Ontologie “ecologiche” e sofisticate
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Ontologie “ecologiche” e sofisticate
Giovanni Iorio Giannoli * Ontologie “ecologiche” e sofisticate Rappresentazioni del mondo, secondo homo sapiens C’è una quantità straordinaria di enti, nel mondo nel quale viviamo, ai quali applichiamo etichette (cioè assegniamo dei nomi), senza sapere di cosa in effetti si tratti, o senza avere di questi enti la stessa condivisa opinione. Si prenda, per esempio, il termine “crisi”. È poco plausibile che oggi esista qualcuno che si azzardi a negare che stiamo vivendo un periodo di crisi; eppure, è abbastanza evidente che le anamnesi, le diagnosi, le prognosi e le terapie concernenti quel complesso fenomeno che noi tutti chiamiamo “crisi” sono le più disparate. La stessa fenomenologia della crisi non è affatto omogenea e uniforme, tra le diverse popolazioni e i diversi individui: percepiamo e subiamo aspetti eterogenei e difformi di questo fenomeno, a seconda della nostra condizione specifica, nel mondo che tutti abitiamo. Si potrebbe però sospettare che differenze di questo genere, nel percepire la crisi e nel darle una interpretazione, dipendano proprio dal fatto che si tratta di un fenomeno tipicamente sociale; è dunque in un certo senso banale che questo fenomeno si distribuisca e venga rappresentato in modo difforme, a seconda della collocazione sociale di chi ne subisce le conseguenze e ne propone una interpretazione. Prendiamo dunque in considerazione qualche ente di tipo fisico, che – plausibilmente – ci riguardi tutti allo stesso modo. Viene in mente, per esempio, un caso recente: l’entità misteriosa che (in modo indiretto) è stata oggetto del premio Nobel per la fisica nel 2011. La motivazione ufficiale così recitava: «per la scoperta dell’espansione accelerata dell’Universo, mediante osservazioni a grande distanza di supernove». Ebbene: nella letteratura specialistica (e nei mass media) questo premio è stato riferito sovente (in modo un po’ improprio) alla scoperta della cosiddetta “energia oscura”. In verità, i tre fisici premiati nel 2011 non hanno “scoperto” nulla di simile; per dirla in termini molto sommari, hanno piuttosto fornito una buona evidenza del fatto che – a distanze molto lontane – l’espansione dell’universo non sembra costante (come si pensava), ma sembra invece accelerare. Però, per l’appunto, il termine “energia oscura” è entrato ormai nel lessico ufficiale della cultura scientifica contemporanea; così capitò, parimenti, al termine “materia oscura”, introdotto nella stessa letteratura una ottantina di anni fa. Cosa siano la “energia oscura” e la “materia oscura “ (da cosa abbiano origine, come siano distribuite, da quali leggi siano regolate, come interagiscano con la materia ordinaria) non è dato ancora di sapere. Tuttavia, si tratta appunto di enti che – per il fatto stesso di essere studiati e discussi – appartengono a buon diritto all’ontologia della fisica della nostra era. Bisogna aggiungere che questa situazione un po’ imbarazzante (attribuire etichette ad enti che magari non esistono proprio, o che potrebbero essere un giorno rimossi dalla nostra ontologia) non è affatto nuova: si potrebbero ricordare i casi del “flogisto” (XVII secolo), del “calorico” e dell’“etere” (XVIII e XIX secolo). Più recentemente, si potrebbe ricordare la resistenza di Murray Gell-Mann ad ammettere che i quark – che gli valsero il Nobel, nel 1969 – esistano davvero (e non siano piuttosto enti puramente matematici, inesistenti come individui reali). Non che un atteggiamento di tipo agnostico – nei confronti degli enti (non direttamente osservabili) di cui tratta la fisica contemporanea – debba essere necessariamente condiviso e generalizzato; ma per segnalare che – anche nel mondo fisico, oltre che in quello sociale – il rapporto tra le parole e le cose è parecchio problematico. Si potrebbe in ogni caso pensare che questa situazione (imbarazzante, come ho detto, per una disciplina come la fisica, costitutivamente affidata alle «sensate esperienze» e alle «certe dimostrazioni») valga soltanto per territori lontani dalla nostra esperienza quotidiana; si potrebbe pensare che un regime del genere (per cui il discorso su ciò che esiste – l’ontologia – è connesso inestricabilmente al discorso sui metodi e sui criteri della conoscenza – l’epistemologia) valga 1 soltanto alla scala dei fenomeni più macroscopici dei quali tratta la scienza (l’astrofisica e la cosmologia), o alla scala dei fenomeni più microscopici (dei quali si occupa la fisica delle “particelle” e delle interazioni fondamentali)1. Purtroppo, le cose non stanno esattamente così. La stessa idea che esista una “materia oscura” è un dubbio che potrebbe venire a qualsiasi essere umano abbastanza curioso, che osservi di notte il cielo stellato: come mai le stelle non ci cadono addosso, se l’unica forza che ne regola i moti è di tipo attrattivo? Oppure, meglio: la massa dei corpi che vediamo nel cielo (insieme a ciò che sappiamo delle loro condizioni iniziali e delle leggi di moto) è in grado di garantire la stabilità del sistema? Dal 1933, gli astrofisici ritengono che – per garantire la stabilità degli ammassi stellari, per come noi la osserviamo – la materia ordinaria non sia sufficiente; per questo, ipotizzano che debba esserci qualcosa che essi chiamano convenzionalmente “materia oscura”. Dunque, quest’ultima si presenta – nella mente degli esseri umani – come un ingrediente apparentemente necessario, per dare conto di un fenomeno che è osservabile ad occhio nudo; sotto il profilo metodologico, non c’è molta differenza tra l’astrofisico che va in cerca della materia oscura e l’indigeno, esperto della foresta, che “vede” la preda (o il predatore) scrutando i segni lasciati sui rami o sul terreno. Per chi giudicasse improprio un accostamento del genere – tra “selvaggi” e scienziati – si può aggiungere questo: la cultura scientifica contemporanea ha proceduto a una revisione radicale del significato di termini tipici dell’esperienza ordinaria, come “distanza”, “durata”, “massa”, “contatto”, “vuoto”, “ambiente”, individuo”, eccetera. Non che questi nuovi significati – nella cultura scientifica contemporanea – siano laschi, opinabili, ambigui, fragili, utilizzabili a discrezione; tutt’altro. La cultura scientifica contemporanea precisa il significato dei termini, lo rende più stretto, lo riferisce a specifiche condizioni; tuttavia, lo rende al tempo stesso più lontano – il più delle volte – dal significato di senso comune. Di contro, c’è chi obietta che – nella esperienza ordinaria – una estrema sofisticazione nel precisare il significato dei termini non abbia rilievo. La ciabatta che giace sul mio tappeto resta infatti una banale ciabatta, in una certa posizione, quando devo giocare col mio cane, invitandolo a prenderla in bocca e avvicinarla ai miei piedi. Analogamente, per gli usi correnti, non è necessario interrogarsi sulla natura del fuoco, sul fenomeno biofisico delle scottature, o su altri aspetti della esperienza comune, quando si vuole comprendere il significato di asserti come «il fuoco scotta», «la neve è bianca», eccetera; è più che sufficiente afferrarne il contenuto semantico elementare. S’affaccia così l’impressione che il livello di raffinatezza di una certa ontologia sia legato grosso modo al suo uso: una ontologia elementare può essere il più delle volte adeguata, per un uso ordinario. Qui stiamo però utilizzando un lessico abbastanza vago, che rinvia in ultima analisi a una questione di grado (e che, dunque, andrebbe meglio specificato): “elementare”, “ordinario”, “raffinato”, “sofisticato”. Si può tentare di chiarire cosa s’intenda con questi termini, lavorando sul concetto di adeguatezza: cosa significa che una data ontologia è adeguata, rispetto al suo uso? Cosa significa, insomma, che il significato ordinario di termini quali “ciabatta”, “fuoco”, “neve” è più che sufficiente, rispetto all’uso corrente? Viene immediato pensare che domande di questo genere mettano capo a problemi di tipo adattativo. L’adeguatezza del linguaggio ordinario (e, prima ancora, del nostro apparato percettivo e di quello motorio) è presumibilmente il risultato di un lungo processo di selezione, che ha eliminato dal nostro “cespuglio evolutivo” tutti quei rami composti da individui incapaci di percepire, discernere, comprendere e comunicare (agendo poi nel modo opportuno) che il fuoco brucia, la neve è gelata, eccetera. Con riferimento alla storia delle idee, possiamo allora sospettare che l’evoluzione naturale abbia selezionato in homo sapiens un atteggiamento filosofico “spontaneo” (innato, implicito, non necessariamente oggetto di autoriflessione nei singoli individui) che corrisponde a ciò che noi oggi chiamiamo “realismo ingenuo”: tutti gli individui propensi a immaginare che il leone lì davanti fosse una mera costruzione della loro fantasia non sono riusciti probabilmente a riprodursi in maniera adeguata, garantendo una 1 M. Ferraris, Il mondo esterno, Bompiani, Milano 2001, p. 157 e sgg. 2 robusta progenie di analoghi “costruttivisti ingenui”2. Se le cose stessero effettivamente così (e si può sempre continuare a provare, esponendo carne fresca ai leoni), allora non costituirebbe più una questione di particolare rilevanza filosofica il fatto che gli esseri umani – negli usi comuni – continuino ancora oggi ad utilizzare efficacemente un apparato percettivo e motorio che in definitiva è probabilmente simile a quello tipico di homo abilis (un paio di milioni di anni fa); e che, ancora, essi continuino a condividere una ontologia di base, “ecologica”, non molto diversa da quella che si andò affermando nella cultura umana qualche decina di migliaia di anni fa. Resterebbe comunque il problema – questo sì un po’ più complicato – del rapporto che questa ontologia basilare intrattiene con quella – nettamente più evoluta – che oggi costituisce il tessuto della nostra cultura. Fatti “nudi” e fatti interpretati Assumiamo come premessa da non dimostrare che il lessico dell’enciclopedia contemporanea sia incomparabilmente più esteso e complesso, rispetto a quello – del tutto ipotetico – che potrebbe essere sufficiente a un generico Robinson Crusoe (in qualche tempo e in qualche luogo), per cavarsela nel suo ecosistema (altrettanto ipotetico, generico ed elementare). Se questo è il caso, l’ontologia “ecologica” di Robinson Crusoe (basata su una fisica particolarmente “ingenua”) costituirebbe una porzione molto piccola dell’ontologia scientifica contemporanea (sempre ammesso che i termini della prima ontologia siano reinterpretabili, nell’ambito della seconda). Posto che quella ontologia “ecologica”, così scarna ed essenziale, comporti anche attitudini specifiche (primitive ed innate) perché si diano relazioni sociali (la cura parenterale; certi tipi di emozioni condivise; il discernimento delle intenzioni; la compassione e la cooperazione tra conspecifici), si potrebbe anzi ipotizzare che non solo nel dominio della natura, ma anche in quello della società umana sia rintracciabile una ontologia “di base”, porzione molto ridotta (e in un certo senso embrionale) di una ontologia più evoluta (sempre ammesso – anche qui – che i termini dell’ontologia di base siano reinterpretabili, nei termini di una ontologia generale, la quale risulti all’altezza della cultura consolidata). Emerge allora il problema di discutere se il realismo “ingenuo” e spontaneo dei primitivi (un atteggiamento filosofico implicito, congruo all’ontologia “di base”) possa essere reso in qualche modo più “sofisticato”, per adeguarlo all’enciclopedia della nostra era, cioè all’ontologia che è specifica del pensiero contemporaneo. È istruttivo, come caso di studio, ritornare all’esempio della “energia oscura”. Per ipotizzare che l’espansione dell’universo stia accelerando, i fisici che si occupano di questo problema si basano su osservazioni del tutto elementari: la presenza di puntini luminosi su opportune fotografie, il colore di quei puntini luminosi (ovvero, meglio, l’analisi spettrale di quelle radiazioni). In definitiva, tutta l’interpretazione di ciò che è successo a qualche miliardo di anni luce dal nostro pianeta si basa sulla percezione (qui e ora) di certi enti visibili ad occhio nudo (puntini colorati; posizione assunta da indicatori opportuni, su scale appropriate). Assumendo il punto di vista del realista “ingenuo”, potremmo dire che ogni nostra ontologia si basa in ultima analisi su fatti, su eventi di tipo percettivo, assunti convenzionalmente come acquisiti; questi fatti costituiscono il dato di partenza ineludibile, per qualsivoglia ontologia empiricamente sensata. Quanto poi alla fondatezza di questa convenzione (circa il carattere certo e sicuro degli eventi percepiti), un realista accetterebbe probabilmente di ripetere le sue misure; accetterebbe controlli specifici, sulle condizioni mentali degli sperimentatori e sul loro sistema percettivo. Ad un certo punto, di fronte agli ulteriori dubbi avanzati dagli scettici, sarebbe tentato probabilmente di controllare a sua volta i loro asserti, pregandoli di accomodarsi nella gabbia di un leone. Nel corso dell’ultimo secolo, numerosi sono stati i tentativi di sostenere le ontologie che si andavano via via affermando (cioè l’insieme delle teorie accreditate), facendo riferimento ai dati empirici. Il tentativo più radicale – quello dell’empirismo logico, consistente nella pretesa di 2 L’argomento darwiniano è analitico; ha la struttura di un modus tollens elementare: «se sei inadeguato, allora soccombi»; «non soccombi»; dunque, «sei adeguato». 3 costruire intere rappresentazioni del mondo, sull’unica base dei dati empirici – è stata molto presto abbandonato dai suoi stessi sostenitori. Sulla scia di quella stessa scuola di pensiero, le teorie che si occupano del mondo sono state concepite come costruzioni puramente verbali (non contraddittorie), piene zeppe di termini convenzionali e “agganciate” al mondo (qua e là, puntualmente, come fossero nuvole, ancorate a qualche appiglio del terreno) per il tramite di asserti elementari di tipo “osservativo” (del tipo: «l’indice dello strumento sta in quella posizione»). Più recentemente, perfino chi ha escluso la possibilità di tracciare una linea di demarcazione precisa, tra i termini di tipo “osservativo” e quelli di tipo “teorico” (e che è stato per questo indicato da molti studiosi come il vero liquidatore dell’empirismo logico contemporaneo), ha tuttavia ammesso che «[il] processo attraverso il quale l’individuo o la specie acquisiscono una teoria non arbitraria del mondo esterno [ha origine] dai miseri contatti che abbiamo con esso, vale a dire da semplici impatti di raggi e di particelle sulla superficie dei nostri corpi, più alcuni dati disorganizzati, come per esempio la fatica che ci costa camminare in salita»3. Che da questi “miseri contatti” sia possibile costruire interpretazioni molto complesse, sottili, particolarmente utili ed efficaci, può sembrare problematico (e misterioso); tuttavia – a meno di non invocare miracolose empatie tra la nostra mente ed il mondo, o altrettanto miracolose rivelazioni – l’analisi della conoscenza umana non è riuscita fino ad oggi a produrre un resoconto migliore, circa il ruolo del realismo “di base” rispetto alle ontologie più sofisticate. Si deve però insistere su un aspetto molto importante di questi risultati. L’ancoraggio delle nostre ontologie al mondo nel quale viviamo (per il tramite dei nostri “miseri contatti”) è tutt’altro che blando e precario. I fatti, se ci è consentito usare questo termine tipicamente filosofico, vincolano in modo abbastanza rigido le possibili interpretazioni. Di più: contrariamente a quanto tende a immaginare spesso la sociologia della cultura, si registra in genere una carenza di interpretazioni (rispetto ai fatti ammessi e consolidati), piuttosto che una loro ipertrofia; il numero delle alternative teoriche avanzate (rispetto al dominio dei fatti accertati) è sovente inferiore al numero delle classi di fatti che non sono stati ancora ricondotti a qualche coerente teoria4. Essere “realista” nell’era contemporanea (ove mai possa significare qualcosa) sembra ridursi in sintesi a questo: confidare nel fatto che le nostre teorie formino utili rappresentazioni del mondo “reale” (del mondo com’è), sulla base del fatto che le prognosi di quelle teorie si accordano bene con ciò che empiricamente osserviamo; il “realista” riferisce insomma l’utilità delle proprie rappresentazioni sofisticate alla attendibilità delle sue rappresentazioni di base (cioè al presupposto che le rappresentazioni percettive consentano un accesso effettivo ad alcuni elementi del reale). Il confine tra il “realismo” e il “costruttivismo empirista” (e lo stesso “strumentalismo”) – poste in questo modo le cose – tende a risultare un po’ meno drammatico di quanto la riflessione filosofica sia incline a presentare. La differenza tra queste tre prospettive risiede in ultima analisi nel giudizio che esse danno delle entità inosservabili che compaiono nelle diverse teorie: il realista ritiene che a queste entità corrispondano enti che popolano effettivamente il mondo reale (o, almeno, che la struttura delle rappresentazioni formali riveli qualcosa della struttura del mondo); il costruttivista e lo strumentalista sono molto più cauti e – in linea generale – negano un valore epistemico alle speculazioni che riguardano gli enti inosservabili. Ma, al di là delle preferenze d’ordine metafisico tra le diverse opzioni, rimane una evidente contiguità; l’ammissione che si danno fatti (non soltanto interpretazioni), rispetto ai quali le diverse ontologie si devono misurare. Al più, il costruttivista e lo strumentalista sono scettici sulla possibilità di interrogarsi sulla natura dei fatti (relegandoli sovente al rango delle convenzioni); il realista è invece incline a pensare che l’efficacia delle ontologie più sofisticate dipenda appunto da questo: a un livello di base, le umane percezioni sono il 3 4 W.V.O. Quine, From Stimulus to Science (1995), trad. it. Dallo stimolo alla scienza, il Saggiatore, Milano 2001, p. 15. Ovviamente, facendo riferimento all’esistenza di “fatti accertati”, ci si appella all’argomento di tipo adattativo, secondo il quale – malgrado la percezione stessa di molti eventi possa essere influenzata da pregiudizi legati alle abitudini, alle teorie dominanti e alla cultura – il fatto che gli esseri umani siano riusciti a sopravvivere e a prolificare (in un mondo ostile) richiede che – a un certo livello – le loro percezioni siano adeguate. 4 risultato di un lungo adattamento evolutivo; per questo, le nostre ontologie di base forniscono buone rappresentazioni del mondo reale. Post-post-moderno Tutto intorno al partito di quelli che – in un modo o nell’altro – riconoscono l’esistenza di fatti, rimane in assedio un’armata imponente di critici, concordi nel mantenere che l’idea stessa di “fatto” sia un mito, che non si diano puri fatti, che anche i fatti siano il risultato di interpretazioni. In un contesto del genere, non vi è alcun livello basilare di asserti che possa cogliere aspetti reali del mondo; qualunque atto di conoscenza, a qualsiasi livello, è un atto di costruzione del mondo. Si deve immediatamente notare che un atteggiamento del genere – perspicuo ai poeti, ai visionari, ai mistici e ai sognatori – è condiviso da illustri maestri del razionalismo contemporaneo. Basterà ricordare che la critica al “mito del dato” è uno degli snodi cruciali dell’opera di Wilfrid Sellars5, forse il principale ispiratore dei più insigni filosofi americani tuttora attivi. Sulla stessa linea andava un famoso libro di Nelson Goodman6, oggetto delle riflessioni critiche di Carl G. Hempel e Hilary Putnam7. Come preambolo di quella accanita discussione, così scriveva per esempio Goodman, qualche anno prima: «non possiamo ricavare molte cose circa il modo di essere del mondo interrogandoci sul modo migliore, più affidabile o più realistico di osservarlo e di rappresentarlo. Infatti, i modi di osservarlo e di rappresentarlo sono parecchi e diversi; alcuni sono forti, affidabili, utili, intriganti, raffinati; altri sono deboli, assurdi, ottusi, banali, confusi. Ma, anche escludendo questi ultimi, nessuno dei rimanenti può avanzare alcuna fondata pretesa di essere il modo di osservare o di rappresentare il mondo per quello che è»8. Quanto ai riferimenti di Goodman (oltre al fatto che egli era un amico personale e un sodale di Willard V.O. Quine), è interessante notare che nelle prime righe del libro in questione egli rivendicava una continuità con le tesi di Ernst Cassirer, capofila riconosciuto del neo-kantismo europeo. L’idea che le rappresentazioni umane – anche a un livello molto elementare dell’esperienza – possano essere in larga misura fallaci (inadeguate ad afferrare stati oggettivi del mondo) copre un arco molto ampio della letteratura filosofica: a partire da Gorgia, passando per Descartes, echi di questo scetticismo sono giunti fino ai giorni nostri. Una versione pop di questa problematica è diventata il filo conduttore di un celebre film dei fratelli Andy e Larry Wachowski (Matrix), del 1999; più dottamente, Hilary Putnam aveva attaccato gli epigoni di questa tradizione in un celebre articolo sui “cervelli nella vasca”, del 19819. In Francia, in Italia, poi in alcune enclave della filosofia statunitense, una variante specifica di questa tradizione si è raccolta nell’ultimo quarto del XX secolo sotto l’insegna del “post-moderno”. Tuttavia – anche se è vero che una parte significativa dello strutturalismo e dell’esistenzialismo del Novecento è approdata a una particolare forma di relativismo filosofico, che può essere ricondotta alla famiglia del post-moderno – la polemica contro l’empirismo, contro il realismo, contro il naturalismo e, più in generale, contro le ontologie che si affidano alla scienza, conta sulla convergenza di tradizioni diverse e più ampie: il razionalismo post-kantiano, varie forme di neohegelismo, la fenomenologia, l’ermeneutica, per arrivare a una robusta schiera di empiristi pentiti e di filosofi analitici, inclini a pensare che il mondo accessibile agli esseri umani si riduca al linguaggio. L’assedio al realismo si avvale inoltre dell’apporto di parecchi romantici, post-marxisti, 5 6 7 8 9 W. Sellars, Empiricism and the Philosophy of Mind, University of Minnesota Press, Minneapolis (MN)1956 N. Goodman, Ways of Worldmaking, Hackett, Indianapolis (IN) 1978 P.J. McCormick (a cura di), Starmaking. Realism, Anti-Realism, and Irrealism, The MIT Press, Cambridge (MA) 1996. N. Goodmann, The Way the World Is (1960), in Id., Problems and Projects, Bobbs-Merril, New York (NY) 1972, p. 29 [traduzione mia]. H. Putnam, Reason, Truth, and History, Cambridge University Press, Cambridge (UK) 1981, cap. 1. 5 anti-illuministi, sociologi della scienza, antropologi della cultura, insigni combattenti delle battaglie libertarie che hanno segnato in modo indelebile la cultura del secondo ‘900 (in particolare: contro i pericoli impliciti nel grandioso potere della scienza). Immaginare che questo vasto schieramento sia attraversato da una crisi irreversibile (e che si apra ora lo spazio, fatalmente, per un “nuovo realismo”)10 sembra poco credibile. Si può sostenere tuttavia – con argomenti di dottrina e d’ordine più generale – che l’anti-realismo, il relativismo, l’irrealismo (una sorta di agnosticismo ontologico, rispetto al reale) attraversano in effetti una crisi. Tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70 del secolo scorso – piuttosto che alla fine delle “grandi narrazioni” (che, di lì a poco, si sarebbero piuttosto inverate, con l’estensione mondiale del capitalismo e la fine del duopolio militare tra le potenze) – abbiamo presumibilmente assistito all’affermarsi di un nuovo paradigma: quello della “liberazione” individuale. Per la generazione occidentale del dopo-guerra, piuttosto che dall’orrore per i gulag e l’olocausto, l’auspicata libertà scaturiva dal definitivo superamento delle cultura rurale, dalla crisi delle ideologie del lavoro, dal rifiuto della continenza sessuale, dalla moltiplicazione dei desideri, dall’espansione dei diritti della persona. In termini molto approssimativi e grossolani, si può dire che la crisi dei grandi sistemi filosofici occidentali abbia coinciso con l’affermarsi della “società dei consumi”, con l’espansione dei “ceti medi”. Anche se tutto questo è stato reso possibile da una concentrazione esasperata delle risorse e da una crescita imponente della produttività del lavoro (cioè, in ultima analisi, da uno sviluppo poderoso e monopolistico della scienza e della tecnica), l’irrompere della soggettività – sul palcoscenico della società, della cultura e della riflessione filosofica – ha determinato (sia pure come fenomeno di nicchia) un’illusione di potenza e di libertà che ha finito con l’investire le stesse pretese normative della scienza. Qui si comprende, ove mai sia possibile, la fortuna del postmoderno. L’esito di questo paradigma è sotto gli occhi di tutti. La “bolla” dei desideri (e delle connesse “realtà virtuali”, escogitate per accrescerli e per soddisfarli), una volta scoppiata ci lascia con un diffuso senso di smarrimento. Viene alla luce, piuttosto che la libertà, l’aggravamento delle differenze; piuttosto che la legittimazione reciproca dei punti di vista, un’entropia politica e sociale che ci lascia estremamente più deboli; piuttosto che l’appagamento dei desideri, il drastico ridimensionamento delle speranze. Sul piano della cultura e dell’arte, lo sgretolamento di ogni criterio condiviso di giudizio – indotto dall’affermarsi autoritario del relativismo – ha dato luogo alla moltiplicazione dell’indistinto. Dunque, come era nell’ordine stesso delle premesse, il relativismo ha portato alla trasformazione della festa in routine, all’indifferenza per il contenuto e la forma, a quella dispersione e a quello stordimento che l’eccesso di informazione inevitabilmente determina, quando viene meno un criterio per selezionarla. Si intuisce allora, se questo è il punto di crisi del post-moderno, che riemergano appelli per un ritorno alla norma, per come questa è suggerita dal reale: se il relativismo – come espressione ideologica del liberismo – approda oggi al nichilismo, non stupisce che qualche testa pensante si opponga al «ritorcersi della ragione contro se stessa» e si appelli al realismo, «contro l’illusione e il sortilegio»11. Una mossa del genere echeggia, in qualche modo, la polemica che un giovane hegeliano conduceva centosettanta anni or sono, contro il «circuito speculativo della critica assoluta e la filosofia dell’autocoscienza»12. Sebbene il contesto fosse evidentemente del tutto diverso da quello post-moderno, anche allora il pensiero critico si era avvitato in un circolarità viziosa, in una sorta di onanismo filosofico auto-appagante, che l’aveva allontanato progressivamente dalla realtà. Scriveva Marx, nella sua “critica della critica critica”: «La critica […] è passata dalla “sostanza” ad un altro mostro metafisico, al “soggetto”, alla “sostanza come processo”, alla “autocoscienza infinita” […]; l’autocoscienza è trasformata da un predicato dell’uomo in un soggetto autonomo. È la caricatura teologico-metafisica dell’uomo nella sua separazione dalla natura […]. La critica assoluta, ritornata al suo punto di partenza, ha compiuto il 10 11 12 M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Bari 2012. Ivi, pp. 100 e 112. K. Marx, Der spekulative Kreislauf der absoluten Kritik und die Philosophie des Selbstbewußtseins, in F. Engels, K. Marx, Die heilige Familie (1845), trad. it. La sacra famiglia, Editori Riuniti, Roma 1972. 6 circolo speculativo e di conseguenza la sua vita. Il suo movimento ulteriore è un girare in se stessa, puro, alto sopra ogni interesse di massa, ed è quindi, per la massa, privo di ulteriore interesse»13. Una volta mutato ciò che bisogna mutare, considerazioni analoghe potrebbero essere rivolte ancora adesso, nei confronti delle circolarità ermeneutiche, delle decostruzioni, del linguaggio che analizza se stesso, di quegli atteggiamenti critici che hanno popolato fino ad oggi (e ancora popolano) la scena filosofica. Queste modalità rischiano di trasformarsi in una specie di litania: alludono criticamente ai mali del mondo, senza provare a indicarci come trasformarlo; avvitate su se stesse, rischiano di diventare (se già non lo sono) una forma bloccante di pensiero. In positivo, perché l’auspicio di un “ritorno alla norma” (adeguata ai fatti) non appaia vacuo (reazionario e nostalgico), ma significhi piuttosto il tentativo di ricostruire gli attrezzi necessari, per non rimanere passivi di fronte al reale, si può aggiungere questo. Il relativismo contemporaneo ha indebitamente rimosso il problema filosofico della verità, risolvendolo in quello della giustificazione. Ora, se anche è ragionevole ammettere che una verità non giustificata rischia di restare un mistero (oppure qualcosa che ci sorprende, che ci coglie impreparati, che non conoscevamo), bisogna anche ammettere che la mera giustificazione di un’ipotesi non trasforma quest’ultima in una verità. Lungi dall’essere un tiranno – che pretende di “mettere le brache al mondo” – il realista accoglie il detto secondo il quale «l’uomo propone, il mondo dispone». Sotto questo profilo, l’ordine che il realista cerca di rinvenire nel mondo è puramente congetturale, esposto per sua natura alla critica e alla smentita dei fatti. Al contrario, il mondo “costruito” dall’anti-realista è quello che è; l’anti-realista pretende che quello sia il suo mondo, e guai a chi glielo tocca. Se il mondo in questione è quello costruito dal sovrano, allora l’ordine vigente sarà proprio quello; e nessun “fatto” sarà ammesso a metterlo in questione. Sotto questo profilo, l’atteggiamento del realista è quello di accogliere le smentite; quello dell’anti-realista è invece dogmatico14. Riemerge allora, in riferimento a un mondo che può non essere conforme alle nostre rappresentazioni, il tema del rapporto tra potere e sapere, tra scienza e interesse: un tema particolarmente caro al post-moderno. Nessuno può negare che questi rapporti di determinazione sussistono e che, dunque, l’idea di una organizzazione del sapere libera e indipendente appartiene al regno dell’utopia (o, meglio, a quello della ideologia). Tuttavia, è altrettanto palese che il tirarsi fuori, in un contesto del genere, rischia di rimanere un flatus vocis, una pura petizione, una speranza da anime belle. Che la scienza – nella sua accezione più ampia, comprensiva del sociale – sia interessata, asservita, piegata al potere, non implica che tutti i suoi risultati siano necessariamente falsi15. Anche qui, «l’uomo propone, il mondo dispone»; e, se il mondo non presentasse eccedenze (rispetto al potere che sempre si adopera per metterlo in forma), la storia stessa degli uomini sarebbe da tempo finita. Ecco: se il carattere globale del modo di produzione capitalistico ha fatto temere a qualcuno che la storia finisse, la crisi riapre finalmente il campo a diverse rappresentazioni. * fisico, filosofo Università di Roma “Tor Vergata” http://uniroma2.academia.edu/GiovanniIorioGiannoli/ 13 14 15 Ivi, pp. 179-180, 181, 187. D. Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia, Einaudi, Torino 2007, cap. 3. M. Ferraris, op. cit., pp. 88-91. 7