esattamente a quella a cui pensiamo noi, nel momento in cui enunciamo la frase.
Il nostro esempio, lo ripetiamo, pur essendo poco scientifico, ma della scarsa scientificità del quale
ci assumiamo tutta la responsabilità, mostra due evidenze:
a. da un lato quella per cui è possibile riferirsi a qualcosa pure in sua assenza (per esempio in
assenza [che peccato!] delle pappardelle), esattamente come sosteneva Eco;
b. dall’altro però che tale riferimento c’è; detto in altri termini, che l’idea a cui pensiamo
rimanda direttamente a qualcosa di esperito.
Facciamo ora un passo ulteriore.
Quando si afferma che il linguaggio è una menzogna o che il segno non ha nessun referente, si fa
appello, in modo indiretto, esattamente al concetto di verità, poiché la nozione di inganno implica di
per se stessa il fatto che qualcosa di falso si oppone a qualcosa di vero. Di conseguenza, dire che il
codice mente, equivale a dire che esso dichiara il falso.
Ora, la misura del vero e del falso è data dall’estensionalità di un’idea, dall’estensionalità di un
termine o di una proposizione, e tale concetto di estensionalità dice proprio della presenza o
dell’assenza, o meglio, dell’esistenza o dell’inesistenza di un oggetto: quella nozione (=
estensionalità) che il nostro autore, in una certa misura, intendeva lasciare da parte diventa
strettamente necessaria, per giudicare delle condizioni di verità o di falsità.293
293
È quella che Eco chiama fallacia estensionale:
«La fallacia estensionale consiste nell’assumere che il significato di un significante abbia a che fare coll’oggetto
corrispondente (…) Poiché una teoria dei codici non riconosce l’estensione come una delle sue categorie, essa può
considerare le proposizioni eterne senza considerare il loro valore estensionale. Se non rinuncia a considerare questo
fattore, ecco che la teoria dei codici cade in una FALLACIA ESTENSIONALE. La teoria dei codici riguarda la
definizione del contenuto come funtivo di una funzione segnica e come unità di un sistema semantico: pertanto il fatto
di assumere (come fa correttamente una teoria dei valori di verità) che pÆ q è Vero se e solo se (i) p e q sono entrambi
Veri, (ii) p è Falso e q è Vero, (iii) sia p che q sono Falsi, - tutto ciò non aiuta affatto a capire la nozione di significato
come contenuto (…) Spiegare il peso semiotico di una menzogna significa capire perché e come una menzogna (un
asserto falso) sia semioticamente rilevante indipendentemente dalla Verità o Falsità dell’asserto stesso (…) Chiunque
riceva il messaggio |il tuo gatto sta annegando nella pentola del minestrone| senz’altro si preoccupa di verificare se
l’enunciato corrisponde a verità, sia per salvare il suo gatto sia per salvare la commestibilità del suo minestrone, anche
se un semiologo così interessato ai codici da mostrarsi sospettoso di ogni richiamo estensionale. Ma il fatto è che tali
faccende non riguardano la teoria dei codici, la quale studia solo le condizioni culturali in base alle quali il messaggio
sul gatto è comprensibile anche a chi non abbia gatti e non stia cuocendo minestrone. Infatti, posto che il destinatario
abbia un gatto e una pentola di minestrone, la sua reazione pragmatica all’enunciato (corsa rapida in cucina, grida
strozzate, espressioni di |micio, micio!| è indipendente dalla verità o falsità dell’enunciato…», U. ECO: 2002, 93, 94, 96.
144
Quindi, l’affermazione “il linguaggio è una menzogna” rimanda a delle considerazioni di tipo
estensionale, anzi è essa stessa verificabile estensionalmente.
Il concetto di verità è però complesso, coinvolge diversi piani e può essere inteso in diversi modi294.
Esitono infatti:
a. una verità ontologica (ovvero la verità delle cose);
b. una verità logico-rappresentativa (cioè la verità del concetto);
c. una verità logico-linguistica (cioè la verità del giudizio).
Quando si parla di verità del linguaggio o del discorso (non necessariamente quello della lingua
parlata, ma anche quello televisivo o cinematografico), si fa riferimento alla terza accezione (= c.).
Affermare qualcosa, dire per esempio: “le cose stanno in questo modo” (oppure presentare in tv una
certa realtà, mediante delle immagini) equivale a emettere un giudizio.295
Ma che cos’è un giudizio?
È quella convenienza di un predicato a un soggetto, che indica un assenso o un dissenso a uno stato
di cose.
Da questo punto di vista, come afferma Bettetini:
«La possibilità di ammettere la verità o la falsità di un’affermazione presuppone (…) da una parte
l’accettazione del criterio dell’evidenza come riferimento ultimo e non ulteriormente fondato, ma
dall’altra anche l’accettazione della particolare condizione segnica dei concetti…» (G. BETTETINI,
L’audiovisivo, Bompiani, Milano 2001, 72 [I ediz.: 1996]).
Si vede ora il lato marcatamente realista della nostra posizione: il principio di veridizione è
l’evidenza, cioè affermare o negare qualcosa significa riconoscere o misconoscere ciò che è
evidente.296
Ma staccando il concetto di verità da quello di estensionalità, si riapre la questione epocale, il grandissimo dubbio
relativo alla presunta “calvizie” di un fantomatico re di Francia: “il re di Francia è calvo” è una proposizione vera o
falsa?
294
Il nostro discorso è fondato su una nozione di verità che rimanda a una concezione aristotelico-scolastica della
stessa.
295
Per un eventuale approfondimento del concetto di verità, della definizione di giudizio e della teoria della conoscenza
in generale, rimandiamo alla lettura del seguente testo in tre volumi:
- S. VANNI ROVIGHI, Elementi di filosofia, La Scuola, Brescia, 1996.
Consigliamo, in particolare, la lettura dei tomi relativi alla metafisica e alla gnoseologia (I e II), nei quali, fra le altre
cose, vengono offerte le ragioni pratiche e teoretiche dell’abbraccio di una posizione di tipo moderatamente realista.
In particolare, nell’opera citata, si danno due definizioni di “verità”; la prima:
«Dobbiamo distinguere due tipi di verità: verità di fatto e verità necessarie, vérités de fait e vérités de raison, come le
chiamava Leibniz, matters of fact e relations of ideas, come le chiama Hume. Le prime sono quelle che affermano
l’esistenza di qualche cosa, p. es., “io esisto”, “esiste un albero”, o determinano la natura di una cosa esistente di fatto,
come la proposizione “quest’albero è verde”; le seconde sono quelle che affermano un rapporto fra concetti, fra essenze,
senza dire se questo rapporto sia poi attuato in realtà o no, ad es. “il triangolo ha gli angoli interni uguali a due retti”,
“l’uomo è animale ragionevole”, ecc. (…) Ora, come ci sono verità di fatto immediatamente evidenti, ad esempio
l’affermazione che esiste questo mio atto di volontà, così ci sono anche verità necessarie immediatamente evidenti, ad
esempio il principio di identità “ogni cosa è se stessa” e il principio di non contraddizione: idem non potest simul esse et
non esse. Tale principio infatti non afferma l’esistenza di nulla, ma dice che, dato qualche cosa, questo qualche cosa
deve essere se stesso, cioè determinato, e incontraddittorio», Ib. 160.
La seconda definizione, invece, è esattamente quella a cui, qui, ci siamo richiamati:
«Approfondiamo ora la nozione di verità. Noi studiamo qui la verità logica o verità della conoscenza. Si parla anche di
una verità ontologica o verità delle cose. Il carattere comune all’una e all’altra verità è di essere un rapporto fra
l’intelletto e la realtà: nella verità logica l’intelletto è, per così dire, misurato dalle cose, nella verità ontologica la cosa è
misurata dall’intelletto. O, in altre parole, la verità logica è il rapporto fra un intelletto e una cosa che l’intelletto trova,
scopre; la verità ontologica è il rapporto fra una cosa e l’intelletto che presiede alla creazione della cosa stessa (rapporto
che c’è, per es., fra un’opera d’arte e l’intelletto dell’artista)», Ib. 161.
296
È esattamente questo il fulcro di una dottrina realistica della conoscenza:
«Che cosa vuol dire: queste proposizioni sono vere? Vuol dire: le cose stanno così come io dico, o io esprimo come
stanno le cose. La verità è dunque l’adeguazione della conoscenza alla realtà, adaequatio intellectus ad rem. E perché
diciamo: le cose stanno così? Perché siamo sicuri che le cose stanno così? La risposta non può essere che una: perché
vediamo che stanno così. Questo carattere per cui la cosa si manifesta è l’evidenza intrinseca (…) non ci può essere altro
145
È questo, secondo la tradizione aristotelico-scolastica, il principio primo, la sorgente prima delle
nostre conoscenze e di tutta la filosofia.
Ma qual è la prima di tutte le evidenze? Qual è l’origine, il cominciamento della nostra attività
speculativa?
Aliquid est, il fatto che c’è qualcosa, il fatto che c’è un quid che scopro non essere “io”, essere
diverso da me. 297
Supponiamo di nascere in questo preciso momento e di uscire, sempre in questo preciso momento,
dalla pancia di nostra madre; da che cosa saremmo anzitutto colpiti? Dal fatto che esiste un mondo,
dal fatto che esistono degli oggetti e delle persone (che non abbiamo mai visto prima). Non è forse
per questa ragione che il nascituro, nell’istante del parto, piange ininterrottamente?
È questo il primo livello della nostra conoscenza: lo stupore per l’essere, in quanto stupore per la
presenza del mondo.
Solo a partire da questa cognizione primordiale, attraverso l’astrazione, è possibile costruire,
accrescere il nostro sapere; ma tale costruzione, tale accrescimento è comunque sempre segnato
dall’utilizzo dello stesso criterio, cioè l’evidenza. Esisteranno, in questo senso, delle evidenze
immediate (corrispondenti all’assenso verso un certo stato del mondo) e delle evidenze mediate
(ottenute mediante il ragionamento).
In ogni caso, tutto il nostro processo conoscitivo (pertanto il concetto di verità) si configura come
adaequatio intellectus ad rem.
La prima evidenza è l’essere e l’essere è condizione del pensiero: “sum ergo cogito”, non “cogito
ergo sum”. Se non avessi una certa esperienza (anche indiretta) di qualcosa, non avrei nessuna idea
della stessa e non potrei comprenderne esattamente il significato.298
Detto questo, si può essere pienamente d’accordo con quanto afferma Bettetini:
«La dimensione con cui abbiamo a che fare quando si parla di verità di un discorso o di una
rappresentazione audiovisiva è (…) la (…) – verità del giudizio – benché in qualche modo siano
coinvolte le altre. E in effetti nel giudizio che propriamente si afferma (o si nega) qualcosa e quindi
solo in esso si può dare propriamente il vero o il falso, vale a dire quanto dai medievali veniva
chiamato l’adaequatio, nozione i cui termini sono stati a lungo fraintesi nella filosofia moderna e
contemporanea», (G. BETTETINI, L’audiovisivo, Bompiani, Milano, 2001, 72).
Poste queste premesse, possiamo intendere davvero il “segno”, la realtà di quel qualcosa che “sta
per qualcosa d’altro”, come una via ad res, cioè come un’adaequatio ad rem, che non si sostituisce
alla res stessa, ma vi rimanda in modo immediato, senza dualismi, poiché da essa deriva, da essa
criterio primo e fondamentale di verità e (…) sull’evidenza deve fondarsi chiunque pretenda di esprimere
un’affermazione che abbia valore (…) La verità e l’evidenza sono dunque realtà che non si possono negare senza con
ciò stesso presupporle e affermarle. Naturalmente, quando diciamo che la verità è un adeguarsi alle cose, quel “cose” va
inteso in un senso molto ampio: la cosa a cui mi adeguo può anche essere un ente ideale…», S.V. ROVIGHI: 1996, 160,
161.
297
«… l’affermazione implicita in ogni altra, il presupposto di ogni ricerca è questo: c’è qualcosa, aliquid est. Questa
affermazione è al di qua di ogni sistema filosofico, al di qua non solo di materialismo e spiritualismo – poiché spirito e
materia sono qualche cosa, ente – ma anche al di qua di idealismo o realismo, come osserva N. Hartmann, perché anche
il pensiero, se se ne può parlare, è qualcosa, è essere», Ib. (vol. II) 7, 8.
298
È esattamente questo che sottolinea la Vanni Rovighi, sebbene utilizzi delle argomentazioni un po’ meno esistenziali
delle nostre:
«Dunque il primo concetto dell’intelletto nostro è il concetto più universale: quello di essere. Illud quod primo
intellectus concipit quasi notissimum… est ens (…) Delle cose sensibili, prima di tutto, l’uomo si domanda che cosa
sono; di queste, prima di tutto, coglie la quidditas o essenza, e la prima nozione con la quale esprime tale quidditas è la
nozione di ente. Potremmo dunque dire che l’oggetto primo dell’intelletto umano in questa vita è la quiddità delle cose
materiali concepita come ente (…) Il concetto di ente, sebbene sia ricavato dalle cose materiali, non è affatto il concetto
di ente materiale: è un concetto del quale, da principio, si conoscono attuazioni materiali, ma che prescinde dalla
materia e che si riconosce poi applicabile anche a realtà spirituali, quando si sia dimostrata l’esistenza di tali realtà», Ib.
155, 156.
146
discende.299 Ciò non vuol dire che tale segno riproduca perfettamente l’oggetto a cui si riferisce,
cioè che ne rappresenti una copia perfetta, bensì che del suddetto oggetto tratteggia una selezione
delle caratteristiche principali. Questo inserisce le entità semiotiche (di tipo rappresentativo) sul
piano retorico della verosimiglianza, dell’opinione, della δόξα300: esse sono cioè non vere, ma
verosimili.
Da ciò discende che un determinato segno è solo una delle tante riproduzioni possibili di una certa
realtà.
Detto in altri termini, di fronte a un certo stato di cose, il soggetto del fare semiotico effettua una
selezione dei particolari costitutivi di tale stato, operando successivamente una raffigurazione
(verosimile) di essi: la semiosi è pertanto simulazione, in quanto significazione, cioè (come la sua
etimologia sta a indicare) è “signum facere”, ovvero produzione di un significante che rinvii a un
possibile significato.
Come nota Bettetini301, quando si parla di televisione, di cinema o di audiovisivo in generale, si fa
riferimento a un linguaggio propriamente “iconico”, che si serve cioè di icone, le quali non sono
altro (proprio come aveva sostenuto Eco) che degli stimoli, tendenti a riprodurre le stesse sensazioni
generate dalla presenza della cosa (rappresentata). In questo senso, possiamo definire le icone delle
entità simulanti.
Ma simulare significa rappresentare, per cui, in una certa misura, anche mentire; per verificare in
che modo si dia questa seconda possibilità, è necessario chiarire alcune questioni.
Simulazione è significazione e significazione è, come si è detto, “signum facere”, ovvero
produzione di simulacri.302 Questi ultimi, per certi versi, possono essere paragonati alle sculture,
che sono artefatti realizzati a partire da un progetto, da un’idea, da un archetipo che l’artista si
foggia nella mente. Ma questo progetto, questa idea, questo archetipo è sempre un’interpretazione
di una certa realtà esistente, cioè una sorta di spiegazione di un determinato stato di cose.
Esattamente come nel caso della scultura, il simulacro è sorretto da un modello303, da una precisa
nozione, che si qualifica come lettura possibile di una situazione concreta, di un siffatto modo di
essere “hic et nunc” del mondo. Ma proprio in quanto lettura “possibile” (come lo si è definito
299
Bettetini mostra la contraddizione di una teoria contraria a questa, mediante l’argomento aristotelico
dell’impossibilità del regresso all’infinito:
«L’unico modo per rendere ragione della nostra conoscenza è infatti l’ammettere che il concetto sia quel tipo di segno
che la tarda scolastica definiva segno “formale”, vale a dire un segno totalmente trasparente, una via ad res che non si
sostituisce alla realtà, ma vi rimanda in modo immediato, senza dualismi rappresentativi che dissolvano l’identità
intenzionale fra concetto e realtà rappresentata; se questo non viene accettato, necessariamente si arriva a un terzo
termine che operi una mediazione e sia garante della adeguatezza del rapporto: questo terzo termine avrebbe allora a sua
volta bisogno di una mediazione e si aprirebbe un regresso ad infinitum che non solo è contraddittorio in sé, ma neanche
rende ragione di tutti i fenomeni conoscitivi che tutti riconosciamo come dati e non discutibili», G. BETTETINI,
L’audiovisivo, Bompiani, Milano, 2001, 72 [I Ediz.: 1996].
In questo modo, viene dimostrata anche la contraddittorietà del concetto peirciano di “semiosi illimitata”.
300
«In ogni caso (…) si può comprendere come la nozione di realismo non sia traducibile (…) con una restituzione
integrale e pienamente comprendente della realtà, ma con la costruzione di una rappresentazione verosimile: attraverso,
cioè, una “somiglianza” con il reale che dipende anche dalle opinioni, dalle credenze e dalle stesse abitudini discorsive
della società che la produce; si parla al proposito di “doxa”…», Ib. 73.
301
Ib. 69/82.
302
È esattamente questa la spiegazione che offre Bettetini:
«Significare è, infatti, lo ripetiamo, “signum facere”, è produrre un significante materiale che possa rinviare, nel caso
appunto della simulazione, a un progetto o a un modello o a un’icona capace di sollecitare, come già si è detto, impatti
percettivi analoghi a quelli prodotti dalle forme referenziali – nel caso in cui esistano – o comunque credibili e
utilizzabili in virtù della loro verosimiglianza e della loro adeguatezza all’istanza che ha dato origine alla specifica
produzione di senso», Ib. 74.
303
È possibile sostenere che questo aspetto simulativo (in quanto interpretativo) del segno iconico sia una dimensione
che eccede la visualità:
«La rappresentazione iconica finalizzata all’azione dell’occhio (così come, d’altra parte, anche quella che si subordina
all’orecchio) non è mai ingenua, né piattamente speculare, né referenzialmente corrispondente: è sempre sostenuta da
un’idea, che spesso eccede la dimensione dell’iconico e del visivo e si estende a tutto il rapporto conoscitivo dell’uomo
con l’universo. E questo si verifica tanto nei casi di immagini statiche, quanto, soprattutto, in quelli di immagini in
movimento», Ib. 74.
147
poc’anzi), tale simulacro deve essere sottoposto a una verifica304, a una verifica che è sempre di tipo
estensionale. Se il referente, il significato della rappresentazione non esiste, tale rappresentazione
continua certamente a sussistere, ma si configura come falsa, mendace, menzognera.
Dunque:
«Da un punto di vista semiotico si ha simulazione quando il piano dei significanti si subordina a
un’ipotesi interpretativa nei confronti di una certa realtà o di un certo progetto di significato, quando
fa esprimere a questa ipotesi un modello rappresentativo e quando, infine, deduce da questo
modello una performance semiosica destinata, ovviamente, alla verifica dell’uso. Tutto questo si
manifesta in qualunque semiosi, iconica o meno, nel senso che ogni costrutto segnico è anche il
frutto di un’ipotesi teorica che produce un modello cognitivo e che può sottoporsi al vaglio della
verifica segnica. Con il termine “simulazione” possiamo ricoprire, quindi, un aspetto del fenomeno
semiotico e, più in particolare, un aspetto della “rappresentazione”: quello che implica la
teorizzazione, l’ipotesi e la subordinazione a verifica; elementi presenti in tutte la manifestazioni
segniche e rappresentative e, ovviamente, in tutte le performance discorsive, ma che nell’ottica
simulativa acquistano una focalizzazione e un senso particolari» (G. BETTETINI, L’audiovisivo,
Bompiani, Milano, 2001, 75,76).
Da quanto abbiamo detto tre cose sono evidenti:
a. che l’utilizzo dei segni non è mai neutro o ingenuo;305
b. che all’origine del segno vi è sempre uno stato di cose reale, nella misura in cui è
rappresentato (e questo dice a sua volta della rilevanza dell’aspetto estensionale per la realtà
segnica);
c. che, contrariamente a quello che sosteneva Baudrillard, la simulazione è anzitutto una forma
di rimando, una sorta di trampolino di lancio verso la realtà (pur essendo, la menzogna, una
possibilità concreta).
Il segno iconico è una simulazione, talvolta più reale del reale stesso (si pensi alla costruzione delle
immagini digitali), tuttavia, proprio in quanto entità simulata, in quanto simulacro, essa si configura
come la venuta all’essere, come la realizzazione di un modello, di un archetipo, di un’idea, la cui
veridicità deve essere verificata: l’immagine rimanda a una costruzione mentale, la quale, a sua
volta, rinvia a un possibile oggetto; si potrebbe parlare quasi di due diversi livelli di referenza. Se
tale oggetto non esiste, il processo semiotico resta, il processo semiotico rimane, ma solo in quanto
produzione di un’entità segnica non verificabile estensionalmente, di un’entità segnica che “sta
esclusivamente per” il suo modello. È a questo livello che il linguaggio offre la possibilità di
mentire; ma è, per l’appunto, una possibilità, cioè un’eventualità, una potenza da attualizzare:
l’inganno è un fatto puramente accidentale, non sostanziale.
Dunque, la nostra prospettiva è ben lontana da quella di Eco, per il quale la menzogna era una
caratteristica ontologica, strutturale della lingua.
Perché un segno testimonierebbe il falso?
Perché, secondo Eco, esso non riuscirebbe a dire, non riuscirebbe a esprimere, non riuscirebbe a
rappresentare l’oggetto; non riuscirebbe cioè a riproporre la verità della cosa, poiché la sua realtà
intrinseca è inconoscibile. Questo è il problema. Solo se non è data la possibilità di conoscere un
certo stato del mondo, il modo di rappresentarlo può rivelarsi falso, mendace. Come potrei infatti
raffigurare qualcosa che non vedo? Come potrei, per esempio, disegnare il volto del signor
Giuseppe Bottazzi, se non l’ho mai conosciuto, né ho mai visto una sua foto?
Se non potessi davvero percepire quello che ho di fronte, allora la tragica descrizione della teoria
dei codici, contenuta nel Trattato di semiotica generale, non sarebbe poi così fallace.
304
«Quando si parla di simulazione, si fa riferimento, in prima istanza, alla costruzione di un modello (ipotesi teorica)
interpretativo nei confronti di una certa realtà e, in seconda istanza, alla verifica empirica della funzionalità e
dell’adeguamento di questo modello (…) La costruzione del modello ha un fine cognitivo e la sua validità deve essere
sottoposta a verifica…», Ib. 75.
305
Ib. 76.
148
Ma è davvero impossibile conoscere l’oggetto, è davvero impossibile cogliere, seppure solo in
piccola parte, la verità che esso porta con sé? Non esiste davvero nessuna corrispondenza tra una
certa idea, una certa nozione della mente e ciò che ho di fronte?
Ci sembra che, sia Eco, sia Peirce, siano fortemente debitori della dottrina della conoscenza
kantiana, in base alla quale le cose, la realtà sarebbero delle entità noumeniche, non conoscibili per
quel che sono, non conoscibili in sé; la cosiddetta “cosa in sé” sarebbe dunque un “quid”
intangibile, un “quid” indicibile, un “quid” inesprimibile, un “quid” di cui si può solo e appena
percepire la presenza. Tutto il nostro sapere, tutta la nostra cultura, in breve, tutte le nostre idee non
derivano direttamente dalla sperimentazione della realtà, non derivano direttamente
dall’impressione, dall’azione dei corpi sui nostri sensi. L’esperienza, tutta la nostra esperienza, e la
percezione, ogni tipo di percezione, sono delle cognizioni mediate, sono delle cognizioni indirette
del mondo, in quanto rielaborate attraverso il filtro delle categorie (in particolare attraverso quelle
di spazio e tempo). Ogni qualvolta ci troviamo di fronte a un nuovo evento, ci costruiamo delle
nozioni generali per conoscerlo. La nostra attività gnoseologica è inesorabilmente segnata dall’a
priori.306
Tutto ciò potrebbe generare uno spaventoso soggettivismo: chi mi dice che il tavolo rosso che
vediamo ora, qui davanti, sia realmente tale? che cosa garantisce che stiamo vedendo la stessa cosa
e che elaboriamo la stessa idea?
Ciò che salverebbe dal soggettivismo e che, quindi, garantirebbe la possibilità della comunicazione
sarebbero l’universalità delle categorie e la trascendentalità delle stesse. È la trascendentalità, in
quanto condizione dell’identicità (= delle categorie in tutti gli individui), che permette alla totalità
degli esseri umani di fare la stessa esperienza conoscitiva.
Ma è vero tutto questo?
Se io dicessi “questo tavolo è rosso” e un altro dicesse “questo tavolo è rosso”, lo diremmo perché
abbiamo categorie identiche?
Non è possibile invece che il tavolo sia lo stesso e che vediamo entrambi la stessa cosa, perché è
semplicemente così?
Se la conoscenza e la verità sono adaequatio intellectus ad rem, allora il processo gnoseologico si
configura semplicemente come assenso o dissenso a uno stato di cose: c’è un determinato oggetto
(aliquid est) che ha quelle determinate caratteristiche che io riconosco essere tali.
Nel discorso di Eco, c’è però qualcosa di vero: io vedo questo tavolo rosso che ho davanti agli occhi
e se ne vedessi un altro identico (uscito dalla stessa fabbrica e prodotto dallo stesso meccanismo)
riuscirei a distinguerlo dal primo; tuttavia, se dovessi chiarire in cosa consiste la differenza fra i due,
avrei non poche difficoltà. Vedo che esiste una diversità, riconosco tale diversità, ma non riesco a
capire in che cosa essa consista.
Di fronte a una esperienza di questo tipo, come fa notare la Vanni Rovighi307, mi risultano evidenti
due cose:
a. che mi è possibile conoscere solo attraverso concetti universali (corrispondenti a diversi
livelli di astrazione);
306
Non che la dottrina realista non ammetta l’esistenza dell’a-priori e cancelli il suo ruolo di primo piano in tutto il
processo conoscitivo, anzi:
«Se non si riconosce (…) l’a priori, si finisce col negare alla scienza ogni carattere di necessità e universalità, come fa
l’empirismo, o con l’introdurre molto più a priori di quel che effettivamente non vi sia, e ci si fa assertori, come il
Rosmini, sulle orme di Kant, di un apriorismo sintentico». S. VANNI ROVIGHI: 1996, 145.
Il problema è prendere le distanze da questo apriorismo sintetico:
«Intendiamo, seguendo il Masnovo (A. MASNOVO, Apriorismo e… apriorismo, in: a cura di: A. GEMELLI, Immanuel
Kant, Vita e Pensiero, Milano, 1924.), per apriorismo sintetico, l’affermazione che l’intelletto umano aggiunge di suo al
contenuto dell’esperienza (secondo Kant le dodici categorie, secondo il Rosmini l’idea dell’essere); per apriorismo
astrattivo invece l’affermazione che l’intelletto non aggiunge nulla al contenuto dell’esperienza, ma gli dà solo un modo
di essere (il modo di essere universale) diverso da quello in cui tale contenuto si attua nelle cose reali. Ora, un tal modo
di essere universale deriva da un semplice prescindere che fa l’intelletto, non da un alterare; c’è quindi inadeguatezza
nella conoscenza umana rispetto all’immensa ricchezza della realtà, ma non alterazione della realtà stessa», Ib., 146.
307
S. VANNI ROVIGHI: 1996.
149
b. che non mi è possibile “carpire” l’essenza specifica, l’irripetibile individualità di ciò che mi
sta di fronte.
Sul punto a. già Aristotele, nella Metafisica, aveva detto la sua. Secondo il teoreta greco infatti, la
facoltà astrattiva “governerebbe” l’elaborazione anche del livello più infimo della nostra
conoscenza. Detto in altri termini, i concetti universali entrerebbero in gioco pure nella percezione
del particolare, poiché è grazie a questi che, nel nostro intelletto, possiamo formarcene l’idea.
Sul punto b., possiamo richiamarci invece a quanto aveva sostenuto Husserl. La Vanni Rovighi ci
riferisce che egli aveva teorizzato il fatto che non fosse possibile fare delle “ontologie regionali”,
delle ontologie cioè che (qualora esistessero) ci permetterebbero di afferrare le cose, nella loro
unicità: se da un lato infatti è data l’eventualità di conoscere un’essenza (generica), dall’altro non è
data mai quella di conoscere un’essenza specifica.308
Questo ed esattamente questo è il limite insormontabile, il limite incancellabile delle nostre capacità
teoretiche: ho di fronte un oggetto, lo riconosco, vedo che è diverso da un altro, ma non riesco a
definire in che cosa tale diversità consista, non riesco a dire la sua individualità. Detto in altri
termini: la realtà è infinita, mentre le nostre “potenze conoscitive” sono finite.
Che cosa succederebbe, invece, se tentassimo di definire l’identità di un qualcosa? Non faremmo
altro che attribuire a questo qualcosa una collezione di concetti universali309, una collezione che
tenti di circoscrivere quel “quid” che lo rende unico e irripetibile.310
Da che cosa pensate che dipenda il fatto che, da secoli, si scrivono centinaia di pagine sul “sommo
poeta”? Perché ogni critico può sempre svelare un aspetto rimasto nascosto? Proprio a causa del
limite radicale di cui si parlava poc’anzi, cioè a causa del fatto che non è possibile conoscere il
particolare nella sua particolarità.
308
È esattamente questo il punto:
«Noi non abbiamo l’intuizione astrattiva delle essenze specifiche, e perciò non possiamo procedere con l’analisi e la
deduzione quando vogliamo ottenere una conoscenza specifica della realtà corporea: se procederemo con l’analisi e la
deduzione enunceremo solo verità che riguardano una cosa considerata come ente, non verità che la riguardano come la
tal cosa», Ib. 31.
309
È un processo che, per certi versi, viene descritto anche da Aristotele, nella Metafisica:
«Le sostanze corruttibili, infatti, a chi pure possiede scienza, sono inconoscibili, non appena siano fuori dal campo della
sensazione; e, anche se si conservano nell’anima le nozioni delle medesime, di esse non ci potrà essere né definizione
né dimostrazione. Perciò, per quanto concerne la definizione, è necessario che, quando si definisce qualcuna delle
sostanze individuali, non si ignori che può sempre venir meno; in effetti, non è possibile darne una definizione. Ma
neppure è possibile definire alcuna Idea, perché l’Idea, come alcuni sostengono, è una realtà individuale e separata.
Infatti, è necessario che la definizione consti di nomi, e colui che definisce non potrà coniare nuovi nomi, perché, in tal
caso, la definizione resterebbe incomprensibile; ma i termini correnti sono comuni a tutte le cose, e pertanto è
necessario che essi si applichino anche ad altro (oltre che alla cosa definita). Se, per esempio, uno ti volesse definire,
dovrebbe dire che sei un animale magro o bianco o qualche altra cosa, che potrà sempre convenire anche ad altro? E se
uno obiettasse che nulla vieta che, presi separatamente, tutti i nomi della definizione convengano a molte cose, ma che,
invece, presi nel loro insieme, convengano a questa sola cosa, si dovrà rispondere quanto segue. (a) In primo luogo essi
si riferiscono almeno a due cose: per esempio, animale bipede si riferisce all’animale e al bipede (…) (b) In secondo
luogo, se le Idee sono formate di Idee (…), anche queste Idee-elementi di cui sono formate le Idee dovranno predicarsi
di molti: così, per esempio, l’animale e il bipede. Se così non fosse, come si potrebbe conoscere? Ci sarebbe infatti
un’Idea che non sarebbe possibile predicare più di un individuo, il che non sembra possibile, perché tutte le idee sono
partecipabili», ARISTOTELE, Metafisica, Libro Z, 15, 1040°, 5/25, Rusconi, Milano, 1996, 355, 357.
Dunque, non si dà conoscenza del particolare.
310
«Il carattere inadeguato della conoscenza umana (…) è attestato dal fatto che non solo noi abbiamo concetti
universali, come abbiamo detto sopra, ma che tutti i nostri concetti sono universali (…) quando esprimiamo, diciamo,
che cosa è un individuo, esprimiamo sempre concetti universali. Diciamo p. es. che Tizio è un uomo, che è un poeta,
che la sua poesia ha i tali caratteri; ma tutti questi sono concetti universali. Pensiamo infatti che conoscere
intellettivamente significa conoscere ciò che è una cosa; ora se noi sapessimo che cosa è una cosa in tutta la sua
determinatezza, fino all’individualità, la distingueremmo subito da tutte le altre e saremmo sicuri di non scambiarla mai
con un’altra. E invece non arriviamo a conoscere così neppure le cose o le persone con le quali abbiamo più familiarità
(…) se conoscessimo le cose nella loro essenza individuale, le conosceremmo di colpo per quanto sono conoscibili e
non avremmo più nulla da imparare intorno ad esse; e invece la nostra conoscenza progredisce. Che cosa vuol dire
progredisce? Vuol dire che conosciamo delle cose – che pure ci erano già in certo modo note – aspetti che prima non
conoscevamo», S. VANNI ROVIGHI: 1996, 151.
150
Del resto, immaginate per un istante quanto sarebbe noioso il contrario; immaginate come sarebbe
noiosa la vita, se riuscissimo a cogliere sempre l’essenza specifica di tutto. Immaginate, per
esempio, che noia sarebbe trascorrere tutta la nostra esistenza con una persona della quale si
conosce già tutto; che gusto invece nell’avere accanto qualcuno del quale si può, ogni giorno,
scoprire qualcosa di nuovo, del quale si può, quotidianamente, approfondire quell’intuizione per la
quale ella, inizialmente, ci aveva colpito. È questa la condizione dell’uomo.
Dunque è vero che ciò che ho di fronte, gli oggetti, il mondo, ultimamente, non mi appartengono;
dunque è vero che ciò che vorrei toccare con “mano bramosa”, mi resta intangibile.
Tutto ciò è vero.
È anche vero però, come è facile rilevare dall’esempio, che intravedo e riconosco il fatto che,
un’identità, gli oggetti, ce l’hanno. La riconosco appunto, la intravedo, ma non riesco a dirla; in
questo consiste il mio limite.
Il mio concetto, la mia nozione mentale, pur essendo “universale”, mi rimanda, referenzialmente,
all’esperienza del particolare, tant’è che se non avessi fatto tale esperienza, non ne avrei neanche
l’idea (si vada nuovamente all’esempio delle pappardelle ai porcini con pioggia di tartufo bianco);
aliquid est, se non ci fosse la realtà, non ci sarebbe l’idea e, dunque, neanche il pensiero.
Esistono però entità puramente astratte, immagini inesistenti, per esempio quella dell’ “ippogrifo”
(animale per metà cavallo, per metà grifone). Come se ne spiega la presenza?
Esse sono generate da capacità astrattive di livello superiore, che operano una rielaborazione e una
mescolanza dei concetti già esistenti; se non avessi mai visto un cavallo e un grifone, non potrei mai
aver avuto un idea di “ippogrifo”.
Possiamo confrontare, mediante dei grafici, la posizione (rispetto al processo conoscitivo) che noi
sosteniamo con quella di Eco.
La dottrina realista può essere descritta come segue:
esperienza (del particol.)Æ concetto universale (dell’ogg. partic.) Æ livelli sup. di astraz.
referenza
La dottrina di Eco invece:
A-priori (astratti)Æ esperienza particola.Æ concetto dell’ogg.Æ eventuale ulteriore astr.
+
referenza
Speriamo che ci venga perdonato tale sconfinamento nel territorio della gnoseologia.
Un discorso di questo tipo era però necessario per dare una maggiore consistenza teoretica al
concetto di segno iconico, inteso come via ad res. Del resto, non soltanto l’icona, ma anche il
“simbolo” (vale a dire il terzo tipo di realtà segnica, secondo la tripartizione peirciana) ha una
relazione forte con il suo referente, come indica la sua stessa etimologia.
Che cosa vuol dire infatti simbolo?
La parola viene dal greco συν-βάλλειν cioè: da “συν”, corrispondente all’italiano “con”, e
“βάλλειν”, equivalente all’italiano portare, e significa qualcosa come “portare con”. Il simbolo è
dunque un’entità che “porta” (per l’appunto) con sé le tracce, gli indizi di un'altra realtà, di un altro
simbolo od oggetto. Perciò, ogni realtà semiotica implica una referenzialità.
Ci auguriamo che il nostro discorso non sia stato frainteso.
Il nostro obiettivo non era quello di negare l’arbitrarietà e la convenzionalità del segno, ma la
cancellazione della referenzialità verso un “quid” concreto. È questa referenzialità che ci
interessava ricostruire: il nostro è un realismo della referenza, non del simbolo.
151
È vero che le parole, le immagini, gli indici… sono dei costrutti sociali, riconosciuti da un certo
gruppo di persone (più o meno esteso), come dotati di significato; è vero che le parole, le immagini,
gli indici… nominano, rimandano, prima facie, a un’idea, a una nozione mentale; tutto questo è
vero. Ciò che non è vero è che tale nozione non abbia relazione di sorta con la cosa.
Dunque, il punto di rottura, rispetto alla dottrina di Eco, si colloca sulla relazione che tale idea, tale
nozione mentale intrattiene con l’esperienza in generale, cioè (noi sosteniamo): senza esperienza
non c’è idea; un concetto è inscindibilmente legato alla sperimentazione, alla percezione
dell’oggetto che lo genera. A nulla vale l’obiezione che l’essenza di tale oggetto, nella sua
irripetibile individualità, non sia percepibile, perché ciò non nega due evidenze:
a. che il suddetto concetto è comunque dipendente dall’oggetto;
b. che la suddetta individualità è pur sempre riconosciuta, pur non potendo essere detta.
Anche gli esempi addotti per dimostrare l’arbitrarietà del segno, a nostro avviso, indicano,
irrefutabilmente lo stretto legame esistente tra il dispositivo semiotico e l’esperienza. Si pensi al
caso (citato da Eco) degli eschimesi, che hanno ben quattro termini corrispondenti alla parola
italiana “neve”. Ora, se questo indica da un lato la convenzionalità del linguaggio, dall’altro mostra
pure il legame che esso intrattiene con la realtà, il legame che esso intrattiene con un certo stato di
cose: l’esperienza della neve che ha un groenlandese o un eschimese è profondamente diversa da
quella che ha un arabo yemenita; quest’ultimo, nel suo linguaggio quotidiano, può permettersi
anche di non avere alcun vocabolo, corrispondente a quel certo stato meteorologico; i primi due, al
contrario, avranno necessità di distinguere diversi stati fisici, che dovranno rispettivamente
nominare.
Fatte queste puntualizzazioni, tutto ciò che rimane della descrizione che Eco fa del segno e della
produzione segnica ci sembra ottimo.311 Non vogliamo qui occuparci di questi due aspetti in modo
esaustivo (si finirebbe per parlare troppo di segni e troppo poco di televisione), ci sembra tuttavia
utile riprendere alcuni aspetti decisivi, poiché mettono in evidenza tutta la complessità dell’apparato
della significazione e del processo di creazione di senso.
Anzitutto, è necessario distinguere fra denotazione e connotazione.
Un segno, di qualunque tipo esso sia, può veicolare diversi messaggi, diversi significati; per
esempio, una parola è caratterizzata da diverse accezioni, un linguaggio può richiamare stati di cose
o del mondo differenti. Un caso di questo tipo è quello di cui parla il nostro autore, quando fa
riferimento al codice “idrico”312 (se così possiamo definirlo), creato per segnalare i diversi stati
dell’acqua di un’eventuale diga. Poniamo che vi sia un alluvione e che la diga stia per straripare;
tale codice sarà predisposto per avvertire gli addetti al bacino che la superficie lacustre sta per
superare la soglia di guardia. Che cosa significa questo avvertimento? In primo luogo che c’è un
pericolo, in secondo luogo che è necessario darsi alla fuga, se non si vuole essere travolti dalle
acque. È questo il punto fondamentale: il codice denota pericolo e connota fuga. Si tratta di due
livelli differenti di significazione, detto in altri termini, la connotazione è una sorta di denotazione
secondaria, effettuata a partire dalla prima.
Ora, se il significato di un semema è costituito da una serie di elementi definibili marche
semantiche, queste ultime devono essere distinte in:
a. marche denotative;
b. marche connotative.
Spesso però, accade che, alle suddette marche semantiche, si affianchino entità di altra natura; si
tratta dei cosiddetti elementi contestuali e circostanziali, i quali fanno sì che un determinato
termine, una determinata immagine, una determinata figura denotino e connotino qualcosa in più
rispetto al contenuto principale, ovvero un termine, un’immagine, una figura assumono un
significato differente, in relazione alla circostanza o al contesto in cui vengono utilizzati.
311
Ci riferiamo in particolare a delle parti contenute nel testo citato (U. ECO, Trattato di semiotica generale, Bompiani,
Milano, 2002), nella fattispecie a quella relativa alla comunicazione e significazione (47/70) e alla tipologia dei modi di
produzione segnica (285/326).
312
Ib. 82.
152
Interessante in questo senso è l’esempio del teschio:313
[circ bottiglia] Æ d veleno
[circ bandiera] Æ d pirata
||teschio||Æ ms Æ «teschio»Æd morte
[circ cabina] Æ d alto voltaggio – c pericolo
[circ camicia] Æ d ardito
Questo caso mette in evidenza tutta la complessità della natura di un segno, sottolineandone, nello
stesso tempo, la convenzionalità.
Ci spiace di non poter approfondire in questa sede il discorso sulla teoria della produzione segnica,
il quale (ne siamo convinti) avrebbe probabilmente confermato la nostra idea di referenza. Ci
auguriamo quanto meno di aver chiarito la portata degli elementi in gioco e di aver fornito delle
basi per degli eventuali approfondimenti.
Del resto, il nostro lavoro doveva occuparsi anzitutto del mezzo televisivo; il discorso sulla natura
del segno voleva solo mostrare se e in che misura tale mezzo ha la possibilità di “mentire”,
“simulare” o “spettacolarizzare” (dato che questi, come si è visto, sono meccanismi di natura
linguistica).
Chiarite le caratteristiche semantico-estensionali del linguaggio e chiarito il fatto che un’entità
semiotica è una via ad res, bisogna capire se fenomeni come quello della menzogna o della
manipolazione del destinatario non siano collocabili nel rapporto comunicativo stesso, cioè
nell’elaborazione di un “testo”, inteso come strumento, utilizzabile da un mittente, per trasmettere la
propria visione del mondo.
È questo il passo successivo da compiere: svelare quali sono le caratteristiche di questo rapporto
comunicativo, in quanto si realizza attraverso una testualità, luogo e, nello stesso tempo,
rappresentazione dello scambio. Il testo dunque, come principio regolatore del gioco delle parti,
nella relazione mittente/destinatario.
3. Il gioco delle parti: la testualità tra manipolazione e comunicazione
Dunque, il principio primo, la base, la “condicio sine qua non” della comunicazione è il linguaggio,
inteso come artificio semiotico, come struttura logica composta di segni, o meglio, come struttura
logica organizzatrice di segni.
Il segno è, a sua volta, il vicario del mondo, il vicario di un oggetto, all’interno del codice; in questo
senso, esso è rinvio eterno a un’alteritas, rinvio eterno a una realtà altra, rinvio eterno a qualcosa
d’altro, in quanto significato di sé (si è già dimostrata la necessità, la stringenza reale, in quanto
esigenza, del “rimando referenziale” di questo “qualcosa d’altro” [o concetto]).
Per chiudere definitivamente il discorso sulle entità simboliche, possiamo richiamarci a qualcuno di
più autorevole di noi (per lo meno nel campo linguistico), a qualcuno che possa offrirci quel “quid”
finale, necessario per fornire al lettore una visione sintetica del problema. Pensiamo in particolare a
Emile Benveniste314, che si riallaccia apertamente alla teoria di Saussure, quando afferma:
313
È necessario chiarire il significato delle abbreviazioni utilizzate:
ms: marche semantiche;
d: denotazione;
c: connotazione;
circ.: elemento circostanziale.
Si veda: Ib. 164.
314
E. BENVENISTE, Problèmes de linguistique générale, Editions Gallimard, Paris, 1966.
153
«Una delle componenti del segno, l’immagine acustica, ne costituisce il significante; l’altra, il
concetto, ne è il significato. Fra il significante e il significato il legame non è arbitrario: anzi, è
necessario. Nella mia coscienza di francese il concetto (“significato”) “bue” è necessariamente
identico all’insieme fonico (“significante”) böf. E non potrebbe essere diversamente. L’uno e l’altro
sono stati impressi nella mia mente; e insieme si evocano in ogni circostanza. Fra i due vi è una
simbiosi così stretta che il concetto “bue” è come l’anima dell’immagine acustica böf. La mente non
contiene forme vuote, concetti senza nome (…) Il significante e il significato, la rappresentazione
mentale e l’immagine acustica sono quindi in realtà le due facce di un’unica nozione e si
compongono insieme come l’incorporante e l’incorporato. Il significante è la traduzione fonica di
un concetto; il significato è la controparte mentale del significante. Questa consustanzialità del
significante e del significato assicura l’unità del segno linguistico» (E. BENVENISTE, Problemi di
linguistica generale, Il Saggiatore, Milano, 1994, 63, 64).
Il grande linguista francese non accenna alla referenzialità del concetto: il segno è composto solo da
due elementi, cioè da un significante (“signifiant” [ovvero la parola nel suo aspetto grafico e
fonico]) e da un significato (“signifié” [ovvero la nozione]).
Del resto, la nostra dottrina realista è già stata così abbondantemente esposta e motivata, che non
c’è bisogno di fornire ulteriori argomentazioni in merito.
In ogni caso, si è detto che il linguaggio è un codice e il codice, per comunicare, si serve di segni, in
quanto rimandano a, in quanto significano un certo stato del mondo. Sotto questo rispetto, appare
più chiara la descrizione di forma linguistica, che Benveniste ci fornisce:
«… una forma linguistica (…) 1. è un’unità di globalità che abbraccia delle parti; 2. queste parti si
trovano in una disposizione formale che ubbidisce a certi principi costanti; 3. ciò che dà alla forma
il carattere di una struttura è il fatto che le parti costituenti assolvono una funzione; 4. infine, queste
parti costitutive sono unità di un certo livello, cosicché ogni unità di un livello definito diviene
sotto-unità del livello superiore» (E. BENVENISTE: 1996, 32).
Ma quali sono questi livelli? Che valore hanno? In che senso sono importanti?
«Tutti i momenti essenziali della lingua hanno un carattere discontinuo e mettono in gioco unità
discrete. Si può dire che la lingua è caratterizzata non tanto da ciò che esprime quanto da ciò che
essa distingue a tutti i livelli:
- distinzione dei lessemi, che permette di fare l’inventario delle nozioni designate;
- distinzione dei morfemi, che fornisce l’inventario delle classi e sottoclassi formali;
- distinzione dei fonemi, che dà luogo all’inventario delle distinzioni fonologiche non
significanti;
- distinzione dei “merismi” o tratti che ordinano i fonemi in classi.
Ecco ciò che fa sì che la lingua sia un sistema in cui nulla significa in sé e per vocazione naturale,
ma in cui tutto significa in funzione dell’insieme; la struttura conferisce alle parti il loro
“significato” o la loro funzione» (E. BENVENISTE: 1996, 32).
Si vede dunque quanto sia complesso e da quanti livelli sia composto il linguaggio: è solo la
macchinosa mescolanza (su diversi piani) delle entità semiotiche, in quanto regolata da leggi
combinatorie, che permette la produzione del senso, ovvero la riproduzione della realtà. È questa
infatti la funzione, il fine del codice.
Se una lingua è composta da segni e se i segni sono i vicari degli oggetti concreti, allora tale lingua
sarà contraddistinta dall’infinita possibilità di ri-presentazione (ed eventualmente anche di ricreazione) del mondo.
«Il linguaggio ri-produce la realtà. Ciò va inteso nel senso più letterale della parola: la realtà viene
prodotta di nuovo mediante il linguaggio. Chi parla fa rinascere con il suo discorso l’evento e la sua
154
esperienza dell’evento. Chi lo ascolta coglie prima di tutto il discorso e, attraverso questo discorso,
l’evento riprodotto. Così, la situazione inerente all’esercizio del linguaggio, che è quella dello
scambio e del dialogo, conferisce all’atto del discorso una duplice funzione: per il parlante esso
rappresenta la realtà; per l’ascoltatore ricrea questa realtà» (E. BENVENISTE: 1996, 34,35).
Detto questo, è necessario fare alcune precisazioni.
Dal nostro discorso non si deve inferire che il linguaggio sia, in sé, una riproduzione della realtà;
esso è infatti solo una possibilità di riproduzione, cioè una riproduzione in potenza, o meglio
ancora, la condizione delle possibilità di riproduzione dell’oggetto. Detto in altri termini, la lingua,
il codice, offrono soltanto la materia prima e le regole combinatorie per rappresentare un certo stato
di cose, ovvero costituiscono esclusivamente una potenzialità da attualizzare.
Ma tale rappresentazione del mondo, tale attualizzazione delle potenzialità della lingua si incarnano
in un prodotto, in un bene “consumabile”, “alfa e omega” dello scambio comunicativo: è il testo, in
quanto sistema, impianto organicamente strutturato, finalizzato alla costruzione del senso.
È in quest’opera, in questo artificio della creatività umana che si concentra la “Weltanschauung” di
un certo mittente, di un individuo cosciente, che intende comunicare a un altro soggetto la propria
concezione della realtà.
Pertanto, da un punto di vista macroscopico, la comunicazione implica, all’origine, almeno tre
elementi:
a. un essere ragionevole, capace di elaborare delle idee e capace di sentire l’esigenza di
comunicarle;
b. un codice, inteso come condizione di possibilità della comunicazione (o comunicazione in
potenza);
c. un testo, in quanto attualizzazione di alcune delle possibilità del codice.
La descrizione appena ultimata riguarda però solo ed esclusivamente l’elaborazione del messaggio.
Perché vi sia davvero comunicazione è necessario che tale messaggio venga ricevuto e interpretato,
cioè è necessario:
d. che il testo debba poter essere trasmesso (è necessario dunque un canale che veicoli le
informazioni);
e. che il destinatario interpreti ciò che riceve;
f. che, sempre il destinatario, fornisca eventualmente una risposta;
g. che, infine, tale risposta sia elaborata come progetto o, al limite, come testo (base possibile
di un nuovo scambio).
Dunque, l’emissione e la ricezione di un qualsivoglia contenuto implica almeno questi sette
elementi (eventualmente ampliabili):
a. un mittente;
b. un codice;
c. un testo;
d. un canale;
e. un destinatario;
f. un’interpretazione;
g. una risposta.
La comunicazione è dunque un processo, o meglio un “rapporto” di reciprocità, poiché implica
almeno due attori.
In ogni caso, tenteremo di chiarire il nostro discorso attraverso un grafico:
CodiceÆmittenteÆTesto
TestoÆDestinatarioÆInterpretazione
(Potenz. Comun.)
Canale
Testo
Risp. elabor. come Testo
155
Ciascuno di questi sette fattori rappresenta quasi un mondo, quasi un universo e, in questo senso,
può essere fatto oggetto di un’analisi approfondita. Tuttavia, ciò che a noi interessa e ciò su cui
concentreremo la nostra attenzione è anzitutto il terzo, ovvero il testo, convinti (come abbiamo del
resto già in parte sostenuto) che il contratto e lo scambio comunicativo si realizzino primieramente
attraverso di esso, in quanto luogo fisico, principio regolatore e rappresentazione del gioco delle
parti, messo in campo dalla comunicazione.
Ma che cos’è un testo?
Bettetini ne dà la seguente definizione:
«(…) testo (è) inteso come insieme coerente e organicamente strutturato di segni, come complesso
coeso, come struttura organicamente compiuta, prodotto dall’intreccio di più codici», (G.
BETTETINI, L’audiovisivo: 2001, 32).
Ma questo insieme, questo complesso, questa struttura organicamente compiuta è resa tale da
qualcuno che la usa come strumento, come rappresentazione, come espressione di una certa visione
del mondo. In questo senso, è un artificio.
Il problema, a questo punto, è dunque quello di svelare i meccanismi di tale artificio, di svelare cioè
le regole che presiedono alla costruzione, all’articolazione e poi allo scambio di un certa quantità di
informazioni.
Nel corso delle nostre ricerche sulla testualità, ci siamo imbattuti anzitutto negli studi di Greimas,315
già citato nel paragrafo relativo alla funzione del segno. Si tratta di uno dei “classici” del “pensiero
semiotico”, la cui prospettiva, tuttavia, non intendiamo abbracciare in toto, per delle ragioni che
renderemo palesi nello svolgersi dell’analisi.
Abbiamo già accennato al modo in cui lo studioso franco-lituano intendeva i concetti di oggetto e di
valore e al fatto che essi, nonostante la loro strutturale inconoscibilità, costituiscono il movente
dell’azione dei personaggi. Bene. Proprio da questo punto dovremo ripartire.
Procediamo però per gradi.
Il pensiero semiotico greimasiano può essere definito come una descrizione delle modalità
attraverso cui, a partire da un struttura semiotica profonda, viene generato il senso.316 Tale struttura
è composta da una dimensione semantica, che riguarda essenzialmente la sfera dei significati, e da
una dimensione sintattico-grammaticale, che regola la combinazione e il rapporto fra le entità
segniche, in quanto individualità significanti. L’interazione fra queste due componenti produce il
discorso, livello semiotico superficiale, cioè punto di arrivo del processo generativo del senso.317
315
Ci riferiamo, in particolare, a:
- A.J. GREIMAS, Du sens II, Editions du Seuil, Paris, 1983.
316
Questo è quanto scrivono Patrizia Magli e Maria Pia Pozzato, nella prefazione all’edizione italiana di Del Senso II:
«La teoria geimasiana è una teoria della generazione del senso: tenta di definire il senso secondo i modi della
produzione. Le componenti che intervengono in questo processo si articolano le une in rapporto alle altre secondo un
percorso che va dal più semplice al più complesso, dal più astratto al più concreto. La generazione semiotica del
discorso si presenta dunque sotto forma di un percorso generativo che sta a designare la produzione del senso attraverso
una serie di investimenti progressivi del contenuto. Questo percorso, partendo dalle istanze generative più profonde, di
tipo logico-semantico, si converte progressivamente in piani semio-sintattici più superficiali fino ad incontrare,
attraverso le procedure di enunciazione, una struttura narrativa di superficie. Il senso di un testo dunque non è colto a
livello della sua manifestazione espressiva, bensì nei modi in cui si genera e si svolge in un processo orientato di
conversione: ogni testo è solo l’evidenza e la memoria della sua storia generativa», P. MAGLI – M.P. POZZATO,
Prefazione: la grammatica narrativa di Greimas, in: A.J. GREIMAS, Del senso II, Bompiani, Milano, 1998, III.
317
Ci sembra opportuno, in questo caso, richiamarci direttamente alle parole di Greimas, il cui contenuto risulterà
tuttavia molto più chiaro in seguito, quando tenteremo di mostrare, in modo sintetico, come è fatto, da che cosa è
composto il livello profondo della narrazione:
«La grammaire narrative génère des objets narratifs (= des ‘récits’), conçus comme des parcours narratifs choisis en vue
de la manifestation. Ceux-ci sont définis par une distribution particulière de rôles actantiels dotés de modalités et
détérminés par leurs positions respectives dans le cadre du programme narratif. L’objet narratif, en possession de sa
structure grammaticale, se trouve investi, grâce à sa manifestation dans le discours, de son contenu spécifique.
L’investissement sémantique se fait par la sélection, opéré par les rôles actantiels, des rôles thématiques qui, pour
156
In proposito, è necessario fare una puntualizzazione. Nel corso dell’analisi che ci accingiamo ora a
intraprendere, si accennerà a tali (differenti) livelli in modo piuttosto disorganico. Detto in altri
termini, essi non verranno descritti o esaminati separatamente, perché altrimenti non si renderebbe
giustizia del loro rapporto di interazione, durante la genesi, o meglio, durante la gestazione del
testo.
Che cosa spinge i personaggi (quando si parla di personaggi o di attori si fa riferimento anzitutto al
piano superficiale, cioè al piano “discorsivo”) ad agire? Per quale ragione cioè, è possibile il
dispiegarsi di una storia (dato che questa è determinata dalle azioni e dagli eventi che coinvolgono
tali personaggi)?
«Qu’est-ce qui fait courir ces sujets après les objets ? c’est que les valeurs investies dans les objets
sont ‘désiderables’ ; qu’est ce qui fait que certains sujets sont plus désidereux, plus capables
d’obtenir des objets de valeur que d’autres ? c’est qu’ils sont plus ‘compétents’ que d’autres» (A.J.
GREIMAS : 1983, 10).
Il movente dell’azione è dunque l’oggetto, un oggetto che si configura come termine ultimo del
desiderio, in quanto depositario di un valore. Pertanto, poiché soltanto “depositario” (come si è
detto), poiché soltanto “incarnazione accidentale di”, e non valore esso stesso, tale oggetto, tale
termine ultimo del desiderio, non si delinea come assiologicamente rilevante in sé. Se si desidera un
oggetto, se si vuole ardentemente qualcosa, ciò avviene perché questo oggetto, questo qualcosa
racchiude, porta con sé un significato che lo trascende.318
Questa idea ricorda, per certi versi, il modo in cui Leopardi descrive il principio
dell’innamoramento:
«… Vagheggia
Il piagato mortal quindi la figlia
Della sua mente, l’amorosa idea,
Che gran parte dell’Olimpo in sé racchiude,
Tutta al volto ai costumi alla favella
Pari alla donna che il rapito amante
Vagheggiare ed amar confuso estima.
réaliser leur virtualités, exploitent le plan lexématique du langage et se manifestent sous la la forme de figures qui se
prolongent en configurations discoursives. Le discours, considéré au niveau de sa surface, apparaît ainsi comme un
déploiement syntagmatique parsemé de figures polysémiques, chargées de virtualités multiples, réunies souvent en
configurations discursives continues ou diffuses. Certaines seulement de ces figures, susceptibles de tenir des rôles
actantiels, se trouvent érigées en rôles thématiques : elles prennent alors le nom d’acteurs. Un acteur est ainsi le lieu de
rencontre et de conjonction des structures narratives et des structures discursives, de la composante grammaticale et de
la composante sémantique, parce qu’il est charge à la fois d’au moins un rôle actantiel et d’au moins un rôle thématique
qui précisent sa compétence et les limites de son faire ou de son être», A.J. GREIMAS, Du sens II, Editions du Seuil,
Paris, 1983, 66.
Nella citazione sopra riportata è contenuto, in maniera sintetica, tutta la grammatica generativa. In ogni caso, come si è
già detto, tutti i termini della questione risulteranno molto più chiari in seguito.
318
Ci sembra opportuno, in questo senso, l’esempio che fa Greimas rispetto all’automobile:
«… quelqu’un, par exemple, se porte acquéreur, dans notre société d’aujourd’hui, d’une voiture automobile, ce n’est
peut-être pas tellement la voiture en tant qu’objet qu’il veut acquérir, mais d’abord un moyen de déplacement rapide,
substitut moderne du tapis volant d’autrefois ; ce qu’il achète souvent, c’est aussi un peu de prestige social ou un
sentiment de puissance plus intime. L’objet visé n’est alors qu’un prétexte, qu’un lieu d’investissement des valeur, un
ailleurs qui médiatise le rapport du sujet à lui-même (…) Il est évident, par exemple, que la définition du lexème
automobile qui se voudrait exhaustive devrait comprendre :
a. non seulement une composante configurative, décomposant l’objet en ses parties consitutives et le
recomposant comme une forme,
b. et une composante taxique, rendant compte par ses traits différentiels de son statut d’objet parmi les autres
objets manufacturés,
c. mais aussi sa composante fonctionnelle tant pratique que mythique (prestige, puissance, évasion, etc.)»,
Ib. 22,23.
157
Or questa egli non già, ma quella, ancora
Nei corporali amplessi, inchina ed ama.
Alfin l’errore e gli scambiati oggetti
Conoscendo s’adira; e spesso incolpa
La donna a torto. A quella eccelsa imago
Sorge di rado il femminile ingegno;
E ciò che ispira ai generosi amanti
La sua stessa beltà, donna non pensa
Né comprender potria. Non cape in quelle
Anguste fronti ugual concetto…»
(G. LEOPARDI, Aspasia, in: Canti, Ed. Bur [RCS], Milano, 1997, 155).
Dunque, l’amante cercherebbe l’amata, perché emblema di un “alteritas”, in quanto cioè il suo
volto, le sue fattezze, la sua bellezza nascondono, velano qualcosa d’altro, qualcosa di più bello e di
più grande, qualcosa cioè che la sua fisicità non riesce neanche a contenere.
Tornando a noi dunque, un soggetto è mosso da un oggetto, poiché quest’ultimo costituisce il
termine ultimo del suo desiderio, poiché questo (= l’oggetto) è investito di un valore potenzialmente
soggettivo.319 Ma soggetto e oggetto diventano semioticamente rilevanti l’uno per l’altro, solo nella
misura in cui il secondo è inserito in un enunciato di stato, che lo lega al primo.320 Si daranno
pertanto due tipi di enunciato:
a. Enunciati giuntivi (“Énoncés conjonctifs”) = S ⋂ O;321
b. Enunciati disgiuntivi (“Énoncés disjonctifs”) = S ⋃ O.
È sempre possibile operare un passaggio dall’uno all’altro, sebbene sia necessario un meta-soggetto,
capace di effettuare una siffatta trasformazione. Questa si realizza infatti grazie all’opera di un terzo
individuo, che va a modificare un enunciato di stato (“énoncé d’état” [caratterizzato dalla modalità
dell’essere]) per mezzo di un enunciato del fare (“énoncé de faire” [caratterizzato dalla modalità
del “far fare”]).322 Tale processo è rappresentabile nel modo seguente:
319
Da tutto questo discorso è gia possibile distinguere i tre livelli, i tre piani “semiotici” di cui si parlerà più avanti.
Consideriamo, per esempio, l’oggetto. Esso è, come si è detto, l’incarnazione di una valore, in particolare quello della
bellezza. Ora, può darsi il caso che un determinato attore/soggetto (magari protagonista di una storia) desideri una bella
donna, in quanto attualizzazione di quel valore di bellezza. Avremo pertanto:
a. un livello sintattico Æ attante Æ oggetto;
b. un livello semantico Æ valore Æ (nella fattispecie) bellezza;
c. un livello discorsivo o modo di manifestazione Æ attore Æ ovvero: bella donna.
Pertanto un oggetto sarà sintatticamente un attante-oggetto, semanticamente un valore e discorsivamente la
determinazione concreta che, di fatto, assume.
320
È esattamente questo che sostiene Greimas:
«Seule, en effet, l’inscription de la valeur dans un énoncé d’état dont la fonction établit la relation jonctive entre le sujet
et l’objet nous permet de considérer ce sujet et cet objet comme sémiotiquement existants l’un pour l’autre», Ib. 27.
321
S = Soggetto;
O = Oggetto.
322
Non si è ancora fatto cenno alle modalità. Il problema verrà trattato in modo molto più approfondito
successivamente, tuttavia è necessario chiarire, fin da adesso, alcuni punti. Si è detto che un soggetto desidera un
oggetto, nella misura in cui esso porta con sé un valore. Si è anche detto che un soggetto e un oggetto diventano
semioticamente rilevanti l’uno per l’altro solo nella misura in cui vengono inseriti in un enunciato che li unisce. Bene.
Tale enunciato può essere di due tipi: a. di stato, se è caratterizzato dalla presenza del verbo essere, cioè se descrive un
certo “stato” (per l’appunto) del soggetto, in quanto è unito a un oggetto, b. del fare se il soggetto è determinato da un
“fare”, che lo renderà in un certo modo.
Ora, fare ed essere sono le modalità fondamentali e le modalità sono quel qualcosa che interviene (anche dall’esterno,
come si è visto nel caso del meta-soggetto) a modificare il soggetto. Se si considera il fatto che queste due modalità
possono modalizzarsi fra loro, si avranno quattro forme di modalizzazione:
a. il “fare” che modalizza l’ “essere” Æ performanza;
b. l’ “essere” che modalizza il “fare” Æ competenza (essere del fare, cioè possibilità di fare);
c. l’ “essere” che modalizza l’ “essere” Æ sanzione;
d. il “fare” che modalizza il “fare” (“far fare”) Æ manipolazione.
158
F trasformazione (S₁ Æ O₁)
S₁ è il soggetto che opera la trasformazione mentre O₁ è l’enunciato di stato, risultante dalla
trasformazione stessa.
Ora, poiché un certo soggetto può essere congiunto o disgiunto a un determinato oggetto, si danno
due tipi di trasformazione:
a. la realizzazione (“réalisation”), unione di soggetto e oggetto:
F trasf. [S₁ Æ O₁ (S ∩ O)];
b. e la virtualizzazione (“virtualisation”), disgiunzione fra soggetto e oggetto:
F trasf. [S₁ Æ O₁ (S ∪ O)].
A questo punto, si pone però una stringente questione, relativa all’origine e al destino dei valori,
vale a dire da dove provengono e dove vanno a finire. Greimas risponde a questa domanda,
elaborando le categorie del “trovare” ([“trouver”] assumere un valore che viene dal nulla), e del
“perdere” ([“perdre”] abolizione di ogni relazione con l’oggetto). Del resto, se l’oggetto, nella sua
valenza assiologica, è qualcosa di inconoscibile, di intangibile, esso può essere soltanto trovato.
Tuttavia, più che di venuta “ex nihilo”, Greimas parla di circolazione costante dei valori, per cui, a
ogni perdita, corrisponderebbe un’acquisizione.
«Maître Hauchecorne trouve bien un bout de ficelle dans le célèbre récit de Maupassant. Mais la
société ne manque pas de le mettre aussitôt en accusation : selon sa logique à elle, en effet, trouver
présuppose tout naturellement perdre qui postule un sujet de disjonction autre, ce qui revient à nier
la possibilité de l’apparition ex nihilo des valeur. Le lecteur, de son côté, lui qui sait qu’il s’agit bien
d’une ficelle ‘sans valeur’, ne peut s’empêcher d’invoquer ‘la fatalité’ qui l’a posée sur le chemin
de Maître Hauchecorn, en postulant ainsi, sous la forme d’un destinateur non figuratif, l’existence
d’un sujet antérieur autre» (A.J. GREIMAS : 1983, 30).
Dunque, colui che opera la trasformazione, colui che, dall’alto, attribuisce i valori al soggetto, si
configura come “destinante” (“destinateur [non figuratif]”) o “destinatore”. Pertanto, si riconosce
che:
«… les apparences de trouver et de perdre recouvraient en réalité les conjonctions et les
disjonctions absolues par lesquelles cet univers immanent communique avec un univers
trascendant, source et dépositaire des valeurs hors circuit» (A.J. GREIMAS : 1983, 30).
Si tratta perciò di una comunicazione semplice, di una comunicazione (che il nostro autore
definisce) “a un solo oggetto”, di una comunicazione cioè possibile soltanto in un micro/macrocosmo sociale323, in un universo in cui è dato un solo ordine di valori (e quindi di anti-valori324).
323
Greimas si riferisce in particolare all’universo assiologico de Le avventure di Pinocchio:
«En rencontrant, lors de son analyse des aventures de Pinocchio, le problème du trésor caché, P. Fabbri en a proposé
une interprétation sociologique : la société agricole toscane, comme probablement toutes les sociétés autarcique, conçoit
les richesses comme disponibles en quantité limitée, de telle sorte qu’à une communauté fermée sur elle-même
correspond un univers de valeurs clos. La circulation des richesses s’y fait en circuit fermé, et les parcours syntaxiques
des valeurs s’établissent de manière qu’à chaque acquisition effectuée par un membre de la société corrsponde
nécessairement une perte subie par un autre membre», Ib. 30, 31.
324
In un universo assiologico-autarchico, esiste pertanto un’opposizione forte fra valori e anti-valori; questi sono
descritti nel seguente modo dal nostro autore:
159
In questo contesto, vi saranno perciò due soggetti, uno “virtuale” ([S1 “virtuel”] disgiunto
dall’oggetto) e uno invece pienamente realizzato, in quanto unito all’oggetto. È evidente perciò
come, a ogni privazione, corrisponda sempre e necessariamente una giunzione.
Questo stato narrativo può essere rappresentato nel modo seguente:
(S₁ ∪ O) ⇔ (S₂ ∩ O)
La macro-categoria, inglobante al proprio interno la congiunzione (di un soggetto all’oggetto) e la
disgiunzione, è definita giunzione:
giunzione
(“jonction”)
disgiunzione
(“disjonction”)
S₁
O
congiunzione
(“conjonction”)
O
S₂
«L’énoncé de jonction que nous venons de formuler représent, au contraire, un état narratif
complexe qui met en jeu, à un moment de déroulement discoursif, deux sujets en présence d’un
objet de valeur» (A.J. GREIMAS : 1983, 34).
Tale giunzione può essere osservata da due punti di vista:
a. da un punto di vista paradigmatico (“jonction paradigmatique”), in quanto legame tra due
enunciati di tipo diverso (cioè uno congiuntivo e uno disgiuntivo), aventi, a loro volta, due
soggetti distinti;
b. da un punto di vista sintagmatico (“jonction syntagmatique”), in quanto legame tra due
enunciati sempre di tipo diverso, ma aventi lo stesso soggetto.
Anche in questo caso, un grafico può forse aiutarci a semplificare il discorso:
giunzione sintagmatica
giunzione paradigmatica
(S₁ ∪ O) Æ (S₁ ∩ O) Æ
(S₂ ∪ O) Æ (S₂ ∩ O) Æ
Considerando che S₁ è soggetto virtuale (= disgiunto) ed S₂ è soggetto realizzato (= congiunto), S₃
ovvero il soggetto esterno della trasformazione narrativa (destinatore o destinante), potrà
identificarsi con il primo o con il secondo, realizzando da un lato due forme differenti di
sincretismo del soggetto, dall’altro 4 tipi di trasformazione:
a. se
S₃ trasf. = S₁ virtuale,
allora
«aux biens considérés comme le résultat du travail s’opposent les richesses trouvées, imméritées, condamnables et
désiderable à la fois : par rapport au valeur positives, ces richesses apparaissent comme des anti-valeur ou valeurs
négatives relevant d’un anti-univers axiologique…», Ib., 31.
160
F trasf. [(S₃ = S₁) Æ (S₁ ∩ O)]
Si tratta di una “realizzazione riflessiva” (“réalisation réfléchie”) o, come si direbbe da un
punto di vista figurativo, di un’“appropriazione” (“appropriation”).
b. se
S₃ trasf. = S₂ reale
Allora
F trasf. [(S₃ = S₂) Æ (S₁ ∩ O)]
È questo il caso di una “realizzazione transitiva” (“réalisation transitive”) o,
figurativamente, di un’“attribuzione”.
a. e b. rappresentano le due uniche forme di realizzazione; si hanno tuttavia, per converso, anche
due tipi di virtualizzazione:
c. se
S₃ trasf. = S₂ reale
Allora
F trasf. [(S₃ = S₁) Æ (S₁ ∪ O)]
È questa una “virtualizzazione riflessiva” (“virtualisation réfléchie”) o, detto altrimenti, una
“rinuncia” (“renonciation”).
d. se
S₃ trasf. = S₂ virtuale
Allora
F trasf. [(S₃ = S₁) Æ (S₁ ∪ O)]
Si tratta di una “virtualizzazione transitiva” (“virtualisation transitive”) o di una
“spoliazione” (“dépossession”).
Riassumendo, abbiamo rilevato i seguenti punti:
riflessiva
(appropriazione)
Trasformazione congiuntive
(realizzazione)
transitiva
(attribuzione)
TRASFORMAZIONI
riflessiva
(rinuncia)
Trasformazioni disgiuntive
transitiva
(spoliazione)
Se esaminiamo la questione da un punto di vista paradigmatico, potremmo riconoscere un
parallelismo fra “appropriazione” e “spoliazione” e fra “attribuzione” e “rinuncia”. Ora, ciò che
permette, ciò che genera, ciò che dà luogo al primo dei due fenomeni in questione (appropriazione
vs spoliazione) è la “prova” (“épreuve”); la rinuncia, a cui corrisponde un’attribuzione
concomitante, si inscrive invece nella fenomenologia del “dono” (“don”).
Vista la complessità dei fattori in gioco, può essere forse utile chiamare in causa nuovamente
l’ausilio di una forma grafica.325
325
Tutti i grafici riportati sinora, quest’ultimo compreso, sono di paternità greimasiana. Si veda il testo citato.
161
Acquisizione (acquisition)
Appropriazione
(“appropriation”)
Attribuzione (“attribution”)
Prova (épreuve)
Dono (don)
Privazione (privation)
Spoliazione (“dépossession”)
Rinuncia (“renonciation”)
Esiste però una situazione narrativa definibile come “scambio” (“échange”), che impone
necessariamente l’esistenza di due oggetti di valore. Che cos’è infatti uno “scambio”? Nient’altro
che una reciproca attribuzione di beni (differenti), in quanto ciascuno desidera quello posseduto
dall’altro.
Si daranno allora due termini del desiderio (O₁ e O₂) e due soggetti (S₁ ed S₂), entrambi, nello
stesso tempo, sia reali che virtuali; reali in quanto uniti a un bene; virtuali in quanto disgiunti dal
bene che desiderano realmente.326
Esisteranno perciò due programmi narrativi, uno riguardante S₁:
(O₁ ∩ S₁ ∪ O₂) Æ (O₁ ∪ S₁ ∩ O₂),
e un altro riguardante S₂:
(O₁ ∪ S₂ ∩ O₂) Æ (O₁ ∩ S₂ ∪ O₂).
Lo scambio si configurerà graficamente nel seguente modo:
F trasf. [S₁ Æ (O₁ ∪ S₁ ∩ O₂)] ⇒ F trasf. [S₂ Æ (O₁ ∩ S₂ ∪ O₂)].
Si tratta, come si vede, di un fenomeno ancora virtuale, in quanto la disgiunzione con l’oggetto di
partenza (vale a dire O₁ per S₁ e O₂ per S₂) non è ancora pienamente realizzata. Detto in altri
termini, affinché si passi dalla virtualità alla realtà, la nuova relazione (con il nuovo bene ottenuto),
deve soppiantare completamente quella vecchia.
Uno scambio realizzato (“réalisé”) dovrà perciò essere formalizzato così come segue:
F trasf. [S₁ Æ (S₁ ∩ O₂)] ⇒ F trasf. [S₂ Æ (S₂ ∩ O₁)].
Ora, affinché tale scambio possa avvenire, è necessario che i due oggetti siano in qualche modo
identici, o meglio, assiologicamente equivalenti. Tale equivalenza può essere però stabilita soltanto
in forza di un “sapere”, in forza di un complesso di pre-cognizioni (relative, ovviamente,
all’universo dei valori), che siano capaci di fondare una sorta di “contratto fiduciario” (“contrat
fiduciaire”) tra i due soggetti.
326
Greimas descrive così questa situazione:
«La mise en place de la structure de l’échange exige, contrairement aux situations que nous avons examinées jusqu’à
maintenant, la présence de deux objets de valeur O₁ et O₂ : l’objet auquel un des sujets renonce (O₁) et un autre objet
(O₂) que le même sujet convoite et qu’il se verra attribué, et inversement, lorsqu’il s’agit du second sujet. Chacun des
deux sujets pris séparément est par conséquent, antérieurement au déclenchement de la transformation, à la fois sujet
réel et virtuel, conjoint par rapport à l’un des objets et disjoint par rapport à l’autre. La transformation appelée
figurativement échange sera, dans cette perspective, une nouvelle réalisation et une nouvelle virtualisation de chacun
des sujets» ? Ib. 40, 41.
162
Ma l’idea di “sapere” richiama quella di competenza e questa, a sua volta, le modalizzazioni
dell’essere, in quanto esse sono: a. unico fondamento possibile (come si è visto bene nella nota 115)
della suddetta competenza e b. condizione preliminare dell’azione.
È infatti questa categoria suprema (= essere) che fonda gli attributi di veridizione; è sufficiente
infatti proiettarla sul quadrato logico (formula [se così la si può definire] attraverso la quale
Greimas legge ogni singolo elemento della struttura narrativa, a cominciare dagli attanti, fino ad
arrivare alle modalità327), per accorgersi in che misura essa può decidere della verità, della falsità,
della menzogna o dell’apparenza di qualcosa, o meglio, (della verità, della falsità, della menzogna o
dell’apparenza) di ciò che è, in quanto è.
Per riassumere, ogni contratto (“contract fiduciaire”) implica una manipolazione delle categorie
dell’essere e, dunque, del sembrare. Tali categorie, filtrate attraverso la logica del quadrato,
implicano le seguenti relazioni:
VERO
Essere
Sembrare
SEGRETO
MENZOGNA
Non Sembrare
Non essere
FALSO
La verità è posta sull’asse dei contrari (essere – sembrare), la falsità su quello dei sub-contrari (non
sembrare – non essere); la menzogna si colloca sulla seconda delle due linee demarcanti il rapporto
di complementarietà (sembrare –non essere), mentre il segreto sulla prima (essere – non sembrare).
327
Si tratta di un altro dei capisaldi del pensiero greimasiano, sebbene sia di derivazione aristotelico-scolastica.
Alla luce di questa figura, ogni tipo di relazione e di opposizione (fra un soggetto e l’altro, fra una modalità e l’altra, fra
un soggetto con se stesso) viene letta, viene interpretata nella modalità sotto riportata:
S1
Non S2
S2
Non S1
S1 e S2 sono contrari (es. bianco e nero)
nonS1 e nonS2 sono sub-contrari (es. non bianco e non nero)
S1 e nonS1 sono contraddittori (es. bianco e non bianco)
S2 e nonS2 sono contraddittori anch’essi (es. nero e non nero)
S1 e nonS2 sono complementari (bianco e non nero).
Pertanto, ogni elemento della narrazione sarebbe segnato da relazioni di: contraddittorietà, complementarietà e
contrarietà.
163
Come si è detto precedentemente, il quadrato logico può essere applicato a ogni elemento della
narrazione. Se proviamo a utilizzarlo per la lettura delle relazioni, riguardanti i quattro ruoli
attanziali finora riconosciuti (soggetto, oggetto, destinante e destinatario328), avremo:
a. un soggetto positivo (“sujet positif”) contrapposto a un soggetto negativo (“sujet négatif”) o
antisoggetto (“anti-sujet”);
b. un oggetto positivo (“objet positif”) contrapposto a un oggetto negativo (“objet négatif”);
c. un destinante positivo (“destinateur positif”) contrapposto a un destinante negativo
(“destinateur negatif”) o anti-destinante (“anti-destinateur”);
d. un destinatario positivo (“destinataire positif”) contrapposto a un destinatario negativo
(“destinataire negatif”) o anti-destinatario (“anti-destinateur”).
Questi ruoli attanziali sono collocabili a un livello profondo, nel territorio cioè della grammatica
narrativa. In questo senso, è possibile che, nel “venire a discorso”, un attante possa essere
rappresentato da più attori o che, per converso, un attore rappresenti l’unione sincretica di più
attanti. Come scrive Greimas:
«On s’est aperçu, par exemple, que la relation entre acteur et actant, loin d’être un simple rapport
d’inclusion d’une occurrence dans une classe, était double (…) que si un actant (A₁) pouvait être
manifesté dans le discours par plusieurs acteurs (a₁, a₂, a₃), l’inverse était également possible, en
seul acteur (a₁) pouvant être le syncrétisme de plusieur actants (A₁, A₂, A₃)» (A.J. GREIMAS : 1983,
49).
Da questo punto di vista, è possibile, per esempio, che i ruoli attanziali del soggetto vengano
ricoperti anche da attori che non lo rappresentano direttamente; si potranno avere così, accanto alla
figura del suddetto soggetto (diversamente qualificato, a seconda delle modalizzazioni che lo
determinano [eroe o antieroe…]), un aiutante (“adjuvant”) e un opponente (“opposant”). O ancora,
da un altro lato, il destinante e il destinatario avranno la possibilità di incarnarsi nello stesso
personaggio, facendo sì che il destinante diventi destinante di se stesso; oppure il soggetto e
l’antisoggetto potranno prendere corpo nella medesima funzione discorsiva, dando vita alla
cosiddetta “lotta interiore”.329
Nel passaggio al livello di superficie dunque, per effetto dell’interazione del piano semantico con la
grammatica narrativa, possono comparire una molteplicità di nuove figure.
Un ruolo decisivo, in questo senso è giocato dalle modalità (= “modificazione di un predicato a
opera di un soggetto”) che, applicate ai diversi attanti, ne modificano strutturalmente i caratteri. Si è
già fatto riferimento alla nota 115, nella quale si sono chiariti i termini delle modalità di base, vale a
dire “essere” e “fare”, e di come esse si modalizzano fra loro, dando luogo ai fenomeni della
performanza (“far essere”), della competenza (“essere del fare” o meglio “ciò che fa essere”), della
sanzione (“essere modalizzante l’essere”) e della manipolazione (“far fare”).
Accanto a queste vi sono però altre quattro categorie (“potere”, “dovere”, “volere” e “sapere”) che
possono “sur-modalizzare” le prime due o essere, a loro volta, modalizzate.330
Per esempio, si dà il caso del “far sapere”, alla base del concetto di persuasione, oppure del “poter
(potenzialità)”, del “saper” e del “dover fare (prescrizione)”, presupposti della competenza (del
fare), o ancora infine del “voler fare”, condizione dell’accettazione della prescrizione.
328
A onor del vero, giacché si è parlato poco di destinante e di destinatario (sebbene, dal nostro discorso, si possa
facilmente evincere che si tratta di chi [incarnato o meno in un soggetto] da un lato attribuisce un bene e di chi,
dall’altro lo riceve), bisogna dire che esistono ben due funzioni narrative secondo Greimas; una (a) che lega un oggetto
a un soggetto (e di questa già si è detto) e un’altra (b) che fa da ponte fra un destinante (che attribuisce…), un oggetto e
un destinatario. Avremo pertanto:
(a) F (S Æ O);
(b) F (D₁ Æ O Æ D₂).
In ogni caso, per maggiori approfondimenti, si consulti: Ib. 50.
329
Si veda: Ib. 56, 57.
330
Tutto il discorso sulle modalità è contenuto in: Ib. 67/90.
164
Sarà possibile poi surmodalizzare anche la categoria dell’essere, da cui scaturiranno:
- un “poter essere”, che dice delle condizioni di possibilità;
- un “voler essere”, alla base della desiderabilità di un qualcosa;
- un “dover essere”, presupposto della necessità.
Ognuna di queste “sur-modalizzazioni” (sia dell’essere che del fare), può essere, a sua volta,
proiettata sul quadrato logico, generando nuove forme di relazione e opposizione. Si consideri, per
esempio, il caso del dovere.
Il “dover fare”, in quanto presupposto grammatologico della forma semantica della prescrizione, è
inserito nella seguente rete di rapporti:
dover fare
(prescrizione)
non dover non fare
(permissività)
dover non fare
(interdizione)
non dover fare
(facoltatività)
Questo è invece quello che accade al “dover essere”:
dover essere
(necessità)
dover non esser
(impossibilità)
non dover non essere
(possibilità)
non dover essere
(contingenza)
Questa operazione può essere chiaramente ripetuta per tutti gli altri casi di surmodalizazione; si
otterranno così altre sei strutture relazionali (riguardanti rispettivamente: “poter”, “saper”, “voler
fare” e “poter”, “saper”, “voler essere”), le quali implicheranno, a loro volta, ben 24 situazioni
modali.331
L’altra interessante manovra, effettuata da Greimas, è il confronto fra alcune di queste strutture
relazionali, vale a dire fra alcune delle suddette surmodalizzazioni, in quanto logicamente “rilette”
attraverso il quadrato. Per esempio, dall’accostamento del “dover essere” al “poter essere”, il nostro
studioso deriva le condizioni di esistenza e i confini intensionali di nozioni come la possibilità,
l’impossibilità, la contingenza e la necessità; dalla comparazione fra “dover fare” e “voler fare”, in
quanto premesse delle categorie semantiche di obbedienza, volontà, resistenza e abulia, ricava i
requisiti necessari per l’accettazione di un patto o di una proposta; dal paragone, infine, tra “dover
essere” e “poter essere”, deduce invece la possibilità o l’impossibilità della realizzazione di un atto.
La lettura di Greimas, in definitiva, rappresenta senz’altro un ottimo esempio di teoria del testo, ma
non risponde pienamente alle nostre esigenze. Se da un lato in effetti, lo studioso franco-lituano
cerca di esaurire in modo estremamente logico la descrizione delle possibilità narrative di un
331
Purtroppo, non c’è lo spazio fisico per analizzare ciascuna delle modalità in questione. Pertanto, per un’analisi
approfondita dell’argomento, rimandiamo alla lettura del testo di Greimas, in particolare, al capitolo sulla teoria delle
modalità (: Ib. 67/91) e a quello sulle modalizzazioni dell’essere (: Ib. 93/102).
165
elaborato o di un’opera in generale, dall’altro non si preoccupa affatto di fornire un quadro di lettura
pragmatica (per lo meno così pare), che permetta di inserire questo elaborato o questa opera in un
contesto dialogico.
Detto in altri termini, se il testo è uno strumento utilizzato da un mittente per comunicare con un
destinatario, nell’analisi greimasiana, non si vede attraverso quali espedienti tale atto comunicativo
si realizza. Cioè, anche se l’esposizione dell’intelaiatura logica e delle relazioni sussistenti fra i
personaggi (da lui elaborata) è quanto mai minuziosa, essa, da sola, non è sufficiente a spiegare in
che misura, in che modalità e in che termini una “trasmissione” (= atto comunicativo) e, soprattutto,
una negoziazione/interpretazione di contenuti può in generale avvenire. Evidentemente, Greimas
(per lo meno nell’opera in questione) “prescinde dal fatto che” o “non considera il fatto che” un
testo è anzitutto un artificio comunicativo.
Ma, per l’appunto, un artificio comunicativo (di qualunque tipo esso sia), affinché sia degno di tale
nome, deve implicare necessariamente una possibilità di replica, una possibilità di rilettura, una
possibilità di ri-esaminazione e ri-elaborazione del significato; deve essere, in breve, sia un
prodotto, che un processo cooperativo.
In questo senso, un testo (in quanto artificio comunicativo) implica la presenza di un programma
che regoli il rapporto, che regoli cioè la trasmissione, la ricezione e l’interpretazione del messaggio.
Tuttavia, sebbene così duramente criticata, non ci sembra opportuno rifiutare in toto la prospettiva
greimasiana, la quale presenta anche degli aspetti interessanti. Il nostro tentativo sarà pertanto
quello di integrarla con una lettura un po’ più pragmatica.
Partiamo dunque dall’analisi di uno studioso, che sembra invece dare molto peso al testo
(pragmaticamente inteso), poiché lo pone al centro di uno scambio e, quindi, di un progetto
comunicativo; pensiamo, nella fattispecie, a Saymour Chatman332, il quale afferma quanto segue:
«… una narrativa, come prodotto di un numero fisso di enunciati, non può mai essere totalmente
“completa” allo stesso modo di una riproduzione fotografica, dal momento che il numero
intermedio di azioni o qualità plausibili è virtualmente infinito (…) E virtualmente vi è un
continuum infinito di dettagli immaginabili fra gli episodi, che di solito non sono espressi ma
potrebbero esserlo: l’autore sceglie gli eventi che considera sufficienti a mettere in azione il
necessario senso del continuum. Normalmente il pubblico è disposto ad accettare una linea
principale di narrazione e a colmare le lacune con le nozioni acquisite tramite l’ordinaria esperienza
di vita e di arte. (…) Ma vi è [anche] un’altra classe di indeterminati – che i fenomenologi
chiamano Unbestimmtheiten – che derivano dalla natura specifica del medium. Il medium può essere
specializzato in certi effetti narrativi e non in altri» (S. CHATMAN, Storia e discorso, NET-Nuove
edizioni tascabili, Il Saggiatore, Milano, 2003, 27).
Dunque, la narrazione, in quanto incarnata in un testo, implica di per se stessa un ruolo attivo del
recettore, un ruolo attivo del destinatario, che si trova, per questo, investito del compito di “colmare
le lacune”, cioè di interpretare, o meglio, di ricostruire il messaggio ricevuto.
Ma come può essere definita, o più precisamente, come possono essere articolate le strutture
complesse della suddetta narrazione?
Nel fornire una risposta a questa domanda, Chatman recupera la distinzione fra storia (“story”) e
discorso (“discourse”) (assimilabile alla tradizionale divisione fra contenuto ed espressione) e,
successivamente, la integra alle due (importantissime) categorie di forma e sostanza; così facendo,
ottiene i seguenti paradigmi esplicativi:
a. forma del contenuto;
332
Ci riferiamo in particolare a un testo non troppo recente, ma ancora di grandissima attualità:
- S. CHATMAN, Story and discourse, Cornell University Press, London, 1978.
Purtroppo, non essendo riusciti a entrare in possesso dell’originale inglese, saremo costretti a citare dalla traduzione
italiana:
- S. CHATMAN, Storia e discorso, NET (Nuove edizioni tascabili, Il Saggiatore), Milano, 2003.
166
b. sostanza del contenuto;
c. forma dell’espressione;
d. sostanza dell’espressione.
In linea generale, la sostanza, rappresenta l’aspetto materiale, cioè le potenzialità comunicative, in
quanto suscettibili di essere attualizzate. La forma è invece l’organizzazione, o meglio,
l’attualizzazione di alcune di queste potenzialità.
Tale categorizzazione può essere oltremodo esemplificata facendo riferimento alla lingua:
«Nelle lingue, la sostanza dell’espressione è la natura materiale degli elementi linguistici, ad
esempio i suoni fatti dalla voce o i segni sulla carta. La sostanza del contenuto (o “significato”) è
invece “l’intera massa di pensieri e di emozioni comuni agli uomini, indipendentemente dalla lingua
che essi parlano” (J. LYONS, Introduction to Theoretical Linguistics, Cambridge, 1969 [trad. it.
Introduzione alla linguistica teorica, Laterza, Bari, 1971, 71]). Ogni lingua (riflettendo la propria
cultura) suddivide queste esperienze mentali in modi differenti. Per cui la forma del contenuto è la
“struttura astratta delle relazioni che una lingua particolare impone… sulla medesima sostanza
sottostante” (J. LYONS: 1971, 70). L’apparato vocale è capace di un’immensa varietà di suoni, ma
ogni lingua ne seleziona un numero relativamente piccolo attraverso il quale esprime i suoi
significati. (…) Così i linguisti distinguono la sostanza dell’espressione (fonica) cioè la miriade dei
suoni udibili utilizzati da una lingua e la forma dell’espressione, cioè il limitato insieme di fonemi
distinti o la serie di opposizioni foniche che la caratterizzano» (S. CHATMAN: 2003, 19, 20).
All’interno della storia, è poi possibile distinguere ancora fra:
a. eventi;
b. esistenti.
a. è tutto ciò che avviene, tutto ciò che capita, in breve, tutto ciò che comporta un
cambiamento di stato e, dunque un’evoluzione della storia.
Gli eventi inglobano però al proprio interno altre due categorie:
- le azioni, in quanto riferibili a un soggetto che le compie e che si pone perciò come
loro causa prima;
- e gli avvenimenti, cioè ciò che accade, perché accade; in questo caso, un eventuale
soggetto si configura perciò non già come “agente”, bensì come “paziente”.
Ora, non tutto ciò che succede ha però lo stesso peso. Esisteranno perciò due differenti
forme di avvenimenti: i nuclei (“eventi principali”) e i satelliti (“eventi secondari”). Dal
gioco, dalla manipolazione dialettica di queste due entità narrative, derivano situazioni di
forte emotività come la “suspence” (situazione di ansietà, introdotta da una piccola
anticipazione [attraverso un satellite] di ciò che sta per avvenire) e la sorpresa (data dalla
negazione di ciò che è avvenuto).333
b. Gli esistenti sono invece tutto ciò che c’è, tutto ciò che si dà; essi possono essere pertanto:
I.
inanimati (= ambiente o spazialità della storia);
II.
animati (= personaggi e ruoli narrativi).
I. La spazialità, soprattutto nella sua dimensione discorsiva, o meglio, nel modo in cui è
rappresentata al livello discorsivo, gioca un ruolo fondamentale, in quanto è uno degli
strumenti principali attraverso cui l’autore esercita il suo giudizio. Nel cinema, ma in
tutti i mezzi di comunicazione audiovisivi, i parametri attraverso cui si esercita
l’organizzazione spaziale sono i seguenti:334
333
Si veda: Ib. 58/62.
Chatman sottolinea l’estrema difficoltà a operare una distinzione fra spazio della storia e spazio del discorso:
«I confini fra lo spazio della storia e lo spazio del discorso non sono tanto facili da stabilire come quelli fra il tempo
della storia e il tempo del discorso. A differenza della sequenza temporale, la collocazione o disposizione fisica del
luogo non ha una logica naturale nel mondo della realtà. Il tempo passa per noi tutti nello stesso senso dell’orologio (se
non alla stessa velocità psicologica) ma la disposizione spaziale di un oggetto è relativa ad altri oggetti e alla posizione
dello spettatore nello spazio. Angolazione, distanza e così via sono controllati dalla posizione della macchina da presa
334
167
-
Campo o grandezza, riguardanti da un lato la grandezza (appunto) naturale di un
oggetto o di una persona, dall’altro la grandezza risultante dalla distanza
(eventualmente manipolabile) di questo dalla cinepresa.
- Profilo, tessitura e densità, ovvero gli strumenti per la definizione dei contorni delle
cose, che sono dati proprio dai giochi di luci e di ombre, oltre che dalla terza
dimensione.
- Posizione, categoria qui intesa nel senso: a. dell’ “ubicazione”, del luogo fisico in cui
ciascun esistente si trova, b. della relazione spaziale che tale esistente ha con gli altri
e c. del suo rapporto con l’ “orizzontalità” e la verticalità dell’inquadratura.
- Grado, genere e area dell’illuminazione degli oggetti, in quanto suscettibili di
essere diversamente illuminati e colorati.
- Chiarezza o grado della resa ottica, riguardanti la messa a fuoco.
II. Veniamo dunque agli esistenti animati, ovvero ai personaggi o ruoli narrativi. In
Greimas, un personaggio, in quanto incarnazione discorsiva di un attante, costituiva
piuttosto una funzione, che non, per così dire, un’entità personale. Ci sembra che Chatman
non condivida pienamente questo tipo di interpretazione:
«Una teoria funzionale del personaggio dovrebbe mantenersi aperta e considerare i
personaggi come esseri autonomi e non come pure funzioni dell’intreccio. Dovrebbe
mostrare che il personaggio viene ricostruito dal pubblico per mezzo di tracce esplicite o
implicite, organizzate in un costrutto originale, che vengono comunicate dal discorso,
attraverso qualsiasi medium. Ma che cos’è che ricostruiamo? Una risposta elementare
basterà: “Noi ricostruiamo come sono i personaggi”, dove il “come” implica che la loro
personalità rimane aperta, soggetta a ulteriori congetture e arricchimenti, analisi e revisioni
(…) La narrativa evoca un mondo, e dal momento che non si tratta altro che di
un’evocazione, siamo liberi di arricchirla con tutte le esperienze, reali o immaginarie, che
abbiamo acquisito» (S. CHATMAN: 2003, 123, 124).
Pertanto, un personaggio si definisce come segue:
«Ritengo – senza nessuna originalità ma fermamente – che il personaggio consista in un
paradigma di tratti psicologici, in cui “tratto” è usato nel senso di “qualità personale
relativamente stabile o costante”, ammettendo che può rivelarsi, cioè emergere prima o dopo
nella storia, oppure scomparire ed essere sostituito con un altro (…) Nello stesso tempo
bisogna distinguere i tratti da fenomeni psicologici più effimeri, come sensazioni, stati
d’animo, riflessioni, motivazioni temporanee, attitudini e così via che possono anche
coincidere con i tratti ma non sempre lo fanno» (S. CHATMAN: 2003, 130).
Ci sentiamo di poter condividere la tesi di Chatman, pur non volendo ripudiare in toto la prospettiva
funzionalista, la quale potrebbe rivelarsi comunque un’ottima ipotesi di lettura (si badi bene, si è
detto “ipotesi” e non lettura esaustiva).
Un altro importantissimo strumento attraverso il quale l’autore può emettere il suo giudizio o,
comunque, far filtrare la sua visione del mondo, è l’organizzazione della temporalità.
Il nostro autore riconosce in questo senso un tempo della storia, corrispondente al tempo reale, in
quanto unità di misura dello svolgersi degli eventi, e un tempo del discorso, caratterizzato dalla
possibilità di riorganizzare le vicende in modo differente e autonomo dal corso concreto.
Chatman, nel riconoscere e definire i tipi di relazione fra questi due livelli di cronologia narrativa, si
riallaccia agli studi di Genette335, il quale aveva individuato tre nozioni fondamentali:
stabilita dal regista. La vita non ci dà giustificazioni predeterminate per la collocazione. Si tratta di scelte, vale a dire di
risultati dell’abilità del regista», Ib. 101.
335
Chatman si riferisce al seguente articolo:
168
a.
b.
c.
a.
ordine;
durata;
frequenza.336
Si tratta del modo in cui il discorso riorganizza gli eventi.
Le possibilità di “riorganizzazione” sono fondamentalmente due:
- Diacronia, se fra il tempo della storia e il tempo del discorso vi è un rapporto di
identità.
- Anacronia, se l’ordine di rappresentazione è difforme dall’ordine reale.
Le forme di acronia sono, a loro volta, di due tipi:
I.
Analessi (o flashback), in quanto rappresentazione di eventi precedenti
all’ADESSO della storia.
II.
Prolessi (o flashforward), in quanto rappresentazione di eventi
posteriori all’ADESSO della storia.
L’anacronia può essere inoltre:
α. Interna se inizia dopo l’ADESSO della storia;
β. Esterna se il suo inizio e la sua fine si collocano prima dell’ADESSO;
γ. Mista se inizia prima, ma termina dopo l’ADESSO.
b. La durata è definibile invece come relazione fra l’ “estensione” (cronologica) degli eventi
della storia e l’ “estensione” (cronologica) degli eventi venuti a discorso.
Da tale relazione possono scaturire i seguenti artifici rappresentativi:
- Riassunto, fenomeno per cui gli enunciati narrativi riassumono un gruppo più o
meno esteso di eventi. È una tecnica che può venire resa cinematograficamente (ma,
volendo, anche televisivamente [nel caso della fiction, del documentario o di tutti i
testi non concepiti per la diretta]) mediante il “montaggio-sequenza”.
- Ellissi, espediente per mezzo del quale il divenire discorsivo viene arrestato, mentre
quello storico continua a procedere. Negli audiovisivi, questo effetto è ottenuto,
mediante la giustapposizione di inquadrature, semanticamente indipendenti l’una
dall’altra.
- Scena, ovvero coincidenza, identità fra lo sviluppo cronologico della storia e lo
sviluppo cronologico del discorso.
- Estensione, artificio per cui il tempo del discorso tende a essere più lungo del tempo
della storia. Il cinema può utilizzare diverse tecniche per rendere questa discrepanza;
una delle più frequenti è l’ “accelerazione della cadenza di presa”, cioè l’utilizzo di
una ripresa più veloce della proiezione. Esistono tuttavia anche altri metodi come,
per esempio, la sovrapposizione di immagini in dissolvenza…
- Pausa: la storia si ferma, mentre il discorso continua a procedere autonomamente. È
il caso della “descrizione”, espediente narrativo molto difficile da riprodurre
attraverso delle immagini. Chatman sostiene che l’unico sistema possibile per
“descrivere” audiovisivamente sia il “quadro fisso”.337
c. Veniamo dunque alla terza e ultima categoria, la frequenza, che indica “quante volte” (la
frequenza appunto) un determinato avvenimento compare nel corso della narrazione.
-
G. GENETTE, Time and narrative in “À la recherche du temps perdu”, in: (a cura di) J. H. MILLER, Aspects of
Narrative, New York, 1970.
336
Tutto il discorso sulla temporalità narrativa lo si ritrova in:
Ib. 63/81.
337
Ecco quanto sostiene Chatman in merito:
«Ho l’impressione che la descrizione in quanto tale sia generalmente impossibile nelle narrative filmiche, perché il
tempo della storia prosegue di mano in mano che le immagini vengono proiettate sullo schermo, per tutto il tempo in cui
avvertiamo che la macchina da presa continua a procedere (…) L’effetto della pura descrizione sembra presentarsi
soltanto quando il film “si ferma” effettivamente, nel cosiddetto “quadro fisso” (la proiezione continua, ma tutte le
inquadrature mostrano esattamente la stessa immagine)», Ib. 75, 76.
169
Anche in questo caso, ci troviamo di fronte a un espediente narrativo complesso, a un
espediente cioè che implica le seguenti “sotto-categorizzazioni”:
- (frequenza) singolativa, per cui un singolo evento è rappresentato in un singolo
momento della storia;
- (frequenza) singolativo-multipla, cioè presentazione di diverse scene, corrispondenti
a diversi momenti (o istanti) della storia;
- (frequenza) ripetitiva, ovvero costruzione di molte raffigurazioni discorsive dello
stesso momento della storia;
- (frequenza) iterativa o presentazione ripetuta della riproduzione di uno stesso
evento.
Prima di esaminare in modo analitico il livello discorsivo, in quanto luogo dello scambio fra
mittente e destinatario, è forse utile esemplificare graficamente la problematica sulla quale, finora,
abbiamo disquisito.
Azioni
Eventi
Nuclei
Avvenimenti
Satelliti
STORIA
Personaggio
Animati
Ruolo
Esistenti
Inanimati – Ambiente
Organ. Spaziale
Campo o grandezza
Profilo, tessitura e densità
Posizione
Grado, gen. e area d’illu.
Chiarezza o grado di resa ottica
NARRAZIONE
Diacronia
Ordine
Analessi
Anacronia
Prolessi
DISCORSO
Durata
Organ. Tempor.
.
Riassunto
Ellissi
Scena
Estensione
Pausa
Singolativa
Singolativo-Multipla
Freq.
Ripetitiva
Iterativa
170
Come si vede, gli elementi in gioco sono numerosi; per questo era necessario dare una veste
schematica al problema.
Esaurite le discussioni relative alla storia e ai rapporti che questa intrattiene con il discorso, è
venuto il momento di occuparci proprio di quest’ultimo, o meglio, degli strumenti di cui esso si
servirebbe per costruire un processo comunicativo.
Il testo (in quanto espediente, rappresentazione e luogo fisico del rapporto di scambio fra mittente e
destinatario) implica, secondo Chatman, i seguenti fattori338:
- Autore reale, colui che si occupa dell’elaborazione fisica del prodotto narrativo.
- Autore implicito, ovvero l’immagine che l’autore reale, nel testo, dà di sé. È, in
breve, colui che giudica i personaggi o la vicenda, colui che fornisce il punto di vista
e le regole, colui che decide in che termini e in che misura il dispositivo finzionale
può essere posto al centro di una relazione dialogica. In questo senso, il compito del
lettore sarà quello di cercare di ricostruire questa figura, in quanto principio
regolatore dello scambio.339
- Narratore, cioè la voce narrante, colui che ha l’onere di raccontare gli eventi,340 una
figura che non sempre è presente al livello dell’espressione, poiché, molto spesso, gli
autori reali preferiscono servirsi di altri espedienti come quello del narratore
inesistente o del narratore nascosto.
In ogni caso, non bisogna confondere questo artificio con quello dell’autore
implicito, il quale, contrariamente al narratore, è sempre rappresentato nell’opera.
Un caso che può forse aiutarci a chiarire questa distinzione (= autore
implicito/narratore) è quello del narratore inattendibile; che cosa o chi infatti può
farcelo apparire tale? Nient’altro che l’autore implicito, attraverso l’abilità
nell’utilizzo dei meccanismi finzionali.
- Narratario, controparte del narratore, ovvero colui al quale l’autore implicito si
rivolge per fornire istruzioni, o meglio per suggerire come deve essere esercitato il
ruolo di lettore implicito.341 Esattamente come il narratore, esso può essere presente
o assente vale a dire palese (se si incarna nella voce di un personaggio), nascosto o
inesistente.342
338
Ib. 153/159.
Ecco la descrizione che Chatman fa dell’autore implicito:
«L’autore viene detto “implicito” perché è ricostruito dal lettore per mezzo della narrazione. Non è il narratore, ma
piuttosto il principio che ha inventato il narratore insieme a tutto il resto della narrazione, che ha sistemato le carte in un
certo modo, ha fatto succedere queste cose a questi personaggi, in queste parole o in queste immagini. A differenza del
narratore, l’autore implicito non può dirci niente. Egli, o meglio esso, non ha voce, non ha mezzi diretti di
comunicazione. Ci istruisce in silenzio, attraverso il disegno del tutto, con tutte le voci, con tutti i mezzi che ha scelto
per farci apprendere (…) L’autore implicito stabilisce le norme della narrativa…», Ib. 155, 156.
340
Il narratore è viene definito così dal semiotico americano:
«Il narratore, la fonte della trasmissione, può essere considerato, a mio parere, come uno spettro di possibilità, che
vanno dai narratori che sono meno udibili a quelli che lo sono in massimo grado (…) La presenza del narratore nasce
dalla percezione che ha il pubblico di una comunicazione evidente. Se il pubblico sente che gli si sta raccontando
qualche cosa, presume che vi sia un narratore. L’ipotesi contraria è una “presenza diretta” allo svolgersi dell’azione.
Certo anche (…) la pura mimesi è un’illusione, ma il grado di analogia possibile varia», Ib. 154.
341
«Il personaggio del narratario è solo un espediente col quale l’autore implicito informa il lettore reale su come
giocare la parte del lettore implicito, e quale Weltanschauung adottare», Ib. 157.
342
Chatman, richiamandosi a Gerald Prince, cerca di descrivere la figura del narratario in tutte le sue possibili
sfaccettature:
«Gli studi sul narratario pongono molte interessanti questioni: chi è precisamente? Come si fa a identificarlo? Quale
ruolo narrativo rappresenta? Gerald Prince ha iniziato a rispondere a queste domande: “Un narratore può indirizzare la
narrazione a se stesso (…) Può indirizzarsi a un ricevente o a più riceventi rappresentati come personaggi (…) Il
personaggio ricevente può essere un ascoltatore (…) o un lettore (…) può lui stesso giocare una parte importante negli
eventi che gli vengono raccontati (…) o al contrario può non aver nessun ruolo (…); può essere influenzato da ciò che
ascolta (…) oppure no (…) A volte il narratore può indirizzarsi a un ricevente, poi a un altro, e poi a un altro ancora
(…) A volte la narrazione può essere destinata a un ricevente e cadere nelle mani di un altro (…) Spesso il narratore
rivolge la sua narrazione a un ricevente che non è rappresentato come personaggio, un ricevente potenzialmente reale
339
171
-
Lettore implicito, cioè il pubblico presupposto dalla narrazione, il referente
comunicativo dell’autore implicito.
- Lettore reale, ovvero colui che, nei fatti, fruisce il testo: la vera controparte
dell’autore.
Dunque, si potrebbe affermare che, al di sopra del livello contenutistico, esista un piano ulteriore,
un piano che implica una serie di figure fittizie, aventi il compito di simulare e regolare lo scambio
comunicativo.
Detto questo, il rapporto dialogico-dialettico fra un mittente (che rielabora finzionalmente e
trasmette la propria visione del mondo) e un destinatario (che legge e reinterpreta il contenuto di un
opera) è rappresentabile così come segue:
TESTO
Autore reale Æ Autore implic Æ Narratore Æ Narratario Æ Lettore implic Æ Lettore reale
La differenza fra autore implicito e narratore richiama un’altra distinzione, indice del giudizio,
dell’interpretazione che l’artefice del testo elabora rispetto a un certo stato di cose, rispetto a un
complesso di eventi: stiamo parlando della distinzione fra il punto di vista e la voce narrante. La
prima categoria concerne il punto di osservazione, il modo di vedere, la prospettiva da cui si osserva
un certo stato di cose, la seconda riguarda invece il venire a parola degli esistenti e degli eventi
(essa è pertanto [si potrebbe arditamente affermare] anche [eventuale] espressione di un certo punto
di vista); detto in altri termini, la prima riguarda la storia, la seconda il discorso.
«La differenza fondamentale fra “punto di vista” e voce narrativa è questa: il punto di vista è il
luogo fisico o l’orientamento ideologico o la situazione pratica-esistenziale rispetto a cui si pongono
in relazione gli eventi narrativi. La voce, al contrario, si riferisce al discorso o agli altri mezzi
espliciti tramite i quali eventi ed esistenti vengono comunicati al pubblico. Punto di vista non
significa espressione, significa solo la prospettiva secondo cui è resa l’espressione. Prospettiva ed
espressione non necessariamente sono collocate nella medesima persona. Molte combinazioni
possono presentarsi», (S. CHATMAN: 2003, 161).
Dalla citazione di Chatman risulta evidente che la nozione di punto di vista può essere intesa in
diversi modi:
«Nell’uso ordinario si possono distinguere almeno tre significati:
(a) letterale: attraverso gli occhi di qualcuno (percezione)
(b) figurato: attraverso la visione del mondo di qualcuno (ideologia, sistema concettuale,
Weltanschauung, ecc.)
(c) traslato: secondo l’interesse o il vantaggio di qualcuno (indicando con questo
l’interesse generale, l’utile, il benessere, la felicità, ecc.)», (S. CHATMAN: 2003, 159).
Dunque, è evidente che la rappresentazione del mondo, presente in un testo, è in prospettiva e che
questa prospettiva può incarnarsi o meno in quella di un personaggio. In ogni caso, ciò che conta,
ciò che giudica di un certo stato di cose fittizio (in quanto presente nello spazio del testo) è solo ed
esclusivamente il punto di vista dell’autore implicito; corrisponda o meno a quello del narratore,
(…) a questo ricevente ci si può rivolgere direttamente (…) oppure no (…) Può trattarsi di un ascoltatore (…) di un
lettore (…) e così via”», Ib.278, 279.
172
corrisponda o meno a quello di un personaggio, corrisponda o meno alla visione del mondo di un
protagonista.
In definitiva, questo discorso mostra irrefutabilmente che: ogni opera, ogni costruzione fittizia,
proprio perché fittizia, presenta al suo interno un’incontro e uno scontro di “mondi” ipostatizzati e
incarnati in figure e livelli differenti. Il compito del lettore sarà dunque quello di isolare e
riconoscere questi mondi, scoprendo a quale di essi corrisponde quello del mittente.
È inutile dilungarsi troppo sul modo in cui i mezzi audiovisivi mettono in atto, realizzano questo
espediente; ci basti ricordare che essi dispongono di due canali (quello visivo e quello auditivo),
organizzabili dipendentemente o indipendentemente l’uno dall’altro (es. commento di una voce
esterna, oppure suoni in netto contrasto con quello che avviene sullo schermo…), oppure
organizzabili in modi differenti ciascuno al proprio interno (si pensi a tutte le possibilità offerte
dall’immagine: giochi di inquadrature, montaggi, dissolvenze…)…343
Non ci occupiamo in modo troppo analitico di questi aspetti, perché ciò che a noi interessa è
anzitutto capire in che modo si realizza l’interazione mittente/destinatario, o meglio in che modo
viene costruita la relazione “interlocutoria”.
Ora. Un testo, in quanto espressione di qualcosa, riposa sulle potenzialità espressive (per l’appunto)
del linguaggio e un linguaggio è potenzialmente espressivo, in quanto può venire attualizzato da
enunciati. Bene, gli enunciati possono essere di due tipi: di stato (in quanto caratterizzati dalla
modalità dell’ “esistenza” [“essere”]) o di processo (in quanto caratterizzati dalla modalità narrativa
del “fare” [lo si era già visto parlando di Greimas]). Ma che cosa può fare un enunciato? Questa
domanda ci rimanda alla teoria dello “speach act” di Austin, secondo la quale il dire
corrisponderebbe a fare qualcosa.344 In questo senso, una frase implicherebbe tre componenti:
- Locutoria, ciò che viene detto.
- Illocutoria, ciò che si fa dicendo (per esempio una promessa o una minaccia).
- Perlocutoria, gli effetti prodotti sull’ascoltatore dall’enunciato.
Pertanto, molto più di quanto si poteva preliminarmente immaginare:
«La teoria degli atti di parola fornisce uno strumento molto utile per distinguere il linguaggio del
narratore, vis-à-vis col suo pubblico narrativo, da quello dei personaggi vis-à-vis fra loro» (S.
CHATMAN: 2003, 171, 172).
C’è però una differenza sostanziale fra l’atto linguistico compiuto da un personaggio e quello
compiuto dal narratore; mentre quello compiuto dal personaggio è collocabile nella storia, quello
del narratore (o eventualmente dell’autore implicito) riguarda il discorso ed è quindi finalizzato al
rapporto comunicativo con il lettore. Di conseguenza, se esiste un processo performativo (o
addirittura manipolativo), questo è riscontrabile al livello dell’elaborazione enunciativa. Da questo
punto di vista, giocano un ruolo fondamentale i dispostivi finzionali della narrazione nascosta e
della storia non narrata (i più utilizzati dai mezzi di comunicazione audiovisivi, come si può
facilmente immaginare)345, poiché questi implicano proprio un maggiore lavoro di “interpretazione”
(o meglio di “infralettura” [lettura fra i piani narrativi], come direbbe Chatman) o di riempitura dei
cosiddetti “vuoti narrativi”.
Appare ora più chiaro quanto avevamo affermato all’inizio: il testo non è solo un prodotto, ma
anche un processo, ovvero un “dato” e, nello stesso tempo, un “farsi”.
A questo bisogna aggiungere il fatto che tale testo, non è quasi mai qualcosa di definito e di
concluso in se stesso, detto in altri termini, esso non ha un’autonomia semantica “totale”, ma
rimanda, o meglio, può rimandare, può riallacciarsi, può rinviare ad altri elaborati che ne
completino il senso. Del resto, tutto ciò è implicato finanche dall’etimologia del termine; da che
343
In ogni caso, qualora si voglia approfondire il discorso, si veda: Ib. 167/170.
Si veda: Ib. 170/176.
345
Nel testo di Chatman, questi due dispositivi vengono analizzati in modo molto approfondito in due capitoli; si veda:
Ib. 153/286.
344
173
cosa deriva infatti la parola testo? Dal termine latino “textum”, cioè tessuto, rete; in questo senso,
esso è definibile anche come “rete”, come “tessuto” di significati.
Tale rete, tale tessuto non deve però necessariamente essere qualcosa di chiuso, qualcosa di a sé
stante, ma può implicare anche delle relazioni con altre reti e tessuti, vale a dire può essere un
nucleo significante, legato ad altri nuclei. Questo è il principio dell’ipertesto, ma non solo. Ogni
opera, ogni film possono essere inseriti in una corrente, in un filone, senza il riferimento al quale
non si comprenderebbe a pieno il loro significato; ogni opera, ogni film possono apertamente citare
opere o film precedenti, oppure possono a questi, più o meno esplicitamente, riferirsi…
Senza il concetto di inter-testualità, non si potrebbero spiegare fenomeni come quello
dell’ibridazione dei generi e delle tecniche, a cui si è fatto riferimento nel capitolo precedente.
Prima di procedere con l’analisi del “patto comunicativo” in televisione, è possibile ridefinire, o
meglio, arricchire di contenuto alcune delle nozioni utilizzate per descrivere la neo-tv.346
Partiamo dalle categorie temporali. Avevamo distinto:
- Tempo dell’enunciato, il tempo delle vicende rappresentate, per come sono
rappresentate (quello che Chatman chiamerebbe Tempo della storia, ovvero il tempo
degli eventi, nel loro sviluppo cronologico).
- Tempo dell’enunciazione o Tempo del discorso (tanto per essere solidali con una
terminologia di tipo “chatmaniano”), cioè il modo in cui gli avvenimenti sono
presentati, attraverso i dispositivi di flash-back, di feed-back e di discrepanza rispetto
al “tempo reale”.
- Tempo della lettura, cioè il tempo della lettura/fruizione.
Passiamo alle categorie spaziali (e queste sono più strettamente legate al mezzo televisivo).347
Avevamo riconosciuto:
- Uno spazio del testo, ovvero lo spazio che concretamente ciascun testo-programma
occupa.
- Uno spazio dei testi, cioè lo spazio in cui la singola testualità è inserita: il palinsesto
(si tratta di una nozione che, ora, cioè dopo aver recuperato il concetto di “intertestualità”, risulta ancora più pregna di significato).
- Uno spazio nel testo: il modo in cui eventi ed esistenti sono rappresentati (in tv:
organizzazione dello studio, luci, ombre, inquadrature, montaggio…)
- Uno spazio psicologico-astratto, che indica la distanza (psicologicamente percepita)
fra il mittente e il destinatario.
A questi elementi aggiungiamo i guadagni poc’anzi ottenuti. In un testo, in quanto centro dello
scambio comunicativo, saranno implicati i seguenti ruoli:
- Autore reale o mittente.
- Autore implicito o enunciatore.
- Narratore.
- Narratario.
- Lettore implicito o enunciatario.
- Lettore reale o destinatario.
Per quanto riguarda invece l’isolamento dei “ruoli attorial-attanziali” presenti nella storia, possiamo
riallacciarci all’analisi di Stranamore (show della berlusconiana Canale 5), realizzata da
Caprettini348. Richiamandosi alla dottrina greimasiana, lo studioso riconosceva:
- un soggetto (cioè l’eroe);
- un oggetto (del desiderio);
- un destinante (cioè colui che spinge l’eroe ad agire);
- un destinatario (ovvero colui che beneficia dell’azione del destinante);
- un aiutante;
346
Si veda cap. I, pag. 59. Tali categorie sono, a loro volta, riprese da un nostro articolo, discusso sempre nel capitolo
precedente: F. MARINOZZI, La frammentazione testuale nella televisione italiana, www.medienanalyse-online.de.
347
È bene puntualizzare il fatto che non si tratta di spazio fisico.
348
G. P. CAPRETTINI, La scatola parlante, Editori Riuniti, Roma, 2000, 96.
174
- un oppositore o anti-eroe.
Ora, come si è detto, poiché le categorie di Greimas non fanno completamente al caso nostro, è
possibile che, nel corso della ricerca, esse vengano ampliate o integrate (qualora, naturalmente, la
prassi lo richieda) ad altre.
Stabiliti questi punti fermi, è possibile procedere con la descrizione del patto comunicativo in
televisione.
4. La conversazione simulata: il patto fiduciario nella neo-televisione
Un testo è dunque un progetto, un prodotto da realizzare attraverso un fare cooperativo; detto in
altri termini: è il centro di uno scambio comunicativo.
La tv, in quanto costituita di programmi (che sono a loro volta dei testi), si inserisce pienamente in
questa dinamica: la televisione è perciò uno strumento, un mezzo che costruisce una relazione più o
meno attiva tra un mittente e un destinatario.
Ma come, cioè attraverso quale tipo di simulacri può venire costruita una siffatta relazione?
Uno studio di Francesco Casetti349, non troppo recente, ma dai contenuti ancora molto attuali, può,
forse, aiutarci a rispondere a questa domanda.
Uno degli aspetti più interessanti del testo in questione è il modo in cui lo studioso utilizza alcune
delle categorie alle quali ci siamo richiamati nel precedente paragrafo (stiamo pensando, in
particolare, agli schemi della dottrina narratologica greimasiana): si tratta dell’applicazione della
teoria delle modalità non già (e non soltanto) alle relazioni semantico-narrative, ma al rapporto di
scambio tra chi elabora e chi riceve il messaggio (cioè, in base a questa lettura, tale rapporto
verrebbe costruito innanzitutto attraverso l’azione delle modalità stesse).
Ma procediamo per gradi.
La caratteristica essenziale della televisione è quella di mettere in contatto due soggetti (un
broadcaster e un telespettatore), attraverso un prodotto fruibile, consumabile, che diventa, per ciò
stesso, oggetto di contrattazione. Detto in altri termini (se vogliamo molto più banali), un’emittente
è sempre interessata al fatto che i programmi vengano visti dal maggior numero di spettatori
possibile; ora, affinché ciò avvenga, è necessario che essi siano presentati come interessanti, come
allettanti, in breve: come una intelligente e proficua possibilità di occupazione del tempo libero. Su
questo piano si pone il “contratto”, il “patto” fra la tv e la sua controparte350: lo spettatore deve
riconoscere come sommamente vantaggioso per sé la visione di un certo spettacolo.
Da questo discorso, risulta chiaro che l’agire del broadcaster è un “fare” di tipo “performativo”,
cioè, detto in termini greimasiani, è un fare che si configura come “far fare”; in questo senso, esso (:
il broadcaster) va a ricoprire il ruolo di “soggetto della trasformazione”.
Il destinatario del messaggio, dal canto suo, si trova investito invece di una “performanza”, vale a
dire di un “dover fare”, di un obbligo che può, eventualmente, tradurre in un “voler fare” e, dunque,
in un “fare” effettivo: fuor di metafora, in un’azione di consumo concreta. Si è detto: può, se vuole;
cioè tale “voler fare” è sempre preceduto da un’ “interpretazione” e da una “sanzione”: di fronte
allo stimolo dell’emittente, il telespettatore valuta i termini dell’offerta e decide, nel pieno delle
proprie facoltà, se è il caso di operare la scelta, se è il caso di impiegare il proprio tempo per il
consumo di quel prodotto che gli viene proposto.
In tutto questo discorso, abbiamo dato scarso peso a due modalità in particolare : il “poter” e il
“saper fare”; esse sono però fondamentali, in quanto indicano la possibilità concreta di compiere
un’azione, indicano la competenza rispetto a un certo mandato.
Tutto il discorso, può essere graficamente riportato come segue:
349
350
F. CASETTI, Tra me e te, Eri Ediz. Rai, Torino, 1988.
Su tutto questo discorso si veda: Ib. 39/61.
175
far fare Æ dover fare INTERPRETAZIONE voler fare Æ poter fare Æ saper fare
mandato obbligo
SANZIONE
intenzione
facoltà
capacità
Dunque, lo scambio consisterebbe in questo: laddove la televisione offre un programma, una
trasmissione, il telespettatore offre il suo tempo libero; l’obiettivo finale di un’emittente è perciò
quello di “colonizzare” il “free time” di un potenziale fruitore.
Esistono però diversi tipi di scambio, che presuppongono, a loro volta, diversi tipi di patto. Casetti
ne riconosce quattro351:
a. Patto dello spettacolo, che riguarda le trasmissioni di tipo ludico come il quiz, lo show o il
varietà in genere.
b. Patto dell’apprendimento, che concerne invece i programmi di tipo informativo, per
esempio i tg, i documentari, i rotocalchi…
c. Patto del commercio, inerente soprattutto alle televendite e alle aste televisive.
d. Patto dell’ospitalità, tipico dei talk show e dei “contenitori”.
A ciascun patto corrisponde un genere differente di “temporalità” e (di conseguenza) di “fine” della
temporalità stessa.352
Quando si parla di patto dello spettacolo si fa riferimento a un “tempo ludico”, per cui lo scopo
principale della fruizione sarebbe quello di “ammazzare il tempo” nel modo più divertente
possibile.
Nel caso del patto dell’apprendimento invece, il tempo diventa “scolastico”, ovvero uno strumento
per l’acquisizione di conoscenze, uno strumento per la coltivazione della propria cultura; il tempo si
configura cioè come un capitale da far fruttare.
Per quanto riguarda il patto del commercio invece, il suo fine principale è il guadagno, o meglio,
l’ottenimento di un vantaggio propriamente materiale: l’acquisizione o l’acquisto di un bene
(supposto come) utile. In questo senso, il tempo è assolutamente strumentale, cioè piegato a un
obiettivo “totalmente altro”.
Da ultimo, lo scopo del patto dell’ospitalità è quello di “trascorrere del tempo” in buona
compagnia, cioè relazionandosi, facendo “quattro chiacchiere” con dei vecchi amici: il tempo è
perciò il luogo di un rapporto, il quale è, a sua volta, l’obiettivo ultimo dello scambio.
Come si può facilmente immaginare, nessuno di questi patti viene stipulato direttamente, detto in
altri termini, l’emittente non effettua lo scambio “personalmente” con gli utenti, ma si serve di
intermediari, di “simulacri narrativi” che facciano le sue veci: è così che strumentalizza
presentatori, anchor men, o chiunque tiene in mano le redini di una trasmissione, affidandogli il
ruolo di narratore o di enunciatore (“testuologicamente” parlando).
Ma se la caratteristica essenziale della tv di oggi, cioè della neo-tv, è quella di ispirarsi alla
quotidianità, allora ciascuno di questi intermediari, per essere più convincente e più vicino al
pubblico, impersonerà un ruolo tratto dalla vita di tutti i giorni. Così, nel patto dello spettacolo,
l’anchor man ricoprirà la funzione di maestro di cerimonia, di padrino, di promoter; di giudice (nel
caso dei quiz e giochi in genere); nel patto dell’apprendimento, il professionale speaker indosserà
la maschera dell’informatore, del maestro, del divulgatore, del moderatore (nel caso dei dibattiti);
nel patto del commercio, l’imbonitore (che ha come obiettivo quello di vendere della merce) si
calerà nel personaggio dell’intermediario-informatore (garante della reale qualità di un prodotto),
dell’intermediario confidente o addirittura dell’intrattenitore; in ultimo, nel patto dell’ospitalità, (di
nuovo) il conduttore assumerà le vesti del padrone di casa.353
Cerchiamo di chiarire questo discorso ricorrendo a un’esemplificazione grafica:
351
Ci si voglia perdonare la velocità con cui stiamo trattando una tematica così essenziale; per ulteriori approfondimenti
sul concetto di patto, si veda comunque: Ib., 63/121.
352
Su questo problema, si consulti la tabella riassuntiva in: Ib. 133.
353
Anche in questo caso rimandiamo alla griglia riassuntiva presente in: Ib. 105.
176
Tipo di patto
Tempo
Finalità
Simulacro
dell’emittente
il Presentatore
Spettacolo
Tempo ludico
Ammazzare
tempo
Apprendimento
Tempo didattico
Investire il tempo
Speaker
Commercio
Tempo
strumentale
Guadagnare
Imbonitore
Ospitalità
Tempo relazionale Trascorrere
tempo
compagnia
del Conduttore
in
Ruolo ricoperto
Maestro
di
cerimonia
Padrino
Promoter
Giudice
Informatore
Maestro
Divulgatore
Moderatore
Intermediario-inf.
Intermediarioconfidente
Intrattenitore
Padrone di casa
All’interno di questa strategia così complessa, lo spettatore ricopre un ruolo fondamentale, come si
può facilmente intuire, poiché è lui, in ultima analisi, che decide se “scendere a patti” o meno. Per
questa ragione, l’emittente decide di coinvolgere l’utenza in modo attivo, tant’è che, come
riconosce Casetti:
«(…) si apre allo spettatore uno spazio di azione , così da rendere reale il suo ruolo all’interno della
costruzione dei programmi» (F. CASETTI: 1988, 146).
È possibile riconoscere ben otto modalità di partecipazione:354
a. Spettatore evocato: il presentatore (o qualunque altra figura) si rivolge in modo caloroso alla
massa dei telespettatori;
b. Spettatore interpellato: il mediatore si rivolge al pubblico direttamente e dandogli del “tu”,
quasi richiedendo una risposta immediata a chi è oltre lo schermo;
c. Spettatore complice: il fruitore accetta gli stimoli lanciati dall’anchor man e diventa così suo
complice, per l’appunto;
d. Spettatore partecipante: il destinatario può partecipare, può essere presente al programma, a
patto che mantenga un atteggiamento controllato, cioè quell’atteggiamento che gli viene
imposto dalla trasmissione;
e. Spettatore testimone: allo spettatore è chiesto di intervenire telefonicamente o direttamente
in studio per dare un parere o per offrire una valutazione su un determinato problema;
f. Spettatore protagonista: in questo caso, si richiede all’ascoltatore di essere realmente attivo,
di raccontare storie personali, aneddoti o esperienze dirette;
g. Spettatore mandante: il conduttore si presenta come colui che ha il compito di esaudire le
richieste poste dal consumatore;
h. Spettatore giudice: il pubblico interviene a sanzionare il programma che sta fruendo.
Queste sono le categorie che Casetti nel (psicologicamente) così lontano 1988 aveva elaborato. Nel
frattempo però, la televisione ha subito un’evoluzione rapidissima, per effetto della quale sono state
elaborate nuove forme di messaggio. Stiamo pensando, in particolare, alla “real tv” e al “reality
354
Si veda lo specchio riassuntivo in: Ib. 152.
177
show”, generi che, in formati come Big Brother o la recente Isola dei famosi, raggiungono la loro
punta massima.
In relazione a questi programmi, si potrebbe forse parlare di una nuova forma di “spettatore
testimone”, ovvero di uno spettatore che si pone come rappresentante, come simulacro del mittente
stesso, fungendo da garante, da testimone (per l’appunto) della “penetrabilità dello schermo” e
dell’assenza di uno spazio (psicologico) fra l’istituzione televisiva e chi ne usufruisce. Questa
figura, potrebbe essere “battezzata” con diversi nomi; tuttavia noi intendiamo utilizzare
l’appellativo di “spettatore narratore” che, ci sembra, renda conto in modo più preciso delle
strategie testuali messe in campo.
Questo per quanto riguarda il dispositivo comunicativo, vale a dire l’effettivo rapporto di scambio
che un programma costruisce.
Tale dispositivo, tale rapporto è preceduto però da un altro dispositivo, da un altro rapporto; cioè da
un dispositivo, da un rapporto senza il quale, il primo (= il dispositivo comunicativo, cioè la
comunicazione), non vi sarebbe neanche: stiamo parlando del “patto”. Ma il patto, vale a dire il
luogo in cui si stabilisce il valore degli oggetti da scambiare, non si realizza anzitutto all’interno
della trasmissione, all’interno cioè dell’oggetto da consumare, ma all’interno di un qualcosa che
precede e che rende tale trasmissione e, dunque, tale oggetto, “appetibile”, degno di essere fruito: è
il promo, cioè quello spot che, disseminato nel palinsesto quasi casualmente, ha il compito di
pubblicizzare, di dare visibilità a una certa trasmissione.
«Il flusso stesso (…) non è semplicemente promosso dall’esterno, ma attua per suo conto, al proprio
interno, un’intensa opera di autopromozione che vede coinvolte e mobilitate forme paratestuali
antiche e nuove. L’elemento portante della struttura autopromozionale delle reti televisive è senza
dubbio il promo (…) L’apparizione di un programma è accompagnata da promo di lancio che vanno
in onda alcune settimane prima del giorno d’inizio; si continua con promo di sostegno nei giorni
precedenti l’appuntamento, fino alla scadenza di poche ore o di pochi minuti, con i promo che
annunciano il seguirà. Insomma: la rete dei promo non attende lo spettatore a scadenze prefissate –
come nel caso degli annunci –, ma lo insegue e lo sorprende lungo i percorsi della visione, per
catturarlo sull’onda di un’emozione e rilanciarlo subito dopo a lunga o breve distanza, in un ciclo
senza fine» (F. CASETTI: 1988, 175, 176).
La citazione sopra riportata rappresenta una buona descrizione delle caratteristiche e degli obiettivi
di un “promo”. Detto questo, restano da chiarire i dispositivi, i meccanismi che esso mette in
campo, per regolare lo scambio.
Procediamo con ordine.
Colui che dà il via a, che origina tale scambio, come si era già visto, è il broadcaster ed è pertanto
lui che pone i termini alla base dello stesso, cioè è lui che, concretamente, avanza le proposte. Non
c’è però soltanto un sistema, soltanto un modo di avanzare, per l’appunto, una proposta; Casetti,
infatti, ne riconosce ben 3:355
a. esplicitazione rinviata della proposta, per cui essa è esplicitata solo alla fine dello spot (è
una sorta di tecnica della suspense);
b. esplicitazione progressiva della proposta, per cui (tale proposta) viene “svelata” poco a
poco, progressivamente, per l’appunto;
c. esplicitazione anticipata della proposta contrattuale; per cui i termini dello scambio sono
chiari fin dall’inizio.
Ora però ciascuna proposta (ci venga perdonata la frequenza con cui il termine è utilizzato) si serve
di rispettive strategie di persuasione, di strategie cioè che siano in grado di convincere un potenziale
spettatore. Anche in questo caso, possiamo far riferimento a tre dispositivi differenti356:
a. strategie di racconto;
b. strategie di testimonianza;
355
356
Ib. 179/181.
Si veda sempre: Ib. 182/208.
178
c. strategie di attesa.
a. Indicano due modi diversi di intendere il “raccontare”:
I.
racconti di costruzione, che mostrano all’utenza il lavoro (in corso) necessario
per realizzare una data trasmissione. Solitamente, tale meccanismo persuasivo
viene utilizzato soltanto per pubblicizzare i programmi che una certa emittente
produce in proprio;
II.
racconti di consumo; che tendono a simulare l’esperienza di fruizione. Tale
simulazione può avvenire però, a sua volta, in modi dissimili. Vi sono alcuni
promo, per esempio, che intendono fornire una visione complessiva, una
panoramica generale della futura fruizione, altri invece selezionano solo elementi
ben precisi, per creare una sorta di attesa…
In entrambi i casi, il racconto può essere affidato a due persone: al protagonista di un
film/conduttore di una trasmissione o a una voce-off che si occupa di narrare
dall’esterno (talvolta riproducendo degli atteggiamenti di un personaggio [o comunque
di un individuo implicato nel testo], talvolta facendo le veci del pubblico, talvolta ancora
rappresentando implicitamente le istanze del broadcaster). In quest’ultimo caso, tale
figura “narratoriale” può essere rappresentata con delle caratteristiche più o meno forti.
b. Nel caso delle strategie di testimonianza, la voce-off, o comunque colui che si occupa di
presentare agli utenti una certa trasmissione, arrischia un giudizio proprio, arrischia una
propria opinione sul programma. Ora, tale giudizio, tale opinione può fondarsi su due
universi di valori differenti:
- su un universo di valori riconosciuto generalmente valido, per cui è possibile che le
proposte avanzate dal promo siano accettate da tutti;
- su un universo di valori del tutto personali, per cui entra in gioco la fiducia che
l’utente nutre verso il broadcaster, o comunque verso chi si azzarda a esprimere ciò
che pensa.
c. Siamo all’ultimo e, forse, più decisivo caso, quello delle strategie di attesa. L’obiettivo
principale di questo dispositivo è quello di creare attesa, per l’appunto, mettendo in scena un
soggetto, a sua volta, in attesa. Vi sono però modalità differenti di costruire, o meglio, di
stimolare questo tipo di risposta psicologica nel telespettatore.
- il primo caso è quello dell’aspettualizzazione357, per cui nel paratesto (: promo), si
inserisce un osservatore (simulacro del fruitore), che «… filtrando attraverso la
propria percezione una temporalità indistinta, la articola in una serie di processi
scanditi da un inizio, una durata e una conclusione» (F. CASETTI: 1988, 202).
L’attesa è data dunque dalla tensione fra il momento iniziale e quello terminale, vale
a dire tra il momento in cui il programma viene pubblicizzato e quello in cui viene
effettivamente messo in onda;
- il secondo caso, è invece quello dell’imminenza.358 Qui, l’attesa è suggerita dalla
sottolineatura del “tra poco”, dalla sottolineatura del fatto che quel qualcosa (di cui si
parla e che si reclamizza) è atteso e sta per avvenire. Questo effetto è ottenuto, tra le
altre cose, riducendo al minimo il punto di vista dell’osservatore, introdotto nel
paratesto;
- in tutti i casi precedenti dunque, il ruolo del destinatario è sempre richiamato in
modo abbastanza forte. Questo vale anche per strategia dell’(i)nconsueto
appuntamento,359 che tende a instaurare, in vario modo, una relazione, un contatto
diretto con il pubblico. Ciò può avvenire, per esempio: a. attraverso l’interpellazione
diretta (ad opera della voce-off); b. attraverso la ripetizione insistente del titolo (della
trasmissione), del giorno e dell’ora; c. attraverso il richiamo a un voi; oppure infine
357
Ib. 201/203.
Ib. 203/205.
359
Ib. 205/207.
358
179
d. attraverso l’appello a un “noi”, a un essere insieme, per effetto di un incontro e di
un accordo già avvenuti.
- L’ultimo caso è quello dell’attesa accompagnata, per cui il destinatore (soggetto
sempre presente, sebbene, talvolta, nascosto) si cala direttamente nei panni di un
mediatore, il quale (individuo in carne e ossa), facendo leva sull’imminenza
dell’evento, si pone come entità regolatrice di tale imminenza, regolatrice cioè del
principio della suspense: l’attesa diventa “attesa con”.
In tutti questi casi, in tutti questi dispositivi di stimolo alla risposta, in tutti questi meccanismi di
tipo performativo (giammai manipolativo360, come si è visto) è implicato il fare interpretativo del
fruitore, il fare interpretativo del destinatario. Detto in altri termini, la tv, il promo, il testo, il
paratesto costruiscono una sorta di relazione che deve essere accettata e compresa; solo nella misura
in cui è accettata e compresa (e il termine “compresa” implica, per ciò stesso, una conoscenza di
tutti i meccanismi e di tutti gli espedienti simulativi), la comunicazione, dunque lo scambio, può
avvenire.
Banalizzando la questione, un programma televisivo (come ogni testo) mette in campo un gioco di
ruoli, che (affinché possano essere ricoperti) devono poter essere scelti e riconosciuti come buoni.
Ora, laddove c’è scelta c’è anche giudizio e, laddove c’è giudizio, c’è responsabilità e imputabilità
dell’atto.
Questo discorso ci fa ritornare alla mente la dottrina “scolastica” della libertà.361 Ogni azione è
preceduta da una volizione, vale a dire da un movimento del nostro atto di volontà; tale movimento
implica, a sua volta, un’operazione di natura teoretica, cioè un’operazione conoscitiva. Detto in altri
termini, una cosa può essere scelta solo se risulta “appetitosa”, “interessante”. Ma, affinché possa
risultare appetitosa e interessante deve venire conosciuta. Si vede perciò come una scelta sia sempre
preceduta da una conoscenza e la conoscenza, così come la volizione, implica necessariamente
l’esistenza della libertà: l’atto teoretico è libero, l’atto teoretico non può essere pilotato.
Pertanto, se il gioco comunicativo implica, da parte del destinatario, un “voler fare”, e se il voler
fare è un’azione libera, allora il gioco stesso è libero, quindi non manipolatorio (laddove per
manipolazione si intende l’annullamento della volontà del recettore).
L’unica possibilità contemplabile è quella del condizionamento; su questo piano si collocano le
strategie messe in campo dal broadcaster. Tuttavia, per quanto tali dispositivi possano essere
perfetti, lo spettatore ha sempre la possibilità (concreta ed effettiva [non c’è bisogno di teorizzare
troppo su questo punto, basta osservare semplicemente il nostro comportamento quotidiano]) di
rifiutare i termini del patto e scegliere altro, cioè (concretamente) guardare un altro programma.
Ottenuti questi guadagni, non ci resta che tirare le fila del discorso e tentare di offrire al lettore una
definizione del concetto di spettacolo.
Conclusioni
Giungiamo così al punto più delicato della questione, allo “Schwerpunkt” principale di tutto il
nostro lavoro.
Gli elementi in gioco sono parecchi e le tesi esaminate anche (per lo meno ci pare). Dovremo quindi
cercare di compiere un ultimo sforzo, o meglio, di fare un bilancio per tentare di azzardare
un’ipotetica definizione.
360
In realtà, come si è già detto nel paragrafo precedente, Greimas considerava il “far fare” una manipolazione e non
una performanza (che corrispondeva invece al “far essere”). La ragione per cui abbiamo deciso di modificare i termini
in gioco è che noi attribuiamo al termine “manipolazione” un valore semantico molto più negativo, cioè un valore per
cui esso corrisponderebbe a una sorta di annullamento, o meglio a una “coercizione teoretica” della volontà. In questo
senso, il “far fare” non può essere considerato un artificio manipolatorio/pilotante, ma semmai condizionante.
361
È una dottrina che ci sentiamo di abbracciare ma che, per ragioni di spazio, non possiamo, in questa sede,
dimostrare. Per una fondazione teoretica delle idee esposte qui sopra, rimandiamo alla lettura di: A. BAUSOLA, Libertà e
responsabilità, Vita e Pensiero, Milano, 1980. In particolare, pensiamo ai seguenti capitoli La difesa del determinismo.
Discussione (Ib. 36/51), Posizione della libertà (Ib. 52/84) e Libertà e persuasione (85/92).
180
Che cos’è lo spettacolo?
Era questa la domanda con cui era cominciata la nostra ricerca ed è sempre questa la domanda alla
quale, dopo varie pagine, ci riproponiamo di rispondere.
Che cos’è lo spettacolo? Che cos’è quel qualcosa che contraddistingue la produzione di un enorme
apparato industriale, quale è quello dei media contemporanei?
È una generazione, una fabbricazione in serie di immagini artificiali, di riproduzioni speculari della
realtà: è, in breve, una simulazione. Ma la simulazione non è, come voleva Baudrillard, una
cancellazione, un’opera di nascondimento del mondo; la simulazione non è un meccanismo di
disillusione. Essa è infatti un’interpretazione, una ricreazione, una copia fittizia dell’universo; è un
linguaggio fatto di segni, un linguaggio fondato cioè su entità che stanno per qualcosa d’altro, che
rimandano ad altro da sé e che sono, quindi, marchiate da una referenzialità di tipo estensionale.
Un’interpretazione si è detto, ma questa è, come riconosceva Bettetini, un’ipotesi da verificare, una
tesi da dimostrate. Ecco che cos’è il gioco comunicativo, quale si incarna nell’universo spettacolare:
la riproduzione di una conversazione, la riproduzione, attraverso dei simulacri fittizi, delle strategie
relazionali quotidiane; è, detto in altri termini, una “conversazione audiovisiva”.
In questo senso, si può affermare che la tendenza tipica della neo-tv, ovvero la simulazione della
vita di tutti i giorni, dal piano contenutistico, raggiunga un livello ben più profondo e penetri nei
cosiddetti dispositivi comunicativi. La sfera dell’esistenza diventa così l’archetipo del meccanismo
di interazione mittente/destinatario.
Ecco che cos’è, in definitiva, lo spettacolo: una ricostruzione di un dialogo, attraverso artifizi
narrativi, attraverso immagini, ovvero attraverso una storia e delle entità fittizie. Concretamente, se
l’obiettivo del broadcaster è quello di avvicinare l’utenza, allora tale avvicinamento deve avvenire
nel modo più affascinante possibile, nel modo più coinvolgente possibile, costruendo cioè un gioco,
per mezzo del quale, emittente e spettatore possano comunicare assieme.
È questa la simulazione, né più, né meno.
Dunque, il nostro lungo percorso teorico ci ha permesso di individuare alcune definizioni e
categorie, che risulteranno utili a isolare nel “tessuto testuale” del programma (che esamineremo
nella sezione successiva) i dispositivi comunicativo di cui sopra (a livello micro).
Nell’analisi del nostro show televisivo (tipo di formato scelto proprio al fine di comprendere se e in
che misura le forme linguistiche neotelevisive hanno influenzato i generi tradizionali) – nel capitolo
successivo – cercheremo di rilevare il rapporto che questa trasmissione costruisce con i suoi
telespettatori e in che modo poi tali spettatori sono rappresentati, sono riprodotti, sono richiamati
all’interno della trasmissione stessa.
A tal fine, terremo d’occhio le inquadrature (dunque prospettiva, vicinanza e zoomate della
telecamera), il dialogo tra il presentatore/show man e il pubblico in sala, gli scambi di battute fra i
personaggi presenti sul palco e i loro giochi di ruolo… cercheremo insomma di isolare e poi
esaminare la narratività sia verbale, che visuale (strumento nelle mani dell’autore implicito – per
dirla con Seymour Chatman).
Questa operazione ci permetterà poi di indicare in che misura – a livello micro, per l’appunto – le
metamorfosi estetiche, azionate dalla neo-tv (per esempio la “quotidianizzazione”, che è
indubbiamente uno dei fenomeni più rilevanti), hanno influenzato i vecchi baluardi linguistici della
paleo-televisione.
Del resto, come abbiamo già sottolineato nel primo capitolo, tali metamorfosi sono rilevabili già su
un piano “macro” (= analisi del palinsesto), tant’è che l’immagine esterna di un emittente (= sempre
il palinsesto) ne risulta inevitabilmente inficiata. Se osserviamo infatti le tabelle (vedi appendice al
capitolo 1, in particolare le griglie relative all’anno 2002) poste a conclusione della prima sezione
dell’opera, vediamo confermato proprio quello che stiamo dicendo. A una prima occhiata, per
esempio, si nota già come la programmazione sia continua e tesa a coprire tutto l’arco delle
ventiquattr’ore (è il cosiddetto “flusso”); come scompaiano alcune voci del tipo “educazione”,
“teatro” o “rotocalco”; come emergano infine formati tipicamente neo-televisivi (“talk show”,
“programma contenitore”) e formati ibridi (“info-tainment”, “culture-tainment”…)...
181
Pertanto, non resta che dare prova empirica del percorso concettuale appena concluso, mostrando
con ciò stesso la vocazione ultima del presente capitolo: quella di fare da ponte teorico fra una
prima analisi di tipo generico (sui palinsesti) e una seconda analisi di tipo più specifico (su un
programma-testo particolare).
182
Cap. III
“TORNO SABATO… e 3”
Spettacolo e simulazione nel varietà del sabato sera
Nei capitoli precedenti, ci siamo occupati del mezzo televisivo e del suo messaggio in un “senso più
lato”, vale a dire: da una parte abbiamo cercato di ricostruire il “campo di forze” al centro del quale
esso è inserito, dall’altra abbiamo tentato di descriverne le strategie comunicativo-simulative di cui
farebbe uso. Detto altrimenti, abbiamo osservato la tv da un punto di vista strettamente storico e
teorico (o, se volete, astratto), convinti che ciò potesse in qualche modo aiutarci a chiarire la portata
del fenomeno “televisione” (già, perché la tv è un fenomeno!), a chiarire cioè la natura di
un’operazione socio-culturale, che va avanti ormai da cinquant’anni.
Poste queste basi, ovvero fornito questo “Hintergrund”, questo “back ground” all’interno del quale
e sul quale ciascun programma (ma, in fondo, tutto il palinsesto in genere) “viene edificato”, è
possibile occuparsi ora di aspetti più empirici, più tecnici ovvero, fuor di metafora, è possibile
analizzare una trasmissione televisiva in quanto tale.
Un excursus nel pratico, del resto, ci consentirà di verificare se e in che misura le premesse teoriche
a cui abbiamo fatto riferimento sono vere, cioè se e in che misura interessi esterni possono
concorrere a definire il messaggio (influenzando, di conseguenza, l’audience) e se e in che misura i
paradigmi di natura semiotica possono essere ritenuti chiavi di lettura valide. Molto spesso infatti, la
complessa organizzazione di uno studio, l’intenso lavoro redazionale, il numero di coloro che
collaborano alla realizzazione di un programma fanno sorgere il dubbio che un controllo a-priori sia
quasi impossibile e che il valore di uno schema interpretativo possa essere contraddetto. Sembra
infatti che un prodotto televisivo, nella pienezza della sua unità significante, si costruisca e si
definisca solo nell’attimo fuggente in cui va in onda; detto in altri termini, sembra che una
trasmissione sia realmente un evento, sia realmente un avvenimento e, in quanto tale (come voleva
Derrida), costituisca un “totalmente altro”, un “arrivante” imprevisto.
Date queste premesse, ci sembra necessario interrompere le disquisizioni di tipo teorico per andare
a vedere, su un piano strettamente pratico, che cosa avviene in un programma televisivo.
Procediamo per gradi.
1. Il linguaggio televisivo: grammatica e sintassi delle immagini
Prima di “tuffarci” in un’analisi “tout court” del varietà, ci pare utile chiarire al lettore alcune delle
nozioni a cui faremo riferimento nel corso del capitolo.
Si è detto che la televisione (come il cinema e i media in genere) si serve di un linguaggio e che tale
linguaggio è “audiovisivo”.362 Ora, l’audiovisivo, come le lingue naturali, possiede una grammatica
e una sintassi, ovvero dei principi normativi che regolano, rispettivamente, gli elementi del codice e
la loro combinazione. Ma se la base linguistica dell’audiovisivo è costituita dall’immagine, allora la
grammatica si occuperà di questa nella sua singolarità (cioè delle varie forme di utilizzo della
telecamera, in quanto strumento per l’ipostatizzazione visiva della contingenza “hic et nunc”
fenomenica), mentre la sintassi della stessa nelle sue potenzialità combinatorie (cioè delle sequenze
[: i movimenti della macchina da presa e il montaggio]).
Andiamo con ordine.
Come sottolinea Enrico Menduni363, un’immagine è composta, fondamentalmente, da tre elementi:
- composizione;
- inquadratura;
362
Per una buona sintesi dell’argomento, si veda:
- E. MENDUNI, I linguaggi della radio e della televisione, Laterza, Roma-Bari, 2002, 93/106.
363
Ib. 94.
183
- angolazione.
a. La composizione concerne le regole degli elementi “fisici” che costituiscono l’immagine,
vale a dire gli oggetti che essa presenta.
Considerando il fatto che lo schermo, a casa, è piccolo e che non possiede le tre dimensioni,
tali oggetti non dovranno comparire al centro vero e proprio del “monitor”, cioè nel centro
geometrico di questo riquadro, bensì all’incrocio di una sorta di reticolo ideale, che divide il
riquadro stesso in tre parti.
Inoltre, dovranno essere privilegiate le linee oblique e curve, rispetto a quelle orizzontali e
verticali, poiché esse suggeriscono un maggiore senso di profondità (ecco trovato un piccolo
rimedio al problema della mancanza della terza dimensione!).
Un altro accorgimento importante, se il soggetto dell’immagine è una persona, è quello di
lasciare dello “spazio”, dell’ “aria” al di sopra del capo; se, invece, le persone sono più
d’una, è necessario che siano riunite assieme (senza che vi sia troppa distanza fra l’una e
l’altra) e che si eliminino o che si nascondano nel miglior modo possibile le eventuali
differenze di altezza.
b. L’inquadratura è quella porzione di spazio “ripresa” (per l’appunto) dalla telecamera o,
detto in altri termini, è l’aspetto fenomenologico-percettivo dell’immagine.
Ora, le inquadrature si dividono in due categorie: piani (se hanno per soggetto una sola
persona o cosa) e campi (se hanno per soggetto più di una persona o più di una cosa).364
Sia i primi che i secondi possono essere di diverso tipo; per quanto riguarda i piani, si
avranno il:
- Dettaglio (DETT – Extreme close up), tecnica orientata a mostrare i particolari di un
individuo: gli occhi, la bocca, una mano…
- Primissimo piano (PPP – Very close up), cioè l’inquadratura delle parti fondamentali di un
volto umano, ovvero la parte compresa fra i capelli e il mento.
- Primo piano (PP – Close up): la ripresa della faccia per intero.
- Piano medio (PM) detto anche mezzo primo piano (MPP – Medium close up), tipico del
notiziario (è quello che viene volgarmente chiamato mezzo busto).
- Piano americano (PA – Medium shot) espediente teso a mostrare tutta la persona fino alle
ginocchia.
- Figura intera (FI – Full lenght shot).
Veniamo ora ai campi; avremo il:
- Campo medio (CM – Medium long shot) corrispondente all’inquadratura di un ambiente
nel suo complesso.
- Campo lungo (CL – Long shot) tecnica utilizzata per dare particolare risalto alla profondità.
- Campo lunghissimo (CLL – Very long shot) espediente finalizzato a sottolineare la
suddetta profondità in modo ancora più forte.
- Controcampo (CC – Over the shoulder shot) quando viene ripreso un personaggio di spalla
e un altro a mezzo busto. Una tecnica di questo tipo può rivelarsi particolarmente utile per i
dialoghi o i dibattiti.
c. Anche l’angolazione rappresenta, ovviamente, un aspetto di fondamentale importanza.
Le posizioni che una telecamera può assumere rispetto a un oggetto o a una persona sono
sei:
- frontale;
- tre quarti;
- profilo;
- orizzontale o all’altezza della persona o dell’oggetto ripreso;
- dall’alto verso il basso;
- dal basso verso l’alto.
364
Ib. 96.
184
L’angolazione e la prospettiva sono gli elementi principali attraverso i quali può venire manipolato,
o meglio, attraverso i quali viene emesso un “giudizio visivo” rispetto a un determinato
avvenimento. Infatti, come scrive Carlo Solarino365 in un manuale di tecniche audiovisive:
«Va evidenziato (…) che le variazioni in altezza delle camere, soprattutto in riprese ravvicinate, si
prestano facilmente a generazione di “messaggio occulto”: un personaggio inquadrato dall’alto
viene infatti “sminuito”, mentre inquadrato dal basso acquista autorevolezza. L’elevazione della
camera va quindi valutata con maggiore attenzione, rispetto alla distanza di ripresa» (C. SOLARINO:
1995, 334).
Fin qui si è discusso esclusivamente di un audiovisivo nel suo aspetto grammaticale, vale a dire
dell’immagine nella sua singolarità. Ma un’immagine (nella sua singolarità, per l’appunto) è un
piccolissimo frammento di un “tutto” più esteso, è una piccolissima goccia in un oceano mare: fuor
di metafora, un programma televisivo presenta ben 25 immagini al secondo. Esisteranno pertanto
dei criteri per collocare, o meglio, per combinare la suddetta immagine con le altre. Tali criteri
costituiscono la base della cosiddetta sintassi audiovisiva, principio regolatore delle sequenze.
Una “sequenza” (corrispondente pressappoco a un discorso di senso compiuto, nel caso della lingua
parlata) è costituita da diversi “frammenti”, da diverse inquadrature, effettuate o per mezzo di una
sola telecamera camera, o per mezzo di numerose telecamere, le cui “rappresentazioni in moto”
sono unite assieme mediante le tecniche di mixaggio e di montaggio.
Ma andiamo con ordine e vediamo quante e quali possibilità offre una macchina da presa.
Nella maggior parte dei casi, essa è posta su un piedistallo che permette movimenti orizzontali e
verticali (da ferma).
Orizzontalmente, la telecamera può ruotare fino a 360°:
«Ad esempio, la ripresa conclusiva di uno spettacolo di varietà, con tutti i personaggi in scena per il
gran finale, può puntare su un campo medio dei personaggi e poi, con una lenta rotazione, arrivare
fino al pubblico che applaude sulle tribune. Questo tipo di ripresa si chiama panoramica
orizzontale» (E. MENDUNI, 2002: 98).
Verticalmente, può spostarsi in alto e in basso fino a 60°:
«Per esempio, durante la trasmissione del Festival di Sanremo, il conduttore saluta i suoi colleghi
che trasmettono il festival per radio, collocati in una cabina ai piani alti del teatro: la ripresa
d’obbligo è uno “stacco” dal pubblico fino al vetro della cabina, da cui quelli della radio salutano
con la manina (panoramica verticale)» (E. MENDUNI, 2002: 98).
Esiste poi un altro espediente tecnico che dà (al telespettatore) la sensazione che la macchina da
presa (pur riprendendo da ferma) si stia muovendo: è lo zoom, un particolare obiettivo che permette
di allungare o restringere il campo.
Anche l’utilizzo di questo accorgimento può avere delle conseguenze sul piano emozionale:
«… lo zoom avanti, a camera in ripresa e soprattutto se diretto al primo piano di una persona,
provoca un senso di concentrazione; mentre lo zoom indietro, suggerisce distensione e rilassamento.
A sua volta può acquistare significato anche la velocità della zoomata» (C. SOLARINO: 1995, 338).
Molto spesso però, la situazione richiede che la telecamera effettui dei movimenti più consistenti;
essa verrà allora posta su un supporto semovibile detto carrello, che può spostarsi in linea retta o ad
arco (è la cosiddetta carrellata).
365
C. SOLARINO, Per fare televisione, Vertical Editrice, Milano, 1995.
185
Esistono poi anche forme più evolute di sostegni come il dolly, congegno telescopico che consente
di sollevare il cameraman fino a tre metri (per effettuare delle riprese dall’alto o che, dall’alto, si
allontanano e si avvicinano al set [: ascensore]), o la steadycam, braccio meccanico con pesi e
molle che, rendendo la macchina una vera e propria appendice dell’operatore, permette un’ampia
azione di manovra.
Infine, esiste una tecnica molto semplice, molto elementare, che nella neo-televisione è sempre più
di moda: la telecamera a spalla, il cui successo è determinato anzitutto dalle tinte realistiche che
essa conferisce alle riprese.
Ma, come si può facilmente immaginare, un programma televisivo (soprattutto se in diretta) sarà
costruito su immagini provenienti da sorgenti diverse, ognuna delle quali utilizzerà a sua volta una
delle tecniche appena descritte. Sorgerà pertanto il problema di assemblare assieme queste singole
unità visive.
Ora, tale problema è risolto attraverso l’ausilio di due tecniche di miscelazione audiovisiva: il
mixaggio (effettuato, per lo più in diretta, attraverso il mixer video)366 e il montaggio
(assemblaggio vero e proprio, realizzato in post-produzione con l’ausilio dell’editor [strumento
tecnico al quale sono collegati, in entrata, un numero tot di telecamere + un numero tot di
videorecorder e, in uscita, un semplice videoregistratore]).
Le immagini possono essere poi mescolate in diverso modo; attraverso:
- la dissolvenza (dissolve), cioè un progressivo aumento dell’intensità cromatico-visiva
dell’immagine subentrante; se l’immagine precedente va, a sua volta, sbiadendo, si ha la
cosiddetta dissolvenza incrociata;
- lo sfumo (fade), ovvero la perdita di intensità dell’immagine, fino alla sua dissoluzione
totale (si usa, solitamente, alla fine di una trasmissione);
- la tendina (wipe), che consiste nel passaggio da un’immagine all’altra, coprendo
progressivamente il quadro;
- l’intarsio (key), cioè l’inserimento di un’immagine o di una scritta nell’immagine
principale;
- lo stacco (cut) o giustapposizione delle immagini fra loro, passaggio repentino fra l’una e
l’altra.
Per quanto riguarda il montaggio in (post-produzione), bisogna precisare che le tecniche utilizzate
sono fondamentalmente due:
- l’assemble, cioè l’aggancio successivo di sequenze provenienti da nastri differenti;
- l’insert, ovvero si sostituiscono parti di una sequenza principale con altre micro-sequenze.
Fin qui si è parlato però soltanto in astratto di possibilità tecnico-tecnologiche e non in concreto di
come, sintatticamente, può essere costruita una sequenza.
Bene, una sequenza presenta sempre una presentazione, uno sviluppo e una conclusione, le quali
implicano a loro volta la scelta di un tipo di inquadratura, di un tipo di angolazione e di un tipo di
stacco (fra un’immagine e l’altra) differenti a seconda del genere.
Prendiamo come buono l’esempio di Carlo Solarino sul dibattito televisivo:
«… in un dibattito, la sequenza in cui un personaggio, il soggetto, esprime una propria opinione e
dialoga con un gruppo di interlocutori, prevede, secondo il canone più tradizionale, un primo piano
iniziale sul personaggio, che fa da presentazione; un insieme di varie inquadrature sugli
interlocutori (campi medi, doppie, gruppi, ecc.) e anche sul personaggio ma non più in primo piano
(campo lungo, controcampo, ecc.), che rappresenta lo sviluppo; infine il ritorno sul personaggio,
con un’inquadratura simile a quella iniziale, che costituisce la conclusione (…) La successione
ordinata delle sequenze costituirà infine l’intero programma. Va in particolare evidenziato che se il
programma è trasmesso in diretta, anche i cambiamenti di sequenza, oltre a quelli d’inquadratura,
vengono effettuati con il mixer; mentre se il programma è in differita, il cambiamento di sequenza
può avvenire in montaggio, tramite i videoregistratori e l’editor. Ma, sempre in differita e con forte
366
E. MENDUNI: 2002, 104/106.
186
dipendenza dal tipo di programma (spettacolo, talk show, ecc.), si verificano spesso situazioni
miste, con sequenze costruite parte in ripresa col mixer, e parte in montaggio con l’editor» (C.
SOLARINO: 1995, 286, 287).
La citazione sopra riportata ci sembrava abbastanza emblematica e riassuntiva: ogni programma, in
quanto assemblaggio di immagini e sequenze, è costruito su delle regole, su delle leggi. Tali regole,
tali leggi sono però, molto spesso, “non scritte” e dettate esclusivamente o da una sorta di “codice
consuetudinario” o dai gusti del regista.
Appare ora evidente al lettore che i lavori di montaggio e di mixaggio non sono operazioni
realizzate alla luce di un’estetica, che nasce casualmente “hic et nunc”, al momento dell’editing, ma
sotto l’egida di un’armonia che si definisce in base a criteri a priori più o meno fissi.
Tuttavia, in questa sede, non ci è possibile fornire una descrizione completa delle “norme
audiovisive”, non ce n’è lo spazio; pertanto, nel corso dell’analisi del nostro programma tv, ci
limiteremo a indicare, volta per volta, solo le tecniche sopra riportate.
2. Dall’ideazione alla trasmissione: genesi e gestazione del programma televisivo
Un programma televisivo, o meglio, la produzione di un programma televisivo prevede tre fasi367:
a. pre-produzione, divisa, a sua volta, in altre tre fasi:
- ideazione;
- decisione;
- progettazione;
b. produzione, ovvero le riprese e l’organizzazione dello studio;
c. post-produzione, all’interno della quale è possibile, di nuovo, distinguere tre fasi:
- montaggio;
- eventuale aggiunta delle grafiche;
- eventuale aggiunta degli effetti speciali.
Andiamo con ordine, analizzando questi momenti uno per uno.
a. Quella della pre-produzione è la fase della pianificazione del programma nel suo
complesso, ovvero del suo concepimento archetipico.
Anzitutto, vengono compiute due operazioni: da un lato la realizzazione di una griglia della
trasmissione, che comprenda tutti i “numeri” da proporre, dall’altro la scrittura di testi, che,
accanto alle battute, indichino anche le inquadrature da effettuare (è quella che, nel cinema,
si chiama sceneggiatura).
In un secondo momento vengono ideate le scenografie, cioè l’organizzazione dello studio e
la disposizione spaziale dei protagonisti.
Realizzati questi obiettivi, puramente teorici, si passa a degli atti più strettamente pratici
come la pianificazione delle strategie di marketing, il placement (ovvero l’acquisto dei
costumi, delle scenografie e degli arredamenti stabiliti in sede di ideazione) e il casting
(ovvero il reclutamento del personale).
b. La produzione368 consiste invece nella venuta all’essere della trasmissione, ovvero, detto in
altri termini, nella realizzazione delle riprese e del loro mescolamento.
Ma chi è che si occupa di questi aspetti?
Tre soggetti, veri demiurghi dell’immagine: il regista (alfa e omega della triade magica),
l’aiuto regista e un eventuale terzo individuo che si occupa solo ed esclusivamente di
miscelare le varie inquadrature al mixer video.
Questi tre non sono tuttavia gli unici individui che, in questa fase (accanto ai protagonisti
[come il presentatore o i partecipanti]), sono implicati nella buona riuscita del programma.
367
368
Ib. 112/116.
Ib. 116/120.
187
Sarà necessario infatti: I. disporre l’arredamento nel modo giusto, II. montare correttamente
la scenografia, III. controllare l’illuminazione, IV. fare in modo che il pubblico si comporti
nel modo adeguato…
In breve, in sede produttiva, è possibile riconoscere i seguenti ruoli:
- regista e aiuto regista;
- mixer video e mixer audio;
- direttore della fotografia;
- direttore di produzione;
- tecnico video (addetto al controllo delle telecamere);
- cameraman;
- tecnico delle luci o capoelettricista;
- assistente di studio (addetto all’arredamento, alle scenografie…).
Sono presenti però anche altri soggetti, il cui lavoro non è magari immediatamente visibile,
ma non per questo poco rilevante:
- truccatore;
- parrucchiere;
- addetto al guardaroba;
- sarto;
- macchinista;
- eventuali altri artisti (corpi di ballo, cori…)
- intrattenitori del pubblico.
Evidentemente, questi ruoli, a seconda della trasmissione e a seconda delle necessità del
broadcaster, possono essere eventualmente ampliati o ristretti.
c. Per quanto riguarda invece la post-produzione, non c’è molto da aggiungere rispetto a
quello che si è detto nel paragrafo relativo alla sintassi delle immagini.
In definitiva, data la complessa organizzazione produttiva, è difficile definire a priori o manipolare
il contenuto di una trasmissione; tutto quello che si stabilisce a tavolino (per lo meno a livello
tecnico o “micro-linguistico” [nel senso della scelta di una certa inquadratura o di una cera forma di
montaggio]) può essere contraddetto da un cameraman incapace o da un regista naïf (soprattutto se
il programma è in diretta).
Questo non significa affatto che non possa esistere un progetto a monte, tutt’altro (anzi, il nostro
discorso dimostra proprio il contrario), ma che tale progetto è del tutto contingente, vale a dire che
può essere messo parzialmente in crisi (a livello “micro”) da una serie di fattori casuali.
Fatto tesoro di questa osservazione, ci sembra necessario analizzare e giudicare una trasmissione a
partire dalla totalità della sua unità significante e non dai singoli frammenti che, di per se stessi
(come si è visto), potrebbero essere l’esito di un errore o di una circostanza fortuita.
Senza dilungarci troppo in ulteriori disquisizioni tecniche o teoriche, passiamo immediatamente
all’analisi di Torno sabato… e 3.
3. “Torno sabato… e 3”, il varietà del sabato sera
Il formato di cui ci occuperemo nel presente paragrafo (il varietà) è senza dubbio uno dei più
anziani, uno dei più datati (assieme al telegiornale). In questo senso, non deve stupirci il fatto che
esso porti con sé molte di quelle peculiarità, molte di quelle prerogative proprie, caratteristiche dei
programmi della paleo-televisione.
Ma quali sono tali peculiarità, quali sono, per l’appunto, tali prerogative?
In primo luogo il fatto che il suddetto formato ha una frequenza settimanale e non quotidiana, al
contrario di molti altri programmi odierni; in secondo luogo, il fatto che esso è presentato come un
evento, come un avvenimento, come un qualcosa che viene all’essere in una determinata porzione
di tempo e di spazio e non si ripeterà mai più.
188
In breve, il varietà, lo show del sabato sera porta in dote, ripropone il concetto di “festa”, o meglio,
rilancia e reinserisce nel palinsesto quella “festività”, che (come si è visto) era uno dei tratti tipici
del medium negli anni ’50, ’60 e diciamo pure ’70.
Ma se le logiche di impaginazione, il clima e l’aura che circondano questo formato sono
“tradizionali”, le forme linguistiche, a tutti i livelli (dalle inquadrature alla conduzione, dalla
scenografia alle musiche), sono l’esito della mescolanza dei vecchi codici con le nuove evoluzioni
espressive. Ne risulta un interessante mix di innovazione e tradizione, o meglio, un’interessante
riproposizione dinamica della tradizione che rende la stessa materiale adeguato a una logica di
flusso, cioè alla logica dominante nella programmazione contemporanea.
Torno sabato… e 3 rappresenta l’emblema di tutto questo, rappresenta il tentativo cronologicamente
ultimo di adeguare un passato glorioso a un presente sempre più eterogeneo: eterogeneo per quanto
riguarda i consumi, eterogeneo per quanto riguarda i gusti del pubblico ed eterogeneo, di
conseguenza, per quanto riguarda i codici artistici.
La trasmissione si colloca (al sabato ovviamente, come indica lo stesso titolo) nel periodo invernale
pre- e natalizio (dal 27 settembre al 6 gennaio), ovvero nel periodo in cui si concentrano
maggiormente gli investimenti del broadcaster e gli sforzi dei programmatori.369 Da cinquant’anni a
questa parte, lo show del sabato sera, abbinato alla lotteria nazionale (che dunque va in onda nei
mesi di settembre/ottobre, novembre e dicembre [periodo di vendita e di successiva estrazione dei
biglietti]), rappresenta uno dei fiori all’occhiello della programmazione Rai, assieme al Festival di
Sanremo. Detto in altri termini, è qui, cioè in questa macro-stagione dell’anno e con questo tipo di
formato, che viene combattuta in modo più acceso la battaglia per il primato degli ascolti contro i
concorrenti. È per questa ragione dunque, è in forza di questo obiettivo (cioè conquistare le più
ampie fette di pubblico possibili), che vengono mescolate tradizione innovazione; solo attraverso il
mix di vecchio e nuovo infatti possono essere soddisfatti i gusti e le esigenze di target tanto
eterogenei fra loro. Torno sabato… e 3 è perciò lo show del sabato sera “di nuova generazione”,
l’incarnazione “hic et nunc” di un genere ormai pluridecennale in nuovi modelli linguistici.
L’ “… e 3” del titolo sta a indicare il fatto che il programma è giunto ormai alla sua terza
edizione.370
Come tutti i “week-end show” del periodo pre-natalizio, anche questa trasmissione (come si è visto)
è abbinata alla lotteria Italia, alla lotteria nazionale, cioè alla lotteria che presenta il jack-pot più
consistente. Questo significa due cose: da un lato che Torno sabato è una sorta di vetrina
pubblicitaria per il Ministero delle Finanze (che ha dunque possibilità di reclamizzare la vendita dei
biglietti, in una delle trasmissioni di punta), dall’altro che, all’interno dello spettacolo, sono presenti
momenti ludici, che prevedono la partecipazione diretta del pubblico a casa e in studio (viene
offerta così agli spettatori la possibilità di vincere somme di denaro “live on stage”).371 In effetti, il
flusso spettacolare del programma di Panariello, accanto a quei pregevoli numeri di cabaret, che
evidenziano la grande teatralità del conduttore, è scandito proprio dal gioco, da un gioco che ha la
caratteristica di esaltare, di amplificare, di moltiplicare quegli ideali di “fiducia nella fortuna”, e di
“fatalismo”, che erano alla base del paleo-quiz.372 In Torno sabato… e 3 infatti non si vince perché
369
Lo si era già visto nel primo capitolo a proposito delle logiche di palinsesto: l’inverno, periodo in cui l’utente è
portato maggiormente a trascorrere in casa la serata (per ovvie ragioni climatiche), è il momento in cui gli investimenti
del broadcaster, sia da un punto di vista finanziario che ideativo, si concentrano maggiormente. Per eventuali
approfondimenti si ritorni al passo citato.
370
La seconda risale, se la memoria non ci tradisce, al 2001.
371
All’inizio della trasmissione, vengono estratti tre numeri da Tosca (spalla di Panariello) e dalle due soubrèttes
Debbie Castaneda e Camilla Sjoberg. I tre numeri corrispondono ad altrettanti posti a sedere, occupati dagli spettatori in
sala, i quali, per il solo fatto di essere stati sorteggiati, hanno diritto a una cifra di 1000 euro. Successivamente, essi sono
chiamati sul palco per partecipare al “gioco del razzo” e al “gioco del cannone”, mediante i quali vengono estratti altri
numeri, o meglio, codici, che rappresentano il corrispettivo matematico di alcuni dei biglietti posseduti dai telespettatori
a casa. Colui che ha il tagliando con la cifra sorteggiata può intervenire telefonicamente nella trasmissione per tentare la
sorte: se sul suo biglietto c’è un personaggio di Panariello, corrispondente a quello che è sul biglietto posseduto dallo
spettatore sorteggiato, ha la possibilità vincere automaticamente anche centinaia di migliaia di euro.
372
Si vedano, in merito, le pagine 22 e 23 del capitolo I, dove si fa riferimento alla trasmissione televisiva Lascia o
raddoppia.
189
si è bravi in qualcosa, perché si realizza una certa performance o perché si risponde correttamente a
delle domande, ma perché un elaboratore elettronico o la mano di una “dolce fatina”, alta due metri
e vestita in abiti succinti (come le due soubrèttes del programma), sono propizi.
Tuttavia, non è certo il “ludus” l’ elemento caratterizzante, la quint’essenza dello show in questione;
il punto centrale, il fattore unificante, il centro di gravità, cioè ciò su cui verte l’interesse del
pubblico è il conduttore stesso, principale ingrediente spettacolare e spettacolarizzante.
Giorgio Panariello (il conduttore per l’appunto, già cabarettista e attore di teatro), oltre a occuparsi
dei momenti “clou” della serata (come presentare gli ospiti o “compartecipare” ai giochi), si cala
infatti nei panni di alcuni personaggi, o meglio, di alcune macchiette dai tratti fortemente
caricaturali. Molte di esse sono già note al pubblico televisivo, poiché hanno segnato in modo
indelebile la carriera del comico toscano; molte altre invece sono completamente nuove, cioè
inventate appositamente per l’edizione 2003 del programma.
Importante, da questo punto di vista, cioè dal punto di vista della spettacolarità e dunque della
cattura dell’audience, è pure il monologo iniziale, che si presenta come una sorta di “introduzione
guidata dello spettatore” al clima della serata.
Ma vediamo quali e quanti sono i personaggi nelle vesti dei quali il nostro “show man” si cala:
- Merigo: alcolizzato, o meglio, ubriacone toscano dai capelli ricci, pantaloni a quadri e
maglietta a righe; sempre in buona compagnia… di un fiasco di Chianti e di una bicicletta.
- Il bambino Simone: infante discolo (indossa un cappello da baseball con la visiera alzata e
ha le dita perennemente nel naso) che si diverte a fare gli scherzi a suo nonno.
- Nando l’impresario: individuo dai capelli “semi-lunghi”, baffi e trench alla ispettor
Colombo. Non fa altro che insultare Panariello per la mancata riconoscenza nei suoi
confronti («Ma ti vergogni, o non ti vergogni, eh?»), perché, in fondo, Giorgio è stato
scoperto da lui (da Nando) e grazie a lui ha fatto carriera.
- Mario il bagnino (di Forte dei Marmi): personaggio arrogante, o meglio, “sborone” (non è
esattamente un vocabolo tratto dall’italiano accademico, ma non esiste davvero termine
migliore per descrivere questa macchietta), che millanta imprese mai avvenute e «una forza
nei bracci non indifferente».
- Il P.R. del Chi-ti-caca di Orbetello: caricatura del tipico “techno-mane” (cioè quel soggetto
che ha la passione per la musica techno e si reca tutti i sabato sera in discoteca) che lavora
nei locali notturni come p.r. o promoter. La comicità è giocata anzitutto sull’immagine:
giacca di paillettes, calzoncini da ciclista aderenti, marsupio, scarpe con zeppe (ovvero suole
incredibilmente alte), occhiali da sole, capelli ossigenati a spazzola e… una protuberanza
incredibile nella zona puberale (per questo domanda al pubblico ogni istante [giocando sul
doppio senso]: «si vede il marsupio? E ti suscita ingordigia, più che un pacco è una valigia
[rappando a ritmo di musica]!!! Il marsupio si, si si!! Il marsupio si, si, si!!!»).
- Il macellaio Pio Bove: tipico macellaio romano, il cui aspetto macchiettistico è centrato
principalmente sui giochi di parole («Oggi, visto che siamo in Sardegna, v’ho portato
“Porco Rotondo”… e poi v’ho portato la “Costa-ta Smeralda”») e sulla rudezza dei modi (si
soffia il naso con il camice e si gratta le natiche, proprio mentre dice che la sua ditta si
distingue per igiene e pulizia).
- Ficus: soggetto che si crede bello e importante, vestito in perfetto stile anni sessanta con
occhiali da sole, camicia nera (con paillettes e ricami bianchi) e capelli biondi, pettinati alla
Elvis. Millanta di essere fotomodello e di aver partecipato al casting di molte opere
televisive e cinematografiche. Tutto ciò, ovviamente, non corrisponde al vero perché, tra le
altre cose, il falso attore ha anche dei grossi problemi di dizione: non riesce a pronunciare la
lettera r.
- Lello Splendor: individuo chiassoso, esagitato, meridionale («so’ de Ascoli, provincia de
Piceno»), la cui funzione principale è quella di prendersi gioco degli ospiti o addirittura di
insultarli.
- Naomo: “riccastro” (che ha tutte le caratteristiche fisiche di Flavio Briatore, il responsabile
delle scuderie Benetton) che non ha nessun problema a ostentare la propria ricchezza («se
190
vuoi entrare dall’ingresso principale della villa esci a Firenze sud») o la propria importanza
(per esempio fa spesso notare il fatto che il suo maggiordomo sia “Silvio”, con ovvio
riferimento al nostro Presidente del Consiglio dei Ministri): insomma, uno “sborone” a tutti
gli effetti.
- La signora Italia: caricatura della tipica donna di paese toscana, la quale, dalla parrucchiera,
non fa altro che “spettegolare” sugli affari dei V.I.P.
Ci sono poi le imitazioni:
- Julio Iglesias: di cui vengono messe in ridicolo soprattutto le qualità vocali, assimilabili a
quella tipica aerofagia, derivante da una cattiva digestione.
- Renato Zero: personaggio preso di mira soprattutto per la sua eccentricità.
Ma Panariello non è da solo, è affiancato infatti dalla brava e bella attrice (teatrale e
cinematografica) Tosca d’Aquino, che ha il duro compito: a. di cucire assieme le varie sequenze del
programma, mentre Giorgio è intento ad assumere le vesti dei suoi personaggi, b. di fare gli onori di
casa con gli ospiti e c. di coordinare i giochi abbinati alla lotteria.
Ci sono poi le due soubrèttes Camilla Sjoberg (alta svedese dagli occhi azzurri e dai capelli scuri) e
Debbie Castaneda (slanciata sudamericana), la cui funzione teorica sarebbe quella di coadiuvare
Tosca e Giorgio nella conduzione, ma la cui funzione pratica è “de facto” quella di far alzare
l’audience, grazie alle proprie qualità estetiche.373
Altra bellezza poco comune è quella di Julia Smith, australiana, prima ballerina del Mulin Rouge,
ingaggiata dal coreografo Bill Goodson per ricoprire lo stesso ruolo (: prima ballerina), all’interno
del corpo di ballo della trasmissione.
Infine, last but not least, c’è il cantante Paolo Belli che ha il compito di coordinare e dirigere
l’orchestra, salvo (talvolta) prendere parte alla conduzione, diventando oggetto dell’umorismo di
Panariello (già perché l’artista in questione è obeso e quindi, come potete facilmente immaginare, è
sottoposto spessissimo alle mordaci facezie del conduttore).
Conviene, a questo punto, citare anche altri soggetti che, sebbene non visibili sullo schermo, hanno
giocato un ruolo importante nella costruzione del programma:
- Stefano Vicario: regia;
- Giampiero Solari: ideazione;
- Riccardo Cassini, Alberto di Risio, Claudio Fasulo, Carlo Pistarino (che entra ben tre volte
in scena, impersonando il vigile urbano e il giudice nel numero di Pio Bove): autori;
- Mario Audino, Giulio Calcinari: testi;
- Gaetano Castelli: scene;
- Loredana Vasconcelli: costumi;
- Ballandi Entertainment: produzione.
Un particolare fondamentale, che tuttavia abbiamo dimenticato di sottolineare, è il fatto che Torno
sabato… e 3 è una trasmissione “live” itinerante: ogni settimana, viene realizzata e trasmessa da un
“palasport” di una differente località della penisola.
La puntata di cui ci occuperemo è stata mandata in onda il 27 dicembre 2003 dal Pala Dozza di
Bologna.
Tuttavia, prima di partire con la sintesi delle sequenze e poi con l’analisi di due scene in particolare,
ci sembra doveroso descrivere in breve il palcoscenico, ovvero la scenografia che fa da contorno al
programma.
Ci siamo spesso domandati a cosa corrisponde la rappresentazione scenica di Torno sabato, tuttavia
non siamo ancora riusciti a trovare una risposta definitiva, una risposta ultimativa, un termine, in
breve, che potesse nominare, o meglio, che potesse rimandare immediatamente alla realtà riportata
sullo schermo. Pertanto, evitando inutili definizioni, ci limiteremo esclusivamente a indicare gli
elementi presenti sul palco.
Nell’esatto centro (parte posteriore dell’avan-palco) è posta una scala, più o meno bassa; alla sua
sinistra è parcheggiata una sorta di roulotte, sormontata da una specie di soppalco: è la zona
373
In Italia, effettivamente, non esiste show che non abbia almeno una soubrètte dalle impeccabili fattezze fisiche.
191
riservata all’orchestra. Ancora più a destra, c’è un vero e proprio camion (di cui compare
esclusivamente la parte posteriore), affiancato dall’entrata ai camerini.
Alla sinistra del palco sono posti invece un megaschermo e un altro veicolo, davanti al quale (nel
caso della trasmissione del 27 dicembre, a Bologna) prende posizione un coro Gospel. Spostandoci
più in là, nella stessa direzione, troviamo infine un'altra porta di accesso al dietro le quinte.
Davanti al palco è presente una passerella che conduce a una sorta di “avan-palco” circolare sul
quale hanno luogo la maggior parte dei numeri.
Come si vede, non è facile evincere dalla descrizione appena fornita il tipo di ambiente che lo
scenografo aveva in mente, quando ha creato questo tipo di scenografia.
Ma, tornando a noi, cerchiamo di fornire ora una sintesi delle varie scene/sequenze che
compongono la trasmissione.
1. Il programma si apre con l’estrazione di tre numeri, corrispondenti ai tre spettatori,
che saranno chiamati a partecipare ai giochi (abbinati alla Lotteria Italia) del “razzo”
e del “cannone”.
Tosca d’Aquino entra sul palco affiancata dalle “bellone” Debbie Castaneda e
Camilla Sjoberg, su un sottofondo di musica blues/gospel.
Le due soubrèttes salutano e fanno gli auguri al pubblico a casa, mentre Tosca
ringrazia il coro Gospel, presente lì in studio.
Successivamente, a turno, le tre dame estraggono le famose tre cifre.
A seguire, Tosca saluta Bologna, ricordando brevemente la sua storia gloriosa;
mentre narra le vicende e presenta i luoghi più interessanti della città, scorrono delle
immagini cha a tali luoghi si riferiscono.
Dopo questa breve presentazione, le tre donne escono di scena…
2. … e, sul teleschermo, compaiono delle immagini registrate in esterno, in piazza
Maggiore (cuore del capoluogo emiliano).
Paolo Belli, che impersona l’autista del furgone della Paolo Belli Big Band,
parcheggia il proprio automezzo, per mostrare al suo cane le bellezze del luogo in
questione. Tuttavia, la visita è bruscamente interrotta dal vigile urbano Carlo
Pistarino, il quale, nascosto in una colonna, viene fuori per fare una multa al nostro
personaggio, colpevole di aver posteggiato in divieto di sosta.
Nel frattempo, mentre i due discutono, compare la Paolo Belli Big Band che inizia a
suonare.
La scena sfuma…
3. … le immagini si spostano all’interno del Pala Dozza, dove, al buio, Belli inizia a
cantare la sigla (nel frattempo, scorrono i titoli), alla fine della quale urla il nome di
Giorgio Panariello, che entra, non dal retro del palco, bensì dalla platea.374
4. Dopo aver salutato il regista Stefano Vicario (che ha festeggiato il compleanno il 25
dicembre) e il produttore Bibi Ballandi (bolognese), il comico toscano inizia il suo
monologo.
I nuclei tematici sono fondamentalmente due:
- la quantità e la qualità («a Natale, si mangia di quei troiai… datteri, noci…») del cibo
mangiato a Natale;
- la noia mortale e l’assurdità delle feste di capodanno.
5. Uno stacco musicale dell’orchestra e del coro chiude il monologo.
6. Sul megaschermo compare Tony Corallo (personaggio comico), accompagnato da
Nando l’impresario, che introduce Panariello nel lato “scuro” della sua carriera...
7. … traendo spunto da questo riferimento, entra sul palco Carlo Conti (oggi noto
presentatore televisivo), con cui Giorgio ha iniziato la sua carriera artistica.
374
Se uno dei tentativi della neotelevisione è quello di cercare di annullare la percezione dello spazio psicologico
esistente fra mittente e destinatario, allora il fatto che un presentatore decida di entrare in scena dalla platea (come se
volesse mostrare a tutti di essere uno del pubblico), invece che dal dietro le quinte, ci sembra essere un punto di
notevole interesse.
192
-
Sullo sfondo intanto, viene posizionato un mega-cartellone, riportante la scritta Aria
Fresca, programma che ha coronato il successo di entrambi.
I due possono allora rievocare assieme i vecchi tempi cioè, fuor di metafora, possono
mostrare ai telespettatori alcuni dei vecchi numeri. In particolare, Panariello si cala
nei panni del bambino Simone (che da un lato racconta come si è preso gioco del
nonno, durante le feste di Natale, dall’altro tenta di improvvisare delle improbabili
imitazioni di animali) e di Mario il bagnino (che rievoca in modo epico il
salvataggio in mare di Carlo Conti).
8. La scena è seguita dall’immagine di Pistarino (vestito da vigile urbano), che lancia la
pubblicità.
9. La trasmissione riprende con uno stacco musicale che introduce Tosca d’Aquino, la
quale tenta di “arruffianarsi” la simpatia del pubblico, facendo riferimento alle
tentazioni culinarie della città di Bologna.
Successivamente, la show girl presenta la seconda ospite della serata, Serena Autieri,
attrice e show girl partenopea, dalle grandi qualità artistiche e fisiche.375
Le due, assieme, coordinano il “gioco del razzo”, con la partecipazione del primo
spettatore estratto, accompagnato sul palco da Debbie Castaneda.
Dopo il momento ludico, la conversazione fra Tosca e Serena continua; la prima
tenta di raccomandare un attore emergente, Ficus, sedicente modello e attore.
Questo soggetto, per mostrare a tutti le sue grandi qualità recitative, dovrà provare
una scena d’amore, a letto, con la bella napoletana. Viene portato allora sulla scena
un giaciglio dal gusto “trash”, con coperte in pelle di leopardo.
Il tutto è interrotto da uno spot della Tim (uno degli sponsor del programma), che vede come
testimonial il giocatore di calcio Fabio Cannavaro e Giorgio Panariello, calato nelle vesti di
Meucci (inventore del telefono).
Si ritorna in scena con l’Autieri già posizionata nel letto. A partire dal momento in
cui entra, Ficus inizia a millantare le sue qualità e a dare sfogo alla sua
megalomania.376
I due iniziano a recitare il pezzo teatrale, ma il soggetto in questione si trova subito in
difficoltà, perché le battute presentano dei vocaboli ricchi di r (lettera che il nostro
personaggio non riesce a pronunciare).
La scena si chiude con l’arrivo del marito di lei (“super-palestrato”), mentre i due si
stanno per baciare. Ficus si salva dicendo che è tardi e che deve andare via.
10. Sul grande schermo intanto ricompaiono Nando l’impresario e Tony Corallo, che
lanciano assieme la pubblicità.
11. Si ritorna in studio e Panariello introduce la performance di Rita Pavone377. Durante
l’esecuzione del brano Battito del cuore, compare sul palco anche l’inseparabile
compagno della cantante: Teddy Reno, personaggio noto al pubblico da diversi
decenni.
375
Ciascun invitato utilizza la trasmissione come una sorta di “vetrina pubblicitaria”, per dare visibilità alla propria
attività artistica e rendere più popolare la propria immagine. Ciò avviene anche nel caso di Serena Autieri, accolta da
una Tosca che si comporta come una perfetta padrona di casa: presenta l’ospite in modo caloroso, la tratta come se fosse
sua amica da tanto tempo, gli dà del tu… in breve instaura un clima di vera e propria complicità e confidenza.
376
Per esempio, quando i due vengono presentati, alla parola «piacere!» pronunciata da Serena, il nostro personaggio
risponde: «il piacere è tutto tuo!». Oppure quando Ficus si fregia di avere uno sguardo tagliente: «Il mio sguardo è
talmente tagliente che non vado dall’oculista ma dall’arrotino».
377
Nota cantante, il cui successo è legato soprattutto al periodo dei primi anni sessanta. Rita Pavone manca dalla scena
televisiva da molto tempo, a causa di problemi al cuore (quindi non è un caso che abbia deciso di cantare proprio quella
canzone).
193
Al termine del pezzo, c’è un ovvio scambio di convenevoli fra il presentatore (il
quale arriva addirittura a dire: «vi ringrazio per tutto quello che avete fatto finora per
noi») e i due artisti.378
Sulla scena, compare infine anche Carlo Conti, il quale regala alla brava Rita una
copiosa composizione floreale.
12. Conti rimane sul palco e inizia rievocare i vecchi tempi; in particolare, gli torna alla
mente lo spettacolo Fratelli d’Italia, a cui aveva partecipato, assieme a Panariello,
anche l’odierno regista e attore Leonardo Pieraccioni.379
Così, con un colpo di mano, viene chiamato in scena anche questo personaggio, terzo
elemento della triade comica: “Conti – Panariello – Pieraccioni”. I tre decidono di
ripetere un vecchio numero, cioè la scena in cui i genitori di Carlo, Giorgio e
Leonardo sono al colloquio con il professore dei loro tre ragazzi.
Il pezzo, tuttavia, fa fatica a “decollare”, in quanto Panariello e Pieraccioni si
trastullano fra loro, facendosi beffa del colore della pelle del loro collega
(particolarmente scura). Inutile precisare il fatto che i tre scolari non hanno un
curriculum particolarmente brillante e questo è naturalmente un buon presupposto
per scatenare la comicità dei tre cabarettisti.
Il tutto si chiude con una canzone dedicata a Bologna.
Sul mega-schermo compare intanto lo spot della Fiat Panda (un altro degli sponsor
del programma), che ha per protagonisti Tosca e Merigo.
13. Segue un balletto a tema natalizio, con le ballerine vestite da Babbo Natale.380
14. Al termine della performance danzante, Panariello sale sul palco per salutare il
coreografo Bill Goodson e la prima ballerina Julia Smith.
Successivamente, uscito tutto il corpo di ballo, il nostro presentatore lancia una sfida:
mangiare un “buondì” (noto tipo di brioche), in un tot numero di passi.
Allora, chiama in scena il giocatore del Bologna Calcio Beppe Signori, il quale, dopo
aver regalato la propria maglia al comico, precisa i termini della scommessa (per la
quale viene fissata una somma di mille euro): mangiare un “buondì”, in trenta passi,
senza mai fermarsi.
Il primo partecipante, Paolo Belli, perde, anche se, al secondo, cioè al motociclista
Loris Capirossi, non va tanto meglio .
15. Signori resta sul palco, mentre Panariello e Tosca si occupano di coordinare il “gioco
del cannone”.
16. Dopo questa fase ludica, il calciatore viene invitato a trattenersi e a richiamare alla
memoria del pubblico Nicolò Galli, ex collega, morto in un incidente.
È così che viene invocata la presenza di Giovanni Galli (ex portiere e papà del
giovane), a cui viene chiesto di presentare la fondazione “Nicolò Galli”, una sorta di
ente privato per il recupero delle giovani “vittime della strada”.
17. Concluso questo momento semi-serio, compare in schermata il volto di Merigo che
lancia la pubblicità.
18. Si torna in studio e, sul palco, sono presenti Tosca e Matilde Brandi (prima ballerina
di Torno sabato, edizione 2001). Le due giovani donne ostentano amicizia e non si
risparmiano complimenti reciproci.
Dopo i convenevoli, viene data la possibilità alla ballerina di pubblicizzare il suo
nuovo musical (Victor-Victoria).
378
Anche in questo caso, Panariello si comporta da perfetto maestro di cerimonia, cercando di mostrare riconoscenza e
ammirazione verso due cantanti, che appartengono a una generazione artistica precedente alla sua.
379
Inutile dirvi che anche Pieraccioni coglie l’occasione per pubblicizzare il proprio film, uscito nelle sale proprio nel
periodo natalizio.
380
Il balletto, peraltro, rappresenta uno degli esempi più lampanti di quel processo di mescolanza di generi e di
linguaggi, tipico della neo-tv. Nel numero in questione (ma un po’ in tutti i balletti in generale), per esempio, i colori
(piuttosto opachi), le inquadrature (sempre in movimento e con angolazione quanto meno insolita) e il montaggio (con
velocissimi cambi di immagine) si discostano molto da quelli normalmente utilizzati nel programma.
194
Insieme a Camilla Sjoberg, le due show girl si occupano del “gioco del razzo”, in
compagnia di uno dei tre concorrenti sorteggiati tra il pubblico in apertura.
19. Sul Pala Dozza cala il buio, proprio mentre inizia a salire una musica soffusa. Ma la
tranquillità è bruscamente interrotta dai Carmina Burana di Orff e dalle urla del
macellaio Pio Bove, che entra in sala a partire dalla platea, correndo come un
dannato e prendendo a “gallinate” (sì, perché ha in mano delle galline con cui
picchia a caso delle persone fra il pubblico) gli spettatori.
La sua furia si placa in prossimità del palco, dove si ferma a presentare le “offerte
della settimana”.
Tuttavia, gli bastano pochi secondi per riaccendersi d’ira e percuotere (con i polli)
tutti coloro che lo circondano. Il caso vuole però che, fra le sue vittime, ci sia anche
il vigile urbano Pistarino, il quale, di fronte a un simil gesto (: oltraggio a pubblico
ufficiale), non può far altro che multare e convocare in tribunale il nostro macellaio.
Lagnandosi («ma io c’ho già un problema molto grosso… c’ho un problema molto
grosso… c’ho l’avvoltoio sulla spalliera del letto de mi’ nonna, in fin de vita, che je
mette ansia, je mette fretta. Ha capito?»), Pio sale sul palco, dove lo attende il
poliziotto Paolo Belli (ribattezzato “quarto di Bue”, a causa della sua corporatura),
che ha il compito di richiamare l’attenzione del pubblico, nel momento in cui il
giudice (impersonato, come il vigile urbano, da Carlo Pistarino) entra in aula.
Il capo di imputazione è quello di “essere indifferente ai piaceri della carne”, poiché
una sua fedele cliente, l’attrice Alba Parietti, accusante, sente che il suo amore non è
corrisposto.
Il magistrato vorrebbe dichiarare la semi infermità mentale della donna (perché Pio
Bove non è certo un bronzo di Riace), ma alla fine, sotto consiglio dello stesso Bove,
decide di condannare entrambi a due mesi di cella di isolamento (cioè i due vengono
“isolati” nella stessa cella).
20. A questo momento di puro teatro, segue la promotion dell’Acqua Lete (terzo sponsor
dello spettacolo) che vede Paolo Belli come testimonial.
21. Successivamente, Tosca d’Aquino presenta una fantasia musicale tratta dal film della
Walt Disney Mary Poppins. La voce è quella di Serena Autieri, accompagnata da
Panariello.
22. A seguire, sempre Tosca chiama al suo fianco Matilde Brandi, la quale coglie
l’occasione per presentare la trasmissione dell’ultimo dell’anno (che condurrà con
Carlo Conti, su Rai Uno) e per pubblicizzare nuovamente il suo musical.
Nel frattempo, compare sul palcoscenico proprio Carlo Conti, assieme al quale, le
due fatine coordinano il gioco telefonico con uno spettatore a casa.
23. Il presentatore toscano si ferma a chiacchierare con la d’Aquino e, tra un discorso e
l’altro, introduce la nuova Miss Italia, Francesca Chillemi.
Nel frattempo, irrompe sulla scena anche Lello Splendor che aizza in tutti i modi il
pubblico e si fa beffe di Conti, a causa del colore della sua pelle. Mentre i due
discutono, emerge il fatto che questo bizzarro personaggio ha una sorella, anch’ella
miss. Viene allora invitato a condurla sul palco.
Ma Lella Splendor (che pure comparirà “on the stage”), in realtà, non è una vera
star, è semplicemente l’alter ego femminile di Lello che, vestito da donna, continua a
giocare la sua parte.
24. Questo lungo momento di cabaret è seguito dalla performance del cantante Gianluca
Grignani, che canta un pezzo inedito, tratto dal suo nuovo album.381
Terminata la prima fase della jam session, Panariello si reca al fianco dell’artista e
sponsorizza il suo nuovo lavoro (cioè una raccolta, un “the best of”), cogliendo
381
Anche in questo caso torna buono il discorso affrontato in nota 19 sul balletto.
195
l’occasione per cantare insieme a lui, una versione unplugged di uno dei suoi più
grandi successi: La mia storia fra le dita.
Successivamente, il comico toscano esce di scena, mentre Grignani canta Uguali e
diversi, assieme a Paolo Belli.
25. Al termine, Merigo lancia la pubblicità.
26. La trasmissione si riapre con Panariello che si fa beffa di Tosca.
I due presentano di nuovo Alba Parietti, la quale li aiuterà a condurre, assieme a
Debbie Castaneda, il gioco del razzo.
27. Concluso il gioco, Giorgio presenta Iva Zanicchi, con la quale scambia quattro
chiacchiere in modo amichevole, prima che questa canti Musica argentina.
28. Dopo questa parentesi musicale, i due presentatori, il toscano e la napoletana, si
mettono in collegamento con il comandante della nave Espero, Aurelio de Carolis, al
momento impegnato, assieme al suo equipaggio di 230 uomini, in una missione nel
mare arabico.
29. Questo momento dovuto, ma nello stesso tempo un po’ patetico, è seguito da un'altra
performance di Rita Pavone, impegnata in una fantasia musicale assieme a Paolo
Belli.
30. Arriva dunque il gran finale, che prevede un gioco telefonico da un milione di euro.
È chiamato a condividere questi attimi di suspence Remo Girone, il quale, neanche a
dirlo, presenta al pubblico la sua nuova fiction.
All’improvviso, la tensione scema: lo spettatore a casa non riesce a ottenere il jack
pot tanto ambito.
Così, la trasmissione può chiudersi: Panariello saluta e ringrazia cast e ospiti, mentre
Paolo Belli canta la sigla finale.
Come si vede, il programma è particolarmente ricco di elementi di grande interesse, tant’è che,
all’inizio, non è stato così semplice scegliere le sequenze da analizzare. Alla fine, abbiamo deciso di
focalizzare la nostra attenzione sul monologo iniziale (scena 4) e sulla comparsa di Lello Splendor
(scena 23).
Ma perché queste due scene, la 4 e la 23, sono così importanti?
La 4 per due ragioni: a. perché costituisce l’apertura vera e propria del programma, e b. perché il
conduttore è sul palco da solo.
a. In quanto apertura, tale monologo rappresenta una sorta di introduzione al clima generale
della serata, detto in altri termini, è a partire dalla valutazione critica di questo momento
teatrale che lo spettatore decide se vale la pena guardare oltre o cambiare canale.
b. Il fatto che Panariello sia da solo, cioè che sia (per quanto si è appena detto) l’unico garante,
l’unico responsabile della riuscita del patto con l’utenza, sottolinea in modo ineluttabile
come il centro, il fulcro, l’alfa e l’omega dello show sia lui, solo lui e nessun altro.
Posta questa premessa, posto il fatto cioè che il programma intero ruota intorno alla sua
persona, è interessante andare a vedere che tipo di relazione, che tipo di rapporto egli
intende stabilire con il pubblico, o meglio, con il suo pubblico, cioè con gli spettatori a casa
e con quelli in sala.
La scena 23, invece ci è sembrata interessante perché da un lato vede la partecipazione di due ospiti
(quindi ci consente di verificare se quel processo di quotidianizzazione, tipico della neo-tv, sia
riscontrabile anche nel varietà del sabato sera382), dall’altro ruota attorno a una delle tante
macchiette impersonate dal comico toscano (e ci permette perciò di svelarne i dispositivi
comunicativi).
Sarebbe stato interessante analizzare anche il balletto o la performance di Gianluca Grignani, per
vedere quanto il codice linguistico-visivo del video clip ha influenzato quello della televisione;
382
Pensiamo, in particolare, a quel processo per cui il vip, l’ospite viene presentato come “quotidiano”. Questo implica
che il presentatore, l’anchor man assuma un atteggiamento amicale verso questo soggetto, comportandosi come si
comporterebbe un buon padrone di casa con un vecchio amico.
196
tuttavia, uno studio di questo genere avrebbe peccato di eccessivo tecnicismo e non sarebbe stato
quindi adeguato a un lavoro di tipo più generale come il nostro.
A ogni modo, fornite tutte le giustificazioni del caso, possiamo ora focalizzare la nostra attenzione
sull’analisi.
Cominciamo dalla scena 4.
Inquadrature
Parlato
1) Campo medio sul
pubblico,
con
zoom
progressivo in avanti
2) Campo medio (con
dolly, da sinistra) su
Panariello e sul pubblico
3)
Primo
piano
su
Panariello
4) Primo piano sul
pubblico con panoramica
orizzontale verso sinistra
5) Primo piano, da sinistra,
sul direttore di Rai Uno Del
Noce
6) Mezzo
busto
su
Panariello.
Il presentatore si muove da
sin. verso des. e da des.
verso sin. e la camera lo
segue.
7) Campo lungo (con
dolly) sul pubblico.
La camera effettua una
veloce
panoramica
orizzontale da sinistra verso
destra
8) Mezzo busto
9) Campo lungo (con
dolly) dall’alto del palco
verso il pubblico.
10) Mezzo busto su
Panariello, che cammina
(da sinistra a destra e da
destra a sinistra) e la
camera lo segue
11) Campo lungo (con
dolly)
da
destra
su
Panariello e il pubblico. La
camera effettua poi uno
zoom in avanti
12) Mezzo busto su
Panariello (che si trova di
profilo)
13) Campo lungo, dalla
destra di Panariello
14)
Figura
intera
(Panariello si muove e la
camera
ne
segue
i
movimenti)
15) Campo lungo da destra
su Panariello e sul pubblico.
La camera zooma poi in
Buona sera!!
383
Fatemelo godere un po’…
… questo pubblico [il pubblico applaude senza sosta383]
Bello!!! Anche a Bologna!!!
Un gradito ritorno!!!
Io vorrei chiedervi un applauso per una persona speciale. Non lo saluto mai e me ne
dimentico sempre, ma questa volta lo devo fare perché… è stato il suo compleanno il 25
dicembre.
L’uomo più sfortunato del mondo, perché, con un regalo, lo s’accontenta… il nostro
Stefano Vicario [e fa partire l’applauso], che è, tra l’altro, il nostro regista.
Ciao Stefano! Auguri, anche se in ritardo.
Allora, visto che siamo (…)
(…) qui a Bologna… [salutiamo] il nostro produttore Bibi Ballandi. Non so dov’è, ma,
essendo bolognese doc [fa partire un altro applauso], lo saluto.
Eh?! [il pubblico continua ad applaudire] E insomma!!!
Ma quanto s’è mangiato, oh?
Ragazzi!!! Vedete c’ho i pantaloni (…)
(…) con la scollatura a v [mostra i pantaloni]. Avete visto quando c’è i pantaloni con
l’asola che… l’asola e il bottone si sono incontrati, l’ultima volta, il 23… [Panariello si
rivolge agli spettatori alla sua destra] poi … non si sono più rivisti.
Nelle parentesi quadre riportiamo nostri commenti o ulteriori descrizioni.
197
avanti
16) Mezzo busto (la L’asola e il bottone si sono mandati un augurio via SMS per Natale, poi… non si sono più
camera segue sempre i rivisti. Eh, ragazzi!!
movimenti di Panariello)
Poi, il problema è che noi abbiamo passato tutte le feste a Bologna.
Guardate ragazzi (…)
17) Figura intera
(…) essere a Bologna per le feste e non mangiare…
18) Mezzo busto
… è come andare all’Oktoberfest e bere un chinotto. Ragazzi!!!
19) Figura intera con
dolly, da sinistra. Sullo
sfondo a destra si intravede
il pubblico.
La camera zooma poi a
sinistra in avanti
Io non so immaginarmi (…)
20) Mezzo busto
(…) le tonnellate di tortellini che vi siete magnati da queste parti.
Ma poi… chi è che li fa ancora? Ah, c’è una signora [cerca con lo sguardo una signora tra
le prime file]… Ah!!! Lei!!! [la trova e le si rivolge direttamente] La mamma di Mirco
Sandoni!!!
21)
Figura
Intera Ma che li fa ancora a mano?
(Panariello è di profilo e
guarda la prima fila, verso
la sua sinistra)
22) Primo piano da sinistra Ma dicono tutte così!! Ma io non lo so
sulla signora che annuisce
23) Mezzo busto su Ma queste cose!!!
Panariello
24) Primo piano da sinistra Cosa (…)
sulla stessa signora
25) Mezzo busto su (…) c’avete voi, oh? Ma che cominciate a luglio a preparare i tortellini?
Panariello, girato verso Poi, una domanda volevo fare a voi (…)
destra. Quando incomincia
a muoversi la camera lo
segue
26) Figura intera
(…) Bolognesi: ma un maiale… vivo… l’avete lasciato?
27) Campo medio (con Due!!!
dolly) da destra, con
successivo zoom indietro
28) Mezzo busto
Due!!!
29) Mezzo busto da dietro Due!! Per la riproduzione!!!!
(con dolly). La camera Non è che noi, il prossimo anno, si può mangiare le foche monache!!
effettua poi una lenta Il maiale…
panoramica verticale
30) Mezzo busto (stavolta … io lo vedo!!! Da queste parti, il maiale, da settembre…
frontale)
31)
Figura
intera … comincia a essere nervoso, teso, guarda l’orologio: «quanto manca?». Teso!!!!
(Panariello passeggia e la Durante le feste, i maiali vanno in giro con il bavero alzato [mima la scena],
camera
ne
segue
i
movimenti)
32) Mezzo busto (continua cappello, occhiali scuri… [mima un passante che pone una domanda all’animale] «che sei
a passeggiare e la camera un maiale te?» [poi, mima il verso del maiale che risponde] «No!».
continua a seguirlo)
33) Figura intera (mentre Va via, zitto… [il pubblico ride e applaude]
non cessa di passeggiare)
34) Mezzo busto
35) Campo medio da dietro
con veloce zoom in avanti
36) Mezzo busto con lento Quanto s’è mangiato!!!
zoom in avanti
Ma poi, per le feste, si mangiano di quei troiai: i fichi secchi,
37) Figura intera (mentre le noci, le mandorle, le noccioline… in modo tale che, per 15 giorni, si cammina…
Panariello passeggia)
[cammina a gambe divaricate, per alludere alle proprietà lassative di questi alimenti. Nel
frattempo, il pubblico scoppia a ridere]
38) Mezzo busto
La gente per strada [mima un passante]: «Oh! Gli è scappato il cavallo, eh?»
198
39) Figura intera
[si ri-cala immediatamente nei panni del mangiatore di frutta secca] «eh!!! Lo sa, ma…
purtroppo… i datteri…»
I datteri e tutta quella roba lì che, durante l’anno, non si sa che ci fanno.
I datteri (…)
40) Mezzo busto
(…) con quelle forchettine bianche, che tu ne infilzi una… “pac”!!! si spacca la
forchettina
41) Campo medio da dietro Ma da dove vengono? Chi le fa queste forchettine?
(con dolly che si sposta Ma di quei troiai…
lentamente in avanti)
42) Mezzo busto
Perché poi, dopo, non abbiamo ritegno, no?
Tanto poi, dal due [intende dal due di gennaio] a dieta… ginnastica… ma intanto, per le
feste… il panettone con la nutella sopra [fa delle espressioni di stizza]
La camera
Il pandoro dentro il “caffè e latte” [le espressioni del volto si fanno sempre più stizzite],
effettua un lento zoom in bleah!!
avanti, tendente al primo Come tu imbuchi la fetta [fa il gesto di intingere il pandoro nella tazza di caffè e latte]…
glu, glu, glu.
piano
43) Figura intera
[Panariello si guarda le mani]
44) Primo piano (sul
pubblico)
45) Piano americano (con Eh?! Il pandoro sembra un idrovora… Ti succhia!!
dolly). La camera effettua, A me, quando mi s’allaga la cantina, vo in giro col pandoro…
lentamente, uno zoom La succhia, Dio bono!!!
indietro e poi in avanti. Aspetta!!!
Successivamente realizza
una panoramica verso
sinistra e poi una zoomata
indietro, fino a diventare un
campo lungo
46)
Mezzo
busto E siamo ancora al 27 [si rivolge agli spettatori alla sua destra]!!!! Non è ancora finita!!!
(Panariello
si
muove, C’è l’ultimo dell’anno!!!
passeggia e la camera ne [si volta poi verso destra]
segue i movimenti)
Ma che si scherza!!!
E allora rimangia…
47) Figura intera (il … ribevi…
conduttore si muove e la E poi tutti gli anni la stessa storia: «Ora, se è l’ultimo dell’anno… o dove si va? O che si
macchina da presa continua fa? Dove si va? Ma che si fa?». Sempre così.
a seguirlo)
Il problema… è che, a capodanno… ti devi divertire per forza!!!
48) Mezzo busto
Sìììììììììììì!!!! È quello il problema!!!
49) Campo lungo (con Ci si organizza… ci si organizza…
dolly) dalle spalle di Tutti gli anni la stessa storia!!!
Panariello.
La
camera
zooma e si sposta in avanti
50) Mezzo busto
Tutti gli anni la stessa frase: «ma il prossim’anno… e non mi fregano!!»
La camera
E si finisce sempre dove non avresti voluto essere, con la gente che non conosci, e tu
inizia a zoomare in avanti spendi un monte di soldi… per nulla.
fino
a
trasformare Eh! Perché a capodanno (…)
l’immagine quasi in un
primo piano
51) Figura intera (con (…) costa tutto il triplo!!!
dolly) dalle spalle di Oddio!!! C’è dei prezzi per tutte le tasche, eh!!
Panariello.
La macchina effettua poi
uno
zoom
indietro,
muovendosi verso l’alto,
fino a rendere l’intera
immagine un campo lungo
52) Mezzo busto (il Perché si va, per esempio, sul: “cenone con veglionissimo, spettacolo e orchestra”… 150
conduttore è in movimento euro.
e la camera lo segue)
53) Figura intera
Solo “veglionissimo con spettacolo e orchestra”: 100 euro; solo “veglionissimo con
orchestra”: 60 euro;
54) Mezzo busto
Dopo le 3: 30 euro… alle 5, con 10 euro, ti fanno vedere l’orchestra che va via.
199
55) Campo medio da Poi… aspetta!!!
sinistra con carrellata e Il menu!!! Tutti gli anni ci si casca e il menu è sempre quello.
zoomata in avanti
Allora, “antipasti” (…)
56) Mezzo busto
Ti danno: le fotocopie del prosciutto… le fotocopie… poi 2 o 3 fette di salame messe in
croce… 2 o 3 sottaceti… brutti [fa una faccia stizzita]!!! Non li mangerebbe neanche
Emanuele Filiberto, che pure è uno…
57) Figura intera (con … che notoriamente…
dolly) dalle spalle del
conduttore, con successiva
carrellata in avanti
58) Mezzo busto
59) Figura intera dalla E fin qua…
sinistra di Panariello
60) Mezzo busto
Ma mi fanno pena i sottaceti… ti guardano… non sono sott-aceti, sono “sotto shock”!!!
Ti guardano con la paura addosso.
I primi!!!
Tra i primi, c’è sempre, nel menu dell’ultimo dell’anno, il tris di primi.
61) Figura intera
Allora!!! Si chiama tris, perché ti fa “tris-tezza” solo a guardarlo.
“Ravioli al profumo di tartufo” (…)
62) Mezzo busto
Come? [dal pubblico, qualcuno urla un complimento] Grazie!!!
63) Mezzo busto dalle Grazie!!! È un amico!!!
spalle di Panariello con
pubblico sullo sfondo
64) Mezzo Busto (stavolta Gli do qualcosa per dire queste cose!!
davanti)
Allora… [il pubblico esulta]
65) Campo lungo (con
dolly) stavolta davanti, con
movimento verso sinistra
66) Campo lungo sul Non fate così!!! Mi imbarazzate!!!
pubblico con carrellata e
lentamente compare sullo
schermo anche Panariello.
67) Mezzo busto su [il pubblico continua a esultare]
Panariello
68) Campo lungo dall’alto,
alle spalle del presentatore
68) Mezzo busto
69) Campo lungo dall’alto, Mi imbarazzate!!! Io poi mi imbarazzo!!!!
alle spalle di Panariello
70) Mezzo busto
Stavamo dicendo: “ravioli al profumo di tartufo”, perché c’è solo il profumo… il
tartufo… non c’è verso di averlo.
Poi: “orecchiette al sentore di mare”. E io infatti me le immagino queste orecchiette
La camera
[mette la mano davanti alle orecchie, come colui che cerca di sentire qualcosa che si fa
compie una zoomata in fatica a percepire]… che tentano di sentire il mare.
avanti e l’immagine diventa Poi (…)
quasi un primo piano
71) Figura intera
“Tagliatelle mare e monti” ma… non trovi niente!!! [fa il gesto di colui che tenta di
trovare qualcosa nel piatto]
Quando si dice: “ti promettono mari e monti”, no?
72) Mezzo busto
Davanti, ti piazzano il panettone, quello col cellofan, senza la marca… perché chi l’ha
fatto si vergogna… dice [nel senso: chi l’ha fatto dice]: «Io te lo do, ma non voglio far
sapere chi l’ha fatto!!! Se lo vuoi mangiare, lo mangi, se no lo butti via!!»
73) Figura intera
Lo spumantino… quello triste…
74) Mezzo busto
O troppo dolce, o troppo secco!! Quello del Luna Park, del tiro a segno: è il solito, è
quello lì!!
75) Campo lungo da Sì, sì!!
sinistra (con dolly)
76) Mezzo busto
Che già al Luna Park, ti fanno [imita l’omino che lavora al tiro a segno]: «portachiavi o
spumante?», e tu: «porta chiavi, porta chiavi!!!».
E allora lo riciclano e lo ripiazzano lì davanti.
77) Campo medio (dalle Ne bevi un gocciolino e ti brucia lo stomaco tutta la notte.
spalle di Panariello, con
200
dolly)
78) Mezzo busto
79) Figura intera
80)
Mezzo
busto
(Panariello si muove e la
macchina da presa ne segue
i movimenti)
E ti ‘mbriaghi come una scimmia.
E te, tutto ‘mbriago [fa la voce dell’ubriaco]: «ma il prossimo anno… non mi fregano!!».
Torna a mezzanotte il momento del brindisi… Non ci si riesce mai a mettere d’accordo
sul momento della partenza del tappo.
E allora!!! Io, c’ho 43 anni… e non mi ricordo, nella mia memoria, un momento che s’è
stappato il tappo tutti insieme.
Già, quando dici alla festa: «Quanto manca?» Chi [fa la parte di coloro che rispondono]:
«mezzanotte meno un quarto… meno venti… meno cinque…» Non c’è mai un orario
preciso.
Stiamo tutti quanti per stappare… e lì.. c’è sempre lo stappatore, quello precoce!!! [fa il
gesto del tappo che parte] non ce la fa!!!
Gli parte!!!
81) Campo lungo dalla
sinistra di Panariello in
basso (con dolly)
82) Mezzo busto
Gli parte!!! E allora lui tenta di tappare [mima la scena]…
83) Figura intera
… di non farlo partire… e… e allora… ffffffffff [fa il verso dello spumante che fuoriesce]
e gli esce tutto… lo tiene così e gli parte la boccia di sotto [mima la bottiglia che cade]
84) Mezzo busto
E rimane col tappo… “Auguri!!!”
85) Figura intera (con No!! Quello è tremendo!!!
dolly) dalla sinistra di
Panariello
86) Primo piano sul
pubblico
87) Campo lungo (con Poi c’è lo stappatore…
dolly) dalle spalle a sinistra
del condutore
88) Mezzo busto
Quello ritardatario.
Si fa il conto alla rovescia: «tre, due, uno, zeroooo!!!!!», e lui è ancora lì che tenta di
svitare la gabbietta del tappo [imita il personaggio che tenta di svitare]
89) Figura intera
Allora comincia col pollice [fa il gesto di chi tenta di stappare, facendo pressione col
pollice sul tappo]… no? Non ce la fa e allora ricomincia [inizia a prendere a pugni il
La camera
tappo ]… e tu… sei accanto… che addosso non hai un vestito… c’hai la tredicesima,
Fa uno zoom in avanti, fino addosso.
a trasformare l’immagine in
primo piano
90) Figura intera (con Quindi ti mette un po’ in ansia… tu sei sempre in ansia!!!
dolly) dalle spalle di
Panariello. La macchina da
presa zooma poi indietro e
si muove verso l’alto
91) Mezzo busto
Perciò, tutti gli anni, tu esci di casa col vestito della festa… e tu rientri che t’hanno fatto
la festa al vestito!!! Sempre!!!
92) Figura intera (con [ripete di nuovo quel che può essere forse definito lo slogan della serata] «Ma il prossimo
dolly) dal lato destro del anno (…)
presentatore
93) Mezzo busto
(…) non mi fregano».
Ma poi… come ci si vuole bene per l’ultimo dell’anno!!
94) Figura intera
S’arriva a queste feste, ché tutti ci si guarda come delle bestie immonde. [Imitando i modi
snob di coloro che prendono parte a questi “party”:] «Uhm! Ma come siamo vestiti!!
Stasera non avevo neanche molta voglia…»
95) Mezzo busto
96) Figura intera
Dopo cinque o sei bicchieri… ohe!!!
97) Mezzo busto
Ci si ama, ci si abbraccia… «cin, cin»… «smak, smak»…
98) Figura intera
[Inizia a cantare una di quelle che canzoni che vengono cantate e suonate solo e soltanto a
capodanno] «Brigitte Bardot, Bardot…»
99) Mezzo busto
Si perde (…)
100) Campo lungo (con (…) tutta la dignità!!! Si fa i trenini,
dolly) dalle spalle di
Panariello
101) Mezzo busto
si agguanta la gente mai vista in vita nostra!!!
Ci si trova davanti l’impiegata della posta… quella tutta spalmata di brillantini addosso…
201
che poi questi brillantini te li ritrovi nelle raccomandate per tre o quattro mesi, no?
Questa… tutta vestita a scaglie di paillettes, vive di luce propria!!!
Se la incroci con la macchina, ti abbaglia, sbandi… tu sbandi!!!
[riportando il discorso sul tema della festa] Davanti, stringi i fianchi al direttore di banca,
la camera
quello che non ti ha mai neanche voluto dare l’agenda in vita sua… che a mezzanotte e un
zooma in avanti, fino a quarto…
raggiungere quasi il primo
piano.
Successivamente
… ubriaco fradicio… ti fa un mutuo agevolato al 2%.
zooma all’indietro
104) Campo lungo (con
dolly) dalla sinistra di
Panariello
105) Mezzo busto alle Ma il problema (…)
spalle del presentatore
106) Figura intera
(…) è quello che ti stringe dietro, che è l’amministratore delegato del condominio, vestito
da Drag Queen…
Quello è il problema (…)
107) Mezzo busto
(…) del trenino, alle volte.
La macchina
Tutti ubriachi!!! Tutti… con addosso l’indumento intimo rosso…
da presa zooma in avanti,
fino a rendere l’immagine
un primo piano
108) Figura intera
[Si rivolge a una signora seduta in prima fila] Signora, eh? Che se lo mette, eh?
Eeeeeh!!!!
Ma voi donne siete avvantaggiate: reggi-petti, reggi-calze,
109) Primo piano sulla Slips…
signora seduta in prima fila
110) Figura intera
… ma noi uomini…
111) Mezzo busto
Ci regalate sempre voi donne… [indica il boxer] mi fa schifo solo a pensarci… perché mi
La camera
immagino se mi dovessi spogliare!
zooma in avanti, fino a Questi boxerini… quelli col rametto di vischio…
trasformare l’immagine in
un piano americano
112) Primo piano sulla Che se ti succede qualcosa (…)
prima fila
113) Piano americano
(…) e ti portano all’ospedale… gli infermieri si scambiano il bacio e gli auguri sotto le
tue mutande!!! Immaginate!!!
114) Inquadratura di mezzo
busto sulla signora di prima
e sulla sua vicina
115) Figura intera
116) Mezzo busto
117) Figura intera
[Panariello ripete nuovamente il moto della serata] «Ma il prossim’anno…»
La camera effettua poi uno
zoom all’indietro fino a
rendere l’immagine un
campo medio
118) Mezzo busto
119) Campo medio (dalla
sinistra di Panariello, girato
di spalle)
120) Mezzo busto
A capodanno si perde tutta la dignità.
I primi dell’anno, girano di quelle foto, che tu hai fatto l’ultimo dell’anno…
121) Figura intera
Che se tu le potessi ingoiare… le ingoieresti!!!
122) Mezzo busto
Ci sei te [intende nella foto] con l’impiegata delle poste… che ha l’acconciatura [mima la
pettinatura poco ordinata della donna]… e, attaccate alla lacca, le stelle filanti [continua a
mimare il tutto]… e tu, con la trombetta in bocca…
La camera
… e una lastra di pandoro in mano [mostra la mano]… si perché è una lastra [il
fa uno zoom in avanti, fino pandoro]…
a rendere l’immagine un Tu rientri a casa, all’alba… (perché bisogna fare l’alba per forza!!)
primo piano
102) Figura intera
103) Mezzo busto
202
123) Figura intera
124) Mezzo busto
La macchina
da presa zooma di nuovo in
avanti, fino a rendere
l’immagine un primo pian.
125) Campo medio (con
dolly) frontale da destra
126) Primo piano con
zoomata indietro, fino a
rendere l’immagine un
mezzo busto
127) Figura intera
128) Mezzo busto
129) Primo piano
pubblico.
… tutto distrutto [fa la faccia di una persona stanca]… tu rientri in casa..
… tu rientri in casa, che sembri Saddam Hussein dopo la cattura!!
Avete presente?
A casa…
… per riconoscerti, devono guardare i denti con la pila, se no, non c’è verso.
Tu vai vestito a letto in quelle condizioni: tutto appiccicoso di spumante,
Ché, al mattino dopo, ti viene dietro [intende dire: ti porti dietro, perché restano
attaccate]: lenzuola, fodere, guanciale… tutto il letto.
E l’ultimo pensiero, prima di addormentarti, è sempre quello: «Ma il prossim’anno…
sul Pubblico: «… non mi fregano!!!».
La scena si chiude con uno stacco musicale.
Nonostante la semplicità di fondo (si tratta pur sempre di un monologo), gli elementi che entrano in
gioco nella sequenza analizzata sono parecchi.
Nel capitolo precedente, avevamo riconosciuto ben sei ruoli, ai fini della comprensione del gioco
comunicativo, del gioco delle parti costruito in un testo: autore reale o mittente, autore implicito o
enunciatore, narratore, narratario, lettore implicito o enunciatario, lettore reale o destinatario.
Dovremo pertanto tentare di stabilire, all’interno del programma, o meglio, all’interno della scena in
questione, chi o che cosa impersona queste figure chiave.
L’autore reale o mittente e il lettore reale o destinatario prescindono dalla trasmissione/testo e, nel
caso della televisione, corrispondo sempre ai medesimi soggetti: il broadcaster da una parte e il
telespettatore dall’altra.
Anche i ruoli di narratore e narratario, trattandosi di un monologo, sono abbastanza chiari: il
narratore è Panariello, la star della serata, mentre invece il narratario è il pubblico in sala,
interpellato a più riprese dal presentatore, o sarebbe meglio dire: dallo show man.
Diventa invece molto difficile stabilire a chi vengono affidati gli altri due espedienti comunicativi,
che sono poi i più importanti, dal punto di vista della “conversazione audiovisiva”.
Procediamo per gradi.
Presa visione non solo del monologo, ma del programma in generale, ci pare evidente che il tutto,
cioè tutto lo show, ogni singolo numero, ogni singola performance, ogni singolo intervento sono
come osservati dall’esterno, sono come giudicati da una sorta di occhio che, sebbene solidale con
quanto avviene sul palco, si pone a una certa distanza, si pone ovvero in una sorta di prospettiva
giudicante.
Questo osservatore esterno, questo occhio coincide con la macchina da presa, lente, organo visivo
nelle mani del regista. L’enunciatore, in breve, si identifica con le immagini, o meglio, con gli
obiettivi delle telecamere.
Nella scena analizzata, tutto questo è particolarmente evidente.
I cameraman, adeguatamente istruiti dal regista, sottolineano quello che Panariello fa, creando una
sorta di simbiosi, una sorta di corrispondenza fra gesti e parole del cabarettista e il linguaggio
visivo; detto in altri termini, l’organizzazione generale delle riprese fa sì che il rapporto
immagine/parola non sia contraddittorio, ma (oseremmo dire) “sinfonico”. È questo il senso delle
“zoomate”, delle “figure intere” o delle “riprese in movimento” (: carrellate o spostamenti della
macchina, che seguono gli spostamenti del conduttore), che tendono a dare rilievo alla mimica o al
dinamismo recitativo del comico.
Nello stesso tempo però, tali inquadrature rivelano soffusamente anche la propria origine,
tradiscono cioè il fatto di essere la prospettiva visiva di un “alteritas”, di un soggetto totalmente
altro che osserva la scena dall’esterno. Così, i campi lunghi alle spalle di Panariello, le riprese
203
dall’alto, le carrellate o le zoomate sono un indizio inconfutabile della presenza di un occhio
giudicante, di un “onnipresente” organo della vista. Questo è l’enunciatore.
Ma chi è l’enunciatario? Cioè chi è che fa le veci del pubblico a casa?
È evidente il fatto che l’utente, il destinatario, a casa, riceve delle istruzioni. Le immagini parlano
chiaro.
Gli stacchi sul pubblico, le panoramiche sulla platea sono tese infatti a sottolineare le reazioni e la
partecipazione degli spettatori in sala, quasi fosse quello il solo modo di “stare al gioco”, quasi
fosse quello l’unico atteggiamento corretto di guardare il programma. In questo modo, ipostatizzato
dall’obiettivo della telecamera, il comportamento di coloro che assistono dal vivo diventa
normativo per coloro che si trovano nella propria abitazione.
Da tutto ciò deriva che il varietà è un passatempo fatto di regole, un passatempo fondato su delle
parti da ricoprire, un passatempo fondato su un copione, come una pièce teatrale; ed, esattamente
come in una pièce teatrale, i dettami di tale copione vanno rispettati nei minimi dettagli.
Ma se l’atteggiamento del pubblico in studio è esemplare per il pubblico a casa, allora è evidente
che è proprio esso quell’enunciatario, che si faceva così fatica a scovare.
Sono ora più evidenti i ruoli comunicativi, le parti, le figure del testo-programma. Ciò che non è
ancora completamente chiaro è il tipo di rapporto che, attraverso questo testo, il mittente intende
instaurare con il destinatario.
Andiamo con ordine.
L’autore implicito o enunciatore, si è detto, corrisponde all’istanza dell’autore reale, cioè del
mittente. Al contrario, l’enunciatario è il rappresentante, è l’ipostasi del lettore, del destinatario
all’interno dell’opera.
Si è anche detto che lo sguardo dell’enunciatore, nel programma in questione, è pienamente
solidale con la prospettiva del comico (cioè con il narratore) e che la reazione del pubblico in
studio (narratario) è normativa per il pubblico a casa.
Poste queste premesse, per risolvere il problema di cui sopra, si dovrà analizzare che tipo di
relazione Panariello, in quanto narratore, intende istituire con gli spettatori in sala, in quanto
narratario.
In questo senso, sarà utile rispolverare alcune delle categorie evocate nel quarto paragrafo (sul patto
comunicativo) del secondo capitolo, relative al rapporto conduttore/pubblico.
In quella sede, si erano riconosciuti ben 8 possibili tipi di relazione (spettatore: evocato,
interpellato, complice, partecipante, testimone, protagonista, mandante, giudice). Ora, nel nostro
monologo, in particolare, ma in tutta la puntata di Torno sabato, in generale, non si può dire che
esista un solo tipo di legame, bensì un pluralismo e una eterogeneità dei collegamenti. Detto in altri
termini, lo spettatore è, a seconda del momento, evocato, interpellato, complice, partecipante,
protagonista (come nel caso dei 2 giochi o delle telefonate da casa). In ogni caso, il riferimento a
chi ascolta, a chi sta osservando la scena sul palco è costante, è continuo, è presente fin dalla prima
inquadratura (si vedano p. es. le prime tre).
Mentre Panariello dà corpo al suo discorso, mentre si lascia trasportare dalla vis comica, chiede
continuamente conferma agli spettatori (soprattutto a quelli seduti nelle prime file) di quello che sta
dicendo (p. es. nelle inquadrature 21 e 108). Oppure chiede al pubblico di applaudire un
collaboratore, o ancora lascia che esso finisca le frasi da lui cominciate (come nelle ultime due
inquadrature, caso macroscopico)…
Detto in altri termini, stabilisce un rapporto di interazione, un rapporto di collaborazione
comunicativa, diversamente declinato (dall’evocazione, alla partecipazione attiva), a seconda del
momento.
Ma la partecipazione implica complicità; allora una domanda sorge spontanea: come tale complicità
può essere instaurata? Detto in altri termini: in che modo, o meglio, perché lo spettatore può essere
indotto a entrare in rapporto di complicità (per l’appunto)?
Perché Panariello si fa portavoce di un’esperienza comune, perché mette in ridicolo una
diffusissima convenzione sociale, di cui tutti, grosso modo e più o meno esplicitamente,
riconoscono l’assurdità. Per dirla in modo più astratto e per riallacciarsi al discorso sulla
204
quotidianità nella neo-tv (affrontato nel primo capitolo), il comico toscano si fa burla del
quotidiano, in quanto egli stesso ne fa parte. Già, in quanto egli stesso ne fa parte, perché il modo in
cui fa dell’umore, il modo in cui, nella fattispecie, giudica le feste di capodanno non è quello
proprio di chi, dall’esterno, osserva e addita stizzito, ma quello di chi, dall’interno, sente di essere
arrivato al punto limite e di averne abbastanza. È come se avesse detto, di fronte a milioni di
telespettatori: «Signori!! Adesso arriva capodanno, è come voi ben sapete (perché lo sapete bene
anche voi) ricomincia la noia di tutti gli anni!!».
Su questo si basa la complicità (e, in fondo, un po’ tutta la vis comica di Panariello): il racconto di
un’esperienza comune, presentata proprio come tale.
Ma, come si è detto, il comico toscano non fa riferimento a caso alla quotidianità, poiché è lui
stesso “quotidiano”, poiché lui stesso proviene da quel sostrato sociale, di cui l’ascoltatore medio fa
parte. La sua comicità quindi, le sue battute mordaci, i suoi modi meta-verbali di approccio allo
spettatore sono fondati in gran parte su una percezione empatica dello humour del pubblico, su una
comprensione sensoria di ciò che potrebbe farlo ridere. Sicuramente c’è molto di costruito, molto di
aprioristicamente predefinito in questo show, ma apparentemente, superficialmente, esso appare un
prodotto prettamente artigianale (percezione empatica dei gusti del pubblico, per l’appunto), al di là
delle complesse logiche industriali. Nella tv del gatto ricompare dunque la figura del topo o,
sarebbe meglio dire, la tv del gatto si serve nuovamente del topo, per moltiplicare la sua produzione
industriale, cioè per aumentare gli ascolti.
Abbiamo ottenuto dunque un altro importantissimo guadagno: Torno sabato… e 3, oltre a essere un
crocevia fra tradizione e innovazione, è anche una mescolanza di logica industriale e logica
artigianale.
Detto questo possiamo passare all’analisi della scena 23.
Immagini
Parlato
1) Figura intera frontale Tosca d’Aquino: Caro Carlo, Caro Carlo!! Io, mi stavo domando prima…
sui due
Carlo Conti: sì!!
Tosca d’Aquino: E non ho capito…
2) Mezzo busto frontale sui Tosca d’Aquino: È arrivato Carlo… abbiamo fatto insieme tante trasmissioni…
due soggetti
Raccomandato!!! Come mia mamma.
Carlo Conti: Eh! È stata bravissima tua mamma.
Tosca d’Aquino: E allora io dicevo: «Perché non è venuto ancora a salutarmi?». Adesso
l’ho capito!! Perché tu… ormai… da quando fai Miss Italia…384
Carlo Conti: Eeeeeh!!! Allora… a proposito del 31 [allude al monologo di
Panariello]385… con tanti ospiti: Lucio Dalla, Neffa, Tiziano Ferro, Bobby Solo, Edoardo
Vianello, la Richie Family (quelli di The best disco in town) Enrico Brignano, i Fichi
d’India… insomma: una sorpresa dietro l’altra… [ci saranno anche] Matilde [Brandi], le
12 del mondo di Miss Italia, visto che ho avuto l’onore quest’anno, per il mio primo
anno…
Tosca d’Aquino: [interrompe Conti per un attimo] È andata benissimo!!!
Carlo Conti: … di prendere in mano le redini di Miss Italia e, quindi, ci sono anche le 12
ragazze titolate e Miss Italia 2003. E visto che ho promesso una sorpresa dietro l’altra, mi
sono permesso di portarla anche qua.
Tosca d’Aquino: Ma veramente?
3) Figura intera sempre sui Tosca d’Aquino: Ma dov’è?
due personaggi in questione Carlo Conti: Francesca… Chillemi!!!
4)
Mezzo
busto
in [all’ingresso della miss, l’orchestra suona ovviamente della musica]
movimento sulla miss che Carlo Conti: Bella come il sole, la luna e le stelle!!!
entra
5) Campo medio in Carlo Conti: Come migliorano in pochi mesi!!!
direzione del palco
6) Particolare in movimento
dai piedi al volto della miss
7) Figura intera sui tre Tosca d’Aquino: Ma com’è bella questa Miss Italia, ragazzi!!
384
385
Carlo Conti ha condotto infatti l’edizione 2003 del concorso di Miss Italia.
Anche Carlo Conti, come gli altri ospiti, non si fa pregare troppo per farsi pubblicità.
205
personaggi, con successiva
zoomata, fino a rendere
l’inquadratura un piano
americano
8) Primo piano sul volto
della Miss
9) Piano americano sui tre
soggetti, con successivo
zoom indietro fino a
rendere l’inquadratura una
figura intera.
10) Primo piano su Carlo
Conti
11) Primo piano sulla miss
12) Piano americano sui
tre
Carlo Conti: Io lo so!!
Carlo Conti: Di solito, quando entra in scena, spontaneamente, il pubblico maschile fa
(…)
Carlo Conti: (…) Oooooooooohhhh!!!! [fa partire l’esclamazione del pubblico]
Tosca d’Aquino: E ci credo
Tosca d’Aquino: [si rivolge al pubblico] non me la spaventate, eh?! Perché è giovane…
[il pubblico fischia] eh! Li senti che fischi?!
Carlo Conti: No, ci spaventa lei!
13) Primo piano sulla miss Tosca d’Aquino: Scusa, ma io vorrei fare subito una domanda (…)
14) Piano americano sui 3 Tosca d’Aquino: (…) sicuramente non molto originale, però d’obbligo (…)
15) Primo piano su Tosca Tosca d’Aquino: (…) è cambiata la tua vita da quando hai fatto Miss Italia?
16) Controcampo (con la Miss: Guarda, se potessi riassumere i miei primi quattro mesi di miss Italia, potrei dire di
miss
inquadrata essermi innamorata di quello che mi è successo (…)
frontalmente e Tosca di
spalle).
17) Controcampo (con Miss: (…) perché è un’esperienza meravigliosa… veramente!!!
Tosca d’Aquino inquadrata
frontalmente e la miss di
spalle)
18) Controcampo (la miss Tosca: Bella!!!
risulta
inquadrata [parte l’applauso del pubblico]
frontalmente
e
Tosca
d’Aquino di spalle)
19) Piano americano sui Carlo Conti: Questa mi è piaciuta!!! «Mi sono innamorata di quello che mi è successo!»
tre
Tosca d’Aquino: È anche romantica!!!
20) Campo lungo (con Carlo Conti: Magari in questo momento… guarda.!!! … ci sta sicuramente seguendo!!!
dolly) dalle spalle dei tre (…)
personaggi
21)
Piano
americano Carlo Conti: (…) patron Enzo Mirigliani si sarà sicuramente commosso… e anche
frontale sui tre
Patrizio… perché questa è una gran bella frase!!!!
Tosca d’Aquino: E…. progetti futuri?
22) Controcampo con la Miss: Progetti non ne faccio! Per ora vivo il presente.
miss inquadrata di spalle e
Tosca
d’Aquino
frontalmente
23)
Controcampo
la Miss: Anche perché mi mancano ancora otto mesi…
d’Aquino di spalle e la miss
di fronte
24) Piano americano sui 3 Carlo Conti: C’è ancora tutto il tempo…
personaggi
Tosca d’Aquino: Aspettiamo!!!
25) Primo piano sulla miss Miss: E quindi non voglio…
Tosca d’Aquino: C’è un rumore [si sente il “sì, sì”, verso tipico del personaggio Lello
Splendor]!!!
26) Piano americano sui Tosca d’Aquino: Sento una voce!! Che succede?
tre
[i tre, intanto, si guardano intorno, mentre la voce di Lello si fa sempre più forte]
Carlo Conti: Non lo so?! No… No… no, no, no, non mi dire… non mi dire… no, no, no,
non mi dire… no, no, no…
27) Primo piano su Carlo Carlo Conti: Non mi dire che c’è… Lello Splendor!! Noooo!!! Noooo!!!
Conti
Lello Splendor: Mezz’a voi…
28) Mezzo busto frontale Lello Splendor: [Lello corre entrando dalla Platea] Lello Splendor!!!!
su Lello
29) Mezzo busto laterale su
Lello, mentre corre
206
30) Campo lungo dall’alto
31)
Piano
americano
frontale rispetto a Lello che
corre e la camera continua a
seguirlo
32) Campo lungo verso il
pubblico, dall’alto
33) Mezzo busto su Lello
(che è ancora tra il
pubblico)
34) Primo piano su alcune
persone del pubblico
35) Primo piano su Lello
che abbraccia una signora,
seduta tra il pubblico, e poi
ricomincia a correre (e la
camera lo segue)
36) Figura intera sugli altri
tre fermi sul palco
37) Campo medio (con
dolly) su Lello che sale sul
palco. La camera, nel suo
movimento, incontra la
figura di Tosca.
Successivamente effettua
uno zoom in avanti su
Lello, fino a trasformare
l’inquadratura in primo
piano
38) Figura intera sui 4
personaggi, con successivo
lento zoom indietro
39) Primo Piano su Carlo
Conti
40) Figura intera sui 4
41) Mezzo busto su Lello
che si muove e la
telecamera lo segue
42) Figura intera sui 4
43) Campo lungo verso il
pubblico, mentre i 4
personaggi sono inquadrati
di spalle
44) Figura intera frontale
sui 4
45) Mezzo busto su Conti
46) Figura intera sui 4
47) Primo piano su Lello
con la testa fra le gambe di
Conti. La telecamera si alza
finché non incrocia il volto
di Carlo.
48) Figura intera sui 4
49) Mezzo busto su Lello
50) Figura intera sui 4
Lello Splendor: Mezz’a voi… Mezz’a… [intona una delle sue tipiche canzoni] “Oh le
le…
Pubblico: [continua a cantare] Oh la la, faccelo vedé, faccelo toccà!!
Lello Splendor: [continua a cantare] Oh le le..
Pubblico: Oh la la… faccelo vedè…
Lello Splendor: [grida più forte] Mezz’a voooiiii!!!
Lello Splendor: Mezz’a voooiiii!! [inizia subito a ironizzare sul colore della pelle di
Carlo Conti, particolarmente scura] Mezz’a voi… Nero Wolf [riferito, ovviamente, a
Conti]!!!
Carlo Conti: No!! Non ricominciare, Lello!!!
Lello Splendor: Mezz’a voi…
Lello Splendor: … Lello Splendor!!!!
Signori e signore…
Lello Splendor: [continua a fare ironia sulla pelle di Conti] … mezz’a voi… Calimero!!!
Carlo Conti: No!! Non ricominciare!!
Carlo Conti: Lello!!!
Tosca d’Aquino: Lello!!! [cercano di richiamarlo all’ordine]
Lello Splendor: [ricomincia a cantare, ironizzando sempre sul colore della pelle di Conti]
“Nel continente nero…
Pubblico: [risponde allo stimolo canoro di Lello] “Paraponzi ponzi po!”
Lello Splendor: [continua a cantare] Mezz’a voi…
Lello Splendor: … c’è Calimero!!” [prima indica Conti e poi infila la testa fra le sue
gambe]
Carlo Conti: [osserva Lello infilato fra le sue gambe e grida] Smettila!!
Carlo Conti: Smettila!!!
Carlo Conti: Smettila!!!
Tosca d’Aquino: [rivolta a Miss Italia] Francesca, non ti spaventare!!!
Tosca d’Aquino: Lello!!
Lello Splendor: Mezz’a voi…
Pubblico: [ricomincia a cantare] “Sotto la curva… Oh Lello sotto la curva [Lello
comincia a cantare assieme a loro]”
Carlo Conti: [rivolto al pubblico] No!! Per favore, no!! Non ricominciate anche voi!!
51) Primo piano su di uno
striscione che reca la scritta:
“Lello sotto la curva”
52) Figura intera sui 4
[Lello continua a cantare e a ballare]
Carlo Conti: Fermati!! Fermati Lello!!!
207
53) Mezzo busto su Conti
che rincorre Lello. Sullo
sfondo, sono presenti le due
donne
54) Mezzo busto su Lello
che si agita
55) Figura intera sui
quattro
Lello Splendor: Si, si!!
Tosca d’Aquino: Lello!!! Ma non dire sì sì!!!
Lello Splendor: Scusa eh!
Tosca d’Aquino: Non dire scusa
Lello Splendor: Sì sì!!
Tosca d’Aquino: No!! Neanche sì sì!!
Lello Splendor: Scusa!!
Carlo Conti: Allora, guarda!!! Qui c’è Miss Italia!!
Lello Splendor: [rivolto alla miss] Scusa!!
56) Mezzo busto su Lello e Carlo Conti: Saluta per bene!!
Conti
Lello Splendor: Mezz’a voi… miss Italia!!
57) Piano americano sui 4 Tosca d’Aquino: Eeeeh! Miss Italia!!
personaggi, ma Carlo Conti Carlo Conti: Eeeeh! Miss Italia!!
è di spalle
58) Figura intera sui 4
Carlo Conti: Miss Italia, Francesca (…)
59) Mezzo busto su Conti e Carlo Conti: (…) Chillemi!
Lello
Lello Splendor: Eh?
60) Mezzo busto su Conti, Lello Splendor: Non lo so!! Chi l’è?
Lello e la miss.
61) Figura intera sui 4
Tosca d’Aquino: Nooo!!! Chi-lle-mi!!!
Carlo Conti: Francesca Chi-lle-mi!!!
Lello Splendor: Uh!!! Scusa!!!
62) Contro Campo con Lello Splendor: Avevo capito Francesca… chi l’è?
Lello di fronte, Conti di Carlo Conti: Chillemi!!!
spalle e la Miss sullo
sfondo a sinistra
63) Mezzo busto su Carlo Carlo Conti: Chillemi!!! Miss Italia di quest’anno!!! Capito? Il concorso di miss Italia!!!
Conti e Lello. La camera, Lello Splendor: [spostando il viso in direzione della miss] Oh!! Piacere!!!
successivamente, inizia a
zoomare all’indietro, fino a
rendere l’inquadratura un
piano americano
64) Primo piano sulla miss Lello Splendor: Scusa!!!
65) Figura intera sui 4 Lello Splendor: Sì sì!!
personaggi
Tosca d’Aquino: Dai!!! Che dobbiamo andare avanti con lo show!!!
Lello Splendor: Sì sì!!
Carlo Conti: [urlando] Non dire sì sì!!
Lello Splendor: Scusa!!
Carlo Conti: [continuando a urlare] Non dire scusa!!
Lello Splendor: Sì sì!!
66) Controcampo su Conti Carlo Conti: [alterato] Non dire né sì sì, né scusa!!
frontale e Lello di spalle
67) Mezzo busto dalla Lello Splendor: [inizia a cantare, facendo di nuovo ironia sul colore della pelle di Conti]
destra di Conti e Lello “Nero…
(ovviamente, la camera
inquadra solo questi due
personaggi)
68) Mezzo busto sui due Lello Splendor: … nero e impossibile…
dalla loro sinistra
69) Mezzo busto frontale, Lello Splendor: … con gli occhi neri e quel sapor sudafricano!!!”
sempre sui due personaggi
in questione
70) Mezzo busto dalla Carlo Conti: Ecco!! Io non so come fare!!!
sinistra dei due
Lello Splendor: Scusa, eh!!
71) Figura Intera su tutti e Lello Splendor: [continuando a fare ironia sul colore della pelle di Carlo Conti] Mezz’a
quattro
voi… Franco Nero!!!
Carlo Conti: Non sono (…)
72) Mezzo busto su Carlo Carlo Conti: (…) Franco Nero!!!
Conti
208
73) Campo lungo dall’alto
74) Figura intera su tutti e
4 i personaggi presenti sul
palco
75) Primo piano sul
pubblico in panoramica
verso destra
76) Figura intera sui 4
77) Mezzo busto su Lello
78) Figura intera su Conti
79) Primo piano sul
pubblico
80) Figura intera su Lello
Lello Splendor: [ricomincia a cantare, aizzando il pubblico] “Oh le le…
Pubblico: Oh la la…
Pubblico: …. Faccelo vedè…
Pubblico: … faccelo toccà!!”
Lello: [riferendosi a una ben precisa parte anatomica di Carlo Conti] Nun se vede!!!
Carlo Conti: Fatemi capire una cosa!!!
Lello Splendor: [facendo di nuovo ironia sulla pelle di Conti] Mezz’a voi… Neri
Poppins!!!
81) Controcampo con Carlo Conti: Sssssss!!!! [invita a fare silenzio] Fatemi capire una cosa [si rivolge al
Carlo Conti di fronte e pubblico]…
Lello girato di spalle
82) Primo piano su Lello, Carlo Conti: [sempre rivolto al pubblico] Voi…
ma, sullo sfondo, si
intravede Carlo Conti
83) Piano americano sui Carlo Conti: … State con me o con lui? [il pubblico risponde esultando: «con lui!!!!»
quattro
Lello Splendor: [urlando soddisfatto] Mezz’a voi…
84) Mezzo busto su Lello
Lello Splendor: … mezz’a voi…
85) Campo lungo dall’alto Lello Splendor: … Lello…
86) Figura intera sui 4
Pubblico: Splendor!!!
Lello Splendor: Scusa!!
Carlo Conti: So io come calmarlo! So io come calmarlo!!
87) Primo piano su Lello
Lello Splendor: Sì sì!!
88) Mezzo busto su Conti e Carlo Conti: Vuole un paio di definizioni!! [i due si accingono a simulare un quiz]
Lello
89) Figura intera sui 4
Carlo Conti: Mettiti la cuffia!!!
Lello Splendor: Metto la cuffia?
Carlo Conti: Metti la cuffia!!
90) Mezzo busto su Lello Carlo Conti: Mi senti?
dalla sua sinistra
Lello Splendor: Sì, la sentooooo!!!!
91) Mezzo busto su Lello e Lello Splendor: Mi sentoooooo?
Conti
92) Primo piano su Lello
Lello Splendor: Mi sentoooooo?
Carlo Conti: Devi sentire me!!!
93) Mezzo busto su Lello e Lello Splendor: Mi sento male!!
Conti
94) Primo piano su Lello
Lello Splendor: C’ho la febbre a 38… Scusa!!!
95) Mezzo busto su Lello e Lello Splendor: Scusa!! Scusa!!
Panariello
Carlo Conti: Orizzontale o verticale?
Lello Splendor: Scusa!!!
96) Figura intera sui 4
Lello Splendor: Scusa!!! Scusa!!
Tosca d’Aquino: [rivolta a Lello] Ascolta Carlo!!
Lello Splendor: Scusa!! Scusa!!
Carlo Conti: Mi sto (…)
97) Mezzo busto su Conti e Carlo Conti: (…) alterando!!!
Lello
Lello Splendor: [inizia a cantare] “Mi sto alterando…
98) Primo piano su Lello
Lello Splendor: … chi hai visto non è…
99) Mezzo busto su Lello e Lello Splendor: … non è Francesca!”386
Carlo conti
100) Figura intera sui 4
Lello Splendor: Poi ne so un’altra di Battisti!!!
Carlo Conti: Quale?
Lello Splendor: [ricomincia a cantare] “Che ne sai tu…
101) Primo piano su Lello Lello Splendor: … di un crampo a una mano!!”387
386
387
Nella versione originale, il testo diceva: «ti stai sbagliando… chi hai visto non è… non è Francesca».
Il testo originale era: «(…) che ne sai tu di un campo di grano…».
209
102) Mezzo busto su Conti Carlo Conti: Ah!! Bella questa!! [grida] Basta!!! Forza!!
e Lello
Lello Splendor: [canta di nuovo] “Basta del capitano”!!
103) Primo piano su Lello Lello Splendor: Scusa!!
Carlo Conti: Orizzontale…
104) Piano americano su Carlo Conti: o verticale?
Lello e Conti
105) Primo piano su Lello Lello Splendor: Meridionale!!!
106) Mezzo busto su Conti Lello Splendor: So de Ascoli… provincia de Piceno!!
e Lello
Carlo Conti: Concentrati!! Questa è facile!!!
Lello Splendor: Questa è facileeee!!!
Carlo Conti: [si altera] Ioooo!!! Ioooo!
107) Figura intera sui 4 Carlo Conti: Io lo dico a te!!!
personaggi
108) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: [rivolto a uno spettatore seduto fra le prime file] Io lo dico a lei…
e Conti
Questa è facile!!!
Carlo Conti: Io!!!
109) Figura intera sui 4
Carlo Conti: Io lo dico a te!! Basta!!!
Lello Splendor: [ricanta] “Basta del capitano!!!” [urla, si butta a terra e cerca di togliere i
pantaloni a Conti]
110) Primo piano su Conti
girato di spalle. La camera
si abbassa fino a inquadrare
Lello, piegato a terra
111) Figura intera sui 4 Tosca d’Aquino: Ma Lello!!!
personaggi
Lello Splendor: Scusa, eh!!
112) Primo piano su Lello Lello Splendor: Fai vedere li boxer!!!
113) Campo lungo a Lello Splendor: Scusa, eh!!
partire dalle spalle dei 4 Carlo Conti: Questa è facile!!
personaggi
114) Figura intera sui 4
Lello Splendor: [rivolto a Carlo Conti] È vero che sotto i calzoni non c’hai li boxer, ma
c’hai il dobermann?
115) Controcampo con Carlo Conti: Lello!!!
Conti ripreso di fronte e
Lello Splendor di spalle
116) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: Non s’avvicina mai nessuno, come mai?
e Conti
117) Controcampo con Lello Splendor: Scusa!!
Carlo Conti di fronte e Carlo Conti: Lello!
Lello alle spalle
Lello Splendor: Scusa!!
118) Primo piano su Lello Lello Splendor: Scusa!!
119) Controcampo
Carlo Conti: Non dire scusa!!!
Lello Splendor: … e neanche sì sì?
120) Primo piano su Lello Carlo Conti: Non devi dire né scusa, né sì sì!!!
121) Mezzo busto sui due [Lello comincia ad agitare la testa]
Carlo Conti: [completamente adirato] Fermatiiii!!
122) Primo piano su Lello, Lello Splendor: Scusa!!!
mentre la camera incontra [Conti mette la mano davanti alla bocca di Lello, per cercare di farlo tacere]
per caso Carlo Conti di
spalle
123) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: Mezz’a voi… Fabrizio del Noce!!!
e Carlo
Carlo Conti: Vuoi salutare il direttore388?
Lello Splendor: Presidente…
Carlo Conti: Il direttore… eh! Fabrizio del Noce!!
Lello Splendor: Mezz’a voi… Fabrizio del Noce!!
[fanno partire l’applauso del pubblico]
124) Stacco di Primo piano
su del Noce
125) Figura intera sui 4 Carlo Conti: Oh!! [rivolto a del Noce] L’ha voluta salutare!!
personaggi presenti sul
palco
388
Del Noce è il direttore di Rai Uno, nel momento in cui la trasmissione viene mandata in onda.
210
126) Primo piano su Lello
127) Primo piano su del
Noce
128) Figura intera sui 4
129) Primo piano su Lello
Splendor
130) Figura intera sui 4
Lello Splendor: Scusa, eh!!
Lello Splendor: Scusa direttore, eh!
Carlo Conti: Allora, prima definizione. Concentrati,
Carlo Conti: (…) che è (…)
Carlo Conti: … particolarmente facile.
Lello Splendor: [ricomincia a urlare] Mezz’a voi…
131) Primo piano su Lello Tosca d’Aquino: Ma no!! Lello, concentrati!!
132) Figura intera sui 4
Carlo Conti: Un famoso…
133) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: [rivolto a Tosca] Se mi concentro mi vengono le emorroidi… non ce la
e Carlo Conti
fo!!
134) Figura intera sui 4
Tosca d’Aquino: Lello!!!
135) Campo lungo alle Carlo Conti: È vent’anni che devo sopportare questo qui!!
spalle dei 4 personaggi
136) Figura intera sui 4
Carlo Conti: [adirato] Basta!!!
137) Mezzo busto su Conti Lello Splendor: Scusa!!
e Lello
138) Primo piano su Lello Carlo Conti: Un famoso…
139) Controcampo
Lello Splendor: Nun me devo concentrà!!
140) Primo piano su Lello Carlo Conti: Allora non ti concentrare!!
141) Mezzo busto su Lello Carlo Conti: Stai lì, buono e rispondi a questa domanda, che è facile!!!!
e Carlo
Un famoso Bill… un famoso Bill… del cinema.
142) Primo piano su Lello Lello Splendor: Un famoso Bill del cinema… Bill-ietto!!!
143) Mezzo busto su Conti Lello Splendor: [ricomincia a urlare] Mezz’a voi… Lello…
e Lello
144)
Campo
lungo Pubblico: … Splendor!!!
dall’alto, verso il pubblico
146) Primo piano sul Lello Splendor: Mezz’a voi…
pubblico
147) Figura intera sui 4
Lello Splendor: … [ricomincia a fare dell’ironia sul colore della pelle di Carlo Conti] per
la prima volta… a torno sabato… i Negrita!!! [e volge le braccia in direzione di Conti]
Tosca d’Aquino: Ma Lelloooo!!!
Carlo Conti: Ma cosa…
148) Primo piano su Carlo Carlo Conti: I Negrita?! [si rivolge al pubblico] Ma non ridete!!!
Conti
149) Figura intera sui 4
Carlo Conti: Me lo agitate…
Lello Splendor: I Negrita!!
150) Mezzo busto su Miss Tosca d’Aquino: Scusa?!
Italia e Tosca
Lello Splendor: [Panariello si rivolge qui direttamente ai tecnici del programma389] Vai
avanti col gobbo!!
151) Figura intera sui 4
[Conti ride]
152) Primo piano su Lello Lello Splendor: [ricomincia a cantare, per mettere in ridicolo Conti] “Pioggia io sarò…
per toglierti la sete…
153) Figura intera sui 4
Lello Splendor: … sole io sarò…
154) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: Per abbronzarti bene!!”
155) Figura intera sui 4
Carlo Conti: Basta!!!
156) Mezzo busto su Lello Carlo Conti: Seconda definizione!!
e Carlo Conti
157) Figura intera sui 4 Carlo Conti: Seconda definizione!!!
personaggi
Lello Splendor: [ricominciando ad aizzare il pubblico] Mi spoglio? … Dopo!!
158) Primo piano su Lello Carlo Conti: Allora!!!
Splendor
Lello Splendor: Sì!!
159) Figura intera su Lello Pubblico: [appena aizzato da Lello Splendor] Nudo!! Nudo!!
Carlo Conti: [cercando di placare il pubblico] No!! No!! Per favore… per favore… ve lo
chiedo per favore [alla fine si inginocchia anche]
160) Campo lungo dalle Lello Splendor: Mi spoglio?
spalle
dei
quattro Carlo Conti: Nooooooo!!! [cerca di bloccare fisicamente Lello]
personaggi sul pubblico
389
Il gobbo è il monitor o lo schermo sul quale, i conduttori, leggono le battute da pronunciare.
211
161)
Carrellata
sul
pubblico
162) Figura intera sui 4
personaggi
163) Primo piano su Lello
164) Figura intera sui 4
164) Primo piano sulla
miss (che ride)
165) Figura intera sui 4
Lello Splendor: Stasera non mi spoglio, scusi!!
Lello Splendor: Mi scappa di spogliarmi!!!
Carlo Conti: Ma cheee!!! Ma che ti scappa di spogliarti, smettila!!!
Carlo Conti: È facilissima [intende la domanda].
Lello Splendor: Questa è facile, eeehh!!
Carlo Conti: No!! Lo dico io!!
Lello Splendor: Io lo dico a lei [indicando la miss]
166) Mezzo busto su Conti Carlo Conti: Siii!! Buona Sera!!! Buona notte…
e Lello
167) Primo piano su Lello Lello Splendor: Arrivederci!!!
168) Mezzo busto su Lello Carlo Conti: Ma ché? No, Buona notte!!!
e Carlo Conti
Lello Splendor: Arrivederci!!!
169) Primo piano su Lello Lello Splendor: Sì sì!!!
170) Mezzo busto su Lello Carlo Conti: [pone la domanda del quiz] Nazione più lunga.
e Carlo Conti
171) Primo piano su Lello Carlo Conti: La nazione più lunga.
Splendor
Lello Splendor: Nazione più lunga… Lungheria!!!
172) Mezzo busto su Carlo Lello Splendor: Mezz’a voi…
Conti e Lello
173) Figura intera
Lello Splendor: … Lello Splendor!!! [si inginocchia esultando]
174) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: [ricomincia ad aizzare il pubblico] Oh le le…
inginocchiato
175) Primo piano sul Pubblico: Oh la la…
pubblico
176) Figura intera su Lello Pubblico: Faccelo vedé…
177) Primo piano sul Pubblico: Faccelo toccà!!
pubblico
178) Figura intera sui 4 Lello Splendor: [si rivolge a Carlo Conti] Tu non ce la fai, eh?!
personaggi
179) Primo piano su Lello
180) Mezzo busto su Conti
e Lello
181) Primo piano sul Lello Splendor: Tu non ce la fai!!!
pubblico
182) Figura intera sui 4
Lello Splendor: [sempre rivolto a Carlo Conti] O fallo vedé!!
Carlo Conti: Eh?
Lello Splendor: Nun se vede!!
183) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: È tutto nero…
184) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: … è opaco!!
e Carlo Conti
Tosca d’Aquino: [cerca di richiamare Lello] Lello!!
185) Primo piano su Lello Tosca d’Aquino: Forza!!
Lello Splendor: Scusa!!!
Carlo Conti: Terza definizione!!!
186) Figura intera su tutti Lello Splendor: Sì sì!!
e 4 i personaggi
Carlo Conti: È simile allo scorfano.
187) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: È simile allo scorfanooooo!!!!
Splendor e Carlo Conti
188) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: [indicando Conti] Carloooo…
e Carlo, dalla loro sinistra
189) Primo piano su Lello Pubblico: Contiiiii!!!
Carlo Conti: [risentito] Ma guarda questi, oh!!
190) Primo piano su Carlo Carlo Conti: Ma guardali!!!
Conti
191)
Campo
lungo
dall’alto, sul pubblico
192) Figura intera sui 4
Carlo Conti: Guarda, ti mando via Lello!!
Lello Splendor: [riprendendo a fare dell’ironia sul colore della pelle di Carlo Conti]
Mezz’a voi… tutt’e quattro i Platters insieme!!! [indicando Conti]
212
Carlo Conti: Sì, tutt’e quattro i Platters!!!
193) Primo piano su Carlo Carlo Conti: Senti, non ce la faccio più!!
Conti
194) Primo piano sui 4
Carlo Conti: Ti ho presentato miss Italia, capito? [Lello, intanto, stringe la mano alla
miss] Dovresti essere onorato di conoscerla.
195) Primo piano sulla
miss
196) Figura intera sui 4
Lello Splendor: Se è per quello.. ce l’ho anch’io…
197) Primo piano su Lello Tosca d’Aquino: Chi c’hai?
Carlo Conti: Chi c’hai?
Lello Splendor: Una miss!!
Carlo Conti: Tu hai una miss!!!
198) Primo piano su Conti Lello Splendor: Sì sì!!
199) Figura intera
Lello Splendor: Scusa!!
Carlo Conti: Come una miss?
200) Primo piano su Lello Lello Splendor: C’ho mis-sorella!!!
201) Mezzo busto su Lello
e Conti
202) Figura intera sui 4
203) Primo piano su Lello
Splendor
204) Campo lungo (con Carlo Conti: Oooooh! Tua sorella!!
dolly) dalle spalle dei 4 Lello Splendor: Sì sì!!
personaggi. La camera
effettua
successivamente
una zoomata in avanti
205) Figura intera sui 4
Carlo Conti: E cosa fa tua sorella?
206) Primo piano su Lello Lello Splendor: È da restare senza fiato!
207) Controcampo con Carlo Conti: Ah!!! Dallo stupore!!!
Conti in posizione frontale Lello Splendor: No!!
e Lello di spalle
208) Primo piano su Lello Lello Splendor: … dalla paura, quando la vedi!!!
209) Controcampo con
Conti in posizione frontale
e Lello di spalle
210) Figura intera sui 4
Lello Splendor: Sta qua!!
Carlo Conti: Ah! Perché è qua?
Tosca d’Aquino: La vuoi chiamare?
211) Primo piano su Tosca Carlo Conti: Beh!! Vediamo (…)
212) Primo piano su Conti Carlo Conti: (…) questa sorella di Lello!!
213) Figura intera sui 4
Carlo Conti: Come si chiama?
214) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: Mi sorella!!
Carlo Conti: Noooo!! Di nome!!!
215) Figura intera sui 4
Lello Splendor: Lella!!!
216) Mezzo busto su Lello Lello Splendor: Originale forte!!!
217) Figura intera sui 3
Carlo Conti: Eh!! Originale!!
Lello Splendor: La vado a chiama’?
Carlo Conti: Vai a chiamare tua sorella!!
Lello Splendor: Se è libera!!
218) Campo medio su Lello Splendor: Può darsi che non sia libera!!!!
Lello (che sta uscendo) a Carlo Conti: Eh?
sinistra del riquadro, mentre Lello Splendor: [mentre si avvia dietro le quinte] Ci sta che non sia libera!!
il pubblico appare dalla Carlo Conti: Valla a chiamare!!
parte opposta
219) Campo medio in Carlo Conti: Voglio vedere sta’ sorella!!!
direzione del palco
220) Come l’inquadratura Lello Splendor: Lella?! Sei libera?
218
Lella: [dal dietro le quinte] sì sì!!
Tosca d’Aquino: Valla a chiamare!!
221) Come l’inquadratura Carlo Conti: C’è o non c’è?
219
Lello Splendor: Mò vado a vede’, stai calmo (… )
213
222) Mezzo busto su Lello
223) Mezzo busto su Carlo
Conti
224) Campo medio con
successiva zoomata in
avanti (sino a rendere
l’inquadratura una figura
intera) su Carlo Conti (che
aveva seguito Lello e ora
rientra in scena)
225) Mezzo busto su Conti
226) Primo piano sul volto
stupito di Tosca
227) Figura intera sui 3
228) Primo piano sulla
miss
229) Figura intera sui 3
230) Primo piano su Tosca
231) Piano americano sui
3
232) Primo piano su Tosca
233) Piano americano sui
3
Lello Splendor: (…) Ciccio [mentre esce]!!!
Tosca d’Aquino: Scusa Carlo, eh!!!
Carlo Conti: No, no, figurati… figurati… figurati!!!!
Tosca d’Aquino: Ma è un disastro quando arriva!!
Carlo Conti: [ricomincia a parlare della miss] Francesca non l’ha ancora detto (…)
Carlo Conti: (…) ma è la prima miss che fa il calendario (…)
Carlo Conti: (…) e lo presenteremo il 31 in anteprima (…)
Carlo Conti: (…) un'altra idea di Patrizia Mirignani… lo presenteremo in anteprima.
Carlo Conti: (…) E il 31 eleggeremo anche (…)
Carlo Conti: (…) la prima miss dell’anno.
Tosca d’Aquino: Il 31! Quindi il 31 (…)
Tosca d’Aquino: (…) quindi il 31 ne vedremo delle belle!!!
Carlo Conti: Ne vedrete delle belle!!!
Carlo Conti: Quindi appuntamento dalle 9 all’una e un quarto.
Carlo Conti: Non prendete appuntamenti!!!
Tosca d’Aquino: No!! E chi si muove!! Noi ci piazziamo là…
Carlo Conti: Io sono curioso di vedere sta sorella.
Tosca d’Aquino: [riferendosi a Lello]: Sì, mi dispiace Carlo!! Purtroppo devi sapere che
è una scheggia impazzita; quando arriva…
234) Primo piano su Tosca Tosca d’Aquino: Lello lo conooosci!! Lo conoooosci!!! Lo conooooosci!!!
235) Primo piano su Conti Carlo Conti: Lo conosco, eh!! Lo conosco da una vita!!!
236) Piano americano sui Carlo Conti: Vado a vedere se c’è sta sorella!!! [esce]
3
237) Primo piano su Conti
mentre esce
238) Piano americano Tosca d’Aquino: [rivolgendosi alla miss] Scusa Francesca, è diretta e, alle volte,
sulle due donne
succede.
239) Piano americano su Lello Splendor: [da dietro le quinte] Scusa eh!!
Conti, che cammina e la Carlo Conti: Lella sei pronta?
camera
lo
segue. Lello Splendor: Scusa un minuto, sto al trucco.
Successivamente
sfuma Tosca d’Aquino: Il trucco?
fino a rendere l’immagine
un primo piano
240) Campo medio in Carlo Conti: Ma come?! Qui dobbiamo andare in onda
direzione del palco
241) Mezzo busto su Carlo Carlo Conti: Oh!!
Conti
Lello Splendor: C’è Ramballi che sta a lavora’!!!
242) Campo medio sul
palco
243) Mezzo busto su Conti I quatttro personaggi assieme: Ramballi? E chi è?
girato di tre quarti
Lello Splendor: Quello che ha fatto ET!!
Carlo Conti: Com’è questa storia.
244) Primo piano su Tosca Tosca d’Aquino: [rivolta a Lello] Ma che sorella c’hai?
245) Campo medio sul
palco
246) Mezzo busto su Conti Carlo Conti: Va bè!! Rischiamo!!
(mentre
cammina). Lella: Mi sta mettendo la terra di Siena!!
Successivamente la camera
zooma lentamente in avanti
247) Campo lungo (con Tosca d’Aquino: La terra di Siena.
dolly) dal lato sinistro del Lella: Sì!! Un ettaro e mezzo mi sta mettendo.
palco, con pubblico sullo
sfondo. Successivamente, la
camera
effettua
una
zoomata indietro.
214
248) Primo piano su Tosca
249) Primo piano su Conti
250) Primo Piano su Tosca
251) Campo medio sul
palco
Tosca d’Aquino: Ma la terra di Siena!!! Ma che c’entra? Il trucco, il maquillage…
Carlo Conti: Eh!! Non lo so!!!
Tosca d’Aquino: È pronta la sorella?
Lella: [sempre da dietro il palco] La sorella è pronta!!!
Tosca d’Aquino: E falla entrare!!
Carlo Conti: Allora, posso annunciarti?
Tosca d’Aquino: Si, Carlo!!!
252) Primo piano su Conti Carlo Conti: Signori!!! Per la prima volta sul palco di Torno Sabato… Lella Splendor!!!
253) Mezzo busto su Lella, [Lella è sostanzialmente Lello vestito, in qualche modo, da donna]
mentre entra in scena dal Tosca d’Aquino: Beh!! Carina!!!
dietro le quinte
254) Campo medio sul
palco
255) Particolare sui piedi Tosca d’Aquino: Carina!!
di Lello
256) La camera va su e Lella: [inizia a cantare] “Tirame…
incontra il volto di Carlo
Conti
257) Campo medio sul Lella: … nu pile…
palco
258) Mezzo busto su Lello, [cade la corona da miss a Lella]
con
successivo
zoom Tosca d’Aquino: Ti perdi la corona!!!
all’indietro
[Lella raccoglie la corona]
259) Campo medio verso il
palco
260) Mezzo busto su Lella Tosca d’Aquino: Mamma mia!!!
che si rimette la corona
Lella: [ricomincia a cantare] “Tirame…
Tosca d’Aquino: Troppo brutta!!!
261) Mezzo busto su Conti, Carlo Conti: Vieni!!
girato di spalle
262) Campo medio sul Tosca d’Aquino: Troppo brutta!!
palco
263) Primo piano sulla
miss
264) Campo medio sul [a Lella ricade la corona e si china a raccoglierla]
palco
Carlo Conti: Venga, miss!!!
Tosca d’Aquino: Ma vieni avanti!!!
265) Primo piano su Lella, Lello: Me so scoronata!!!
con successivo zoom in Tosca d’Aquino: Lella!!!
avanti
266) Campo medio sul Carlo Conti: Venga, venga!!!
palco
Lella: [ricomincia a cantare] “Tirame…
267) Primo piano su Lella Lella: … nu pile…
268) Campo medio
Lella: … e tiramenene…
269)
Particolare
con Lella: … n’atre!!!”
Carrellata partire dai piedi Carlo Conti: Quindi lei sarebbe (…)
di Lella fino alla testa
270)
Campo
lungo Carlo Conti: (…) una miss?
dall’alto (da dietro il palco,
verso il palco stesso e il
pubblico)
271) Figura intera sui 4
Carlo Conti: E quale concorso ha vinto questa miss?
272) Primo piano su Lella Lella: Mi scappa da piangere!!
273) Primo piano su Conti Tosca d’Aquino: Ma ci credo, eh!!
274) Figura intera sui 4
275) Controcampo con Tosca d’Aquino: Ma ci credo (…)
Lella di fronte e Conti di
spalle
276) Controcampo con Tosca d’Aquino: (…) proprio!!!
Conti di fronte e Lella di
spalle
277) Controcampo con Tosca d’Aquino: Ma scusa?!
215
Lella di fronte e Conti di
spalle
278) Figura intera su
Conti
279) Primo piano sulla
miss
280) Mezzo busto su Lella
e Conti
281) Figura intera sui 4
282) Primo piano su Tosca
283) Primo piano su Conti
284) Primo piano su Conti
e Lella, a partire dalla loro
sinistra
Carlo Conti: [si rivolge a Tosca] Non so sei d’accordo con me?! Lei mi ricorda (…)
Carlo Conti: (…) qualcuno.
Lella: La Bellucci?
Carlo Conti: Eh sì… la Bellucci?!
Carlo Conti: La Bellucci!!!
Tosca d’Aquino: La Bellucci?
Lella: La Ferilli?
Carlo Conti: Sìììììì… buona sera!!!
Tosca d’Aquino: Macché!!
Carlo Conti: Senta, ma che ha fatto lei
Lella: Scusa, eh!! Scusa!!!
Lella: Sì sì!!!
Carlo Conti: Senta!!
Tosca d’Aquino: Sei bellissima!!!
Lella: [intona la canzone di Loredana Berté] “Sei bellissima…
Lella: … sei bellissima…”
[il pubblico inizia a cantare assieme a Lella]
285) Mezzo busto laterale
su Lella, a partire dalla sua
sinistra
285) Figura intera su Tosca d’Aquino: [rivolta al pubblico] Ma no, noooo!!!
Tosca
287)
Panoramica
sul Tosca d’Aquino: Ma che siete cecati?
pubblico
289) Figura intera sui 4
Lella: [rivolta al pubblico] Grazie anche a nome di mio fratello!!
Carlo Conti: Eeeeeehhhh!!!
Tosca d’Aquino: Brava!!
290) Primo piano su Lella Lella: Posso dì una cosa? M’è rimasta (…)
291) Controcampo con Lella: (…) la mano incastrata (…)
Lella di Spalle e Carlo
Conti di fronte
292) Controcampo con Lella: (…) nella corona!! [rivolta a Conti] Me la levi? [Conti la aiuta] Grazie!!
Conti di spalle e Lella di Carlo Conti: E cosa (…)
fronte. Successivamente, la
camera
effettua
una
zoomata in avanti fino a
trasformare l’immagine in
un primo piano su Lella
293) Primo piano su Lella Carlo Conti: (…) ha fatto lei (…)
294) Figura intera
Carlo Conti: (…) da miss?
295) Primo piano su Lella Lella: Ho fatto il calendario!!!
296) Mezzo busto su Conti Carlo Conti: Ah! Il calendario!!!
e Lello dalla loro destra
297) Figura intera sui 4
Carlo Conti: Faccia un po’ vedere (…)
298) Primo piano su Lella Carlo Conti: (…) qualche mese!! [Conti e Lella ridono]
299) Figura intera sui 4
Lella: Na’ settimana (…)
300) Primo piano su Lella Lella: (…) se pò fa?
301) Mezzo busto su Lella Carlo Conti: No!! Voglio vedere!! Ci faccia vedere gennaio!!
e Conti
302) Mezzo busto su Lella [Lella ride]
303) Figura intera sui 4
304) Primo piano su Lella Lella: No!! Gennaio… l’ho fatto nel calendario… Brrrr [simula i brividi di freddo]
305) Figura intera sui 4
Tosca d’Aquino: Ma nooo!!
306) Primo piano su Lella Carlo Conti: Febbraio!!!
Lella: Febbraio… un po’ così [si inginocchia]
Tosca d’Aquino: E che è?
Lella: È più corto, no?!
307) Primo piano su Lella
inginocchiata
216
308) Figura intera
Tosca d’Aquino: Sexy… questo calendario!!!
Lella: Mezz’a voi…
309) Primo piano sulla
miss
310) Figura intera
311) Primo piano su Lello
312) Figura intera
313) Primo piano su Lella
Carlo Conti: Senta!!
Carlo Conti: Tra l’altro (…)
Carlo Conti: (…) è un bisestile!!
Lella: [non facendo caso a quanto ha appena detto Conti, ci tiene a precisare la sua
identità] Non so’ Lello però, eh?! Perché la gente può pensare che so’ Lello travestito,
nooo!!!
Tutti e 4 i personaggi assieme: Nooooo!!!!
314) Primo piano su Carlo Carlo Conti: Tra l’altro è (…) [riferendosi di nuovo al mese di febbraio]
Conti
315) Primo piano su Lella Carlo Conti: (…) bisestile, se non sbaglio ,eh?
316) Figura intera
317) Primo piano su Lella Lella: Eeeehh!!!! Allora sto un pochettino più alta!!
318) Figura intera sui 4
Carlo Conti: Forza, faccia marzo!!!
[Lella si mette in ginocchio e poi si alza]
Tosca d’Aquino: Che è?
Carlo Conti: Marzo [come a dire: “faccia marzo!!”]
319) Mezzo busto su Lella Lella: M’arzo… me so’ arzata!!!
Gli altri tre: Ma che….
320) Figura intera sui 4
321) Primo piano su Lella Lella: M’ha detto fai m’arzo e me so’ arzata.
322) Figura intera sui 4
Lella: Scusa, eh?!
Carlo Conti: Eeeeehhh???!!!
323) Primo piano su Lella Lella: [Ricomincia a cantare] “E tirame…
324) Figura intera sui 4
Lella: … nu pile…
325) Primo piano su Conti Lella: … E tiramene…
326) Figura intera
Lella: … n’altro…
327) Primo piano su Lella Lella: … e tira, tira, tira… [gli cade di nuovo la corona]
328) Figura intera sui 4
[Conti prende a calci la corona di Lella]
Tosca d’Aquino: Mamma mia!!! Si perde la corona!!!
Lella: [rivolto a Conti che ride] M’hai scoronato!!!
329) Primo piano sulla Carlo Conti: Eh sì!!!
corona
330) Figura intera sui 4
Carlo Conti: Oh!!
331) Primo piano su Lella Lella: M’hai scoronato!!!
Carlo Conti: Fai un altro mese, forza!! Voglio vedere un altro mese del calendario!!
332) Mezzo busto su Lella Lella: Posso fa… febbraio… m’arzo [si rialza]…
e Conti dalla loro sinistra
333) Figura intera sui 4
Lella: … agosto!!!
Carlo Conti: Ora, da marzo direttamente a agosto!!!
Lella: Eeeehhh! Non ci so’ più le mezze stagioni!!!
334) Mezzo busto su Lella
e Conti che ridono.
Successivamente,
la
macchina da presa zooma
in avanti, in direzione di
Lella
335) Carrelata orizzontale
sul pubblico
336) Figura intera sui 4
[il pubblico inizia a gridare: “nuda”]
Carlo Conti: Nooo!!!
337) Campo lungo a
partire dalle spalle dei 4
personaggi, in direzione del
pubblico
338) Figura intera
Lella: [rivolta verso il pubblico] Mi spoglio?
Carlo Conti: Noooo!!! Vi prego, no!!!
339) Primo piano sul Carlo Conti: No, no!!!
217
pubblico
340) Figura intera sui 4
341) Primo piano su Lella
342) Figura intera: sui 4
Carlo Conti: No!!
Carlo Conti: No!!
Tosca d’Aquino: Noooo!!!
Carlo Conti: No, dobbiamo andare avanti!!!
343) Carrellata orizzontale Carlo Conti: No, no, no, noooo!!!!
sul pubblico
344) Figura intera sui 4
Carlo Conti: Eh?
Lella: Scusa, te posso di’ ‘na cosa? Te posso…
345) Primo piano su Lella [Lella indica Loris Capirossi seduto in prima fila]
Lella: C’è Capirossi che mi guarda con la voglia!!!
Carlo Conti: Sì, eh?!
346) Mezzo busto su Lella: [rivolgendosi a Capirossi] Che sei innamorato delle curve?
Capirossi che ride
347) Figura intera sui 4
[Conti tenta di presentare la miss a Lella]
Carlo Conti: Ti presento Francesca!
Miss: Lella! Guarda, io non ti conosco…
Lella: Scusa, collega [stringe la mano alla miss]
348) Primo piano su Miss: Io non ti conosco, sei una ragazza bellissima…
Capirossi e su una signora
che gli siede affianco.
Successivamente, la dolly si
sposta verso il palco, sino a
inquadrare Lella.
349) Primo piano sulla Miss: … però… hai fatto anche tu il calendario…
miss
350) Primo piano su Lella Lella: Sì, sì!!!
351) Primo piano sulla Miss: … però tu non sei stata incoronata da Carlo, eh?! Io sì!!
miss
352) Primo piano su Lella Lella: Va bè, ma guarda (…)
353) Primo piano sulla Lella: (…) che Carlo (…)
miss
354) Figura intera
Lella: (…) ne ha incoronate tante!!! [tutti scoppiano a ridere]
355) Primo piano su Lella
356) Primo piano sulla
miss
357) Figura intera sui 4
358) Mezzo busto su Conti Lella: Te posso fa quattro o cinque nomi?
e Lella, che si muovono e la Carlo Conti: Noooo!!! [fa cenno a Lella di tacere]
camera li segue
359) Mezzo busto su Conti Carlo Conti: Sta scherzando ovviamente!!! Sta scherzando!!!
e Lella dalla loro sinistra.
Successivamente, la camera
effettua uno zoom indietro
360) Figura intera sui 4
Lella: Sto a scherza’, eh!!!
Miss: Ma no, ma Carlo (…)
361) Primo piano sulla Miss: (…) ma Carlo è un principe!!! È un gentiluomo!!! [e bacia Carlo]
miss
362) Figura intera sui 4
Carlo Conti: Ah!!!
363) Mezzo busto su Lella Lella: [rivolta alla miss] Puoi prova’ (…)
364) Figura intera sui 4
Lella (…) a dargliene ‘n altro!!!
[la miss ribacia Carlo]
Lella: [rivolta a Conti] Te lo posso da’ io?
Carlo Conti: Nooooo!!!!
365) Primo piano su Lella
366) Primo piano su Carlo Carlo Conti: No, No!!!
Conti
367) Figura intera
Lella: Scusa, me so fatto le labbra apposta!!
Carlo Conti: Eeeehhh?!
368) Primo piano su Lella
218
369) Primo piano su Carlo
Conti!!!
370) Campo lungo (con
dolly) alle spalle dei 4
371) Figura intera sui 4
372) Primo piano su Conti
e Lella
373)
Panoramica
orizzontale sul pubblico
[il pubblico, intanto, grida: “bacio!!”]
Carlo Conti: No, no, no, no!!!!
Carlo Conti: Noooooo!!!! Noooooo!!!
Carlo Conti: No, stanno scherzando!!! “Razzo, razzo”
Carlo Conti: Hanno detto: “razzo, razzo”
Lella: Ti posso da’ un baciooooo???
Carlo Conti: No!!!
Pubblico: Sìììììììììì!!!!!
374) Figura intera sui 4
Lella: Gliel’ammollo?
Carlo Conti: Nooooo!!!
375) Primo piano sul Pubblico: Sìììììììììììììì!!!!
pubblico
376) Controcampo su Carlo Conti: No!!
Conti e Lello, girato di
spalle
377) Primo piano su Lello Lella: Qui [nel senso: «te lo do qui»], nell’unico punto bianco che hai qui [continua a fare
e Carlo Conti
ironia sul colore della pelle di Carlo Conti]!!
378) Controcampo su Carlo Conti: Forza!!!
Carlo Conti e Lella, girato
di spalle
379) Primo piano su Lella Lella: C’hai un foruncolo!!!
e Carlo Conti
380) Primo piano frontale
381) Primo piano laterale, [Lella bacia Conti]
dalla sinistra di Lella e
Conti
382) Primo piano su Conti [Conti fa una faccia disgustata]
383) Primo piano su Lella
384) Primo piano su Conti
385) Figura intera sui 4 Lella: [si rivolge a Tosca] Tosca!!!
personaggi
Tosca d’Aquino: Sono sconvolta!!!
Lella: È andata male!!
386) Primo piano su Tosca Tosca d’Aquino: Che succede?
387) Figura intera sui 4
Lella: È andata male forte!!!
Tosca d’Aquino: Che succede?
Lella: È rimasto un rospo!!!
388) Mezzo busto (con Carlo Conti: [rivolto a Lella] Andiamo, forza!!!
dolly). La camera segue
Lello che fugge, mentre
Conti lo insegue, cercando
di prenderlo a calci
389) La camera segue Conti
e Lella che escono
La scena si chiude con l’uscita di Carlo Conti e Lella, sottolineata da uno stacco dell’orchestra.
La sequenza in questione è evidentemente molto più complessa della precedente, non soltanto
perché prevede la presenza di quattro personaggi, ma anche perché è una mescolanza di talk show e
cabaret, o meglio, è un talk show, intervallato, interrotto da un lungo momento di cabaret.
Prima di passare ad analizzare i ruoli comunicativi all’interno del testo-programma, possiamo
verificare subito, nella prassi, quanto di vero c’era in quel discorso sulla neo-tv (affrontato nel
primo capitolo) e sulla quotidianizzazione, in quanto suo carattere peculiare. Poniamo la nostra
attenzione sulle prime inquadrature e, senza badare troppo (per ora) ai movimenti della macchina da
presa, cerchiamo di capire come Tosca d’Aquino si comporta con e si rivolge a Carlo Conti.
Anzitutto lo accoglie in modo caloroso, dandogli del caro (cfr. inquadratura 1), poi lo presenta come
un vecchio amico, permettendosi di attribuirgli addirittura il titolo di raccomandato (cfr.
inquadratura 2).
219
Sebbene risultante da un meccanismo di tipo diverso, un atteggiamento quotidiano e familiare viene
mantenuto anche nei confronti della miss (giovane e ancora poco abituata al palcoscenico).
Ma in cosa consiste tale meccanismo?
Si è detto che Tosca e Carlo Conti mostrano al pubblico di conoscersi da tanto tempo, mostrano di
avere vissuto diverse esperienze assieme, in breve: si comportano come se fossero in un salotto,
l’uno ospite e l’altra padrona. Ora, quando si è invitati da un vecchio amico, accade spesso di
portare con sé una persona, un conoscente a lui totalmente estraneo. Il padrone di casa, dal canto
suo, trovandosi di fronte un volto ignoto, tenterà di fare in modo che questo non si senta troppo a
disagio, che non si senta fuori luogo. Fuor di metafora, l’anchor man toscano, in quanto vecchio
conoscente di Tosca d’Aquino, si prende la libertà di invitare, di portare con sé Francesca Chillemi,
miss Italia 2003, cioè un personaggio che l’aiutante di Panariello non ha il piacere di conoscere.
L’attrice napoletana, si sentirà perciò in dovere di far sentire la giovane fanciulla come a casa
propria, cosciente, peraltro, anche del fatto che la “neo miss” (essendo per l’appunto “neo”) non è
ancora molto avvezza al palcoscenico. A questo scopo (cioè al far sentire a suo agio la miss) sono
finalizzati i complimenti, gli applausi stimolati, le domande semplici e gli apprezzamenti per le
risposte.
Nel clima di accoglienza, rientra pure la promozione che i due ospiti fanno di se stessi e della
propria attività (cioè il calendario, per quanto riguarda la miss, e il programma del 31 dicembre per
quanto riguarda Conti): è normale che l’invitato venga stimolato a raccontare, oltre che di sé, anche
quello che fa. Certo, è vero che la pubblicizzazione dell’offerta del broadcaster nelle trasmissioni di
punta è una politica ben precisa delle reti Rai e Mediaset, tuttavia, tale espediente è come se venisse
narrativizzato, attraverso delle strategie di costruzione dell’aspettativa. Fuor di metafora, solo dopo
che alla miss sono stati rivolti i complimenti e fatti gli elogi (creando così una sorta di immagine
ideale della stessa), le è stata posta una domanda sui progetti futuri e (dopo l’irruzione di Lello
Splendor) le è stata data la possibilità di reclamizzare il suo calendario. Lo stesso criterio è stato
utilizzato con Carlo Conti; dopo essere comparso già in altre scene precedenti e dopo aver
partecipato in modo attivo alla trasmissione, ha potuto finalmente annunciare agli spettatori quello
che avrebbe fatto, o meglio, quello che avrebbe fatto ancora il 31 dicembre. Si potrebbe affermare
che il meccanismo sia il seguente: a. breve costruzione del personaggio, attraverso la valorizzazione
di alcuni dei suoi aspetti peculiari, b. pubblicizzazione dell’attività dello stesso, in quanto
espressione, estrinsecazione artistica di tali aspetti. Molto banalmente, è come se il broadcaster
dicesse all’utente: «Ecco, il personaggio è quello che hai visto. Se ti è piaciuto, sappi che lo ritrovi
sulla rete x, il giorno y, all’ora z».
In forza di quello che si è finora sostenuto e rilevato, è possibile inscrivere a pieno titolo il
programma Torno sabato… e 3 in quel processo di “quotidianizzazione” tipico della neo-tv. Detto
in altri termini, la trasmissione di cui ci stiamo occupando racchiude in sé tutti gli elementi tipici di
quei talk show di fine anni ’70 e inizio anni ’80, che hanno segnato l’esordio del fenomeno neotelevisivo.
Tuttavia, è possibile osservare anche degli aspetti assolutamente innovativi.
Procediamo sempre per gradi.
Finché il palco è occupato dalla miss, da Carlo Conti e da Tosca d’Aquino, tutto procede secondo i
canoni, tutto funziona secondo i principi del galateo neo-televisivo. Quando compare Lello
Splendor invece, gli schemi narrativi e il codice espressivo-comportamentale cambiano
radicalmente: la giovane Francesca Chillemi, special guest della serata, viene quasi completamente
ignorata (salvo le poche volte in cui è chiamata in causa, o meglio, è nominata, per far mantenere
all’irruente personaggio un comportamento adeguato a un convitto, in cui è presente una
gentildonna), Carlo Conti, in principio ospite, diventa spalla di Panariello e Tosca d’Aquino, dal
canto suo, va ad assumere una funzione meramente accessoria. In breve, dopo la comparsa della
caotica macchietta “de Ascoli provincia de Piceno” e di sua sorella, c’è una ridefinizione strutturale
dei ruoli.
Ma la cosa davvero singolare, l’aspetto non ancora rilevato da quegli studi scientifici, a cui ci siamo
richiamati (eppure esistente in tv già da qualche tempo), è il fatto che gli ospiti si prestino a essere
220
messi in ridicolo, a essere derisi, a essere presi in giro. In questo senso, l’invitato non è più soltanto
quotidiano, non è più soltanto un amico dell’anchor man, bensì un intimo, un qualcuno con cui il
presentatore ha una confidenza tale, da potersi permettere di fare su di lui dell’umorismo “grasso”,
delle battute dalla pesante mordacità.
Così, Panariello può prendersi la libertà di ironizzare sul colore della pelle di Conti (non solo nella
scena in questione, ma in tutto il programma)390, oppure può permettersi di trattare con sufficienza
una miss (quando sostiene che, in fondo, anche lui [= Lello] ha una miss in casa [mis-sorella],
oppure che anche lei [= Lella] ha fatto un calendario)…
Ma, come si è detto, si tratta di un processo che è in atto già da qualche tempo; un esempio su tutti è
il programma Scherzi a parte delle reti Mediaset. Tale trasmissione (presente nel palinsesto di
Canale 5, ormai da diversi anni) è incentrata tutta su degli scherzi, per l’appunto, di cui restano
vittima dei vip, personaggi appartenenti al mondo dello spettacolo, della politica, dello sport o della
finanza. Tali scherzi vengono organizzati nella vita di tutti i giorni, in maniera tale che questi
soggetti non possano in alcun modo sospettare di essere vittima di una burla o di una facezia. A
beffa avvenuta, sono convocati in studio per rivederne il filmato e per “riderci sopra”, assieme al
presentatore e agli altri ospiti.
Siamo di fronte dunque a un formato il cui unico elemento spettacolare consiste nel mettere in
ridicolo gli invitati: è l’inizio di un processo che, iniziato in programmi appositi, si insinua anche
nei generi televisivi più tradizionali.
Fatte queste considerazioni di tipo contenutistico, è possibile ora tentare di isolare i ruoli narrativi.
Nella scena in questione, accanto alle figure di Autore implicito, narratore, narratario e lettore
implicito sarà necessario recuperare anche quelle di oggetto del desiderio, eroe, opponente e
aiutante.
Andiamo con ordine.
Come si è visto, inizialmente, si stabilisce una sorta di complicità fra Carlo Conti e Tosca d’Aquino:
i complimenti reciproci dimostrano proprio questo. Ora, poiché è la seconda la presentatrice, cioè
colei che ha il compito di dare una coerenza narrativa al testo, è appunto lei che ricopre il ruolo di
narratore/eroe. L’anchor man toscano invece, in qualità di complice, per l’appunto, ha la funzione
di aiutante.
Il fine, lo scopo che entrambi perseguono, cioè l’oggetto del desiderio è quello di costruire
l’immagine e promuovere l’attività di miss Italia, nonché quello di pubblicizzare il programma del
31 dicembre.
Il narratario, ovvero colui al quale narratore e aiutante si rivolgono è ovviamente il pubblico,
destinatario ultimo dell’attività comunicativa dei due protagonisti.
Ma il “fare” di Tosca e Carlo è messo in crisi dall’irruzione di Lello Splendor, che diventa così
l’elemento centrale dello spettacolo: Lello è l’opponente.
Di fronte a questa improvvisa entrata in scena, interviene l’aiutante, il quale tenta di placare
l’impeto del personaggio ricoperto da Panariello. Tuttavia, il tentativo del presentatore toscano (:
Conti) non va a buon fine, poiché il suo antagonista trova nel pubblico un valido alleato.391
Il ruolo di opponente è, ovviamente, ricoperto pure da Lella, pseudo-sorella di Lello.
Non è ancora chiaro però chi è l’Autore implicito.
Come nella sequenza precedente, si nota la presenza di un osservatore esterno, di un occhio che
giudica ciò che avviene sul palcoscenico: è lo sguardo del regista che si serve della telecamera,
della macchina da presa per imporre la sua prospettiva, il suo modo di vedere le cose. Le
inquadrature seguono nei minimi dettagli ogni singola azione, cercano di presentare fedelmente la
scena nel suo complesso, ma, nello stesso tempo, solidarizzano con qualcuno, o meglio, con la
“Weltanschauung” di qualcuno.
Ma con chi sono solidali?
390
Immagini 35, 38, 44…
Quando Conti domanda agli spettatori dalla parte di chi stanno (se dalla sua o da quella di Lello), essi rispondo di
stare dalla parte di Lello: a chiara domanda, chiara risposta.
391
221
Proprio con Lello Splendor, con l’oppositore, cioè con l’elemento spettacolare e spettacolarizzante.
Le immagini sottolineano le espressioni del volto dell’irruente macchietta e, nello stesso tempo, del
volto di Conti, in evidente difficoltà (p. es. immag. 114/117 o 334/343).392 Da un altro lato,
mostrano il comportamento del pubblico in studio, solidale con il personaggio di Panariello (p. es.
immag. 76/76), rendendo tale comportamento normativo per quello a casa.
In sostanza, c’è una contraddizione di fondo fra il progetto del narratore e quello dell’autore
implicito, rappresentante del broadcaster e, dunque, teso a sottolineare ciò che rende lo show più
movimentato, cioè ciò che rende lo spettacolo tale. Detto in altri termini, il regista ribadisce con le
immagini e mostra a tutti i telespettatori che il centro, il fulcro, l’alfa e l’omega di Torno sabato… e
3 è il suo conduttore e, qualora essi vogliano godere appieno del media event in corso, devono
“abbracciare” la sua prospettiva.
Ma, da un altro lato, il pubblico ha pure un ruolo attivo, in quanto è collaboratore diretto
dell’opponente, è àncora, roccia della sua politica distruttiva: senza i cori della platea, Lello non
sarebbe Lello e, probabilmente, non potrebbe signoreggiare su Conti, la miss e Tosca d’Aquino;
ricopre dunque una funzione di fondamentale importanza.
Pertanto, nel gioco della comunicazione testuale di Torno sabato… e 3, emerge ultimamente la
figura dello spettatore, che diviene addirittura mezzo ausiliario per l’inveramento di un fine, o
meglio, del fine del broadcaster/enunciatore e del contro-fine dell’oppositore. Detto in altri termini,
il mittente propone il suo prodotto, oggetto della fruizione, e, nello stesso tempo, chiede al pubblico
di contribuire al compimento narrativo dello stesso, rendendolo così “corresponsabile semantico”.
Si può quindi affermare che il programma in questione si ponga in perfetta continuità con le
tendenze e con il codice linguistico della “neo-televisione”, pur presentando degli aspetti nuovi,
delle caratteristiche non ancora rilevate da quegli studi scientifici, ai quali ci eravamo richiamati.
Tali aspetti, tali caratteristiche non sono tuttavia delle vere e proprie novità, ma piuttosto degli
elementi “impazziti”, delle esasperazioni di alcune di quelle linee di sviluppo, che erano già in atto
nella tv degli anni novanta (pensiamo, in particolar modo, alla beffa dell’ospite [di cui il pubblico è
compartecipe], che rappresenta una degenerazione di quel clima di convivialità, tipico del talk
show).
Ma è necessario sviluppare meglio, in modo più approfondito il confronto fra le trasmissioni, che
hanno segnato l’esordio del fenomeno neo-televisivo, e il programma che ci siamo presi la briga di
analizzare. È un compito di cui ci faremo carico nelle conclusioni del presente capitolo
Conclusioni
Ci sono varie ragioni per cui abbiamo deciso di focalizzare la nostra attenzione su Torno sabato… e
3.
Anzitutto perché si tratta di uno “spettacolo”, di un varietà, e, in questo senso, ci ha consentito di
verificare immediatamente, nella prassi, quel tipo di discorso sulla simulazione e sulla
spettacolarizzazione, affrontato nel secondo capitolo. Se infatti questi due concetti riguardavano un
meccanismo comunicativo finzional-fittizio, il programma di Panariello ci ha permesso di
accertarne i termini e le modalità.
In secondo luogo, perché, proprio in quanto varietà, è un formato tradizionale, paleo-televisivo e
dunque l’analisi delle sue caratteristiche strutturali ci ha dato la possibilità di chiarire quanto e fino
a che punto gli elementi innovativi della neo-tv hanno influenzato un genere più anziano, come
quello in questione.
Infine, essendo tale trasmissione da un lato una delle più recenti, fra quelle in cui abbiamo avuto la
possibilità di imbatterci, dall’altro quella di punta della stagione invernale 2003/2004, ci è parsa un
buon esempio per verificare il livello di evoluzione attuale dello spettacolo.
392
Detto in altri termini, le immagini, sottolineando il fatto che Conti è in difficoltà, solidarizzano con la prospettiva di
Lello (p.es. immag. 358/359).
222
Fornite le ragioni, giustificata, in qualche modo, la nostra scelta, possiamo ora confrontare in modo
più approfondito Torno sabato… e 3 con i formati che sono legate al “debutto” della neo-tv.
Nel primo capitolo si era fatto riferimento a quattro produzioni “cult” (in quanto portatrici di novità
assolute), che si pongono in un periodo a cavallo tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ‘80.
“Prima facie”, abbiamo citato la soap opera americana Dallas, la quale, concepita per una
programmazione “a flusso”, esporta nel nostro paese le logiche di impaginazione orizzontale. Il
palinsesto così si modella sul, o meglio, riproduce il ritmo della vita. È questa una
“quotidianizzazione dei tempi televisivi” oppure, detto in altri termini, è un appiattimento del tempo
dell’enunciazione sul tempo del vivere.
In secondo luogo, abbiamo menzionato due talk show, condotti entrambi da Maurizio Costanzo:
Bontà loro (mandato in onda alla fine degli anni settanta sulle reti Rai) e il Maurizio Costanzo Show
(il cui debutto si colloca all’inizio degli anni ’80, su Canale 5). Le due trasmissioni in questione
davano il via a una tendenza tipica della tv contemporanea: “l’impulso alla confessione” e “la
pubblicizzazione della sfera privata”. Grazie a un clima di gradevole familiarità e confidenza, il
presentatore, l’anchor man riusciva a restituire al pubblico a casa un’immagine “quotidiana”
dell’ospite, del vip, strappando allo stesso delle improbabili dichiarazioni, legate alla sua intimità. È
il primo tentativo di dissimulazione dell’esistenza di uno spazio psicologico fra lo spettatore e il
broadcaster oppure, detto altrimenti, una quotidianizzazione delle tematiche.
In terzo luogo, abbiamo fatto riferimento a Domenica In, appuntamento della domenica pomeriggio
di Rai Uno, il cui esordio è collocabile alla fine degli anni ’70. Si tratta di un “programma
contenitore”, di un formato cioè che include generi televisivi differenti, allo scopo di accontentare,
di soddisfare i gusti di target diversi: risponde cioè a quella logica di massificazione dei consumi,
tipica dell’industria contemporanea.
Ma la trasmissione di cui sopra, riprende anche la quotidianizzazione dei tempi del serial, poiché è
un “flusso” di immagini e suoni, che scorre ininterrotto dalle 14/14,30 fino alle 20, accompagnando,
come un sottofondo, le attività degli italiani: la tv riproduce le tecniche di programmazione
radiofonica.
Infine, abbiamo citato Pronto Raffaella, un programma che racchiude in sé tutte le caratteristiche e
le novità sopra menzionate. Esso è infatti:
- è una striscia quotidiana (dunque riprende il concetto di impaginazione orizzontale);
- è un programma contenitore;
- comprende ampi spazi riservati alla chiacchiera.
Veniamo dunque a Torno sabato… e 3.
Come si è già ripetuto più volte, si tratta di un varietà, cioè di un formato piuttosto vecchio, che
nasce, praticamente, assieme al mezzo. Di conseguenza, esso presenta molte di quelle particolarità
caratteristiche della paleo-tv.
Per esempio, non è un prodotto di flusso, poiché viene mandato in onda una volta la settimana, e per
di più il sabato, nel prime time: è dunque un appuntamento festivo, quasi un “media event”.
Per il resto però, si può dire che lo show in questione riprenda e addirittura amplifichi alcuni degli
aspetti caratteristici degli altri formati.
Anzitutto, ingloba al proprio interno momenti spettacolari differenti (cabaret, balletti, performance
musicali…), proposti con forme linguistico-visive autonome393: è presente dunque anche quella
mescolanza dei generi e dei linguaggi, tipica del programma contenitore.
In secondo luogo, Torno sabato… e 3 ospita molti personaggi, i quali non solo vengono presentati
come quotidiani e come amici fraterni dei conduttori, ma vengono anche messi in ridicolo con la
complicità del pubblico: è come se il vip non fosse più tale, cioè è come se egli fosse una persona
comune… talmente comune da poter essere fatta oggetto di scherno. È una ulteriore rottura,
un’ulteriore dissimulazione dell’esistenza di quello spazio psicologico astratto, che separa
l’ascoltatore dalla tv (come istituzione) o dalla “star” di turno. Ma su questo punto abbiamo già
molto insistito.
393
Si è già mostrato come la performance del cantautore Gianluca Grignani e i due balletti, comportassero una scelta di
montaggio e di organizzazione generale dell’immagine, molto vicine alle tecniche di ripresa del video-clip.
223
In terzo luogo, sempre dal talk show, questo varietà riprende pure la quotidianizzazione delle
tematiche. Che cosa infatti Panariello, nel monologo, mette in ridicolo? Nient’altro che una
convenzione sociale di cui tutti riconoscono la convenzionalità. In questo senso, proprio come si
diceva sempre nel primo capitolo, la vita, a cui il cabarettista fa riferimento, è come se venisse
rappresentata, giudicata e, da ultimo, normativizzata, attraverso l’immagine: è quasi una nuova
forma di pedagogismo.
Infine, emerge il ruolo attivo del pubblico in sala, usato come “aiutante narrativo”, come complice
delle misfatte del comico toscano: non più passivo osservatore, ma scomposto partecipante
dell’arena spettacolare.
Dunque, si vede come anche un formato tradizionale, quale Torno sabato… e 3, resta
inesorabilmente imbrigliato nelle maglie del linguaggio neo-televisivo, rappresentandone, per certi
versi, addirittura un’evoluzione.
In questo senso, a trent’anni dalla nascita delle emittenti commerciali, si può affermare che quelle
modalità di codifica del messaggio, tipiche della neo-tv, siano riuscite a penetrare anche i generi più
tradizionali, mescolando il quotidiano con il suo contrario (è quello che mostra il nostro esempio).
Di conseguenza, lo spettacolo, in quanto media event, in quanto simulazione dello straordinario, si
trasforma in “straordinaria simulazione dell’ordinario”, in “straordinaria simulazione della routine”:
l’avvenimento resta tale solo quanto alla forma, solo quanto al linguaggio rappresentativo, poiché,
contenutisticamente, nella sostanza della sua espressione, si piega, si “prostituisce” alla vita di tutti i
giorni.
È la fine dell’era della festività e l’inizio dell’era della quotidianità resa festiva.
È il trionfo del quotidiano.
224
CONCLUSIONI
Dunque lo spettacolo è simulazione e la simulazione è rappresentazione fittizia, interpretazione
della realtà (perciò rimando referenziale).
Ma proprio in quanto rappresentazione fittizia e interpretazione, cioè in quanto linguaggio, non è
detto che esso riproduca sempre gli stessi oggetti e sempre allo stesso modo. A conferma di questo
infatti, a partire dalla seconda metà degli anni settanta, lo spettacolo ha assunto caratteristiche
nuove, si è servito di nuovi espedienti rappresentativi necessari a mettere in scena la routine,
necessari a riprodurre la quotidianità degli ascoltatori; lo spettacolo – in sostanza – ha iniziato a
mettere in scena la vita, così come essa intimamente appare e si manifesta.
Chiaramente, tale processo genera una vera e propria metamorfosi dei codici visuali, dando vita con
ciò stesso a nuove forme di estetica e prassi televisiva.
Perciò, in conclusione del nostro percorso di ricerca, al fine di liberare il discorso da un eccessivo
astrattismo teorico, ci è sembrato utile istituire una chiara relazione, un più solido legame fra questi
paradigmi/modelli interpretativi e le analisi macro e micro, effettuate nei capitoli I e III.
Cercheremo perciò di mostrare – in queste ultime battute – come ciascuna categoria descrittiva del
fenomeno neo-televisivo prende corpo nella prassi.
Procediamo per gradi.
Quali erano le caratteristiche della neo-tv?
- Flusso. La programmazione fluisce, scorre come un fiume inserendosi e colonizzando la
vita degli ascoltatori. La tv – di conseguenza – diventa una sorta di compagna “discreta”,
una sorta di passatempo “soft” e sempre accessibile.
Questa del flusso è indubbiamente una delle caratteristiche più macroscopiche del medium –
oggi – e lo si rileva immediatamente, se si dà uno sguardo ai palinsesti, o anche se per caso
si accende l’apparecchio televisivo in una fascia oraria che non sia il “prime time”.
Infatti, se osserviamo le griglie, poste in appendice al capitolo I, notiamo un vero e proprio
iato, una vera e propria frattura fra i palinsesti del 1963 e quelli del 1980 (anno in cui il
fenomeno neo-tv è ancora relativamente nuovo). Nel primo caso, abbiamo infatti un’offerta
limitata a due canali e caratterizzata da una programmazione frammentata: sulla prima rete
le trasmissioni iniziano alle 8,30 con gli appuntamenti educativi, per poi interrompersi alle
14 e riprendere tra le 16 ,45 e le 17,30; sulla seconda rete iniziano invece alle 21. È evidente
che sotto questo tipo di impostazione si nasconde una concezione pedagogizzante del
mezzo: la televisione non deve costituire una tentazione, un diversivo nelle ore dedicate allo
studio e al lavoro (tant’è che la mattinata è dedicata a Telescuola), ma deve essere invece
un’interessante occupazione per il tempo libero.
Vediamo che cosa succede nel 1980.
Gli unici veri network nazionali sono ancora (soltanto) le reti pubbliche, le reti Rai,
diventate ormai tre. Le trasmissioni iniziano (nel caso di Rai Uno e Rai Due) alle 12,30 –
con i programmi educativi (come diciassette anni prima) – e da quel momento in poi non
hanno più pause o soste (salvo un paio d’ore sul secondo canale, nel primo pomeriggio, nei
giorni di lunedì, martedì, venerdì e sabato). Diverso è il discorso per Rai Tre (emittente
ancora subalterna), che accende le antenne soltanto alle 18,15.
Dunque il concetto di flusso della tv americana (di cui aveva parlato Raymond Williams nel
‘73), nel 1980, a causa della concorrenza con le emittenti private, inizia a colonizzare anche
i canali pubblici.
Passiamo al 1985; accanto alle reti Rai, incontriamo altri tre soggetti nazionali: Rete 4,
Canale 5 e Italia 1.
Su tutti i canali, la programmazione scorre senza sosta fino alla mezzanotte, a eccezione di
Rai Tre, che al sabato apre i battenti soltanto alle 15,45. Del resto, il terzo canale intraprende
una politica editoriale seria, soltanto alle soglie degli anni ’90, sotto la direzione di Carlo
Freccero.
225
-
Nel 1995, ormai tutte le emittenti, sia pubbliche che private, con i loro appuntamenti
occupano quasi tutto l’arco delle ventiquattr’ore, senza sosta alcuna: un palinsesto, che
prevede delle pause, non è ormai più concepibile.
Questo per quanto riguarda gli aspetti “macro”.
Nel primo capitolo, si era detto però che il concetto di flusso, non riguardava soltanto
l’impaginazione dei programmi, ma anche i formati in se stessi. Infatti, se la tv deve
scorrere, se deve inserirsi nel ritmo quotidiano dell’ascoltatore, allora ha bisogno di
“trasmissioni di sottofondo”, di trasmissioni dai contenuti poco impegnativi, non
sensazionalistici e adatti a un ascolto distratto, quasi “sonnecchiante” (oseremmo dire). È il
caso di molte soap-opera, sit-com e talk-show, la cui visione può essere tranquillamente
accompagnata ad altre attività (cucinare, stirare…).
Bene; tale caratteristica, non si riscontra nel programma preso in esame (Torno sabato… e
tre) e ciò per due ordini di motivi:
a. Perché è una trasmissione collocata nel “prime-time”, che è dominio del media-event e
dunque del sensazionale, per sua stessa definizione.
b. Perché è un formato paleo-televisivo (scelto proprio in quanto tale), figlio del varietà,
che è a sua volta figlio dell’avanspettacolo, genere in cui la suspense, l’imprevisto, il
sensazionale annunciato sono elementi centrali, o meglio, il fulcro dello show.
In Torno sabato, infatti (come dimostrano le due scene esaminate), l’attenzione e la
complicità dello spettatore sono continuamente richiamate, continuamente evocate proprio
attraverso il “fuori programma”, proprio attraverso l’apparizione improvvisa sul palco dei
vari “deus ex machina”, impersonati dallo show man Giorgio Panariello.
Dunque, come si diceva in chiusura del primo capitolo (utilizzando le categorie semiotiche
di spazio e tempo), tempo dell’enunciato, tempo dell’enunciazione e tempo della lettura
vengono a coincidere, in quanto si identificano tutti con il tempo della vita.
Quotidianizzazione. In fondo, anche il flusso (nella misura in cui riproduce il ritmo della
routine degli ascoltatori) può essere considerato una prima forma di quotidianizzazione.
Tuttavia, con questo termine, si intende qui quel processo tipicamente neo-televisivo per cui
le tematiche toccate e le scenografie rappresentate in un programma si ispirano alla vita
quotidiana.
Si era detto che tale processo era stato innescato dal talk-show nel 1976 (nella fattispecie da
Bontà loro, in onda sulla Rai e diretto da Maurizio Costanzo) e poi consolidato dal
programma contenitore e da un certo tipo di fiction. Si era poi anche detto che praticamente
tutta la produzione neo-televisiva, cioè, detto in altri termini, che tutti i generi nati dopo il
1980 tendevano a mettere in scena o a tematizzare il quotidiano.
Bene. Se il concetto di “quotidianizzazione” è legato anzitutto a certi formati in particolare,
uno sguardo ai palinsesti potrà aiutarci a comprendere l’evoluzione del fenomeno, o meglio,
a partire dalla presenza più o meno preponderante di certi generi, potremo capire in che
misura la tv si è andata “quotidianizzando”.
Se esaminiamo le griglie relative all’anno 1963, chiaramente non notiamo la presenza dei
programmi indicati, anzi, addirittura ci pare che non vi siano trasmissioni di tipo
strettamente e specificatamente televisivo. Ciascun appuntamento infatti è riconducibile a
forme di linguaggio precedenti come il teatro (vedi lo sceneggiato oppure le opere teatrali),
il cinema, l’avanspettacolo (vedi la pubblicità [nella forma di carosello] e lo show) ma
soprattutto la radio (vedi per esempio l’informazione o il rotocalco, che, come raccontano le
nostre fonti, conservano una forte impostazione verbale).
Le cose cambiano nel 1980, quando su tutte le reti pubbliche compaiono voci come: talkshow, fiction (le serie televisive, per ora esclusivamente di produzione americana),
programma contenitore (vedi Rai Uno, domenica, dalle 14 alle 20), info-tainment ed
entertainment (lo show modernamente inteso). Resistono tuttavia anche formati come
l’educazione, il rotocalco, lo sceneggiato (p. es. Rai Due, sabato, 20,40), il teatro (vedi Rai
Tre, venerdì, alle 20,05)… e compaiono poi generi che rappresentano una mescolanza tra il
226
vecchio e il nuovo: per esempio serie che si collocano a metà fra la fiction e lo sceneggiato
(vedi p. es. Rai Due, mercoledì e venerdì alle 20,40 o Rai Uno, sabato alle 21,55…) o film
tv che tendono alla fiction (p. es. Rai Uno, martedì, ore 20,40)…
Passiamo al 1985. I palinsesti delle reti private, a parte i film, sono compilati esclusivamente
con generi neo-televisivi; impressionante poi è la presenza di fiction su Rete 4, che va a
occupare – dal lunedì al sabato – l’intera mattinata (si tratta in questo caso soprattutto di
soap opera e telenovelas, indirizzate al pubblico delle casalinghe). Ma del resto, anche Italia
1 dà ampio spazio a questo tipo di produzione (in questo caso si tratta però soprattutto di sitcom e serial, che si rivolgono a un target adolescenziale).
Per quanto riguarda invece le emittenti pubbliche, anche qui, la presenza di neo-formati si fa
sempre più massiccia, fino a diventare preponderante. Il contenitore, per esempio, si
trasforma addirittura in una fascia quotidiana del mattino di Rai Uno (dal lunedì al venerdì
dalle 12,05 alle 15,00), interrotta solo dal telegiornale delle 13,30.
Resistono ancora però alcuni generi tradizionali come l’educazione (p. es. Rai Uno, dal
lunedì al venerdì alle 15,30 o Rai Tre nel primo pomeriggio o dal lunedì al venerdì alle
20,05…), il teatro (p.es. Rai Due, sabato, 10,45), il rotocalco (p. es Rai Uno dal lunedì al
venerdì alle 19,30 o Rai Tre, venerdì alle 19,35) e la cultura (p. es. Rai Tre, mercoledì alle
19,35).
Facciamo un salto di dieci anni e andiamo al 1995. Inutile esaminare i palinsesti delle tv
private, che – già nel 1985 – erano totalmente “neo”; l’unico elemento da segnalare al
riguardo è la comparsa dell’informazione, precedentemente vietata per legge alle tv di
Berlusconi.
Analizziamo perciò esclusivamente la programmazione delle reti pubbliche.
A una prima occhiata, si nota che non esistono più i vecchi generi; l’educazione si trasforma
in educational (una serie di documentari e dibattiti, toccanti gli argomenti più disparati) e
diventa una striscia quotidiana di Rai Tre (dal lunedì al venerdì, dalle 6,45 alle 12,00) e della
notte di Rai Uno (dal lunedì al venerdì, alle 00,25). La cultura resiste solo su Rai Tre, dieci
minuti dal lunedì al venerdì, dalle 12,30 alle 12,40.
Procediamo di altri sette anni, e andiamo al 2002, quando sulla scena compare un altro
soggetto nazionale importante: La7.
Trovandoci ormai in pieno regime neo-televisivo, piuttosto che mostrare i neo-formati, ci
sembra più utile andare a scovare i paleo.
La cultura, trasformata ormai in “culture-tainment” (vedi p. es. Rai Uno, lunedì, martedì e
mercoledì all’1,45 o La 7 lunedì al venerdì, alle 3,10), resiste su Rai Tre (dal lunedì al
venerdì alle 14,50 e mercoledì alle 00,10) e su Rai Due (tutti i giorni alle 4,15). Scompaiono
però voci come sceneggiato o rotocalco e la presenza di un genere come il teatro (La 7,
mercoledì 22,30) è del tutto sporadica e casuale.
Dunque, da un punto di vista macro, è vero che la tv del nuovo millennio è ormai
completamente “quotidianizzata”.
Spostiamoci perciò su un piano “micro” e verifichiamo se Torno sabato… e tre è immune
dalle da questo processo.
Cominciamo dalla scenografia. Dalla descrizione offerta (nel terzo paragrafo del terzo
capitolo), ci sembra di poter evincere che il palcoscenico voglia rappresentare il cortile
(retrostante) di un teatro, con: camion, scale, attrezzi abbandonati… in sostanza riproduce un
ambiente spettacolare (un teatro), nel suo aspetto più quotidiano (il cortile retrostante con
l’allusione ai lavori in corso).
Dunque la scenografia è “quotidianizzata”.
Analizziamo il piano contenutistico.
In primo luogo, tutti i personaggi in cui il presentatore/show man Panariello si cala
(eccezion fatta, ovviamente, per le imitazioni) sono tratti dalla vita di tutti i giorni, dalla
comune e un po’ provinciale realtà italiana: l’alcolizzato di paese Merigo, il discolo
bambino Simone, il macellaio romano Pio Bove, l’esagitato marchigiano Lello Splendor…
227
-
insomma quei tipici personaggi estrosi che frequentano i bar e i supermercati delle nostre
città.
Per quanto riguarda le tematiche poi, possiamo tenere conto proprio delle due sequenze
analizzate, cioè la 2 (il monologo iniziale) e la 23 (l’accoglienza del presentatore Carlo
Conti e di miss Italia 2003 [Francesca Chillemi] e la successiva irruzione di Lello Splendor).
Partiamo dalla prima. Che cosa prende di mira Panariello nel suo monologo?
Una festa di fine anno comune, media, descritta proprio come tale. Il presentatore insomma
tenta di fare ironia su un aspetto della vita, che il telespettatore conosce molto bene.
Passiamo alla seconda, cioè alla sequenza 23, un po’ più complessa poiché composta da due
parti: una prima (una sorta di mini talk-show) e una seconda (un vero e proprio numero di
cabaret).
Per quanto riguarda la prima parte, emblematica è la conversazione con miss-Italia. Di
questa ragazza infatti la presentatrice tenta di far emergere un’immagine spontanea, “acqua e
sapone” (come si suol dire), mostrandone il lato umano e privato (si veda per esempio
l’inquadratura 15, in cui la presentatrice Tosca d’Aquino domanda a Francesca Chillemi in
che modo, dopo la nomina di miss, la sua vita è cambiata).
Per quanto riguarda la seconda parte invece, Lello Splendor (già di per sé quotidiano) si
comporta in modo addirittura dissacrante: attraverso l’irrisione di tutti i personaggi presenti
sul palcoscenico, ci dimostra che essi sono non solo persone comuni, ma hanno anche dei
difetti, sui quali si può fare ironia (è il principio della satira applicato alle star televisive).
Nella fattispecie (cioè in concreto), ignora – quasi snobbando – la bella Chillemi e si prende
gioco di Carlo Conti, ironizzando spesso sul colore scuro della sua pelle. Il risultato è una
declassazione del loro status di VIP.
Dunque anche un vecchio formato, o meglio un “paleo-formato” come il varietà del sabato
sera, non è immune da quel processo di quotidianizzazione, che coinvolge tutto il medium.
Pertanto, sia a livello macro che micro, si può affermare che la tv, tutta la tv, sia – oggi più
che mai – quotidiana.
Rottura dei generi. Si tratta di una metamorfosi, per cui i generi iniziano a mescolarsi fra
loro, dando vita a formati ibridi (info-tainment, culture-tainment, docu-tainment…); il
“programma contenitore” rappresenta l’emblema di tutto questo.
Un siffatto processo comunque è legato non soltanto alla nascita di nuove trasmissioni, ma
anche e soprattutto alla comparsa di aspetti estetico-linguistici anomali, all’interno di
programmi già esistenti (p. es. l’utilizzo di inquadrature e montaggi propri del video-clip, in
un documentario). Evidentemente, non è possibile evidenziare tali caratteristiche a partire
dall’analisi dei palinsesti, tuttavia uno sguardo alla programmazione generale può aiutarci a
capire quando questo fenomeno ha iniziato a palesarsi in modo più evidente – cioè quando
sono stati mandati in onda i primi formati ibridi – e in che misura è andato crescendo nel
corso degli anni.
Tralasciamo l’anno 1963, che è territorio paleo-televisivo, e partiamo dalle griglie
riguardanti l’anno 1980.
Notiamo subito due voci, che richiamano la mescolanza dei generi: “programma
contenitore” (Rai Uno, la domenica, alle 14,00) e info-tainment (Rai Tre, tutti i giorni, alle
18,15). Ci sono poi elementi che rivelano inconfutabilmente una mescolanza di linguaggi.
Per esempio, lo sceneggiato inizia ad assumere le caratteristiche della fiction seriale (p. es.
Rai Due, lunedì e mercoledì, 18,40 o Rai Uno, giovedì, 20,40).
Passiamo all’85.
Su Rai Uno, il programma contenitore diventa una striscia quotidiana, in onda dalle 12,05
alle 15,00 (come del resto si è già notato). Compaiono poi voci ibride come info-tainment
(p. es. lunedì 22,25, mercoledì 22, 40…), mentre il rotocalco inizia a contaminarsi con
l’intrattenimento (rotocalco/info-tainment).
228
Lo stesso discorso vale per le altre due reti pubbliche. Anche Rai Due infatti, manda in onda
un programma contenitore in striscia quotidiana, dal lunedì al venerdì, alle 14,35 (a
eccezione del mercoledì), accanto ovviamente all’appuntamento domenicale (dalle 13,30
alla 17,50). Troviamo poi, pure in questo caso, le prime trasmissioni di info-tainment (p. es.
domenica alle 17,50, sabato alle 16,15…) e i primi rotocalchi spettacolarizzati (p. es. lunedì
alle 20,30).
Un po’ diverso è il caso di Rai Tre, dove pur essendoci l’info-tainment (p. es. sabato alle
18,15, alle 19,35, alle 20,15, alle 20, 30…) e il rotocalco/info-tainment (p. es. martedì alle
20,30) viene a mancare il contenitore.
Nel caso delle reti private, scompare la voce “rotocalco” e il contenitore è limitato alla sola
Canale 5 (domenica, dalle 13,30 alle 19,00). Accanto all’info-tainment (p. es. Canale 5,
giovedì alle 23,15, Italia 1, lunedì alle 23,30…), troviamo poi il primo esempio di docutainment (Canale 5, lunedì alle 22,25).
Facciamo un salto di dieci anni e spostiamoci al 1995. A un primo sguardo, notiamo che i
programmi per metà paleo e per metà neo (p. es. rotocalco/info-tainment o
sceneggiato/fiction) sono scomparsi, a vantaggio dei generi neo al 100% (info-tainment e
fiction).
Su Rai Uno e Rai Due poi, il contenitore diventa ormai un fatto quotidiano (su Rai Uno è
una striscia mattutina, in onda dal lunedì al venerdì, a partire dalle 6,45, mentre su Rai Due è
un appuntamento tardo-mattutino, in onda dal lunedì al venerdì alle 10,30).
Compare infine una nuova voce: “educational” (p. es. Rai Tre dal lunedì al venerdì, alle
6,45, Rai Uno, dal lunedì al venerdì, alle 00,25…), di cui si è in parte già parlato. Si tratta di
una serie di documentari e dibattiti di tipo culturale, sugli argomenti più disparati.
Nulla di nuovo invece sulle reti private, salvo il fatto che la dicitura “info-tainment”,
all’interno delle griglie, è stata moltiplicata.
Veniamo infine ai giorni nostri, cioè all’anno 2002. Data la presenza massiccia di generi
misti, ci sembra più utile, piuttosto che segnalarli tutti, verificare se ci sia qualche nuova
voce.
Scrutando i vari palinsesti infatti, ci salta subito all’occhio una definizione anomala: è il
“culture-tainment” (p. es. Rai Uno, lunedì, martedì e mercoledì all’1,45 o La 7 dal martedì al
venerdì alle 03,10), unica novità, ma del tutto singolare.
In conclusione dunque, da un punto di vista macroscopico, si può affermate che il processo
di rottura e mescolanza dei generi vada crescendo nel corso degli anni, fino a diventare –
oggi – un’entità onnipervasiva.
Proviamo allora a vedere che cosa succede a livello micro.
Dal punto di vista delle tecniche televisive (montaggio e inquadrature), le sequenze 11
(esibizione della cantante Rita Pavone), 13 (balletto), 21 (fantasia musicale), 24 (esibizione
del cantante Gianluca Grignani) e 29 (performance vocale di Rita Pavone) sono del tutto
assimilabili a un video-clip, con frequenti e veloci cambi di inquadrature, dissolvenze
incrociate, l’assiduo utilizzo del dolly in movimento di carrellata…
Ma del resto, già la sequenza 23 analizzata era a suo modo anomala: la durata è di circa 20
minuti, in cui vengono intercambiate ben 389 inquadrature.
Anche per quel che concerne i generi, tale sequenza è abbastanza rappresentativa, nella
misura in cui abbina il talk-show della prima parte al cabaret della seconda.
229
A un livello più macroscopico, Torno sabato… e tre è in se stesso una mescolanza, in
quanto prevede momenti spettacolari differenti: il cabaret, il talk, il balletto, la musica… è a
tutti gli effetti un varietà, che tende verso il “programma contenitore”.
Dunque, lo show del sabato sera, pur essendo “paleo”, tende a diventare un formato ibrido.
-
Cancellazione dello spazio psicologico esistente fra mittente e destinatario o
dissimulazione dell’esistenza del canale comunicativo.
Si tratta di un aspetto strettamente “micro”, che riguarda cioè il rapporto che la tv costruisce
con i suoi utenti.
Consideriamo sempre la sequenza 23 di Torno sabato… e tre.
Nel corso dell’analisi testuale (a partire dai paradigmi di Saymour Chatman, Gianfranco
Bettetini e Algirdas Julien Greimas), si erano riconosciuti i seguenti ruoli narrativi:
a.
b.
c.
d.
e.
Autore Implicito/Enunciatore: inquadrature e montaggio.
Narratore: Carlo Conti.
Aiutante: Tosca d’Aquino.
Anti-eroe: Lello e Lella Splendor: Giorgio Panariello.
Narratorio e Autore implicito/Enunciatario: pubblico in studio (simulacro del pubblico
a casa): Aiutante dell’anti-eroe.
In quella sede, si era mostrato come (attraverso vari giochi di inquadrature) la prospettiva
dell’enunciatore fosse solidale con quella dell’anti-eroe (p. es. nell’inquadratura 72: quando
Lello Splendor fa dell’ironia sul colore della pelle di Carlo Conti, la camera riprende
quest’ultimo a mezzo busto, come a voler sottolineare la battuta) e come l’atteggiamento del
pubblico in studio fosse normativo per quello a casa (p. es. nelle inquadrature 373 e 375: il
pubblico, solidale con Panariello, viene ripreso mentre contraddice Conti, quasi mettendo in
risalto la positività della reazione).
Qui però, ci preme mostrare anche in che modo e in che misura il presentatore Giorgio
Panariello coinvolge la platea, in quanto emblema e simulacro del telespettatore a casa.
Fin dal suo ingresso sul palco (inquadrature 27/39), egli chiede – in modo indiretto –la
collaborazione del pubblico, che è chiamato a completare i suoi inni, cantare le sue
canzoni…
Dopo ogni battuta cioè, dopo ogni atto di scherno, Lello Splendor chiede sempre conferma
all’uditorio di quanto sta facendo, stimolandolo al coro o all’esultanza (p. es. nelle
inquadrature 41/52).
In sostanza, gli spettatori (dunque anche coloro che seguono da casa) sono prima invocati,
poi resi complici e infine attivamente coinvolti (= pubblico partecipante). È chiaro infatti
che, senza l’intervento della platea, l’impresa di Panariello non potrebbe andare a buon fine
e la sua performance non potrebbe più risultare il centro spettacolare della scena.
In questo senso Torno sabato… e tre crea indubbiamente una vicinanza, instaura davvero
una sorta di empatia fra chi il programma lo sta facendo e chi invece ne sta fruendo (sebbene
non allo stesso livello di un reality-show).
Pertanto, si può affermare che anche il varietà contribuisca a ridurre la percezione
dell’esistenza di un canale fra mittente e destinatario; anche su questo piano perciò, risulta
essere “neo”.
- Giungiamo così all’ultima delle 5 categorie neo-televisive: la serialità del prodotto.
Da un punto di vista macro, “serialità” significa trasmissioni che ricorrono in strisce
quotidiane, tutti i giorni alla stessa ora, al fine di “fidelizzare” l’ascolto (è la logica delle
serie, delle sit-com…).
230
Da un punto di vista micro, “serialità” significa invece appuntamenti semanticamente
dipendenti gli uni dagli altri (è la logica delle soap-opera: ogni puntata non ha un senso
compiuto, ma è contenutisticamente legata a quella che la precede e a quella che la segue).
Serialità è insomma una delle tante tecniche utilizzate dal broadcaster per rendere la tv parte
della routine dell’ascoltatore.
Cominciamo, come sempre, dall’analisi dei palinsesti (considerando che questo tipo di
logica – ovviamente – non riguarda il prime time e la serata).
Nel 1963, le uniche “strisce” sono gli appuntamenti educativi del mattino e l’informazione;
per il resto, ogni giorno, i programmi offerti sono differenti.
Nel 1980, fatto salvo piccole eccezioni e differenze di orario, il palinsesto di tutte le reti Rai
inizia a diventare prettamente seriale (vengono infatti lanciate le prime serie americane che
importano proprio questo tipo di logica).
A partire dal 1985, tutte le griglie, di tutte le reti, sono organizzate in strisce quotidiane:
sembra quasi che non esista più nessun altra tecnica di impaginazione.
Passiamo dunque all’analisi micro.
Torno sabato… e tre, pur essendo una trasmissione mandata in onda tutti i sabato sera, da
ottobre a gennaio (dunque con scadenze regolari), è fatta di appuntamenti semanticamente
autonomi. Sebbene vi sia una continuità linguistica ed estetica (se vogliamo), fra una puntata
e l’altra, non c’è però un legante semantico, che rende necessaria la visione dell’intera serie.
La trasmissione presa in esame, per esempio (quella del 27 dicembre 2003), è – da questo
punto di vista – chiusa in se stessa; c’è solo un invito, da parte del presentatore alla fine del
programma, a seguire la puntata successiva.
Il varietà è perciò un formato che, sebbene fortemente influenzato dai nuovi linguaggi
televisivi, rimane non seriale, come tutti i vecchi generi della paleo-tv. Del resto, non per
nulla viene collocato sempre nel prime time.
Dunque, se anche i generi tradizionali (come nel caso della trasmissione analizzata) si ispirano al
mondo della vita, restando – con ciò stesso – schiacciati dalle pratiche neo-televisive, i nostri
paradigmi interpretativi (elaborati nel primo e nel secondo capitolo) risultano applicabilissimi alla
prassi della tv contemporanea.
Perciò in chiusura, possiamo ribadire con certezza ciò che l’analisi (macro e micro) ha confermato:
la televisione è – oggi più che mai – un linguaggio spettacolare, una simulazione, che tende a
riprodurre, a mettere in scena la quotidianità, in tutti i suoi aspetti. La tv è una produzione fittizia
della vita.
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