Lost in Google,Hydra,Il valzer dello Zecchino

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Lost in Google,Hydra,Il valzer dello Zecchino
Lost in Google
Lost in Google non è una webserie semplicemente perché la puoi trovare su Youtube, è qualcosa di
diverso, ed è probabilmente un primo passo in una direzione ancora inesplorata. In pratica si
tratta della prima serie “scritta dagli utenti”: i commenti più votati e quelli ritenuti più interessanti
dallo staff vengono selezionati e utilizzati per creare le sceneggiature delle puntate successive;
sceneggiature che puntano molto sulla comicità surreale e sul nonsense, ma senza mai sconfinare
nell’esagerazione fine a se stessa, e mantenendo comunque una consequenzialità logica.
Lost in Google è stata quindi appositamente pensata per una piattaforma interattiva e non
potrebbe esistere senza di essa. Oltre ai commenti, che compaiono fisicamente sullo schermo
durante la visione ricordando in continuazione allo spettatore quale sia il suo ruolo, i temi affrontati
sono decisamente 2.0. La storia narra infatti di come il protagonista Simone Ruzzo venga
letteralmente “risucchiato” nel web dopo avere osato cercare la parola “google” sul popolare
motore di ricerca. Egli si ritrova quindi imprigionato all’interno di uno spazio virtuale in cui,
spostandosi da “Google maps” a Wikipedia e così via, incontrerà vari personaggi guida che lo
aiuteranno a cercare il modo per ritornare nel mondo reale.
Nelle prime puntate bisogna segnalare la presenza
di Caparezza (nei panni di un personaggio imprigionato
all’interno di Google Maps) e di Claudio Di
Biagio (ideatore di “Freaks!” e vera “webstar” italiana nata
sempre su Youtube). D’altronde di Biagio rappresenta
probabilmente l’ospite perfetto per la prima puntata di una
serie di questo tipo, che riflette costitutivamente, anche se
in modo ironico e surreale, su quanto spazio abbia ormai
guadagnato il web nelle nostre vite quotidiane. Il suo intervento è un vero e proprio saggio sui
luoghi comuni legati al più famoso dei motori di ricerca, ormai diventato simbolo stesso del web
contemporaneo; sotto il velo ironico si nasconde però un’analisi accurata e competente della
situazione, a dimostrazione del fatto che per avere successo bisogna prima di tutto conoscere il
proprio campo a menadito. Ma non manca nemmeno un tocco di autoironia, indispensabile per un
personaggio che è diventato famoso proprio parodiando quelle megaproduzioni hollywoodiane che di
autorinoia non ne hanno nemmeno un briciolo.
Fotografia e montaggio sono decisamente di buon livello, e la qualità percepita si avvicina molto a
quella dei prodotti professionali, anche se spesso, soprattutto a causa delle location virtuali in cui
le storie inevitabilmente si svolgono, si assiste ad uno sfoggio di effetti speciali un po’ invadente e a
tratti poco credibile. Ma si tratta di inezie che non sono in grado di inficiare la riuscita di una delle
idee più originali degli ultimi tempi. Com’è ormai tradizione per i prodotti di questo tipo non
mancano nemmeno dei divertenti backstage che giocano soprattutto sul disvelamento delle
tecniche realizzative e che contribuiscono a rendere esplicito il carattere decisamente finzionale
della narrazione.
L’ennesima conferma, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che una piattaforma come Youtube (ma
sarebbe più corretto ringraziare tutto il web 2.0) si sta proponendo sempre più come vero vettore di
innovazione credibile ed efficace, al contrario della televisione tradizionale che da troppo tempo
ormai non propone qualcosa di veramente nuovo e per questo non regge il confronto.
Hydra
Che la webseries fosse una forma di prodotto audiovisivo in fase di crescita, era chiaro da tempo;
anche se non è mai stato sinonimo di qualità, il format sta prendendo sempre più piede nel
panorama produttivo indipendente, forse grazie alla facilità di distribuzione e fruizione offerta da
provider come YouTube.
Sebbene sia molto difficile trovare webseries pregevoli e ben strutturate, anche a causa delle difficili
condizioni di budget a cui continuamente sono sottoposte, bisogna dare atto ad Hydra di essere uno
dei prodotti migliori attualmente in circolazione.
La storia ricorda un po’ il film Io sono leggenda di Francis
Lawrence e vede la protagonista, Sarah, intraprendere un
viaggio senza una meta apparente alla ricerca dei propri
ricordi perduti, in un mondo sconvolto da misteriosi
accadimenti che hanno stravolto il genere umano.
Attraverso l’incontro con numerosi personaggi, più o meno
“buoni”, la protagonista e lo spettatore cercano di ricostruire gli avvenimenti che precedono l’inizio
della serie. L’impianto registico e narrativo della serie funziona, sebbene non si affronti un’idea del
tutto originale; bisogna infatti ammettere che la storia è coinvolgente ed il mistero suscita nello
spettatore la dovuta curiosità. Inoltre, le rivelazioni che, passo dopo passo, portano a diradare la
nebbia dei ricordi di Sarah, sanno bilanciarsi a dovere.
Dal punto di vista tecnico, Hydra è un prodotto ben montato, con un ritmo serrato e coinvolgente.
Anche la fotografia è di buon livello, seppure coesistano momenti di picco tecnico ed espressivo e
momenti di evidente assenza di mezzi tecnici adeguati. La debolezza del prodotto sta piuttosto nella
recitazione, la quale, per quanto appassionata, sfonda nell’assenza di naturalezza. Per chi è attento
osservatore dei prodotti indipendenti, è un problema noto e ricorrente, che quindi si caratterizza
come una sorta di tallone d ‘Achille nazionale.
In definitiva, ciò che conta è l’abilità di Hydra nello spingere lo spettatore a divorarsi una puntata
dietro l’altra. Un’abilità questa che per una web series è la chiave del successo, così come
pubblicamente ricnosciuto dal CinemaClick Festival, dove la serie di Marco Sani, Pierfrancesco
Bigazzi, Rossano Della Barba e Roberto D’Adorante ha ricevuto il riconoscimento come Miglior
Web Serie.
Il valzer dello Zecchino - Viaggio in Italia a
tre tempi
Raccontare l’Italia di oggi attraverso lo “Zecchino d’oro” è la splendida intuizione che ha avuto Vito
Palmieri, giovane regista bolognese, tra i migliori talenti della scena nazionale. Manifestazione
canora, la cui longevità e popolarità è quasi paragonabile a quella del Festival di Sanremo, lo
“Zecchino d’oro” è parte integrante della nostra industria culturale, la cartina di tornasole di
un Paese che sembra apparentemente cambiare ma che in sostanza rimane sempre lo stesso.
Così come le stesse, rimangono le aspettative di tante famiglie che per i propri figli sognano un
futuro da popstar, circondati dal calore dei fans e dalla imprescindibile popolarità mediatica. Il
passaggio televisivo, la foto su riviste di ampia tiratura, sono il lasciapassare per un notorietà,
spesso effimera, che dura quasi sempre lo spazio dei tre minuti e mezzo di una canzoncina. Eppure
ci sono famiglie, come quelle raccontate da Palmieri, che sono disposte ad un grosso investimento,
emotivo e in qualche caso anche finanziario, per realizzare i sogni dei loro eredi, su cui magari
proiettare i propri.
Palmieri sceglie un approccio “terzo”, non prende una posizione, come del resto dovrebbe
fare ogni documentarista che si rispetti: lascia che a giudicare ed interpretare le immagini sia lo
spettatore, messo nella migliore condizione per trarre delle conclusioni. Non è un caso forse, che in
un cinema italiano che non riesce più a parlare del presente senza rimanere in superficie, a parte
alcune eccezioni, sia oggi proprio il documentario a scavare nella realtà di un Paese dal volto
contraddittorio, sospeso tra sopravvivenze arcaiche e un futuro che non sembra spalancarsi troppo
all’ottimismo. Il documentario per i suoi costi contenuti meglio si presta ad uno sguardo libero e
critico, a differenze del cinema a soggetto che troppi anni di indiscriminato finanziamento pubblico,
con relative censure preventive e di mercato, hanno relegato a un ruolo di edulcorazione
dell’attualità.
Palmieri intesse il suo eccellente film raccontando tre storie esemplari, di altrettante famiglie
italiane (e di tre bambini che si preparano alla finale televisiva dello Zecchino d’oro), che
rappresentano l’intero Stivale, da nord a sud passando per il centro, regalandoci un’ora di grande
cinema, con levità di tocco e assoluta profondità di contenuto, con piena padronanza del mezzo
senza esibizionismi autoriali. C’è molta umanità nelle famiglie messe in scena da Palmieri che si
preoccupa giustamente di non lasciarsi andare a un facile gusto per il grottesco, che pure poteva
rischiare. L’Italia profonda e diffusa è forse migliore di come viene in genere rappresentata, o
forse è solo una nostra interpretazione, una delle tante rese possibili da un’opera straordinaria, in
quanto fuori dall’ordinarietà delle nostre visioni abituali.
Imago Vocis
Riuscire a far paura, in questa società bombardata da immagini raccapriccianti che ci hanno ormai
desensibilizzato, è diventata un’impresa ardua per il cinema contemporaneo, in special modo per
quello indipendente che cammina su strade già largamente battute.
Ma come ci insegnano i grandi maestri del passato, spesso le idee più semplici rimangono sempre le
più efficaci. Perciò questi gli ingredienti: quattro giovani in viaggio giungono a un bellissimo e fatale
B&B in mezzo alla natura, isolato e misterioso, dove vengono accolti da una giovane ragazza bionda
dallo sguardo inquietante.
Questo l’incipit del cortometraggio di Tiziano Cella, una situazione comune che immediatamente
trasmuta nell’eccezionalità. L’unica voce che si sente è della giovane proprietaria delle camere, che
si presenta come Carlotta, ricorda i loro nomi e li conduce nelle loro stanze. Le due coppie di
viaggiatori si ritrovano nell’intimità della nuova camera per preparasi alla cena e in questo momento
scopriamo le molte differenze. I quattro ragazzi sono sordomuti, e questo determinerà la forza
terrificante dei dieci minuti dell’opera di Cella, che sapientemente riesce a misurare genere
horror e accompagnamento musicale.
La giovane oste si trasforma immediatamente in femme fatale, seducendo gli ospiti uno dopo
l’altro e conducendoli verso un’atroce fine. Quando è il turno dell’ultima vittima, Rossella, questa
riesce a difendersi dall’ospite assassina, ma non dal lato oscuro che trasmette nel suo desiderio di
sangue, del macabro brivido che l’assassino prova quando sa di avere il potere di togliere la vita ad
un altro essere umano. Da vittima Rossella si trasforma in complice, l’altra metà di una coppia
attratta dalla follia: la parte muta.
La particolarità di Imago vocis, sta tutta nella consapevolezza di non poter far leva sulle urla
di orrore che ci aspetteremmo esser pronunciate. Eliminando l’aiuto vocale rimangono le immagini,
private dell’attesa fatta d’ansia, consolidate in quella sequenza di omicidi che è la summa della
passione omicida, che elimina ogni essere umano che non riesce a comprenderla e lascia in vita solo
chi riesce a condividerla. Chi cioè riesce a condividere una diversità, l’assenza di voce come
l’assenza di pietà, rendendola un aspetto terreno, condivisibile, umano.
Intervista a Paolo Martini, regista di
"Korin"
La WiggleFilm presenta una produzione atipica per un progetto inconsueto e suggestivo: due
chiacchiere con Paolo Martini, l’autore di “Korin”.
-Il film prende il titolo da una misteriosa grotta, Korin, da cui sembra avere origine il
Male. Qual’è l’idea di base del progetto e come è nata?
Korin è una grotta maledetta abitata da un animale sacro e
misterioso, per molti causa del malessere e dell’abbandono
della valle del Molat, una valle immaginaria al confine tra
Italia e Slovenia. Il lungometraggio è la storia di un evaso
condannato per omicidio che, alle fine degli anni ’50, per
casualità si trova a far parte di una spedizione diretta verso
questa grotta. Il compito della spedizione è entrare e uccidere l’animale. Da questi presupposti
nasce il tentativo di presentare, in chiave narrativa inusuale, un tema profondo e complesso come
quello del senso di colpa, della fede e della memoria. Il viaggio di Elia (Nicola De Paola), il suo
tentativo di redenzione, è quello di un uomo che soffre. E’ il viaggio di chi cerca le proprie risposte.
E lo fa attraverso un’esplorazione inizialmente casuale, spesso contraddittoria, che porta pian
piano a muoversi in luoghi scuri e pericolosi, emozioni nascoste, zone della mente prima ignorate.
- La storia ha carattere avventuroso e conta molto sulla suggestione delle locations. Come
vi state muovendo nella loro ricerca?
Korin è un film d’avventura un po’ atipico. Riunisce uno stile classico da film d’avventura in stile Un
tranquillo weekend di paura o Caccia selvaggia con uno più intimo e psicologico, quasi d’autore
alla Stalker. Questo è un compromesso che si è deciso di mantenere fin dall’inizio del progetto, cioè
si è voluta creare un’esperienza inusuale in cui il viaggio del gruppo attraverso un ambiente
intimidatorio e imponderabile fosse anche rappresentazione evidente di un viaggio interiore e
profondo del protagonista. Ci sono 31 location, riprese in grotta, esterni notte nel bosco ecc. Tutte
le location sono in montagna, alcune zone difficilmente raggiungibili. Abbiamo impiegato circa 1
mese e mezzo per trovare tutte le location appropriate; d’altronde Korin è un film che si basa
sulla bellezza dei luoghi: una bellezza malinconica, spaventosa, come quella dei monti della
Lunigiana, i fiumi, i ruscelli, gli interni delle grotte … è un film molto visivo.
- Come avete organizzato la produzione e quali canali avete usato per trovare
finanziamenti?
La natura del progetto è del tutto fuori dagli schemi sia della produzione ufficiale che di quella
lowbudget. Già il film d’avventura in sè è un genere ormai abbandonato in Italia e, se a ciò
aggiungiamo lo spirito più intimo, il risultato è un progetto tanto affascinante quanto inusuale. La
prima scrittura risale a circa tre anni fa. Da allora tante cose si sono susseguite tra finanziatori
privati, varie Film Commission ed Enti Pubblici. Per definire un punto fisso nella produzione ci siamo
mossi in tre modi differenti: il primo è stato la ricerca di finanziatori privati (allo stato attuale tre),
il secondo è stato appoggiarsi a contratti di tipo The coproducers, che permettessero di abbattere il
budget attraverso la compartecipazione in proprietà del film, ultimo la vendita di quote a prezzo
variabile attraverso il sistema di crowdfunding per completare la cifra richiesta dal piano economico
per sostenere il cashflow.
- Perchè avete deciso di sfruttare il sistema di “produzionidalbasso”? Quali sono le vostre
opinioni in merito a questo sistema?
Siamo presenti sia su Produzioni dal basso che su Indiegogo e da questi link è possibile dare il
proprio sostegno al film. Il crowdfunding è un sistema che permette contemporaneamente di trovare
finanziatori ad un progetto, fare pubblicità e valutare il livello di interessamento da parte del
pubblico. Data la natura lowbudget del film, avere a disposizione più fondi permette di migliorare
le possibilità tecniche e artistiche. Inoltre il coinvolgere un eventuale pubblico alla realizzazione
permette di “vendere” a priori la visibilità del film. Nel nostro caso abbiamo deciso di mettere a
disposizione 750 quote da 20 euro per un totale di 15.000 euro. A seconda delle quote comprate,
l’acquirente avrà a disposizione diversi tipi di gadget, dal DVD/Blueray, alla partecipazione alle
riprese, ai biglietti per la prima. L’aspetto interessante è che comunque grazie a questi tipi
di partecipazione si parla del progetto e si vende l’idea del film. Trovo che il concetto
di crowdfunding sia veramente interessante, perchè la vendibilità di un progetto oggigiorno passa
anche, e quasi soprattutto, dai canali Internet. Certo, non è facile farsi conoscere ed
avere credibilità, per questo nel nostro caso abbiamo realizzato diversi prodotti promozionali in
italiano e inglese per rendere più completa l’immagine del film. Per spiegare il progetto in modo più
efficace abbiamo anche girato un promo di 10 minuti dal titolo KORIN – How an adventure comes
to life, dove interviste e backstage della spiegano come abbiamo intrapreso questo viaggio.
- A lavorazione ultimata quali sono i vostri obiettivi a livello distributivo e come verranno
attuati?
Abbiamo alcune case di distribuzione interessate al progetto che valuteremo solo a film finito.
Naturalmente abbiamo stilato un preciso piano promozionale sia durante che dopo la produzione:
dal sito web www.korinthemovie.com con le sezioni dedicate al cast artistico (che conta
l’importante partecipazione di Ivano Marescotti) e tecnico, foto di scena, trailer, storyboard,
informazioni sulla distribuzione, al blog korinfilm.blogspot.com aggiornato settimanalmente con
backstage, news e forum per gli utenti. Naturalmente non mancherà la pagina Facebook e Twitter, il
Canale Youtube aggiornato e la promozione su siti cinematografici. Seguiremo anche le scadenze dei
bandi secondo un programma di distribuzione festivaliera, per il quale il film parteciperà alle
selezioni e proiezioni laterali di numerosi festival.
Intervista ad Alberto Antonini, regista di
"Seguendo il sangue"
Un giovanissimo regista toscano con appena mille euro
realizza un lungometraggio con tutti i crismi della
professionalità, approdando al buio della sala
cinematografica.
E’ la storia, vera, di Alberto Antonini, ventisettenne di Fornello frazione di Lamporecchio, che
in Seguendo il sangue racconta di un uomo e una donna che s’incontrano di notte, divisi da un
muro d’incomunicabilità, la cui storia s’intreccia con quella di un popolare conduttore televisivo che
con il suo assistente progetta un sequestro. Il tema del film è quello della costante lotta tra
dovere e piacere, con calibrati echi freudiani. Il bassissimo costo del film è stato possibile grazie
alla collaborazione volontaria di attori e tecnici e all’uso di musica scricabile gratuitamente dalla
rete con la formula creative commons.
- Seguendo il sangue è costato solo mille euro, ma ho letto che non avete certo lesinato
nell’impegno: la lavorazione è durata quaranta giorni e la stesura della sceneggiatura ha
richiesto tre anni di lavoro…
Sì, il film è costato solo mille euro, ma escludendo il lavoro di tutto il team tecnico e degli attori, ci
tengo a precisare che nessuno ha potuto percepire un compenso. Del resto c’è da dire che le
intenzioni del film non miravano in alto, all’inizio non pensavamo nemmeno di riuscire a fare la
prima nel cinema La Perla di Empoli, dove poi l’abbiamo fatta. Mano a mano che andavamo avanti
tutti vedevamo che anche se lavoravamo con mezzi minimi, pur professionali, stava venendo fuori un
film interessante, che rispecchiava il senso claustrofobico e destabilizzante della sceneggiatura e
che affascinava prima di tutto noi stessi; penso che traspaia abbondantemente la passione,
l’impegno smodato, illimitato, senza restrizioni di ogni persona che ha lavorato nel film.
Personalmente ho impiegato tre anni per la scrittura della sceneggiatura, proprio per cercare di
curare ogni particolare, per non lasciare nulla al caso.
- Con quali attrezzature avete girato il film? Qual è
stato il modello produttivo? Quali criteri hai utilizzato
nella scelta degli interpreti?
Abbiamo girato con una Canon XHA1, per i bassi costi d’acquisto e la versatilità di utilizzo, anche
se ha una profondità di campo molto larga. Il modello produttivo al quale mi sono ispirato è
certamente quello del cinema professionale, ovvero cercare di fare il massimo in ripresa, come ad
esempio l’audio in presa diretta, e dedicarle tantissimo spazio, infatti per 80 minuti di film, abbiamo
fatto quaranta giorni di lavorazione a ritmi vertiginosi di 8/10 ore il giorno; sono poi passato alla fase
di montaggio dove avevo moltissimo materiale, infatti posso rivelare un piccolo segreto, ovvero:
abbiamo girato due finali diversi e solo poi in montaggio ho deciso di prendere quello che si vede nel
film! Anche se un piccolo frammento di quella scena è stato comunque utilizzato. Passati due mesi
per il montaggio, mi sono buttato a capo fitto nella post produzione, prima per il colorist con Luca
Bagnoli, che ha seguito anche tutta la parte audio, e poi ho continuato con quella VFX, immancabile
e imprescindibile nel film indipendente No-budget.
Ho fatto un piccolo casting tra alcuni conoscenti e amici, alla fine sono riuscito a scovare Matteo
Niccoli, a parer mio una vera rivelazione, protagonista del film. Infatti mi sento di definirlo una
scommessa vinta; poi come non ricordare Francesco Micieli, alter ego del protagonista, un vero
mattatore della scena; infine Vaughan Knox che è un attore poliedrico e calzava a pennello con la
parte assegnategli.
- Hai definito il tuo film un psycho-thriller…
In quanto il film ha al suo interno due storie, che corrono su due binari paralleli, e fanno si che il
pathos aumenti di scena in scena; l’ambiente psicologico mi appartiene molto e sono molto
interessato a scandagliare le emozioni reali che le persone possano provare, le loro difficoltà, le loro
ansie… amo molto poi il genere thriller, noir e mi piace dipingere le mie storie psicologiche di una
tinta forte, proprio come questi due generi cinematografici.
- Nel cast avete coinvolto anche un importante attore del cinema indipendente britannico,
Vaughn Knox, com’è nata questa collaborazione?
E’ nata nel modo più fortuito possibile, Vaughan è venuto in vacanza in Toscana e in modo molto
rocambolesco ci siamo conosciuti… gli ho proposto la sceneggiatura e lui ne è rimasto folgorato…
- Mi sembra di poter dire che il tuo è un film declinato in chiave surreale e visionaria,
lontano da mimetismi realisti. Hai avuto qualche modello cui ispirarti?
Ovviamente il mood di Seguendo il Sangue, si rifà ai canoni estetici di Lynch, Cronenberg… ma
credo che addentrandosi meglio nel film ci si allontana, penso non poco, da Lynch, mentre ci si
avvicina molto di più al Fassbinder di Un anno con tredici lune e all’Oliver Stone di Assassini Nati;
ma il film ha anche una costruzione dei personaggi molto vicina ai film di francesi anni ’70, alla
Truffaut o alla Louis Malle di Fuoco fatuo.
- Il tuo film si caratterizza anche per essere stato girato in Toscana, nell’empolese…
Quanto è importante questa ambientazione?
L’ambientazione toscana oltre ad essere importante per una questione di budget, visto che l’intero
cast è toscano… ma è fondamentale proprio per dare l’aspetto del reale al film. Può sembrare un
controsenso per un film visionario, ma è un aspetto importante, in quanto ci fa capire che tutto
quello che succede al personaggio è reale, che tutti noi possiamo nostro malgrado affrontare nella
vita la lotta tra due parti di noi, una che ci spinge verso la vita, la passione, il sangue… l’altra che
ci frena, i genitori, la morale, la volontà degli altri. E credo proprio che l’ambientazione onirica sia la
strada migliore per esprimere questa lotta e mostrare nella loro totalità i personaggi della storia.
- Quale sarà il futuro distributivo del film? E’ prevista un’uscita in home-video o qualche
passaggio televisivo?
Questo è un argomento oscuro, per adesso andiamo avanti con proiezioni in circoli di cinema, in giro
per l’Italia; ancora non abbiamo avuto proposte per un uscita home video, ma chissà, domani è un
altro giorno…
Vetro
“Il film sembra inconsapevolmente farci ripensare all’esistenza del cosiddetto ‘tetto di
cristallo’. Espressione elegante per dire che le donne arrivano, nella loro carriera
lavorativa, in un punto praticamente invisibile (di cristallo appunto) ma invalicabile, oltre
al quale non riescono ad andare …” Simonetta Botti, durante la Tavola delle donne sulla
violenza e sulla sicurezza nella città.
Non è facile realizzare progetti che nascono innanzitutto da personali visioni oniriche, senza poter
contare su di un sostegno produttivo ingente. Bisogna crederci e comunicarlo alla gente; così
fa Vetro, che è riuscito a venire alla luce in totale indipendenza grazie al sostegno partecipato
di produzionidalbasso. Il cortometraggio cresce e si libera dalla propria campana dopo oltre un
anno di lavoro, portato avanti grazie alla dedizione di persone che hanno creduto nella piccola
creatura e messo a disposizione energie e competenze tecniche: in primis la sua genitrice Valentina
Arena, poi i bravi interpreti Paola Giancaterino e Paolo Fronticelli, per finire con la direzione
della fotografia a cura di Marco Ferri e la musica realizzata da Francesca Badalini con il supporto
di Articolture.
Una nota distorta, una voce fuori dal coro, un video che vuole essere pensiero, perché Vetro non è
classificabile in un genere, se non in quello emotivo delle storie che, per quanto nate da sogni
individuali, raggiungono il pubblico e riescono a parlare delle nostre paure segrete, di certe fragilità
che si possono a malapena spiegare.
La propria casa è la cosa più intima che ciascuno di noi possieda. Apri la porta che divide il te stesso
dal mondo esterno e vedi dei binari della ferrovia che arrivano fino in camera tua, vorresti capire
perché stai diventando un cantiere in cui chiunque può entrare, perché tutti sono autorizzati a farlo
senza il tuo permesso, ma nessuno ti concede il privilegio di avere voce in capitolo. Questa la
potente immagine che la giovane videomaker chiede di imprimere nella mente, attraverso la storia di
una giovane donna svegliata bruscamente dal proprio sonno (o sogno?) trasfigura un mondo
aggressivo che ci vorrebbe fuori: niente sfera privata, se essa non rientra nei propri piani regolatori,
accesso vietato agli outsider, ai deboli, ai “non addetti ai lavori”.
Una storia al femminile ricca di intuizioni visive, che mette in primo piano la violenza di ogni
tipo (specialmente psicologica e sociale) di cui è ancora vittima prediletta la donna. Non significa
appellarsi al femminismo il voler far notare quanto debba premere alla civiltà questa riflessione,
perché essa è solo punta di quell’iceberg fatto di soprusi giornalieri transgender, ai quali si
risponde spesso solo con un silenzio, a volte imbarazzato, ma anche ignorante, sempre subito, in
ogni caso semplicemente impotente. La puntualità della narrazione contenuta in Vetro arriva a far
emergere lo stridere della vita quotidiana con i contesti vari di una società disumanizzata, che
impone diktat assurdi: siano questi quelli della burocrazia che parla una lingua diversa dalla nostra,
siano le logiche di potere nascoste in ogni ambiente lavorativo o le dipendenze conflittuali che
reggono situazioni familiari. Guardando il mondo attraverso Vetro ci ricorda che la violenza ha un
unico volto.
Impostazione teatrale e respiro poetico da video-arte si incontrano in questo film curatissimo e
sottile, il commento musicale è delicato ma dal significato nefasto, così come l’effetto suggestivo di
quel pezzettino di vetro insanguinato nella mano della protagonista, che passa da ricordo affettuoso
ed infantile ad arma tagliente.
Il cortometraggio è stato selezionato al Premio Regione Emilia Romagna (Sassuolo), al Festival
International Génération Court (Francia), ha ricevuto una menzione d’onore al Denver Underground
Film Festival (Denver) e fa parte della selezione del Lewiston – Auburn Film Festival (Maine), ma se
voleste acquistarne una copia fornendo il vostro contributo è possibile farlo sempre
da http://www.produzionidalbasso.com/pdb_440.html
Fame di amore
Amore e cibo spesso vanno di pari passo. Forse perché occupano un ruolo importante e concentrico
nella nostra società; forse perché il ricordo della fame è ancora vivo nelle vecchie generazioni, come
rimane vivido il tabù legato della sessualità.
Quindi poter disporre di cibo in abbondanza, ogni qualvolta lo si desideri, o venire costantemente
bombardati da immagini sessuali, ricollegano questi due aspetti, che sono anche ciò che più ci lega
al mondo animale. Come gli animali ci nutriamo e ci riproduciamo, cambia il modo in cui lo facciamo,
aggiungendo convenzioni non sempre positive.
E di amore e cibo parla il mediometraggio di Rocco Cosentino.
Il fulcro della storia verte su di un incontro casuale, nato da due abbandoni (la moglie defunta del
professore e il giovane che decide di troncare la relazione con la protagonista), un incontro sancito
da un dolce alla crema: così, ogni istante di Fame di amore viene scandito attraverso il cibo; dalla
colazione alla cena, attraverso il ritrovo casuale e poi romantico dei due protagonisti, che iniziano a
vivere una storia in età adulta, mettendosi in gioco per la seconda volta.
Eppure il finale trascende ogni allusione metaforica al cibo, e la fame di amore diviene un fame
fisica, una concessione totale all’altro. Ricorda la canzone di De Andrè Ballata dell’amore cieco,
quando lei chiede a lui – dopo successivi azzardi – di tagliarsi “dai polsi le quattro vene” per
dimostrargli il suo amore. In Fame di amore è invece lui, a chiederle di mangiarlo, per concedersi
completamente e farle comprendere il suo amore, nell’atto finale di unione tra cibo e
sesso.
Così indugia Cosentino sul pasticcio di carne nella cucina della vorace protagonista, che ha
sublimato il suo amore viscerale con un gesto cannibale, suggerendoci così quella Helena Bonham
Carter, musa ispiratrice e carnivora senza pietà, che prima di lei nella cucina di Sweeney Todd aveva
reso il pasticcio di carne umana una macabra soluzione alternativa al rapporto passionale col cibo.
Young Love Hurts
Diciamolo subito, Young Love Hurts di Naicol Zeis non è certo la serie meglio scritta o meglio
recitata che si possa trovare sul web, ma non per questo è da scartare. Anzi. Innanzitutto si basa su
una grossa dose di autoironia, e non è cosa da poco, visto il proliferare incontrollato nel panorama
attuale di prodotti con enormi ambizioni e grandi spiegamenti di mezzi ma pochissima qualità. Ed è
un discorso che si applica a partire dagli stessi attori, che pur essendo non professionisti risultano
comunque molto simpatici, tanto che non è difficile affezionarvisi in breve tempo, proprio per il
modo in cui riescono a mettersi in gioco con totale onestà.
La storia ruota attorno alle tragicomiche vicende di una giovane coppia che viene sempre interrotta
proprio “sul più bello”, e dei loro tanti amici. A rendere interessanti gli episodi contribuiscono in
larga parte i personaggi di contorno, comici ma soprattutto grotteschi, ben studiati e in grado di
fare la differenza. Gli attori, come dicevamo, sembrano scelti proprio per la
loro credibilità nell’interpretare persone comuni, e questo è sicuramente un punto a favore delle
possibilità di immedesimazione: non sono certo eccessivamente belli ne esageratamente impostati,
ma “normali” e genuini proprio come i personaggi che interpretano. D’altronde tutta la serie
sembra nascere con questa filosofia: non vengono certamente affrontate tematiche al limite della
realtà, né si trovano scenari da mille e una notte o colpi di scena da teatro dell’assurdo, ma è proprio
questa la forza della narrazione; con uno sguardo leggero, ma attento, riesce a descrivere molto
bene una realtà, decisamente italiana, che non è troppo diversa da quella di ognuno di noi.
L’ambientazione è siciliana, ma è una rappresentazione del tutto libera da pregiudizi, e se non
fosse per il leggero accento degli attori sarebbe veramente difficile capire in che angolo di Italia
sono state fatte le riprese; l’idea infatti sembra essere quella di dare un respiro “italiano” alla
narrazione, senza spingere eccessivamente sul localismo e tantomeno sulla sicilianità. Da un punto
di vista più tecnico, se consideriamo la straordinaria diffusione che hanno avuto le reflex digitali
negli ultimi anni, il livello medio che ci si aspetta – quasi fosse uno standard – per le produzioni di
questo tipo è decisamente superiore a quel che si può vedere in Young Love Hurts, ma, ancora una
volta, non si tratta necessariamente di un difetto. La regia è infatti leggera, in gran parte basata su
macchine a mano, e non indugia in tecnicismi fini a se stessi, regalando comunque momenti di
grande impatto, lasciando agli attori il centro dell’attenzione.
D’altra parte non mancano alcuni particolari, come qualche “inglesismo” di troppo nei nomi dei
personaggi, che denunciano un certo provincialismo, ma sono difettucci che tutto sommato
contribuiscono a rendere più simpatico il contesto, e a ben vedere rientrano decisamente in quella
che è la filosofia produttiva, quel non prendersi troppo sul serio che è il maggior pregio di
questa opera.
Insomma, a patto di riuscire a mettersi davanti allo schermo senza aspettative esagerate o pregiudizi
da intenditore, Young Love Hurts può regalare momenti di piacevole intrattenimento a chiunque
cerchi una serie interessante e non troppo omologata.
Skin
Difficile trattare un tema abusato con originalità, tuttavia è quello che ha cercato di fare il giovane
autore di Skin, confezionando un cortometraggio ben costruito, nonostante lo scarso budget.
Un giovane veronese, biecamente razzista, un giorno si risveglia con la pelle nera, mettendosi
letteralmente nei panni di coloro che fino a ventiquattro ore prima erano oggetto della sua stupida
violenza, non solo verbale. Al mattino, si guarda allo specchio e scopre la “mutazione”, esattamente
come succede in un dimenticato film diretto nel 1970 da Melvin Van Peebles, L’uomo
caffelatte (Watermelon Man), storia di un assicuratore bianco, razzista, che da soggetto diventa
oggetto dei più vieti pregiudizi.
Le analogie tra Skin e L’uomo caffelatte non si fermano qui, ma esulano dal nostro precipuo
interesse, perché quello che ci preme rilevare è l’indubbia capacità di Alessandro Stefani di
condurre in porto l’arco narrativo che deflagra nel colpo di scena finale, quello sì originale. Aiutato,
in questo, da interpreti non professionisti ma credibili: paradossalmente il meno credibile è il vicino
di casa insistente, che tradisce un’impostazione teatrale, poco naturalistica. A Stefani soprattutto
va riconosciuta l’abilità di tenere alto il “tono” del racconto, senza scadere nel
bozzetto, sfrondando da eccessivi orpelli l’architettura visiva, in bilico tra il registro grottesco e
quello più propriamente drammatico.
Alla fine il film ci colpisce come un pugno in pieno volto, raggiungendo compiutamente l’obiettivo
di interpellare la nostra coscienza; tanto gli “altri”, prima o poi, siamo noi!
Sony Nex-VG20, la palmare compatta che
simula il 35mm
Per quanto si sia sempre sostenuta, dal nostro punto di vista, la sperimentazione nella simulazione
del 35mm, sin dai tempi dei primissimi prototipi di adattatori per ottiche - forse alcuni di voi si
ricorderanno che il tutto nacque in Belgio, quando qualcuno decise di collegare la videocamera
digitale al prisma di una Nikon F-5, così da filmare l’immagine prodotta dall’ottica fotografica sul
vetro di contrasto del visore, nda - fino ad arrivare alla rivelazione Red One, passando per la Canon
5D Mark II, non si è mai dato troppo peso ai vari tentativi, da parte dei principali “brand”
produttori di videocamere, di realizzare la tanto agognata camera ibrida, unione perfetta dei pregi di
una fotocamera con quelli di una videocamera.
Le varie Panasonic AF-101 e Sony NEX-FS100 non sono state particolarmente soddisfacenti, per
svariati motivi. Al loro confronto, persino la 5D ci pareva superiore, per quanto sia risaputo essere
una macchina scomoda e limitata a causa della mancanza di molte meccaniche, tipiche delle
videocamere, che ne consentirebbero un utilizzo ottimale.
Oggi c’è Canon C300. Promettente, ben studiata, efficace, ma anche costosa. Molto costosa. E su
questo dettaglio si fatica a scendere a compromessi, soprattutto per lavori di basso rendimento
economica.
Il problema di fondo infatti è che, al giorno d’oggi, anche per
quei lavori più “commerciali” (affettuosamente
definiti marchette) viene richiesta una certa pasta
nell’immagine, una certa profondità di campo che non può
che ricordare le tipicità del 35mm. Forse la 5D potrebbe
essere la soluzione ottimale. Tuttavia, rimane discutibile la
professionalità, agli occhi del cliente meno ferrato in
materia, di chi si presenta per il lavoro con un macchina
fotografica, sebbene siamo tutti coscienti della validità del
mezzo in questione; tutto ciò purtroppo crea talvolta un
cortocircuito senza possibilità di interruzione, per il quale
anche con la compatta trovata sotto l’albero ci si sente professionisti dell’immagine in movimento.
Non ci pare che questa diffusa quanto errata visione del videomaker possa considerarsi risolta, così
come il conflitto tecnico sulle funzionalità del modello ibrido. Nel momento in cui un produttore
lancerà sul mercato una vera macchina ibrida, probabilmente farà implodere tutti i
concorrenti; tuttavia, recentemente, Sony ha proposto una possibile alternativa: si tratta della NEXVG20 (in principio era la VG10, ma qui tratteremo del modello aggiornato).
La Sony NEX-VG20 è una camera molto semplice: contesa in una fascia di confine entry-level
prosumer (non è ancora una professionale, ma non è nemmeno più un’amatoriale), offre ottiche
intercambiabili su attacco Sony E-mount il quale, tramite appositi anelli adattatori piuttosto
economici, può ospitare qualunque altra tipologia di ottica. Monta un unico sensore HD Exmor da
16,1 megapixel APS-C (dalle dimensioni di 23,5 per 15,6 mm) e registra immagini in formato
AVCHD 1920×1080 a 24 Mbps, memorizzandole su scheda SD.
Lavora sia a 25p che a 50p, registrando immagini in slow motion molto fluide (testate).
L’ottica in dotazione, un 18-200 mm f 3.5-6.3, non eccelle in luminosità ma è stabilizzata
ottimamente, anche al massimo dello zoom, con risultati ammirevoli; è inoltre completata dalla
funzione steady-shot della camera stessa.
L’ingresso audio presente è il classico mini-jack (il medesimo attacco che casa Sony propone
su quasi tutte le sue camere) o, in alternativa, si può utilizzare il microfono integrato che offre la
possibilità di catturare l’audio in stereo o direttamente su 5 canali per il Dolby 5.1.
La sua migliore applicazione è, a parer nostro, per lavori in cui sia necessaria una camera piccola,
leggera e maneggevole, ma in grado di fornire immagini con la profondità di campo delle
fotocamere.
Naturalmente ha anche diversi limiti e, a vederla, non sembra affatto una camera professionale (ed,
in effetti, la scelta di mercato sancisce che non lo sia). A livello di post-produzione, ha dei problemi
di compatibilità delle clip con Final Cut Pro 6, ma funziona perfettamente con le versioni
successive ed, in particolare, con Final Cut X.
Come le fotocamere, non possiede il servo-zoom, ma basta
un po’ di accortezza e si riesce a zoomare anche a mano in
fase di registrazione, senza avere scatti o tremolii.
Ergonomicamente è funzionale, leggera e maneggevole. La si può sorreggere molto bene in
varie posizioni, anche per diverso tempo (sebbene questo dipenda anche dalla personale resistenza
fisica dell’operatore). Contemporaneamente, si avverte la mancanza del tasto REC sulla maniglia
superiore e il tasto Photo (che scatta un’istantanea della ripresa) è in una brutta posizione, dove si
rischia di premerlo involontariamente.
Per lavori di piccolo calibro, è una proposta valida a sostituire una Canon 7D, offrendo le comodità
dell’avere una vera videocamera tra le mani, e non solo una fotocamera “che fa anche video”.
Probabilmente per lavori ad intento cinematografico, non è il materiale più indicato.
Consideriamo, inoltre, che il costo è abbordabilissimo: 2.300 euro IVA inclusa.
Per concludere, per quanto si è potuto testare per Indipendentidalcinema.it, pollice in su per
questa piccola videocamera, senza grosse pretese, che può dare soddisfazioni anche ai più diffidenti.
Il ritorno del Mondo Movie:
sfacciatamente "Made in Italy"
Avvolto in una coltre di denso mistero e sfidando la capacità
del pubblico di sostenere e gestire prima di tutto le
aspettative, e in secondo luogo l’efferatezza di ciò che dalle
prime immagini si intuisce che verrà offerto, Made in
Italy si sviscera da qualche tempo con il suo teaser-trailer
sconvolgente nello sharing degli utenti della rete più attenti.
Un film questo che richiama e anticipa la revisione di un genere di cinquantanni più vecchio,
il Mondo Movie: pioneri delle storie frammentate con intenti parzialmente documentaristici (o falso
documentaristici), Cavara, Jacopetti e Prosperi. Mondo Cane il loro prodotto di punta, ma come non
ricordare anche Cannibal Holocaust che da questo filone, relativamente ristretto nella produzione e
limitato ai decenni Sessanta, Settanta e Ottanta, ha attinto a piene mani. Questo shockumentary in
quegli anni suscitò quel dovuto scalpore che accompagnava le novità più provocatorie e sopra le
righe.
Ai giorni nostri, tuttavia, la scelta di ripescare un filone che attinge da un passato nazionale, viene
inserito nel cinema di genere dividendo il pubblico tra diffidenti della provocazione gratuita
dell’immagine in movimento (com’è per gli snuff movie) e sostenitori di una novità con solide basi
cinematografiche.
Abbiamo approfittato della diffusione virale del trailer di Made in Italy e di questa potenziale
divisione, per parlare assieme all’autore (la cui identità per ragioni di sicurezza e di promozione
rimarrà segreta) della crudezza delle immagini, degli intenti dell’opera, dell’iniziativa insolita
promossa da Bad House Film e del genere del Mondo Movie: a metà tra un lavoro di denuncia e un
mockumentary ad intenti provocatori e affilati.
- Sfidando la risonanza e l’opinione pubblica Bad House Film produce un mockumentary
senza censure: come nasce questa realtà produttiva e a cosa aspira con Made in Italy?
Siamo tutti professionisti che lavorano per cinema e televisione. Di solito ci occupiamo di produzioni
più “digeribili” di Made in Italy. Siamo abituati a mentire o, se preferisce, a smussare spigoli. La Bad
House? Ne avevamo viste troppe e forse era arrivato il tempo di osare. Già, “OSARE”. Perché
raccontare la verità è molto rischioso, coi tempi che corrono. Un nostro collaboratore l’ha appena
appreso a sue spese, in un modo davvero spiacevole.
Per rispondere alla sua domanda come quelli che parlano bene, col nostro film aspiriamo a fare
l’anatomia della distruttività italiana.
Del “Made in Italy” ogni italiano dovrebbe andar fiero. Dal dopoguerra ad oggi, è stato sinonimo di
qualità, eleganza… Ma molti dei nostri fiori all’occhiello sono appassiti e alcuni, com’è scritto sul sito
ufficiale del film, sono diventati piante carnivore. C’è addirittura chi è convinto che anche
l’Apocalisse sia un prodotto italiano…
Io sono il promotore del progetto e il regista. Per ragioni di sicurezza dovrò rimanere in incognito.
Può riferirsi a me chiamandomi Jephta.
- Dunque Jephta, da quali intenzioni è stata scatenata
la scelta di riprendere un genere come il
Mondo Movie, che negli anni Sessanta ha stimolato
opinioni contrastanti e contemporaneamente si è
dimostrato essere un esempio di libertà espressiva
portata agli estremi?
In tv e sul web oggi è possibile assistere a ogni genere di efferatezza. Perciò forse le può apparire
insensato rispolverare il genere inventato da Jacopetti. Ma i primi Mondo Movie non erano solo un
insulso carosello di immagini shock. Erano intrisi di innovazione, coraggio e, come lei ha
sottolineato, libertà espressiva. Le sembrerà un paradosso, ma ai primi film del filone riconosco
anche una specie di candore, una sorta di innocenza ancestrale.
Sono un autore a cui piace parlare di contaminazioni più che di generi. Anche da spettatore ho
sempre diffidato delle catalogazioni. Dovendo proprio fare una classificazione, tolga ai Mondo Movie
i sapori erotici e apolidi. Aggiunga una dose considerevole di tinte forti e suspense. Otterrà Made
in Italy.
- Quale rapporto è in corso con la distribuzione?
Per l’Italia, siamo in contatto con due realtà distributive.
La campagna di comunicazione internazionale è solo all’inizio ma sta già arrivando qualche proposta
anche dall’estero.
- Parliamo ora dei contenuti del film: sappiamo che per scelta state mantenendo segreto il
progetto, ma dal teaser-trailer si intuisce una vicenda nera di omicidi efferati, traffico di
organi, ristorazione clandestina cannibale e mercato di snuff movie. In altre parole, una
serie di temi che prevedono un film dalle tinte forti e probabilmente difficile da
sopportare. Quali altre anticipazioni potete fornirci?
Quella sfiorata dal teaser è solo una delle storie di Made in Italy. Non è né la spina dorsale del film,
né la tessera più nera del mosaico. Come le spiegavo, protagonista assoluta è la distruttività
italiana. Ha forme che prima di questa esperienza avrei trovato impensabili e si muove fra cronaca,
storia, scienza e misticismo.
Il nostro è un film molto intenso, duro come una bastonata.
Al montaggio, anche per noi è stato difficile sostenere la
visione di certe sequenze. Non vorrei scadere nella retorica
ma si è trattata di un’esperienza umana molto forte, è come
maneggiare nitroglicerina. Per non parlare delle
intimidazioni che stiamo subendo…
- E’ chiaro che la scelta di realizzare il mockumentary fa leva sul sottile confine di
percezione tra realtà e finzione: come pensate il pubblico si relazionerà con queste storie?
Cercate un effetto di film di genere o sperate di poter andare oltre?
Per sua natura, Made in Italy non è un film accondiscendente. Ma è stato realizzato con sincerità e
partecipazione emotiva. Credo che questo gli abbia conferito una forza che prescinde le regole del
buon marketing. Siamo perciò moderatamente ottimisti.
Ci rimane però un dilemma: gli spettatori accetteranno l’inaccettabile?
La direzione dell'inganno
Una storia di finzione che potrebbe essere un fatto di cronaca preso da un qualsiasi telegiornale.
Il corto di Pier Paolo Paganelli racconta un dramma della gelosia. Il protagonista scopre la tresca
tra sua moglie e un conoscente scatenando in lui la furia omicida. Decide di inscenare un caso
tipico di omicidio/suicidio, per far cadere la colpa sull’amante. L’inganno del titolo è proprio questo:
inscenare un raptus omicida per nascondere un piano accurato e premeditato, sbarazzandosi delle
persone che lo hanno tradito negli ambiti più delicati e importanti, la famiglia e l’amore.
La direzione dell’inganno (finalista al Nonantola Film Festival 2008) non segue la linea temporale,
inizia con un flashforward partendo quindi dalla fine della vicenda. Uno sparo, del sangue, un
uomo che pulisce le tracce e scappa. Lo stesso uomo lo ritroviamo nell’immagine successiva, dove ci
ricollochiamo all’inizio del racconto. I due parlano, scoprono di avere una donna in comune, moglie
per l’assassino-amante per la vittima. L’uomo tradito regala una chiave al conoscente traditore,
dichiarando con ironia che è un regalo da parte della donna contesa. Flashback e scopriamo che la
donna giace in una cassa chiusa con un lucchetto, vi viene posta dopo un brutale sparo in viso,
sfregio totale di un amore finito.
Ecco che le tre storie personali si intrecciano, si avvinghiano e non riescono più a districarsi. In
mezzo a spari e sangue viene risolto il conflitto in modo definitivo e fatale, come a cercare una
scappatoia alla giustizia terrena. Il protagonista si libera del peso della sua sofferenza eliminando
fisicamente la causa; un tema attuale che dimostra quanto ai giorni nostri sia sempre più
difficilmente gestibile la separazione da chi si ama o il suo rifiuto, la delusione, l’umiliazione.
"Native"di John Real dal 9 marzo al cinema
Uscirà il 9 marzo nelle sale, Native secondo lungometraggio del
giovanissimo John Real. Dal sito della casa di
distribuzione Whiterose apprendiamo gli elementi della trama.
“Michela è una giovane dottoressa. Dopo tanti anni lontana dal suo
paese natale, decide di tornare per accettare quel posto da direttrice
tanto sognato. Dovrà però fare i conti con il suo passato e con
‘qualcosa’ che la tiene legata ad esso e cerca di trascinarla nel
baratro. Scopre di essere perseguitata da una ‘Nativa’, una donna
affascinante con poteri soprannaturali. Chi fra le persone che la
circondano non è quello che sembra?”. Poche note che lasciano
pensare ad un thriller fantastico, a un horror costruito sulla
suspense, non privo di una certa originalità. Nei credits, spicca
il nome del musicista Marco Werba, uno dei migliori compositori italiani di colonne sonore, la cui
ricca filmografia parte dal 1988, l’anno in cui lavora a Zoo di Cristina Comencini. Per saperne di più,
abbiamo intervistato il regista John Real, al secolo Giovanni Marzagalli, classe 1988, già autore
di Ombre di realtà, suo esordio nel lungometraggio.
- Il 9 marzo uscirà nelle sale il tuo nuovo film, Native, un horror che ha già ricevuto diversi
premi e riconoscimenti. Ti aspettavi questa accoglienza?
Native è un thriller che ha stupito un pò tutti già dalla fase di realizzazione. E’ una storia intricante e
ad essere sincero non mi aspettavo che fosse accolto in Italia sia dai festival che dalla
distribuzione… già solo solo per il genere poco trattato… Quando abbiamo cominciato a
girare Native eravamo spinti dalla fretta di cominciare. In realtà tutto era stato progettato per
distribuire il prodotto all’estero e per partecipare a due festival di Los Angeles molto importanti,
credevamo di più nell’esportazione di questo prodotto fuori che in Italia…
- Il cast è composto in prevalenza da giovani attori siciliani, come li hai scelti?
La ricerca del cast è cominciata 2 mesi prima dell’inizio delle riprese. Io e il produttore Emanuele
Leone, abbiamo fatto diversi casting… Considerando che è una storia girata sull’Etna trovo che sia
una bella sfida abituare il pubblico ad ascoltare un film con la cadenza del luogo. In questo caso
alcuni attori hanno una cadenza Siciliana, e ne sono contento… per la prima volta sentiremo la
cadenza siciliana in un film paranormale e non di mafia…
- Tra le collaborazioni artistiche, spicca quella del maestro Marco Werba, già autore della
colonna sonora del film di Argento Giallo e del cantautore Franco Simone. Come ti sei
trovato a lavorare con loro?
Fu Marco Werba che mi contattò su internet… Abbiamo parlato un po’ e già da subito capì che
eravamo in perfetta sintonia con il genere musicale che sposava quest’opera. Ho parlato molto con
Marco sul genere di musica che volevo adattare a questo film, e lui è riuscito con estrema sensibilità
a cogliere quello che è l’essenza del film…
- Dal trailer distribuito in rete, si evince che il tuo è un film che ha tutti gli ingredienti
propri del “genere”, ingredienti in grado di avvincere ed emozionare lo spettatore; hai
delle fonti di ispirazione particolari?
A me piacciono le storie che si scoprono pian piano… Indizio dopo indizio… Native è un film che
genera suspance e quando meno te lo aspetti riesci a farti sobbalzare dalla sedia. I silenzi e le
soggettive a spalla creano nel film degli attimi di tensione molto forti. Abbiamo lavorato molto sulle
particolarità del suono distribuito nella sala per creare questo… Personalmente Native è un film che
è nato una sera durante una passeggiata sull’Etna. I boschi inquietanti e il clima notturno è stata la
fonte d’ispirazione principale che mi ha spinto a raccontare questa leggenda siciliana.
- Che tipo di produzione hai avuto alle spalle nel realizzare il film?
Native è un piccolo film… Ma posso dire di avere avuto uno dei produttori più promettenti e
coraggiosi che il cinema italiano può vantare in questo momento. Emanuele Leone è una persona
splendida e mi ha aiutato a superare qualsiasi genere di difficoltà che si è presentata sul set.
Nonostante il film sia un low budget, è un esperienza che ricordo con tranquillità e sicurezza. Il retro
di questo film nasconde tanti sacrifici… Siamo stati sempre in prima fila…ci siamo sempre fatti
coraggio l’un l’altro… E alla fine possiamo dire che Native sta uscendo al cinema il 9 marzo
2012.
- Quali modalità di distribuzione verranno adottrate per Native?
Il film è distribuito dalla Whiterose Pictures da Lorenzo Lombardi ed Eleonora Stagi. Sarà
in programmazione nei migliori multiplex italiani il 9 marzo 2012. E’ già prevista una distribuzione
all’estero di questo prodotto, ma non dirò nulla di più dettagliato per il momento…
Anche la paura è relativa
Anche la paura è relativa…così come i criteri per valutare la riuscita di un’opera indipendente, a
maggior ragione se alla base non è sostenuta da esperienze professionali. Ma è pur vero che spesso
si comincia così, e fortunatamente il canale Youtube è un ottimo contenitore di queste prove degli
inizi e rende giustizia demagogica anche ai dilettanti con qualche (forse buona) idea.
Ne potremmo dire tante su questo cortometraggio amatoriale firmato da Ivan Brusa: dalla pessima
idea di concedere tanta parte di scena alla resa attoriale seppur è deludente, agli effetti speciali
arrangiati alla bene e meglio; piuttosto che la strana considerazione del ritmo narrativo, che rischia
di arenarsi troppo in alcune scene non certo fondamentali. Potremmo dirlo se analizzassimo tutto
con lo stesso metro di misura, senza considerare che le opere non hanno tutte accesso alle
stesse risorse, dimostrando di non tenere in considerazione quella che si può interpretare come
una specie di “concorrenza sleale”.
L’idea di partenza c’è e, si sa che in assenza di altri mezzi, si può puntare solo su quella. Qui
addirittura il regista per la propria coppia di protagonisti inventa, ripescando dalla tradizione della
commedia tutta gag e scazzottate, un filone ripensato, e quindi parodiato, ad hoc, che si
completerebbe dei titoli Andiamo… li ammazziamo e torniamo e Andiamo… li ammazziamo e
torniamo/Dejavù.
Anche la paura è relativa, impregnato di humour nero, vede alle prese i cugini Sartana
(riconoscibile citazione del Sartana protagonista di Spaghetti Western) con degli zombie poco
affidabili nella loro funzione zombesca e vecchi inquietanti fantasmi-vampiri. Il cugino “buono”,
interpretato da Brusa stesso, deve con fatica divincolarsi tra gli impegni dettati dal compare
fannullone, le aspirazioni da latin-lover e il proprio dovere di “ammazza – vampiri”.
Il giovane Ivan Brusa & Co., riuniti sotto la fantomatica etichetta di Innovazione 2, definita “leader
cinema-mazzata”, sembra lottare giocosamente e a tutti i costi per affermare un esigenza di
espressione con il mezzo video; perciò da un po’ di tempo, tramite il suo canale xivanfumblesx,
propone sketch umoristici conditi dallo spirito goliardico e dal sarcasmo dell’appassionato di cinema,
che vedono spesso l’intervento dell’attore-feticcio Paolo Riva.
Come accade in questi casi il lavoro di Brusa cerca di tenersi in equilibrio, ballando sul filo sospeso
che separa il dilettante senza pretese o scopi dall’aspirante professionista, il web-invasore dal
creatore di immagini.