La poesia di Marino Piazzola - Biblioteca Provinciale di Foggia La
Transcript
La poesia di Marino Piazzola - Biblioteca Provinciale di Foggia La
La poesia di Marino Piazzola LA DIMENSIONE LIRICO-EVOCATIVA L’inizio poetico di Piazzolla risale al decennio francese 1928-38. Sono questi gli anni in cui viene a contatto con la Parigi degli anni trenta derivandone più di uno stimolo per la sua poesia. E la frequenza dei poeti francesi da Valery a Breton è avvertibile nei due poemetti pubblicati per le edizioni Deux Artisans nel 1939 a Parigi: Horizons perdus e Caravanes. In Horizons la lezione di Valery si snoda in una sintassi lirica particolarmente evocativa, in immagini lievitate su un accordo di suoni, di cadenze foniche e ritmiche eccessivamente ricercate. Ed è questa lievitazione delle immagini, questo senso di leggerezza e vorremmo dire di aereità che ci fa amare questo primo Piazzolla. E si legga per tutte la « Pluie »: La pluie une légère main qui passe sur mes paupières dans l’air gris où pleurent les feuilles mouillées dans les rues plaintives où les arbres semblent meurtris devant les vitres voilées à peine par l’automne blessé de mes joies dove la musicalità del verso si libera in quel senso di scorrevolezza che l’intreccio delle liquide rinnova continuamente (pluie, légère, paupières, l’air gris, pleurent). Ma l’importanza di questo primo Piazzolla è la disposizione al momento lirico-evocativo che sarà la costante di tutta la poesia in lingua italiana. Disposizione alla réve come registrazione di momenti lirici e quindi bisogno di scavare all’interno sensazioni nuove. Ma sempre questa scritttra vaga, indefinita, questo valerismo di Piazzolla, non sa distaccarsi da un senso di malinconia e di calma che sono momenti centrali di Horizons. E se qualche verso come a chiusura di volume: Et j’ai roulé dans l’abime ci dà la sensazione di un Piazzolla maudit, esso è più una dolce tentazione giovanile che una scelta. L’altr’aspetto di Horizons è la contrazione della parola in un analogismo che allontana gli oggetti in un mondo 60 tra realtà e sogno. Piazzolla si abbandona al fascino di una fantasia evocatrice di sensazioni e di eventi: Ne parle plus aux fournis de perle tes doigts sont déjà heureux dans l’herbe on répète ta voix dans una cauge jaune et l’air a peur d’oublier tes épaules (Evocation) In Caravanes si accentua questa tendenza all’abbandono, meno voluttuoso di Horizons, certamente spinto ai limiti d’un’atmosfera d’intimità paesana. Il più delle volte sono stati d’animo che riempiono queste pagine, figure esili d’amore, confessioni tra stupore e smarrimento, in una Parigi che fa sognare ad occhi aperti e strugge di malinconia il giovane poeta. Insomma Caravanes è un diario lirico dove contano più d’ogni poetica gli affetti, i ricordi, trascritti in una dizione sobria, senza sdilinquimenti romanticheggianti. Di più conta poichè chiarisce i termini di una vocazione poetica lirico-intimistica. Del periodo francese è il poemetto Pèrsite e Melasia apparso per la prima volta sul n. 14 della rivista « Ars et Idée » nell’aprile del 1938. Poi ripubblicato in italiano nel 1940. Un dialogo che nella sua struttura fondamentalmente mitico-lirica richiama alla mente personaggi e motivi della mitologia classica. L’impostazione ricalca il tema della primavera-estate-felicità a cui è contrapposto la fine della vita autunno-tramonto-dolore rappresenta nei due contrappunti temporali equinozio di primavera-solstizio-d’estate ed equinozio d’autunno-solstiziod’inverno. Qui Piazzolla insegue un’età aurea in cui i due personaggi agiscono quasi istintivamente, non appesantiti da credi morali o da astratte convinzioni religiose e magari filosofiche; la felicità e la gioia di Pèrsite e Melasia sono quasi il frutto di una legge naturale. Vi è solo un leggero presentimento che di tanto in tanto incrina il loro dialogo e cioè che il loro amore e la loro felicità finiranno. Una malinconia soffusa scorre in tutto il volume che appena il poeta lascia trasparire. Pure la fine di questa felicità è inizio di una piú grande: « E’ tempo Melasia, ch’io ritrovi l’antica mia immagine e mi confonda al creato, solo per sentirmi infinitamente libero e ritrovare me stesso come fai tu che ripensi i destini terreni e non piangi se non per udire te stessa, non soffri se non per sentirti più umana ». E anche se la scrittura è frenata da un lirismo volutamente ingenuo ed effusivo, quello che più conta è l’abbandono ad una verve creativa, ad una sospensione della realtà in un sogno che dura tutto il poemetto. E’ questa classicità, è questo pudore di Pèrsite e Melasia che li avvicina a tanti personaggi delle ecloghe virgiliane. Ore bianche che si pubblica parallelamente a Pèrsite e Malasia da un punto di vista strettamente stilistico non segna un’evoluzione o una maturazione. Un’opera giovanile e sicuramente anteriore, in cui si nota un fraseggio sensibilmente pascoliano: la primavera, con le sue dita / di violette... I suoi piedini sull’erba (p. 7, 61 v. 1 - 2, 13); ciocche di stelle (p. 10, v. 12); le sue tendine di seta (p. 19, v. 2); l’api segavan l’aria / colma d’ali d’oro (p. 21, v. 1-2); le scarpine di seta (p. 23, v. 3); il suo lettuccio di luce (p. 23, v. 1 l); per la ghiaia d’oro (p. 25, v. 16); da un suo lettuccio, / bianco come nido di fata (p. 36, v. 6-7); ai suoi raggi di seta (p. 37, v. 13). E finanche cadenze dannunziane come in questo intermezzo di Estiva: Le viti gonfie d’uva d’oro, con dita d’api, suonavan arpi leggere; vespro sorgeva timido, dalle verdure assorte, parlando con voce vellutata... E in particolare la prima parte del volume l’Incauta non disdegna temi di un labile crepuscolarismo (Le mani dei morti, Ora squallida, Favola, Pastello ecc.) o un vago descrittivismo di maniera (Miracolo, Fuga, Primavera. Offerta, Vendemmia). E anche se nella seconda parte Parvenze resiste un certo turgore scolastico essa può considerarsi un volumetto a sé, sia per la costante tensione morale, sia per per una più solida strutturazione dell’endecasillabo. Il leopardismo piazzolliano mediato attraverso la presenza cardarelliana vi si riconosce per quel continuo fluire del verso in pause interrogativemeditative sull’onda del l’endecasillabo e del settenario. E ancor più per la costante reiterazione a risolvere il discorso in soluzioni moralistiche e in un aut,obiografismo in cui l’io si confina ai limiti di una storia privata il cui contrassegno è la negatività, l’emarginazione esistenziale: Questo lento svanire della vita in me sempre più si sprofonda; e sembra ch’io affoghi omai... (Globo) E il richiamo quasi leopardiano all’assurdità e alla inutilità della vita (fragile illusione) sempre si stempera fra ricordo e speranza. Disillusione che non si attenua, anzi tende a rinchiudersi in un più cupo diarismo lirico proprio nell’ultima parte del volume come ad esempio in Buio dove la dizione prosastica si scioglie nella confessione dell’ultima quartina di acre sapore cardarelliano: Ma mi sento già inutile e sconto la vita che ho sempre agognata stando fermo nel buio. 62 dove quel ma prosastico iniziale, costrutto frequente in quest’ultimo Piazzolla, accentua quasi nel tempo la pena del vivere. Proietta la certezza temporale del presente (mi sento) in un lontano passato; proprio perchè essa è continua, dentro la vita. Segue un periodo di apparente stasi. In effetti Piazzolla è tutto teso a registrare eventi che non possono non coinvolgerlo come testimonia il volume Gli anni del silenzìo che raccoglie le poesie scritte nel decennio 1940-50 e pubblicato il 1972. E già questo « Nido di upupe » ci offre una misura stilistica nuova: Era tramonto steso sulle rame dal tronco dell’ulivo, giunse al mio orecchio sillaba confusa. Due endecasillabi e un settenario che dimostrano la chiara qualità della parola, il nesso rigoroso delle immagini, essenziali, di derivazione ermetica, vorremmo dire, se la parola non ingenerasse equivoci. E gli esiti formali di questo Piazzolla post-ermetico sono anche da vedere in quel lento giro della frase, in quel recupero del tema elegiaco su cui tanto avevano insistito i nostri Gatto, Penna, Quasimodo, ecc., qui sciolto in ampie cadenze colloquiali: Ora che è inverno, ho pulito la casa. I muri bianchi t’aspettano, con ansia intorno al lume. Tu puoi venire vestito come sei. (Lettera della madre vecchia al figlio lontano) D’altra parte Piazzolla non sfugge alla tagliola degli eventi facendo registrare una serie di componimenti scritti tra il 1943-44, che, come per molti impegnati e non, sono una testimonianza contro la barbarie che si andava perpetrando contro l’uomo. E il Nostro reagisce nella maniera più forte: Pochi uomini, poche belve, danno alla memoria cibo di sangue e alla terra ossa fredde come sassi. (L’offerta) e se qui Piazzolla non sfugge a questo prevalicare della rabbia sulla ragione, altrove ci sembra di ascoltare qualche canto di Monterosso: Cantano i vetri perché si è fatto notte, all’improvviso, 63 sugli orologi a sole nella via di ossa umane. (Apparizione) o qualche canto di Quasimodo dell’impegno: Ora son prigioni le case, ove le pietre celano echi di bestemmie, gridi rimasti nelle ossa come tarli di fuoco. (Metamorfosi, IX) Ma l’importanza di questo volume è nel recupero di quelle zone liriche tra levità idillico-epigrammatica e registri fantastici che preannunciano da una parte Elegie doriche e dall’altra Lettere della sposa demente. Si legga ad esempio Felice loto: Colombe silenziose spiccan voli dall’onde. Ora amoroso il mare canta al mio giovane cuore. E sicuramente il componimento che è un anticipo felice delle Lettere è la liricapoemetto Nel mio sangue un nome. Qui Piazzolla piace per quella capacità di fondere immagini sensuose, per quella capacità di trasportare il piano della realtà su un piano di note fantastiche dove anche la memoria e il ricordo (che sono le condizioni di partenza di questa poesia) si volatilizzano per cedere il posto alla fantasia: Mi chiami! E l’eco, a notte, giunge stanca al mio vago silenzio, e ti ritrovo. Qui già l’inverno gela: ti penso fortemente! Ma l’ora tarda fa limpido il silenzio di te pieno. Sono questi nuclei lirici dove parola e immagine si fondono in un equilibrio e in una compostezza strofica rara che fanno di Piazzolla uno dei pochi continuatori della lirica d’amore greca. E non meno è da notare la sospensione del personaggio che mai ingenera monotonia per quella capacità di penetrarne fino in fondo ogni moto impercettibile. E tutte le sfumature di una rinnovata psicologia petrarchesca non gli sono 64 estranee. Elegie doriche si pubblicano proprio quando piú vivace è la polemica tra neorealisti e neormetici. Ogni dubbio sul recupero della parola essenziale è fugato da questo « Bronzo etrusco » uno dei più alti componimenti della raccolta: Al tempo incolore porgi il profilo antico; ed è mestizia il gracile sorriso sul bronzo dissepolto. dove la figura della madre ci giunge come da lontano, inattesa, sospesa, tra mestizia ed elegia, tra presente e passato, come la stessa struttura sintattica suggerisce: ai presenti (porgi. è) fanno riscontro i passati remoti (rinnovasti, fosti, avesti). Il tema della memoria resta uno dei iopoi della lirica piazzofliana a cui ritornerà ininterrottamente. Si legga ancora « Nebbia su mia madre »: Se tu sei vera sulla riva ignota che divide il mio cuore dal tuo abisso, non dirmelo quaggiù finché ogni fibra mia ti cercherà. Non dirmi se la morte è solo un’assentarsi, ma reggimi, soltanto, col tuo apparire, fragile, ogni sera; raccontami s’è buia la tua valle nascosta dietro il tempo. Ancora Piazzolla insiste sulla dialettica finito-infinito servendosi di agaettivi di un vago sapore intemporale, quasi indefinito (“assente” del v. 12, “ignota” del v. 28) che riportano la figura della madre in uno spazio tra realtà e sogno, mentre il fragile del v. 35 quasi fisicamente ce la fa toccare. Così mentre ì predicati svanisti del v. 4, si sfanno del v. 7, e apparire del v. 35 adombrano il sentimento della sua morte proiettandolo nel sogno, come se fosse meno certa; i sostantivi abisso del v. 29 e valle del v. 37 definiscono topograficamente, ce ne fanno sentire tutta la certezza, distruggendo il sogno. Altre volte come in Buio su mio padre è la figura del padre, riproposto da Piazzolla con forza sbarbariana, l’oggetto di questa dialettica. Il tema elegiaco che ritornerà in Esilio sull’Himataya, ne Le favole di Dio, in Adagio Quotidiano, in Pietà della notte, in ogni caso non è un tempo d’evasione, come la memoria non è un puro ricordare, ché sempre il dato temporale, ora ammorbidito dalla paratassi discorsiva, ora diluito nelle cadenze della preghiera, gli si configura come possibilità d’incontro e di tensione verso l’assoluto. Dall’altra parte Elegie Doriche fanno registrare una condizione di momenti di intensa contemplazione quasi sul filo di una epigrammatica neogreca che ricorda Alceo, Saffo, Meleagro. Si leggano per esempio questi versi di « Stagione »: 65 All’ape il tempo dolcissimo già cola. o ancora: Per l’aria di tenera pietra mansueti passeri ricordano gli autunni. (Urna dorica) dove la brevità del verso non è frammentismo; né la parola è tessuta di fronzoli come dimostrano Novilunio, Sirio, Via Lattea. Condizione di estrema purezza a cui Piazzolla ritorna ne Le favole di Dio (1954) dove i rimandi vanno senz’altro all’Antologia Palatina. Insomma Piazzolla di Elegie ha scavato dentro se stesso portandosi all’interno di un’area poetica greco-mediterranea (l’antica Daunia) come recupero di un tempo poetico che non è solo contemplazione o nitore della parola, come la castità o la brevità dei componimenti potrebbe suggerire, ma soprattutto misura spirituale ed umana. Il ’52 Piazzolla pubblica le Lettere della sposa demente le quali ritorneranno in un disegno molto più ampio e per la verità fin troppo ardito nel volume del ’60 Mia figlia è innamorata. Piazzolla qui trasferisce la sua capacità di sentire la realtà per immagini, per nuclei lirici, ad una vicenda di sogno-irrealtà dove quella capacità si acutizza fino a farei respirare un’aria di demenza. La vicenda si svolge, come si legge nel prologo, in un paese delle Fiandre, ma ogni riferimento temporale è pressocché inutile poiché il poemetto non si appoggia ad una trama narrativa entro cui si muovono i personaggi. Né vi sono causanti che possono giustificare questo o quel sentimento, questa o quell’azione. Il sogno della demente (il suo dramma, il suo amore, la sua vita) si svolge su un piano metatemporale, in uno spazio-tempo che è la nostra coscienza. Il personaggio non si confessa (per questo non è un canzoniere d’amore), ma vive il suo amore su una sospensione di pause per un tempo quanto può durare un sogno. Ed è proprio questo risucchiamento della realtà nell’irrealtà del sogno che fa delle Lettere un poemetto sui generis e certamente un unicum nella poesia del Novecento. Ma le Lettere proprio per questo fluire della realtà nel sogno rispondevano perfettamente al temperamento poetico del Nostro, alla sua verve lirico-fantasticoirriflessiva. E rispondevano ancora al suo bisogno di sentire la realtà quasi alogicamente, e immaginalmente come lui stesso dice nel suo diario E l’uomo non sarà solo: « Per me scrivere è stato seguire un ordine alogico che scaturisce proprio dalla sproporzione tra l’azione del pensiero che intensifica il mio tempo, e l’inazione del mio corpo che resta bloccato nello spazio, in cui mi muovo appena »1. In questo senso 1 M. PIAZZOLLA, E l’uomo non sarà solo, Milano, Ceschina, 1960, p. 10. 66 la sua poesia è quella che meno sopporta schemi mentali o filosofici in genere. E quando egli continuando dice: « La poesia è per me alogica come la musica. Essa procede per salti e per trapassi come il tempo che, velocemente, s’aggruma nel pensiero »2, non tanto ci sembra di capire che egli voglia dire irrazionale o arazionale, ma che essa non sopporta altro tempo se non quello delle immagini velocissime che si sovrappongono fantasticamente. Poi il Nostro a dieci anni di distanza rielabora Le Lettere operando tagli e apportando modifiche, ma quello che più importa notare allargando la vicenda: dall’unico tempo delle Lettere ai tre tempi di Mia figlia innamorata. Insomma dall’indistinzione del personaggio si passa alla distinzione e alla triplicazione di esso nelle tre figure: sposa-figlia, sposa-madre, sposo-padre. Invariato resta il prologo. Più ristretto il registro dei moti psicologici che s’intrecciano fino al delirio del personaggio: Mi sento nuova e il tempo mi travolge. Mai m’abbandoni: tu vibri col mio petto e resto muta, piena del tuo silenzio. In particolare è nel primo tempo che assistiamo al lento vibrare di una passione-desiderio. Passione che mai sfocia nel dramma; è piuttosto un riandare dell’anima, di un’anima delicata, che si ascolta sul filo di impercettibili movimenti che si fondono col paesaggio. Ma sempre questo poemetto è l’esplosione di uno stato d’animo in continua decontrazione sia attraverso notazioni temporali: (la sera, la notte, il giorno, l’aurora, ecc.) Quando la sera mi raccoglie stanca e la mia stanza trema, l’ombra mi suona come un soffio lieve. Tu mi tieni sospesa ed io ti chiamo. (p. 17) sia attraverso connotazioni atmosferiche (il vento, la pioggia, l’acqua, l’aria, ecc.) Oggi è con me la pioggia e non so cosa dirti. Come è vasto il freddo sceso nelle mie stanze... (p. 20) che riportano il sogno nella realtà. Ed è proprio in questo continuo proiettarsi della realtà nel sogno e del sogno nella irrealtà della realtà la molla del poemetto. Pure non mancano momenti di sosta e allora la parola 2 Idern, p. 10. 67 si prova a ripetere luoghi comuni della casistica d’amore che smorzano la passione. E’ così breve ogni istante che va da un cuore all’altro, ch’io mi senta travolta... è allora che vorrei forse morire. (p. 30) Fondamentalmente Piazzolla non evita lo schema della ripetizione che ingenera nel secondo tempo monotonia, essendo la madre un duplicato della figlia, e anche perché non si capisce fino in fondo il ruolo della madre che nei confronti della figlia resta una temibìle rivale: Stasera sono lieta perché l’autunno è in fuga. Ho indossato la veste di mia figlia e aspetto per te la nuova luna. (p. 67) Nel terzo tempo è la figura dello sposo-padre che fa la sua comparsa. Anche su di lui incombe lo stesso destino l’irrealtà del sogno. Ed è forse questa coscienza dell’attesa vana a creare la tensione poetica del poemetto: Lo so che tu non m’odi. Così, di sera in sera, solo ti sciupa il buio. Ove tu non mi pensi e pìú t’incurvi nel tuo grido ormai secco nel petto. (p. 82) Contribuisce alla riuscita di questa figura anche il taglio che resta più scorciato. Insomma passando dalle Lettere della sposa demente a Mia figlia è innamorata la vicenda si temporalizza, ora vi è una trama, che si complica mediante il vecchio artificio di una mezza agnizione della figlia-sposa che è poi sposa-madre (figlia poi donna) che finisce col pregiudicare il loro libero comportamento. Non a torto il Frattini così concludeva: « Non diremmo che la più vasta e complessa orchestrazione del tema originario abbia giovato... all’intensità e all’intima necessità della parola poetica. E se le accorte riduzioni, rilevabili per il II tempo, sul testo delle Lettere, testimoniano più rigorose esigenze formali, altrove si avverte il concedersi a un gusto sottilmente compiaciuto della figurazione astratta, campita e delibata sui puri arabeschi di un sogno, il cui lento dipanarsi, su una candida geologia di sensibilità - al limite di una innaturale casualità e di una « follia di comodo » - ingenera qua e là un senso di gratuità e di monotonia... » ‘. La ballata Viaggio di nozze al 3 A. FRATTINI, in « Humanitas », novembre 1969, p. 840. 68 paese di nessuno inclusa nel volume Ballata per mille ombre continua il tema delle Lettere della sposa demente. Essa fu scritta il ’53 subito dopo la loro pubblicazione. Qui l’amore, anche se il linguaggio si è disciolto .n cadenze iterative, ha perduto la demenza del sogno e si è proiettato n un futuro prossimo (andremo, incontreremo, vedremo, pasceremo, scriveremo, viaggeremo) che ha riassorbito ogni singulto, ogni tensione. Vi resta la speranza-certezza: Andremo a villeggiare a un’isola verde, dove si fanno ceste con raggi di sole …………………. e si può scrivere t’amo sulla luce. I Poemetti pubblicati nel ’58 sono stati scritti tra il ’50-53. Questo spiega il loro legame stretto con le Lettere. Diciamo subito che il poemetto d’apertura « La sonnambula in esilio » (1950-’51) è senz’altro un anticipo della sposa demente. Non solo l’amore è al centro del poemetto quanto la vicenda si svolge in un’atmosfera di sogno, al limite della realtà. L’altra caratteristica che avvicina la sonnambula alla demente è l’impossibilità dell’amore che ingenera nel personaggio solitudine e un palese desiderio di amore verso la natura. Anche qui la pena si estrinseca nel parteciparla ad altri esseri: la rosa, la tortora, le farfale. il vento che sono gli interlocutori di questo monologo: Ascoltami, tu, rosa venuta fin dietro i vetri. Ascoltami e non dirmi che son triste. ......... …e quando dormo guarda se ancora penso o sogno chi non torna. (p. 7) Come pure la demenza (qui appena partecipata), l’essere in preda al sogno, il dissolversi di ogni misura spazio-temporale, creano in tutto il poemetto quella fabulosità che è propria della fiaba. Invece nel « Soliloquio di una fanciulla antica » (1949-50) è il fiabesco il tono predominante. Il linguaggio ha tutti gli ingredienti della fiaba (il tono del racconto, l’uso frequente del discorso diretto, l’inizio del verso col quando temporale, ecc.). Addirittura il raccontare è la misura di questo poemetto; un raccontare, a volte, eccessivamente innocente ed ingenuo: Nonna mi dice sempre: Vedi la luna? Vedi la sua faccia? Guardala, guardala sempre. Essa è una signorina che non volle morire. Mai volle morire veramente. E allora se ne andò nel cielo 69 per essere felice e non morire. lo so che non ancora è morta; non è morta; ma si è fatta più bianca. (p. 15) Si noti anche l’uso insistente del verbo dire (mi dice, mi ha detto) proprio della narrazione; e nel finale il racconto porta al sonno e al sogno. Questo poemetto ci induce a pensare che sia stato scritto proprio per gli adulti-bambini e bene starebbe in un’antologia di favole e racconti. Meglio risponde alla natura miticofavolosa della poesia piazzolliana. Il sogno è la ricreazione di un sovramondo, vero e solido mondo, oltre l’effimero del sogno; perchè questi poemetti non sfociando nella favolistica didattico-morale sono un chiaro ritorno del poeta all’infanzia; rifugio alla sua solitudine: Se la luna venisse sul mio letto a farmi compagnia, io la vestirei da sposa con il velo: quello che la nonna nascose in un tiretto dicendomi, felice: questo non è un velo; questa è l’anima mia; e chiuse a chiave. (p. 31) Il verso qui è un puro pretesto che sottintende un più vasto disegno autobiografico e una pena più vasta che l’apparente ingenuità della scrittura in parte riesce a nascondere. Ora questa « ingenuità » è anche l’estraneità di un mondo non suo; il fuggire sin da giovane il suo mondo meridionale: prima Parigi, poi Roma. Eppure questo dolore non si traduce in lamento verso la sua terra che apparentemente mai riesce ad essere oggetto immediato di canto. Estraneità che è sempre avvertita: Io sono fermo in un celeste esilio a guardia della luce. (Quando l’angelo parla) E pensiamo ad autori come Quasimodo, Gatto, Sinisgalli e ai più giovani Scotellaro, Pierro, Marniti e al recupero tramite la memoria della loro terra, avvertita in un mondo lontano dalla loro esistenza, ma gioia immensa. Gli accenni di Piazzolla al Sud sono rarissimi, quasi evitati, e in genere sobrii; la pena è quasi trattenuta: Morire fra gli ulivi; con le cicale in festa, e l’afa meridionale sulle cime. (da Le favole di Dio, p. 146) 70 Non ha che pietre e vento il mio paese... (da Il mattutino delle tenebre, p. 43) Ma il recupero della terra avviene mediante il tema elegiaco incentrato sulla figura paterna e per questa via la sua poesia si salda alla tradizione lirica meridionale. La figura del padre, a parte la sua popolarità nella poesia del Novecento, e in specie in quella meridionale (e pensiamo al volume di Spagnoletti A mio padre, d’estate), ritorna sistematicamente in tutti i volumi del decennio 1950-60. Non solo come simbolo affettivo, ma bisogno impellente di sentirsi attaccato alla propria terra tramite la sua amara esistenza. In questo senso il filone elegiaco e il filone favolostico s’incontrano. E i lineamenti lirici di questa figura ricordano la forza dei versi al padre di Sbarbaro. Non insisteremo mai abbastanza sulla dialettica padre-infanziaterra-solitudine che è un altro punto di forza della poesia piazzolliana. E ascoltiamone insieme qualche canto: E tu, padre, metti radice alle nuove ginestre. L’aria d’aprile non sa che sei venuto alle sue contrade di fiori. Ti sanno a memoria tante frasche appassite; e l’ombra che avesti fa da guida alla luna per questa pianura vuota che mi ha fatto straniero. Verrà il tempo in cui ti coglierò come una calda viola al mio paese. (da Esilio sull’Himalaia, VIII) Il tono idillico è sempre smorzato dai continui riferimenti al paesaggio (le ginestre del v. 2, le frasche del v. 7, la pianura del v. 10, la calda viola dell’ultimo verso). E queste note di paesaggio non avrebbero alcun senso se non accentuassero il senso di estrancità-separazione del poeta dalla propria terra che la figura del padre mette in moto. Si capirà così il senso della nostra affermazione padre-terra-infanziasolitudine. Al di fuori di questa dialettica avremmo annotazioni generiche di paesaggio e disarticolate invocazioni affettive. Un volume che in effetti sembra staccato da tutti gli altri, ma che fa il punto su questo primo Piazzolla è Adagio Quotidiano (1958). Per la verità Adagio Quo71 tidiano resta un diario, se vogliamo lirico, più che un libro di poesia. Un diario in versi che esplicitamente preannuncia le prose di E l’uomo non sarà solo. L’infanzia, il sentimento della morte, della solitudine, la figura della madre e del padre, sono questi i temi che riempiono il volume. Temi che però mai si risolvono in poesia proprio per quell’urgenza di autoanalisi, di autocritica da cui in fondo sono dettati. Le clausole gnomiche testimoniano di questa eccessiva prosasticità, di questo ritornante cardarellismo di Piazzolla. Si legga ad esempio Vivere non è umiliarsi: Esistere è giacere nell’essere: soffrire tutto per amore finché andremo nel sole Si noti l’attacco iniziale filosofico (esistere è giacere) che si continua in tutta la lirica con rigidità sillogistica: Se è vero che il mondo è soltanto il sogno di Dio, ogni giornata è luce meritata... pure ragionativa è la struttura sintattica del componimento completamente innervata sugli infiniti esistere è giacere; vivere è non umiliarsi; vivere è... intendersi. La tendenza all’analisi, ereditata anche dalla familiarità con la filosofia, si estrinseca nelle prose di E l’uomo non sarà solo (1960). Confessioni che si accavallano e che ritornano con puntuale frequenza nei quarantacinque capitoli di cui si compone il volume. E la chiave d’interpretazione dell’intero volume va cercata in una frase posta all’inizio dell’ultimo capitolo: « Ho scritto soltanto per conoscermi. Ho tentato la sapienza: ecco il crollo »4. Questo senso di autoconoscenza e di penetrazione all’interno del proprio io informa questi pensieri, anche se mai vi è in lui quel solipsismo, quel pirandellismo, quella negatività propria delle filosofie e delle poetiche del Novecento. Vi domina un senso di smarrimento, di amarezza, di rimpianto che è insieme attaccamento alla vita e bisogno di viverla fino in fondo: « La mia giovinezza è finita... Mi stringe l’amarezza degli anni e l’ostilità di un mondo che si brucia. L’indifferenza è terribile. E’ finita anche la poesia e sono solo »5. Ma fondamentalmente è il bisogno di sentirsi radicato in Dio, di non averlo cercato invano che anima queste pagine. E ancora ce ne fa certi il finale dell’ultimo capitolo: « La speranza è questo sentirsi assolutamente vivi nel pensiero costante della morte. Gli uomini di domani scopriranno questa tenera dimensione del tempo. Faranno un 4 5 ibidem, p. 155. ibidem, p. 31. 72 coro, come lo fanno, da sempre, i morti di tutte le latitudini che ci vengono dietro come tante foglie secche e non ce ne accorgiamo. Per questo. senza sapere perché, ogni morto è vestito a festa. E sale dove siamo tutti fratelli; dove Dio solo parla per tutti, col suo silenzio da sempre »6. La morte insomma è l’ultimo atto per chi cerca Dio. Anzi il pensiero della morte come ricongiungimento, come svelamento della presenza di Dio ritorna più volte come in questo capitolo quindicesimo: « Quando verrà la morte, spero di scoprirmi definitivamente... Pare che la morte si avvicini proprio come un alito in cui la memoria può scoprire tutto ciò che nasconde. Pensate di ritrovare tutta la vita in pochi istanti. E’ il miracolo del tempo che soccombe davanti all’eternità di Dio, venuto a visitarci in un momento così terribile da farci tacere per sempre »7. Non mancano ricordi autobiografici, pensieri, disgressioni filosofiche, come tutto il capitolo XXIII che si attarda sul problema della felicità e del male. Ma sono queste pagine dettate dall’urgenza di giustificare le proprie azioni, di dare un senso alla propria vita, e quindi indirettamente espressione della tensione religiosa del Piazzolla. Mai i ricordi (siano essi affettivi come la rievocazione della figura materna e paterna; siano essi esperienze di vita vissuta) sfociano in blande pose rievocative o le confessioni in uno stato morboso di autoeccitazione. Così mai del Dio di Piazzolla riusciamo completamente a farcene una idea. Proprio per quel continuo sentirlo vicino e lontano. E questo andare tra cielo e terra fa slittare la prosa in un lirismo, caratteristico del Piazzolla-poeta, che si estrinseca in preghiera. E la preghiera è tutt’uno con l’uomo Piazzolla, in quanto essa non nasce da un’analisi esistenziale (e pensiamo a Papini): non è il volume un diario di un uomo finito o tantomeno provvisorio: né frutto di una stasi mistico-contemplativa. La sua spontaneità ci ricorda qualche preghiera a Cristo di Claude e ascoltiamone qualcuna: « Non te ne andare, Signore; non smettere di sognarci anche se tutta la terra è colma di fanciulli uccisi. Lasciaci pregare almeno senza il tuo nome, se tu sai che siamo assassini: se ci pesa la carne e questo antico sangue che ci brucia... Non lasciarci quaggiù se vanno più lontane le tue stelle, da sempre. Dacci l’amore quotidiano e la ragione e il sole; fallo per i fanciulli e le farfalle che scendono dal tuo riposo a dirci che la vita può essere un volo... Colma il nostro abisso almeno con un tuo raggio e torna nelle parole a dar senso alla vita. Da tempo il nulla ci chiama con tutto il buio e l’uomo non sa se è vero più il tuo cielo o la sua fine. Parlaci una volta del tuo paese intatto. Che domani l’aurora sia colma delle tue colombe, colma della tua luce e di silenzio »8. ibidem, p. 160. ibidem, p. 48. 8 ibidem, 150-152. 6 7 73 La disposizione fantastica che aveva trovato piena attuazione nelle Lettere ritorna con altra misura ne Gli occhi di Orfeo (1964). In apertura Piazzolla chiarisce la sua poetica. Vi si legge: La parola è sola. Fa luce. Aggiunge suono al vuoto ed è raggio d’un paese volato. Pronta a chiamarsi assenza o a farsi aureola di qua dal Nulla. Ha sangue d’oro. Vocali ad ala fulmini accesi dall’Eternità. Scatta l’usignolo d’una sillaba e segno resta: null’altro. La parola è tuono di favola, cominciata e finita. Chiama l’angelo. Scorta l’uomo. Addiziona i Soli sulla lavagna e inventa il dio che non c’è. (Poetica) Ora che altro è questo manifesto se non l’esposizione della sua poetica? O almeno la poetica de Gli occhi di Orfeo. Non si vuol dire che il Nostro è un voyant o un orfico come ha affermato il Pento9. A noi sembra che non si possa parlare di un orfismo piazzolliano della parola almeno nell’accezione onofriana e campaniana e in genere di gran parte di un certo ermetismo. L’orfismo consiste sì come vuole il Pozzi: « ... in questa sopraffazione del canto sopra il significato, nell’irrazionalismo metasemantico che domina e determina, con impeto oscuro, il contenuto di Onofri, di Campana, giù giù, fino ad Alfonso Gatto, a Parronchi o a Sinisgalli »10, ma implica altresì dei conati metafisici e delle entrature simboliste assenti nella parabola piazzolliana. E quando il Piazzolla dice che La parola è sola. Fa luce. non ci sembra voglia dire quasi simbolisticamente che essa è un mezzo di penetrazione del reale o meglio del mistero, dell’inconnu, ma piuttosto che è sufficiente a ricreare tutto un mondo di sogno, di favola, d’irrealtà. Infatti aggiunge suono al vuoto ... / Ha sangue d’oro. Vocali ad ala... / è tuono di favola... / Addiziona i soli sulla lavagna / e inventa il dio che non c’è. Ed è in questa ricreazione di un sovramondo, riscattato solo dalle immagini, per cui diventa ba5 Cfr. B. PENTO, in « Annali della Pubblica Istruzione », gennaio-aprile, 1965; si veda anche N. SIGILLINO, in Persona, giugno 1965. 10 G. Pozzi, La poesia italiana del Novecento, Torino, Einaudi, 1970, p. 116. 74 roccheggiante, il significato e il valore della parola. Né vogliamo dire che Piazzolla qui fa prova della poetica delle parole in libertà che si uniscono o si allontanano, si sommano e si sottraggono in preda ad un’empiria immaginale. Né fa della poesia visiva o fonica allineandosi ai movimenti avanguardistici di quegli anni. Per cui è questa poetica della parola in pieno accordo con la parabola lirico-evocativa e lirico-favolistica del Piazzolla. Certo si deve prendere atto di un neobarocchismo piazzolliano proprio come esplosione della parola, prepotenza delle immagini, delle sensazioni, dei suoni, dei colori sui contenuti. Infatti dalle Lettere, attraverso il passaggio obbligato dei Poemetti, a Gli occhi di Orfeo, l’assottigliarsi del contenuto fino alla sua scomparsa è evidente: Il fulmine giocava al cervo tra i boschi di nuvole obese di tuoni e crepacci briosi d’acqua nuova. Poi la pioggia, con aghi lucenti, trafisse le foglie accartocciate sui rami; e l’aria musicò, tra il ridere del piano, le margherite. (p. 9) E non mancano zone di puro capriccio, di vaga surrealità, dove l’appariscente analogismo incuriosisce: Butta sangue la nube. E’ un agnello sgozzato sui gigli dell’onda. Fiorisce d’api il ponente: scocca la luce sconfitta fra mille campane. Perde porpora il sole: cardinale impiccato a una forca di rame. Squilla il fondo marino. Appare la stella bianca caduta giù dalla luna. Talora come in Estate quasi sulla scia di Marino la natura si esalta in immagini eccessivamente lucidate, sontuose, colorate: Ecco l’estate col dorso di cicale e l’anima di calce. Butta cetonie ed api dai suoi rami di luce. 75 Si scioglie nei frutti scivola nel miele: è frasca sonora al vespro. Asciuga l’ombra ha il sapore del sangue. E la rosa, la farfalla, il sole, il vento sono momenti di questa esaltazione, che non evita il fastidio dell’amplificazione e finanche la monotonia dell’elenco: Cinque vocali cinque rondini che vanno a scuola. Nelle vocali fanciulle il volo delle vocali. Sui fili d’erba la voce delle rondini. Aula bianca nel bianco volo delle vocali. Prato verde nel verde canto delle rondini. Questo neobarocchismo di Piazzolla trova la sua misura più valida nella sezione « Gli occhi di Orfeo »: immagini in fuga, suoni, colori, ritmi, legati tra loro da un tessuto lirico fragilissimo al limite di un frammentismo impressionistico: Sulle vetrate volano agili uccelli colorati di fresche ferite. Queste felici impressioni che sono già un avvio verso il recupero semantico della parola non sopportano altro peso se non quello di una lenta sillabazione che crea un dolce piacere retorico. Ed è proprio nella levità di immagini senza peso, scorporcizzate, la misura de Gli Occhi di Orfeo. Le ultime due parti Dolore e morte e il poemetto Il mare sono un ritorno alla parola pregnante di significato; a una dialettica di vita-morte che sostanzialmente riabilita il contenuto. In particolare il rapporto dolore-morte che presuppone quello di nascita-vita è visto alla luce di una natura umanízzata che partecipa agli avvenimenti-accadimenti della vita umana. 76 Gli scrittori al Caffè Strega: (da sinistra a destra) Carlo Ternari, Guglielmo Petroni, Marino Piazzola, Vincenzo Cardarelli, Vitaliano Brancati e ErcolePatti. 77 VIAGGIO NEL SILENZIO DI DIO La dimensione religiosa nella poesia piazzolliana non è un fatto marginale e tanto meno di poco peso; in effetti l’intera sua produzione sottintende (e come non lo potrebbe la poesia) una presenza costante: Dio. E se la dimensione religiosa resta per così dire nascosta sotto un apparente disimpegno idillico-elegiaco fino a Elegie doriche e alle Lettere della sposa demente esplode in Esilio sull’Himalaya (1953). Ora Piazzolla non è un poeta dichiaratamente religioso almeno nel senso confessionale del termine. La sua poesia religiosa nasce da un’insoddisfazione umana, da uno stato di irrequietudine-solitudine comune a tutta la sua poesia. Insomma Dio non si pone come alternativa ad un mondo dominato dall’ingiustizia o dalla barbarie. La sua preghiera nasce proprio dal bisogno di sentirlo vicino giorno per giorno: « Mi dispero perché non potrò mai ricordarmi di Dio. Ci sfuggiamo da sempre... Eppure batte col mio cuore e si colloca in me come una dimensione su cui è vano ragionare. Mi è necessario come l’aria e come la luce del sole dopo il sonno »11. In Esilio sull’Himalaya il dialogo con Dio accenna a farsi serrato e perfino angoscioso. Infatti Dio è qui luce, come il mondo è tenebre: T’immagino vestito con il raggio che abbaglia (p. 11) dove non sei che favola di luce (p. 17) Pensarti è vestirsi di luce (p. 18) Io torno alla tua luce (p. 22) e ancora dantescamente Dio è guida, abisso, sapienza, pietà, rifugio. Un dialogo sempre riferito ad una condizione umana precaria: Io brucio e tu m’inchiodi a questa magra terra. Così consumo i giorni senza mai fissarti mentre vai più lontano. (XX) Ma Piazzolla è riuscito a tenersi lontano sia dagli ardori di una commozione troppo sdolcinata sia dal peso di una parola eccessivamente indulgente all’enfasi del cuore; come pure ha saputo evitare il rigore metafisico del verso di Comi: 11 M. PIAZZOLLA, E l’uomo non sarà solo, cit., p. 27. 78 Ch’io mi perda, come sopra un nevaio, per accostarmi a te, o antica mia innocenza. (XXXII) Dove l’inizio del primo verso crea un alone di smarrimento e di dolce perdimento nell’innocenza di Dio. Con Le favole di Dio (1954) il dialogo subisce una brusca svolta. Il linguaggio si offre a spunti filosofici su una linea di interrogazioni in cui il dialogo-preghiera di Esilio si arrende all’ipotesi di un monologo-assenza. Dio è relegato nella concavità di mondi favolosi, in plaghe, gli intermundia lucreziani, dove ogni voce umana sembra perdersi nella immensità degli astri: Eppure siamo soli e tu non odi quando chiamiamo tanto è il tuo silenzio. ... Ma sei dove nessuno potrà giungere: sei dove nessuno può pensarti. (Dio è solo, v. 23-24; 59-60) Qui il recupero di Dio avviene all’interno di un discorso che Lo nega in tutti i suoi attributi, sentiti dal poeta troppo lontani. Piazzolla, così ci sembra, non ipotizza un mondo senza Dio quanto Lo nega nella sua infinità per recuperarLo come possibilità realmente umana. E’ una sfida che non ha altro significato se non quello, anche se non mancano sfumature ironiche, di accentuare la fragilità della condizione umana: Il passo tuo guida fanciulli uccisi. La tua parola è per i sordi che sognano. ... tu non sei mai morto sulla croce per la troppo innocenza che ti preserva dai millenni. . . . Tu sei troppo eterno per venire quaggiù come un’eco sulle labbra. (v. 80-82; 91-94; 107-109) E ci viene in mente Piccolo uomo di creta di Cosma Siani12 12 Cfr. C. SIANI, Ciclo chiuso (trenta poesie), Poggibonsi (Siena), 1972. 79 dove gli stessi interrogativi si fanno eco di una condizione esistenziale tormentata fino ai limiti della negazione. Ma dicevamo questo tormento è assente in Piazzolla e il finale della lirica è da sillabarsi in lenta preghiera: O signore, ... lasciaci soli nella vita lasciaci soli nella morte che a nulla serve credere . . . accompagnaci soltanto per l’infinito quando non saremo più. (v. 132; 135-137; 142-143) Il crollo del Tempo e Tempo di sangue registrano un acuirsi delle immagini fino all’esplosione magmatici di ” Sabba ,, che è il canto del dolore umano. Gli accenni apocalittici ad una realtà terrificante di distruzione e di morte sono frequenti: I fanciulli si uccidono in piena luce con le armi che sognano. E’ cessato il tempo delle rondini. Le colombe si vedono sui quadri dipinti e nelle feste sono sole le girandole cinesi e le orchestre pazze. ... Poeti murate la bocca e fate bancarotta sulle onde se il sole ha sete di oceani e la fame non basta a punirci. ... Dai pulpiti di ossame anonimo predicano i profeti di pietra e il loro giorno è grazia nera sui nostri pensieri inabissati. E non v’è chi non veda in questi versi un’allusione agli avvenimenti contemporanei e un’ironia sprezzante fino al sarcasmo. li linguaggio si carica di tinte epico-narrative sconosciute alla sua poesia. Meglio la contaminazione tra cadenze epiche e litaniche fa slittare le immagini in una demenza linguistica e sintattica, espressione di una visione di mondi quasi in ebollizione: Verranno qui a piegarsi le foreste in bufere di foglie immense 80 sui capelli dei vivi; verranno a gemere in tuta nera gli operai dai volti rotti, appena sarà viva la notte e suoneranno le luci altissime dell’Orsa... (Verrà il vento stanotte) Il Mattutino delle tenebre (1966) resta uno dei punti più alti della tensione lirico-religiosa di Piazzolla. Tutta l’acerbità, il tormento, i singulti de Le favole di Dio si sono rasserenati nel ritmo composto e disteso della confessione. Nell’Esilio sull’Himalaya la preghiera domina come punto di partenza e d’arrivo dell’inquietudine piazzolliana, in quest’ultima Dio è al centro di un canto più vasto, al centro di una natura redenta dal suo sacrificio. Piazzolla in questo senso rifà la storia di tutti gli uomini in ascesa verso Dio. La sua storia individuale qui conta ben poco. All’io si è sostituita la coralità del noi: Ti offriamo le mani crudeli. Ti offriamo le vecchie parole ... E ora basta di vederci assassini! Te lo chiede il fiore che si sente fratello e il tronco che ti saluta agli eventi la natura: Ce lo dice il monte che chiude a sera un mare di ginestre. Ce lo dice il sole che batte ai vetri, come un usignolo di scintille, all’alba. E la memoria di Dio è certezza del perire delle cose umane: Quaggiù esatto è il solo perire in una gelida penombra di stagioni. Se tu non fossi che parola vuota io avrei la morte certa. Allora Il mattutino delle tenebre è il limite-confine dove l’uomo scopre Dio. Questa felice condizione di dialogo s’interrompe nel volumetto Per archi impazziti (1970). Se il paradigma di riferimento resta pur sempre Dio, in effetti Piazzolla si abbandona ad una specie di 81 lussuria della parola che allarga le maglie del discorso in saliscendi di immagini che non solo scompigliano per gli ardui riferimenti e vorremmo dire anche sintattici, quanto per il disperdersi delle immagini in pure e rabescate creazioni ipofantastiche come il titolo stesso vorrebbe suggerire. E ascoltiamo l’inizio di una lirica presuntuosamente meditativa: Ho visto l’anima. L’ho vista come un’ala che abbaglia il buio. Ho udito l’anima: ho udito un’arpa e c’era il mio silenzio. Suonava con verdi scale d’usignoli gole d’aria d’ovunque. . . . Ho udito i galli svegliarmi negli occhi papaveri, lampeggianti negli anelli dell’alba. (In interiore homine) L’intera lirica vorrebbe essere un fantastico viaggio dell’anima all’interno di se stessa, condizione indispensabile per un Viaggio nel silenzio di Dio. In effetti la prolissità delle immagini, il ritornante barocchismo, fanno scadere il componimento in un gioco di preziosità e di geometrie finissime: Vedo architetture emergere da nebbia; fiato rosa di mesti simulacri guizzi d’alte nubi, guide arcane vive nei colori . . . Ascolto antiche note echi di conchiglie brusio di fossili nel sasso moti di candide geometrie. In Gesù muore ogni giorno l’ordito intellettualistico è maggiormente evidente per lo scadere del dialogo, né preghiera, né confessione, in una inventio che fa lampe9giare le immagini: 82 Ardi come fiocco d’alba e scendi alle spelonche, tu, invisibile. La luna è vela sull’occhio. L’angelo t’asciuga parole; lo scheletro è radice sotto il buio e tutta la tua carne schizza stille come gerani. Il tuo volto è un incrocio di rughe improvvise: paesaggio di vecchio pianto spremuto all’agonia. In particolare il contrasto tra Dio-luce-creazione-potenza e Diouomosofferenza-dolore è niù nel cuore che nella parola, più presunto che vissuto. Con Viaggio nel silenzio di Dio questo pericolo è corso sin dall’ inizio. Non solo perché Piazzolla tenta il lungo poemetto, accettando una misura stilistica a lui non molto congeniale; soprattutto perché ubbidisce ad una poetica, e non solo poetica, ma ad una filosofia, ad una teologia, che impongono al poeta difficili equilibri e suture non sempre riuscite tra zone filosofico-teologiche e aperture liriche. Il viaggio segue la duplice linea dalla natura a Dio, da Dio alla natura. Ma il fatto più importante è che Piazzolla trasferisce la possibilità di questo disegno su un piano puramente metafantastico. E non è da escludere l’influsso dei simbolisti da Rimbaud a Mallarmé e la tranche surreale di Breton ed Eluard. In effetti questi influssi restano marginali, interessano più la scrittura che non il disegno piazzolliano. Lo squadernarsi della scrittura quasi magmatica è l’effetto d’un’esplosione fantastica, d’una fantasia che ha fatto come sua misura il proiettarsi dell’io in un al di là. In questo senso il poemetto è in intima connessione, perché ne è il superamento, sia delle Lettere che de Gli Occhi di Orfeo. Piazzolla si è liberato di ogni riferimento temporale. Ogni visione, anche quelle che ci riportano apparentamente nell’al di qua, labili riflessi dell’io che si ricorda del mondo (ne vede le meschinità, gli odi, le lotte, le catastrofi; ne osserva gli spettacoli naturali, le meraviglie, le creature ecc.), si situano in spazi di mondi, più o meno vicini a Dio. Mentre si stabilisce sin dall’ inizio del poemetto un curioso rapporto di causa-effetto tra immagine-parola e veicolo linguistico responsabile in parte della scrittura automatica. Insomma la « qualità » del viaggio non giustifica, come vuole Aventi 13 « l’apparente alogicità di alcune strofe ». Ed anche l’impostazione filosofica inaridisce e coarta la vena lirica del Piazzolla. Favorisce il dualismo linguistico del poemetto che sem13 Cfr. G. AVENTI,, pref. a Viaggio nel silenzio di Dio, Roma, Ippogrifo, 1973, p. 8. 83 pre si attorciglia tra il frammento alogico e pause filosofiche, tra scrittura automatica e costrutto logico. Il primo tempo è il tripudio della natura come complesso animale vegetale che fa le sue lodi a Dio. Non mancano abbandoni dove la scrittura si redime in felice tocchi descrittivi: E nel vespro abbandonarsi al vento, che nel grumo di un’onda sbatte il mare, o ti conduce nell’oro dell’autunno, quando il ramo lamenta il distacco di un fiore il filo d’erba ti rapisce l’occhio per condurlo altrove, forse in un verde limbo di svanite mattine. (p. 15). ma subito la tendenza al ragionamento si fa avanti: Ogni immagine è impeto di vita. Necessita d’ogni pensiero e si completa in sé. S’infiamma o cede in un lampo... (p. 16). e qua e là le clausole gnomiche non mancano: Sacro è ciò che allo stupore avvia e si rivela quasi come ferita in ogni gemma del creato. (p. 18). o ancora: Ogni vita è un impeto che scoppia e si colora in un punto. (p. 19). Amore è questo fermarsi nella bellezza, in una luce che lega l’occhio alle cose e le chiama per nome. (p. 21). Altrove l’espressione si fa ardua e per il salto delle immagini diviene oltremodo difficile seguire il poeta: Occorre compiersi fra gli uomini: non basta più evocare; il tempo 84 si fa coltello: e nel midollo che ci regge suona l’essenza, che sale a farsi riso o dolore sul volto, e impasta l’aria e scoppia la parola, nostra presenza tra le cose... (p. 25). Da questo punto fino alla fine del primo tempo queste sacche filosofiche si fano più frequenti e Dio compare e dispare: ora vento, ora silenzio, ora morte in questa cosmogonia universale. Ma solo l’evento onirico ce lo può far penetrare. Si assiste così al sogno del poeta vagante (prima gallo, poi rosa, lucciola, fanciullo) per il mistero dell’universo, fra gli astri, per le profondità degli oceani, per le altezze dei monti. Ci viene in mente il bateau ivre di Rimbaud, ma qui diviene tutto più complicato per i continui rimandi ad un linguaggio che sconvolge la stessa logica: Occorre scomporre l’istante: Qui c’è l’immagine; luce e fumo. paesaggio e acqua in senso verticale, dove passa il mattutino e con l’occhio il poeta ascolta la tangara nel volo... (p. 3 1) Mentre il finale è tutto per una visione babelica del mondo: Già le città hanno viscere per mostri; giardini putrefatti per fantasmi. Ogni muro si macchia di sangue bianco; e sembra calce di lazzaretto lo spazio verticale, dove abbaia la notte che verrà da un sole nero, non si sa perché. Già si tace per i mille rami: qui la terra giace e non c’è buio che basti per la sua voce. O terra, morta fino a Dio per sempre. Il secondo tempo carica di morte il paesaggio. E l’avvento di una umanità più giusta s’intreccia continuamente alla disumanità dell’uomo 85 contemporaneo. Per un momento sembra che Piazzolla interrompa il viaggio e gli prema da vicino la condizione umana. Il poeta abbandona gli spazi siderali per unirsi all’altro uomo, per lottare insieme e scacciare il « mostro »: Ma col sangue perduto s’alza l’uomo che si fa poeta e aiuta chi scaccia il mostro dalla terra, offre fuoco e luce al volto, rivolto al cielo per tacere... (p. 49) In verità subito dopo il discorso si frantuma in rievocazioni di visioni naturali, in nuove « illuminations » edeniche. Il terzo tempo ci riporta nel silenzio di Dio. La contrapposizione tra regno di Dio e regno dell’uomo diventa totale. Ad un mondo metatemporale dove la natura partecipa della gloria di Dio Piazzolla contrappone il mondo terreno: Caotico è questo mondo, che si fa scatto dove la forma erompe e la parola si fa storia per l’uomo. E così vibra il pianto, abisso dì spazio contratto, dove il segno si fa colore di cosa ferma, o forza in movimento nel viso d’un’immagine, che vergine può insorgere e far diversa la terra in moto, fra gli alti soli nota. (p. 56) Vi domina in questo terzo tempo la cupezza di un mondo in preda al caos. Le visioni apocalittiche si seguono senza lasciare alcun spazio alla speranza; ritorna quell’insistente monologo inframmezzato di immagini asfissianti di morte, il periodare si fa ellittico, o si carica d’indeterminazione per accrescere maggiormente la tensione: ... Si va nel senso che strazia e decompone il volto. Si è dentro l’ombra... …Si è soli in quel freddo che piomba al risveglio dal sonno. (p. 57) 86 Il pessimismo raggiunge punte altissime e Dio è sempre più distante da noi. E voler trovare uno spiraglio di luce è vano. Il linguaggio va ad attingere in un’area linguistica ibrida; connotazioni anatomiche, diluite in un verso ametrico che ribolle, si uniscono alle pause di una prosa distesa e quasi rievocativa: la pelle ora si sfascia, l’occhio e la vena dimentica, nel tempo la pupilla vuota. Col sangue si patisce; il teschio calvo, il dente sopravvissuto nella bocca, dove l"alcool distilla un’ebrezza che frana. E si sghignazza per tedio, pieni di sogni uccisi e di speranze sconfitte. Si pensa agli amici scomparsi e si chiama con un silenzio nuovo il tempo che ci ha bruciati; e come un’ombra la donna degli anni verdi s’avanza quasi nel fumo coll’appassire della fronte. (p. 59) Altrove ci sembra di assistere ad un sogno da una passerella lunare e di vedere attorno a noi i pianeti che ruotano, le galassie, le comete. E in fondo a questa visione, di là dei mondi percepiti dall’uomo, comparirà Dio. E il finale è tutto biblico: Tacerà la terra; il vento nelle ossa scenderà dall’Orsa esatta sulla fronte; e infine sarà il tempo a tacere, fra i lumi piú soli d’ogni essere solo sul pianeta. Verrà l’impeto che squarcia il vortice, sanguinerà la crosta cozzando contro un sole nero, che si nasconde dalla eternità. Si vedrà Dio, di là d’ogni silenzio, Occhio solo nell’occhio ed infinito. (p. 66). Certo è che la Resurrezione di Dio quale ci è trasmessa dai Vangeli è tenuta presente in tutti i suoi particolari (Il silenzio, il vento che scuote le membra dell’uomo, il tempo che si oscura fino a fermarsi. Poi il fulmine in mezzo a tanta oscurità, anticipo di un evento più grande: Dio). Piazzolla non dice vedremo, ma si vedrà. Indeterminazione che accresce la sua potenza e ce lo fa sentire ancora lontano. 87 Lo scivolamento di quest’ultimo Piazzolla verso posizioni arbitrarie trova conferma nel volumetto di appunti e pastelli. In un pianeta che ignoro (1974). In effetti uno stretto rapporto vi è con Viaggio nel silenzio di Dio. Non solo rapporto temporale, ma soprattutto ideativo e creativo. Ferrara nel saggio-prefazione al volume parla di: « ... ideogrammi dell’altrove, ierografie cromosomiche affidate ad impulsi in lotta con la massa confusa e, visivamente, articolati nella tensione frenante del tracciato e del collocamento sulla pagina bianca assunta pertanto a significato hylico »14. Non diversamente si era espresso Aventi 15 nel presentare Viaggio nel silenzio di Dio parlando di immagini che si dispongono in una prospettiva a quattro dimensioni e richiamando in causa le teorie pittoriche del Klee e di Kandinsky. Questa rarefazione del contenuto fino alla proiezione di esso in immagini che si associano secondo schemi aspaziali e atemporali segue graficamente il dissolversi della scrittura in Viaggio. Così un ideogramma rappresenta la « rosa di un volto, in bilico sul raggio attento al mutamento di una gemma astrale » e un altro « Torri su torri nel ghiaccio d’una stella ai limiti del cielo » o un « Astronave in un porto veglia sugli anni luce » ecc. Insomma siamo al limite del regno dell’onirico al di là del quale le forze naturali si sprigionano in arabeschi di giochi-luce. Ora tutto questo nasce proprio per il rompersi di quell’unità fantastica che aveva originato le Lettere o Gli occhi di Orfeo. Rottura che qui è delirio del segno, altrove è delirio della parola. Piazzolla anche se non tenta, animato da soli intenti polemici, la bagarre avanguardistica, poiché sempre quel mondo nasce da un’inquietudine dello spirito, vi si porta molto vicino. LA BALLATA La formula Piazzolla poeta della ballata non vuole discriminare il Piazzolla lirico-elegiaco-evocativo dal Piazzolla lirico-narrativo ché un legame stretto c’è tra i due. In entrambi vi corre quella favolosità, quell’estro eccentrico e delirante. Né è da pensare che egli rimetta a nuovo le canzoni a ballo della nostra letteratura popolare o continui la tradizione della ballata romantica. Si vuole, invece, insistere sulla libertà dirompente, quasi anarchica, di questa poesia. E la ballata nasce al limite di una contaminatio tra lirico e narrativo. Meglio come lui stesso ha sottolineato nell’avvertenza al volume Ouando gli angeli ascoltano come bisogno di sostituire la soggettività del poeta al personaggio poetico. Quasi per sfuggire ad ogni forma di autobiografismo e di psico14 F. FERRARA, pref. a In un pianeta che ignoro, Roma, E.R.S.I., 1974, p. g. Il Cfr. G. AVENTI, pref. a Viaggio nel silenzio di Dio, cit. p. 8. 88 logismo che in effetti avrebbero limitato di molto la sua enèrgeia. Il primo volume di ballate Quando gli angeli ascoltano pubblicato nel 1969 risale agli anni 1945-46. Queste prime ballate rispondono all’esigenza di creare il personaggio: « ... un personaggio non narrato, non descritto, non dotato di qualità più o meno talentosamente escogitate, o anche acutamente analizzate dal prosatore o dal poeta, ma che è egli stesso la sua dimensione poetica, nell’amore, nella malinconia, nella speranza, nella morte » 16. Così la ballata « Un negro in Paradiso » rappresenta il mito della libertà, « Lamento di Carmela madre » il mito dell’amore filiale, « Il pilota scomparso » il mito della temerarietà, « Il sole » il mito di Ulisse, ecc. In tutte la dimensione discorsiva sostenuta qua e là da slanci lirici ci sembra la caratteristica costante. In particolare in « Quando un angelo ascolta » certe arie e alcuni recitativi ci portano nel clima delle Lettere: Una notte venne il mare nel petto. Sentii battere alla finestra. Fuori c’era solo l’aria e nel mio cuore un altro cuore. Mentre sin d’ora Piazzolla non sa resistere a certi sfoghi che creano vere zone di stasi come nelle ultime ballate: « Ballata tragica per Ciampolini », « Luigi Ciro Martini suicida », « Canto funebre in morte di Giuseppe Di Vittorio ». Qui la creazione del personaggio diventa un’operazione a posteriori, meglio si attua la poetica del personaggio. I fatti presi a raccontare sono assunti nella loro immobilità. E’ la notorietà dei personaggi o lo scalpore della loro morte a impressionarci di volta in volta. La ricostruzione si attarda su particolari della loro vita che ci incuriosiscono lasciandoci indifferenti. Non tanto assistiamo allo sliricamento o allo sliricizzarsi della sua poesia quanto a un certo compiacimento, a un neo-crepuscolarismo ritornante. Compiacimento che è massimo nel « Canto funebre in memoria di G. Di Vittorio » dove la morte non viene assunta simbolicamente a significare il senso della caducità della vita umana o cristianamente il ricongiungimento dell’uomo a Dio. Il poeta si attarda a cantare le sue lodi ricreando il personaggio in un’aria di estrema morbidezza: Ti ricorderanno le sirene al mattino quando gli occhi degli operai lacrimano pieni di freddo dolore e le mani sono soltanto mani abbandonate. Ti ricorderà il bracciante che vede crollare il suo scheletro ____________ 16 G, AVENTI, pref. a Gli anni del silenzio, Roma, Cardini, 1972, p. 18. 89 e abbraccia il tronco che non è suo. Ti ricorderà il vecchio in esilio nei suoi ultimi giorni e la madre che ai figli offre soltanto il pane sognato ogni notte. perfino troppo enfatica, sostenuta dalla martellante anafora triadica: Chi ti chiamava era muto. Chi ti pensava non era più solo. Chi ti portò tra i fiori. Con Il naese d’Iride (1962) l’eccentricità di questa poesia risulta chiaramente. Oui il frammentismo in sospensione de Gli occhi di Orfeo si articola nella struttura ampia della ballata. Piazzolla inizia la penetrazione in un regno non meno favoloso di quello della natura o di Dio: il colore. Il contenuto tradizionale a cui in effetti era legato (si pensi ad Elegie Doriche, Poemetti, Adagio quotidiano) s’invola per cedere il posto ad una inventio che non è solo un invenire, ma è uno scomporre l’anima degli oggetti con la fantasia. Non esistono più davanti a lui gli oggetti, le cose, ma i colori e i loro rapporti con il mondo esterno: Nell’orchidea si spoglia una bimba cinese e coi fiato spinge l’ombra del seno a posarsi sui vetri. Coi rosso sul dito puoi svestire la nube fare un orto sul dorso dell’agnello appeso al cielo. o ancora: (Farandola per Niko Nardulli) Lo zampillo dell’iride cola sul martin pescatore. . . . Prendile il rosa e il viola che fa da vena al cielo poi schiaccia la colomba celeste contro il bianco curvo dell’orizzonte . . . 90 Per impastare il sole e allungarlo nel velo di cenere metteresti un pavone a far vento a una vetrata che mette in fuga i colori a picco. … Se vuoi comporre il caos o sciogliere la luce in uno specchio spremi due rose pungiti con la spina e lascia il sangue colare sui crateri scotti. (Gavotta per Edoardo Giordano) Siamo al limite di una poesia che, proprio per questa sua fuga del contenuto, poggia esclusivamente sul proiettarsi in avanti della fantasia, non senza il rischio di assottigliarsi in una docile prosa in versi. Insomma il rischio di una poesia riflessa è corso sino a prevalicare ogni misura ritmica. Il pericolo è nella fantasia stessa che compone e scompone la realtà a suo piacimento. E se pensiamo a Gli Occhi di Orfeo, al Viaggio nel silenzio di Dio l’ipotesi avanzata dal Sigillino17 di « una scapigliatura novecentesca » non è poi azzardata. Anche perché in tutto questo è evidente l’atteggiamento polemico di Piazzolla nei confronti di una certa tradizione aurea della nostra poesia. Una scapigliatura non sempre spinta fino in fondo se in questo paese d’iride Piazzolla accetta la polemica sul terreno degli altri anche scomponendosi: Si uccide perché soltanto la vita degli altri non vale. Terra di trippe accomodate piena di cavalieri mascherati borsaioli di luce figli di fauni traditori e di ninfe cornute. (Minuetto per Antonio Delfini) o come in « Rondò per Michele Parrella » dove la tradizione, il recupero del paesaggio diventa lamento per il Sud: A Matera si suona il cupo cupo per le feste nere- 17Cfr. N, SIGILINO, in « La Fiera Letteraria », 14 ottobre 19-62. 91 preludio agli amori di giovani che hanno camicie bucate e tasche piene di bestemmie . Il volume Ballata per mille ombre (1965) raccoglie le ballate scrítte tra il 1951 e il 1959. Certamente il libro in cui Piazzolla è disposto a sorridere, a concedersi una pausa, a guardare il mondo con una superiorità, con un distacco quasi ariostesco. Vi riversa il suo humour leggero, divertito: lo sono un dittatore senza scettro e propongo la luce alle stelle. Giuocheremo allo sposa con la luna, faremo il sole compare di nozze. Inviteremo i santi a fare un coro e ognuno di noi avrà un angelo a braccetto. (Dittatura bianca) Uno strano mondo, perfino assurdo, dove tutti sono assassini. Il re non meno del prete, il politico e l’uomo della strada, il poeta e il giudice, sono presi alla berlina. Su di essi, protagonisti indiscussi di queste ballate, Piazzolla riversa il suo sorriso e in contemporanea la sua satira amara. Proprio come bene ha nuntualizzato il Marotta nella prefazione qui « favola e beffa si amalgamano ». Un mondo dove la ragione, il filo della logica sono capovolti non in funzione di un vuoto irrazionalismo, ma perché il sogno diventi realtà, la realtà sogno. E siamo ad un’altra antinomia di queste ballate realtà-sogno. E ci viene in mente il nostro Carrieri e il Prevert di Storie e altre storie. Ma la novità di queste ballate è il ritmo arioso che ora chiama in causa la rima, l’assonanza, la consonanza. I cardinali se ne andranno tristi a deporre la porpora sui lampioni e li vedremo scavare le fosse per sepellirsi con rassegnazione. Faremo entrare lucciole e milioni nelle stanze dai muri gentili; vestiremo a festa finanche le ortiche e i rospi impareranno le orazioni. (idern) Ma è in « Ritocchiamo la vita » che il Nostro mostra la sua natura di poetasognatore, di poeta delle favole (non sono forse delle favole Le lettere della sposa demente o i Poemetti?). Il suo stato di anarchico sognatore è l’infanzia, il ritorno alla natura. In « Luna park » l’ironia si riacutizza: il mondo è diventato una luna park sulla stregua delle 92 filastrocche di Gianni Rodari e a farne le spese sono ancora ministri e re, cardinali e angeli, re e papi: In un trenino che non fa rumore viaggiono le bambole cocotte; è qui un monsignore scamiciato che fa discorsi ai grilli mutilati. Chi vuol farsi eleggere ministro basti che rubi un piccolo orologio al controllore che è sempre distratto e giuoca all’aquilone con la nube. Scesi dai loro piedistalli, certamente più buffi, senza corone, senza mitrie, diventano piccini piccini come tanti bambini. E’ questa fusione di ironia e favolosità, di sogno e di realtà, che fa di Ballate per mille ombre il libro meno lirico di Piazzolla, ma il più umano perché nasce da una condizione umana che ha risolto il rapporto io-altri nel monologo dell’io per il quale la realtà è estraneità, rottura: Si liquida, si liquida, Signori. lo sono un venditore di passaggio vendo collane di schiuma al mare e medaglioni con goccie di luna. ... Vendo poi al dettaglio l’ombra mia che conosce a memoria le strade del mondo e fa da lampione nei vicoli oscuri. (Bazar in liquidazione) La ballata si appesantisce in Per archi impazziti relegata al ruolo di un repertorio d’immagini che creano all’interno del verso il gonfiore e perfino una nuova arcadia: Chi trotta sull’erba è il cavallino d’un re onda riccia agnello insegue la striscia blu segna le tue vene pietà bagna gli occhi d’acqua celeste bagna la strada che inventi ed ecco il cielo per la capra in esilio il lume per lo sposo che vola e s’intreccia a una bocca... (Balletto per Mare Chagall) 93 Altrove come in « Arabeschi e vetrate per Corrado Cagli », « Fantasia per Sebastiano Carta », « Notturno ner Giovanni Stradone » lo scivolare verso posizioni anarchiche e scapigliate è fin troppo manifesto. Anche in Per archi impazziti è possibile registrare un Piazzolla impegnato, portavoce di un umanitarismo evangelico che, a volte, prescinde da ogni condizione ideologica e politica, a volte, è dettato da una concitazione politica che si risolve nella protesta. Il movente ideologico ritorna con maggiore veemenza in « Lettere a Evtuscenko » dove l’amore per la condizione umana offesa, la primavera di Praga, ha accenti di dura condanna. Non mancano versi di rabbia della ragione: A Praga hanno strozzato l’aria. A Praga è riapparso il mostro che se stesso covava. A Praga se non si uccide è presente la morte con il suo mitra. A nessuno sfuggirà la truculenza di questi versi, il cursus delle cadenze strozzate, quasi a mezza gola; la concitazione anaforica sconosciuta a Piazzolla. A nessuno sfuggirà che qui Piazzolla non cerca di capire la storia o di penetrarne i moventi o i fini occulti; a lui interessa l’umanità vittorinianamente offesa. Umanità che in « Proclama d’assedio » si vanifica in un pessimismo vagamente irrazionale. E’ il momento niù acuto dell’impegno civile che lo porta ad un rifiuto totale e a smarrire il senso della storia: Dai loro Bunker dove il sole ha freddo i funzionari dell’odio dànno ordini esatti: occorre uccidere, uccidere, uccidere anche la morte. ... Che s’impicchi l’uomo giusto: è un mostro sia soffocato nel sonno l’innocente. Sia fatta bere fiele o cicuta al saggio. Sia falciata, per sempre, la luna. ... Da oggi, fino al giudizio Universale, gli uomini devono temere finanche se stessi, Devono restare morti nella vita. Devono restare vivi nella morte. Al Piazzolla ironico sono da collegare I fiori c’insegnano a sorridere (1973) o come dice il sottotitolo « favole per adulti » scritte 94 pure tra il 1952 e il 1956. Cioè parallelamente alle Lettere e ai Poemetti. E al linguaggio favoloso, ingenuo, come certe pitture naïf, dei Poemetti, qui si sostituisce un linguaggio malizioso, ironico. Protagonisti indiscussi sono i fiori dalla rosa al garofano, dal mughetto al giglio, dal tulipano alla margherita, all’ortensia ecc., resi indimenticabili nei colori di Omiccioli. Ma più che una tipizzazione di virtù (per la verità ben poche) e di vizi come si può pensare scorrendo i titoli: il tulipano iettatore, il papavero lenone, la vanitosa ortensia, il rosolaccio povero e rassegnato, la casta camelia, il gladiolo pettegolo, queste favole sono la rappresentazione di un mondo in cui domina incontrastata la legge dell’amore. Quasi che la vanità e la castità, la rassegnazione e la miseria, siano delle sottovirtù o dei sotto-vizi che meglio fanno risaltare un mondo in cui prevale il sesso come legge naturale. Il « peccato floreale » è certamente tanto comune e tanto diffuso in questo decamerone floreale che assistiamo a veri e propri vizi sessuali: così la febbre d’amore fa venire i « petaligiri »; e l’eccesso d’amore può causare la « stelite » che è un vero e proprio esaurimento da indebolire lo stelo e renderlo pieghevole e indurre il fiore alla morte. E non mancano gelosie e tradimenti. Ora a parte l’intento moralistico e satirico, queste favole sono da leggere come espressione di quella vaga favolosità del Piazzolla che si esprime nella dimensione stilistica del raccontare. Come queste pagine de Il Giacinto favoloso: « C’era una volta un Arcobaleno. Da tempo, non sapeva più resistere al desiderio di adagiarsi sulla terra e di riposarsi finalmente della celeste fatica. Lo stare fisso e curvo sull’orizzonte aveva in lui generato stanchezza. Si era alquanto annoiato di apparire e svanire a cicli prestabiliti, dopo le piogge, come un emblema di festa, messo in Cielo a salutare il Sole, intento lassù a cucire le stille di pioggia ai suoi raggi »18. Sono pagine in cui Piazzolla diventa poeta per bambini, dove il confine tra mondo della favola e mondo reale è annullato. E ci ritorna in mente nel leggere « La rosa addolorata » il prologo della sposa demente: « Quello che vi racconterò accadde molti anni fa. In un giardino delle Fiandre, viveva una donna che parlava da sola e, sovente, veniva in mezzo a noi a confessarci le sue pene... Fu dunque una notte di maggio che noi tutti, presi da una invincibile commozione, decidemmo di fare una sorpresa a quella che mia nonna, chiromante e un po’ maga, definì una Sposa demente. Ci consultammo noi Rose appena bbocciate... Ci consultammo con i Gigli e le Margherite... Le Viole e i Crisantemi fecero una certa opposizione, dicendo che non si poteva danzare il Minuetto senza chiaro di luna. I Mughetti e le Mimose approvarono con energia la nostra idea e dissero che avrebbero invitato tutte le lucciole del quartiere per supplire la luce della luna » `. Men18 M. PIAZZOLLA, I fiori c’insegnano a sorridere, Verona, Chelfi, 1973, p. 199. 19 Ibidem, p. 157-58. 95 tre non mancano qua e là spunti polemici (L’anemone ermetico) o la violenta satira contro l’organizzazione burocratica del nostro Stato (Il tulipano travet), tirata a tal punto da ingenerare il sorriso. E comicità e satira, ironia e follia, spregiudicatezza e realtà, avventura e sogno, si fondono anche nei due volumetti I detti immemorabili di R.M. Ratti (1966). Espressione compiuta della solitudine del poeta che si autoinventa in un nuovo personaggio. Ma i detti importano per quell’ennesima prova che Piazzolla ci dà della sua inventiva poetica: dalla elegia alla ballata, dal poemetto all’epigrammi, dalla favola alla satira. Essi in ogni caso non vogliono essere la summa della saggezza umana, e come tali non vanno confusi con le massime eterne, niente dì più provvisorio il lettore vi avvertirà leggendo questi detti e provvisorio nel senso di umano, contingente, reale: A volte, nella vita, mi ricordo di Dio come di una lucciola sospesa nel buio. (La lucciola, vol. I) Come pure non vogliono essere scherzi umoristici ché vi circola tanta malinconia. L’autobiografia di R.M. Ratti, quindi, è un consuntivo sincero della nostra vita, senza troppe pretese. Ratti è l’alter-ego che sonnecchia in ognuno di noi ora assillato dal pensiero della morte ora da contingenze economiche ora dal bisogno di sentirsi in armonia col mondo. E’ questa disponibilità che avvicina il Ratti a ognuno di noi; è questa provvisorietà della vita umana che sprigiona da queste nugae a rendercele care. Cimatti20 giustamente ha parlato di « un’allegria che ha le sue trincee in una camera d’affitto ». APPUNTI DI STILE E DI LINGUA Nell’ambito del nostro discorso sulla poesia di Piazzolla abbiamo accennato a notazioni di stile volta per volta. Qui ne faremo seguire altre per fermare alcuni caratteri dello stile piazzolliano. Primamente è da notare come la poesia piazzolliana è da collegare alla linea Leopardi-Ungaretti, anche se le ultime sue opere ne sono un superamento. Ora quando si dice che la poesia contemporanea e in specie quella postermetica sono da riportare nell’area leopardiana21 più che in quella simbolista22, non tanto si vuol mettere fuori causa la lezione dei Cfr. P. CIMATTI, in « La Fiera Letteraria », 20 marzo 1960. Cfr. M. PETRUCCIANI, Segnali e archetipi della poesia, Milano, Mursia, 1974; in particolare il capitolo I, p. 9-21. 22 Cfr. A. VALLONE, Aspetti della poesia italiana contemporanea, Pisa, NistriLischi, 1960; si veda il capitolo Caratteri linguistici della poesia d’oggi. 20 21 96 Marino Piazzolla con Giuseppe Marotta. 97 poeti « maudits », quanto si vuole insistere sull’attualità della poesia leopardiana, che ha contato tanto da influenzare non solo la fascia lirico-elegiaca o monodico-lirica della nostra poesia, ma anche quella polemico-ironica. Ma ritornando a Piazzolla dobbiamo notare come più di qualche cadenza leopardiana è in Ore bianche. In « Naufragio » l’inizio « Non somiglia al tuo passo / morte, il mio errare » è già una contaminazione dei v. 17-18 del Passero solitario « Oimè, quanto somiglia / al tuo costume il mio! ». E l’endecasillabo « Pur, tu, necessaria sei al vivere / terreno » (p. 47, v. 23) richiama i versi 61-63 del Canto notturno « Pur tu,... tu forse intendi, / questo viver terreno ». Frequente anche in questo componimento l’uso dell’infinito leopardiano: Chi, fino a te, sale, ben s’accorge del patire umano, ... dell’errare vano ... Anche tu, morte, mi sei cara nelle sere lente... quando sospiro nella grigia stanza e penso al mio finire, al tuo venire incontro... (v. 36-37, 40, 46-50) Così il settenario « ornare ella si appresta » (Il sabato del villaggio, v. 6) in Purità si è trasformato in « a ornar s’appressa l’avvenire » (p. 52, v. 16); e i tre settenari « Intatta luna, tale / è lo stato mortale. / Ma tu mortal non sei » di Canto notturno (v. 57-59) diventano in Piazzolla « Forse tale è il destino / ma tu ad altre mete aneli » (Solitudine, v. 57-58). E tipicamente leopardiane sono le aperture di versi con ove e forse, nonché stilemi come acerbo nascer, di spenti, arcana soglia. E prestiti leopardiani non mancano in Elegie doriche (antica, vasta, remota, immensità, immota soglia ecc.). Mentre lemmi come naufragio, abisso, urlo, inabissata rimandano ad Ungaretti. Come pure la rapidità dei nessi, la dizione evocativa, l’essenzialità della parola. Piazzolla in Elegie insisterà particolarmente sulla memoria. Essa nasce proprio da una situazione di assenza (quasi sempre oggetto di questa memoria è la madre, che non è) e come dice Petrucciani: « Solo quando quelle figure e l’uomo con le sue passioni sono morti, e dunque assenti, insorge la memoria: nel momento cioè in cui, distaccandosi dal flusso biologico, rischiano di polverizzarsi e sparire negli interminati spazi della dimenticanza: di perdersi quindi per sempre »23. Così Piazzolla in « Naufragio » dirà: 23 M. PETRUCCIANI, Segnali e archetipi della poesia, cit., p. 71. 98 Non distruggete, tempo, quel volto che ogni notte accende la memoria... Funzione, quindi, di recupero contro l’abisso, il naufragio della vita. E il riferimento a Preghiera viene spontaneo. Solo se si tiene conto che in Ungaretti il termine della tensione è il Signore, in Piazzolla la madre. In ogni caso per entrambi la memoria è approdo, recupero d’innocenza. E il Nostro vi ritornerà in Ecco celeste l’Orsa dove il sentimento dell’innocenza nascerà da uno stato idillico-contemplativo, che sottintende Dio. E Ungaretti24 in Inno alla morte dirà « Mi darai il cuore immobile / d’un iddio, sarò innocente » (p. 117, v. 21-22). Piazzolla con più arditezza dirà « lo son di nuovo innocente », p. 14, v. 9. E ancora l’emistichio ungarettiano « o statua dell’abisso umano » (Statua, p. 139, v. 2) si è trasformato in « il favoloso abisso della vita » (Pietà, p. 4, v. 10); e il grido esistenziale ungarettiano « Tutto ho perduto dell’infanzia / e non potrò mai più / smemorarmi in un grido » (Tutto ho perduto, p. 201, v. 1-3) si contrarrà nell’endecasillabo « D’ogni speranza mi rimane un grido » (D’Ogni speranza, p. 22, v. 1). Quindi memoria-assenza ma anche memoria-evocazione: « ... che - come ha bene puntualizzato Vallone - va al di là del significato acquisito con Dante e Petrarca come puro ricordo perché assume tutto un vago senso di smemorata evocazione... »25. E ad un tempo di atmosfera assorta di vaga intemporalità d’immobilità, di fissità è legato il linguaggio delle Lettere della sposa demente. Infatti il dramma della demente è proprio in questo consumarsi-inconsumato del suo amore tra temporalità e intemporalità, come se il tempo che pure accenna a farsi (il tempo mi travolge), non fosse mai stato (il tempo è fermo). Sospensione che nell’aggettivo si traduce sempre in una connotazione interna: resto muta (p. 11), m’allungo lieve come l’aria (p. 15), mi trovo sola (p. 15), mi sento smemorata (p. 16), ascolto, insonne (p. 22), mi ritrovo sospesa (p. 31). Questi riferimenti sono ancora una prova dei classicismo piazzolliano. La tendenza ad una maggiore discorsività e colloquialità del linguaggio, si accentua in Esilio sull’Himalaya. In particolar modo le strutture linguistiche si avvalgono di una maggiore articolazione sintattica fondata sul come modale e sul quando temporale. o sul che relativo: Forse tu sei illusione: ... quando, a sera, 24 Cfr. G. UNGARETTI, Innocence et mémoire, in Vita d’un uomo, saggi e interventi, Milano, Mondador,i, 1974; per le poesie i riferimenti vanno all’edizione mondadoriana Vita d’un uomo - Tutte le poesie, Milano, 72, VI. 25 A. VALLONE, Aspetti della poesia it. contemporanea, cit., p. 214. 99 è pozzo la mia noia. ... quando la voce è piena del tuo nome, ... ... quando l’alba batte al mio sangue... (III) ... Pietà che mi chiudi neri giorni e che onoro sognando. Al tempo che mi avanza tu fai l’eco e tutto il mio dolore non ti cancella ove cresco. Segui il mio passo come una foglia che mai vedrò verde sul ramo che sono. Ti ascolto quando è pietra il mio corpo e il tuo volto che ignoro... (XV) Mentre la frantumazione della frase in immagini, fino alla riduzione delle immagini in suoni, fa registrare Gli occhi di Orfeo. I rapporti tra predicato e aggettivo, sostantivo e aggettivo, non sono più rapporti di analogia e di somiglianza, bensì di simpatia fonologica e coloristica. E la predominanza dell’astratto sul concreto, del metatemporale sul temporale, è anche motivata da una riduzione sensibile (fino alla loro scomparsa) dei nessi logici. Così ad esempio: Nel tuono d’una campana fiorisce l’udito e in fondo al ricciuto orecchio l’eco è volo d’onde accese dal bronzo nell’aria che si dilata fra stuoli di passeri impauriti. (p. 36) Ora quel tuono d’inizio di verso non è né suono, né fenomeno atmosferico; né il predicato (fiorisce) del verso successivo è con esso in alcun rapporto logico (o analogico) e tantomeno col suo soggetto (l’udito). Ma sia udito che tuono, in particolare per la carica esplosiva delle dentali, si accordano bene con fondo, ricciuto, onde, dilata, da creare quei suoni stridenti e martellanti di qualche cosa che rompe e irrom100 pe nell’aria. Il processo di sliricamento già in atto in Adagio quotidiano si completa con Ballata per mille ombre. E non solo per lo slittare del verso nella frase, soprattutto per l’intromissione di patterns espressivi del parlato: mazzo di carte, re, dittatore, ufficio, pistola ad acqua, ministro, pugnale, gabbia, prete, cuscino e di intere locuzioni: a tre soldi il metro, si farà rosso come un peperone, ti mettono di guardia, ti fa l’eco, ecc. Queste poche considerazioni linguistiche e stilistiche che altri potrà sviluppare, con riferimento ad altre opere di Piazzolla, testimoniano da una parte dell’appartenenza di questa poesia alla linea classica del nostro Novecento, dall’altra della complessità e della dinamicità del linguaggio piazzolliano teso a creare, a rinnovarsi continuamente. PER UNA BIBLIOGRAFIA RAGIONATA DELLA CRITICA Prima di tracciare un rapido registro della poesia piazzolliana nella critica è bene accennare al posto che occupa nella giovane poesia del dopoguerra. E accettando il metodo generazionale del Macrì26 colle correzioni apportate da Falqui27 iscriveremo Piazzolla fra i giovani della terza generazione accanto a Corsaro, Laurano, Ghiselli, Tognelli, ecc. Ora pur coincidendo la sua scrittura con le polemiche tra ermetismo e realismo, o meglio tra neoermetismo e neorealismo, essa resta al di qua e al di là di tali posizioni. Lontana com’è sia dall’accensioni populistiche degli uni, sia: « ... dalle suggestioni del vieto epigonismo dell’arcadia, come bene ha osservato il Frattini » 28, degli altri. Insomma per Piazzolla non si trattava di scegliere nell’intricato panoroma della poesia del dopoguerra tra poesia pura e impura, tra poesia lirica o narrativa, tra poesia monodica o corale, ma di partire da se stesso, fermo restando che la poesia è sempre pura e impura, corale e lirica, impegnata e disimpegnata. Né certamente la sua è una posizione di comodo, o di rifiuto, e tantomeno di attesa nei confronti di una certa realtà29. Forse non sarebbe una soluzione, certamente non la più giusta, se vedessimo nella 26 Cfr. O. MACRÌ, Realtà del simbolo, Firenze, Vallecchi, 1968; in particolare si vedano i capitoli I, II rispettivamente p. 465 e 473. 27 Cfr. E. FALQUI, La giovane poesia, Roma, Colombo, 1957, p. 17 e segg. 28 A FRATTINI, in « Idea », 8 maggio 1955. 29 Cfr. A. MARCOVECCHIO, « Presente », inverno 52-53; infatti per il Marcovecchio tra le due correnti, post-ermetica e neorealistica, si registrano: « ... voci solitarie che non fanno corpo con la corale poesia ermetica o mistica o umanitaristica o sociale che intorno a loro si intona »: ma che, « sia pure ai margini della vita letteraria estrinseca e mondana, partecipa per manifesti segni al dramma della poetica e della poesia novecentesca ». 101 sua poesia il superamento delle istanze neoermetiche e neorealistiche. In ogni caso resta la sua poesia, accanto a tanti nomi del nostro Novecento, si pensi a Saba e fra i più giovani a Carrieri, una poesia che non si lascia irreggimentare in nessuna corrente, anche per un tantino di irregolarità, di sovversività che è propria del carattere del Novecento, e per quel modo naïf di guardare la realtà. Ma ormai da oltre un ventennio la critica più attenta e più qualificata ha scritto sulla sua poesia. Non sono mancati veleni di certa critica ufficializzata, a volte volontariamente diffidente, a volte palesamente distratta e assente. Ma se è con gli anni ’50 che Piazzolla ha cominciato a far parlare di sé, già la sua poesia era conosciuta negli ambienti letterari francesi. E fu proprio Gide nel lontano 1938 in una lettera ad esprimersi in questi termini: - La poesia di questo giovane poeta italiano, leggendo il mito di « Pérsite e Melasia » mi è sembrata inventata ed espressa con quella patetica innocenza con cui i lirici greci sentivano i loro bellissimi canti -. Insomma Gide poneva nell’inventività e quindi nel momento lirico-evocativo la costante più vera della sua poesia. Inventività che è capacità d’incantarsi, di adererire ad una visione fresca e ingenua, quasi mitico-poetica, della realtà. E l’accostamento ai lirici greci era puntuale se pensiamo ad Elegie doriche. E quando nel ’51 il volumetto uscì la critica fu concorde nel sottolineare quest’aria di ingenuità e di candore di Elegie doriche. E uno dei primi a parlarne fu Frattini in Idea, (novembre, 1951). L’intervento di Frattini oltre a risottolineare « certi temi e inflessioni e raccordi della lirica antica greca » presenti nella sua poesia l’agganciava alla nostra tradizione più illustre a partire dal Leopardi fino alle esperienze più sicure del Novecento, lievitate e assorbite in tutta naturalezza. Per di più Frattini parlava di Elegie doriche come poesia oscillante tra idillio ed elegia, a conferma di quanto precedentemente osservato. Ma da più parti non si finiva mai d’insistere sulla chiarezza, sul pudore, sullo stupore delle immagini. In un altro intervento il Claudi in Alfabeto (Roma, 15-30 settembre 1951) parlava di nitore elementare e di ritorno alla chiarezza del pensiero ontologico greco. Alle stesse conclusioni giungeva E. Miscia (Voce Repubblicana, ottobre 1951). Non meno provocazioni portò negli ambienti letterari l’edizione delle Lettere della sposa demente che si pubblicò in un’edizioncina quasi alla macchia. Il testo, di mano in mano, incuriosì anche un poeta e critico quale F. Fortini che in Comunità (Milano, dicembre ’52, n. 16) così si esprimeva: - Un incontro curioso è quello con le « Lettere della sposa demente » ... un patetico rosario di fedeltà, vagamente rilkiano, con alcuni frammenti notevoli e un fraseggio sensibile -. A suo modo Fortini calcando l’accento su incontro curioso sottolineava la novità delle Lettere, non tanto dal punto di vista strettamente poetico, quanto per l’invenzione del personaggio. Ma fu Ciarletta nella prefazione al volume a indicarne puntualmente ogni aspetto. Ciarletta dopo aver rintracciato nell’Ofelia di Shakeaspeare la sorella maggiore della de102 mente insiste sulla psicologia tutta femminile della protagonista. Egli parla di « capriccio » come espressione esaustiva dell’amore femminile. Capriccio che poi genera quella tensione continua tra speranza-attesa, sogno-realtà. Entro questi poli oscilla il dramma della demente. Invece Virdia (La Voce Repubblicana, 5 agosto ’52) proponeva il termine « delirio » e considerava le Lettere un poemetto lirico-evocativo. Sostanzialmente Vicari recensendo il volume su La Settimana Incom dell’ottobre dello stesso anno vi si allineava. Era Vernieri che dalle pagine di L’Italia che scrive (novembre ’52) accusava Piazzolla di avere scelto a metà: - Ma l’Autore ha avuto paura del racconto, dei procedimenti narrativi (e fin qua non gli si può dar torto); ma soprattutto non ha avuto la lena di affrontare in pieno la situazione felicemente creata; e di darci nelle linee più profonde e psicologiche il dramma della demente... -. Anche il Mele (Corriere del Giorno, 7 dicembre ’52) e poi il Ramperti (Roma, 12 maggio ’53) si ripetevano in formule ormai acquisite come frenesia, tragico lucore senza modificare il discorso. A Esilio sull’Himalaya subito dedicava la sua benevola lettura E. F. Accrocca su La Fiera Letteraria del 15 novembre ’53. Accrocca come il Battistini (Il Giornale d’Italia, 7 ottobre dello stesso anno) parlava di Esilio come poesia di affetti, cose familiari, cose vere, cose reali. Un mondo insomma ancorato ad una visione di valori primitivi ed essenziali. Ed entrambi i recensori sottolineavano come il canto di Esilio nasceva da un’accettazione sommessa quasi pascoliana del mistero di fronte alle cose. Sull’aspetto più propriamente religioso insisteva prima Etna (Il Giornale del Mezzogiorno, 17 maggio ’54), poi vi ritornerà dopo molti anni Villaroel nella prefazione a Il mattutino delle tenebre. Etna parlava di misticismo panteistico che lo avvicina a Tagore e agli scrittori religiosi indiani del Trecento. Anche per Villaroel il Dio di Piazzolla resta nei suoi attributi il Dio di Dante: luce ed amore. Su Le favole di Dio ritornava Frattini (Idea, 8 maggio ’55) sottolineando in apertura il limite immanente di una poesia per vocazione lirico-fantastica. A dire del Frattini alla complessità della tematica e alla varietà delle soluzioni espressive fa riscontro: « una fantasia logorata da un gioco di invenzioni che sfiorano l’alea del meccanismo, dell’artificio ». Quasi che la poesia piazzolliana non sopporti il peso di una maggiore o più solida partecipazione del contenuto. E sul lirismo di Piazzolla come sua misura, la più naturale e la più congeniale, si parlò con insistenza e da più parti con il volume edito da Cino del Duca Mia figlia è innamorata. Gli interventi e le recensioni che seguirono a breve distanza concordavano con quanto già osservato a proposito delle Lettere. Da Marletta (Il Paese, 30 agosto 1960) che parlava di intenso lirismo a Cimatti (La Fiera Letteraria, 14 agosto 1960) che insisteva sulla fiaba-sogno creata da Piazzolla. Qualche riserva avanzò ancora il Frattini (Humani103 tas, novembre ’60). L’ampliamento del tema-originario (il testo delle Lettere), secondo il Frattini, ha provocato uno scadere dell’intensità ingenerando qua e là compiacimento e monotonia. Per ultimo è da notare il recente saggio di R. Méjean (La France Latine, 4e. Trimestre ’74 n.s., n. 60) che una volta sottolineata importanza del personaggio della demente nella poesia del Novecento, faceva scaturire questa poesia dalla tendenze, di Piazzolla: « ... à capter, par tous les sens, les potentialités oniriques de ce que l’on appelle « le réel » - qui n’est, bien entendu, que la forme un peu plus stable du songe -, l’obsession d’une métaphysique de chair et de sang, une fecondité que l’on pouvait, sans exagération, qualifier d’exceptionnelle, et un pouvoir expressif d’un tel impact qu’il semblait provenir d’une initiation orphique effectuée dans une autre vie ». Importante nella bibliografia critica su Piazzolla è la prefazione di Aventi al volume Gli occhi di Orfeo che segna un altro aspetto del mondo poetico piazzolliano. Per Aventi Gli occhi di Orfeo non sono l’espressione di un neo-barocchismo o di un marinismo ritornante, bensì la risoluzione-invenzione dell’universo in immagini. Un universo post-relatività. Infatti Aventi usa la parola cosmogenesi come giustifica di quel continuo riandare e muoversi delle immagini in fuga, in combutta, in espansione e in compenetrazione, proprio come tanti protoni e neutroni che ruotano attorno ad un nucleo. Scartata anche da Bevilacqua (Il Messaggero di Roma, 14 settembre ’64) l’ipotesi di un neobarocchismo piazzolliano. E sintetizzando così si esprimeva: « Se in ” E segno resta ” , infatti il colorismo sfiora la rarefazione, senza mai cessare, tuttavia, la sua funzione passionale e sentimentale, in ” Metamorfosi ” il poeta si scopre meno istintivo, più controllato nella correlazione tra immagine e pensiero: una prudenza stilistica ancor più avvertibile nella terza sezione, che dà il titolo al volume e dove la fusione tra istinto e contemplazione si fa pressoché perfetta ». Il Pento (Annali della Pubblico Istruzione, gennaio-aprile ’65) invece parlava di « poetica » della parola da cui scaturiva l’orfismo piazzolliano: « E’ la parola che crea, in forza di una immanente potenzialità lirica-allusiva, evocativa, fonicamente prestigiosa e simbolica - una polivalente e orfica realtà (una surrealtà, quindi), condizionata a un’ ardua misura metafisica ». Addirittura il Pento collegava tale poetica al filone più attivo del nostro ermetismo. Sull’orfismo piazzolliano ritornava qualche mese dopo (Persona, giugno ’65) il Sigillino. Su Il paese d’Iride ancora è da registrare un intervento di Sigillino (La Fiera Letteraria, 14 ottobre 1962) per il quale il volume è espressione di una « scapigliatura novecentesca ». Scapigliatura come reagente contro l’accademismo di certa cultura. Questo però non vuol dire che si possa parlare di « estetica visiva » o di « avanguardismo » o di « spettacolarità » fumettistica, nascendo quella reazione da un bisogno di « interiore solitudine » e da una profonda umanità. Importante anche la prefazione di Aventi al volume Viaggio nel 104 silenzio di Dio. Anche perché Aventi fa il punto sul periodo francese e sugli influssi dell’avanguardia simbolista nella sua opera. Egli vi ravvisa quattro costanti che s’intrecciono continuamente: la costante lirica, la costante filosofica, la costante teologica, la costante panteistica, le quali si fondono nella categoria dell’Immaginario: « Comunque, Immaginario è qualcosa, o Qualcuno, da cui scaturiscono le strutture nuove, le morfologie nuove della vita ... e della Parola ». Suggestiva, invece, l’idea di Aventi di voler giustificare la scrittura automatica del poemetto perché essa coglie la profonda essenza del creato dove si entra solo « per salti qualitativi, o trapassi e non mai attraverso una analisi logico-esplicativa ». INTERVISTA CON L’AUTORE D. In che senso ha contato per te l’amicizia con la bohème parigina degli anni trenta: da Valery a Breton, da Gide ad Aragon? R. Posso dire che da Valery ho imparato la magia dell’impasto lirico e l’idea architettonica del poema, nelle sue strutture interne e in certe cadenze sostenute dal pensiero. Breton me lo sentivo lontano come poeta, ma ero interessato alla sua poetica e a quell’amore per la libertà della creazione artistica. Di Gide ammiravo la impeccabile stesura dello stile e quello spirito di finezza che mi ha fatto capire l’anima della Francia culturale. Più che Aragon, per un certo periodo m’interessarono Eluard e Reverdy, i poeti che io sentivo congeniali sia alla mia poetica che alla mia poesia. D. Qualcuno ha scritto che hai ereditato da Cardarelli « il culto per la chiarezza ». Ora la tua ricerca poetica, a parte qualche ricordo cardarelliano come in Ore bianche, si è sviluppata proprio in senso anticardarelliano. Come mai? R. « Il culto per la chiarezza » ha ben altre origini e non l’ho sempre praticato nel senso cardarelliano. Benché fra me e il poeta di Tarquinia ci sia stato un sodalizio durato circa dieci anni, posso dire che nella mia opera non vi è traccia di rondismo. « Ore bianche » non c’entrano, perché furono scritte a Parigi. C’è inoltre da dire che se la mia poesia non è di proposito anticardarelliana ciò è dovuto al fatto che essa ha le sue radici nella lirica francese da Baudelaire ad Apollinaire. D. La pubblicazione delle « Lettere della sposa demente » è stata salutata da più parti come l’invenzione del « personaggio poetico » nella poesia italiana del Novecento. Cosa ha voluto dire per te la sostituzione del personaggio poetico all’io poetico? R. Le « Lettere della sposa demente » sono le fasi di una psicologia femminile evidentemente diversa dalla mia. Qui è una donna che racconta la sua vicenda interiore ed autonoma. Il personaggio lirico, perciò, si diversifica da me, poeta. Ed è qui il valore oggettivo 105 d’una poesia ch’io non avrei mai potuto esprimere direttamente, ricorrendo all’io poetico. E’ chiaro che, come Flaubert, anch’io potrei dire: la sposa demente sono io. E qui il discorso ci porterebbe lontano. Comunque, il personaggio femminile inventato nelle lettere procede per conto suo e, se mai, potrebbe avere radici, come dice Cimatti, in donne da me conosciute ed amate nel senso più alto e più profondo della parola. D. Ti consideri un poeta religioso? R. Le mie poesie, anzi in quasi tutte le mie raccolte, il rapporto uomo Dio o è presente o è alluso con quel pathos che il sentimento autentico della religiosità comporta. Per me, tutta la vera poesia è mitica e religiosa. L’arte attinge dal Sacro e spinge il poeta verso la trascendenza. E’ una mia antica convinzione. D. A quale opera tieni di più? R. Le opere nelle quali mi sono maggiormente impegnato e alle quali tengo di più sono: « Le lettere della Sposa Demente », « I detti immemorabili di R. Maria Ratti » (altro personaggio poetico) e « Viaggio nel Silenzio di Dio ». D. E’ difficile immaginare un poeta meridionale del dopoguerra (pensiamo a Scotellaro, Sinisgalli, Bodini, Carrieri) che non si ritrovi nel suo paesaggio e nella sua terra. Eppure tu hai evitato sistematicamente ogni accenno alla condizione meridionale. Perché? R. Se non mi sono occupato esplicitamente della condizione meridionale, nella mia poesia si sente, e questo è dimostrabile sempre, il tono, il calore, la struggente forza lirica che è segretamente implicita nel dramma del mezzogiorno. C’è poi un’altra ragione. Io ho vissuto pochissimo nelle Puglie e ciò forse ha finito col determinare la mia lontananza spirituale dalla « realtà esterna » del meridione. D. Tu, sei stato e resti un poeta « solitario » lontano dalle conventicole letterarie e dalle beghe di scuola. Ritieni che tutto questo sia stato nocivo alla tua poesia? R. E’ vero che sono stato e sono tuttora un poeta appartato. Comunque, ciò non mi ha impedito di avere molti amici poeti e letterati. Mi manca forse il senso pratico dell’affare editoriale. C’è intorno a me come una tacita congiura del silenzio, pur ricevendo, quotidianamente, attestati di stima da parte di personalità illustri del mondo letterario. Mi hanno dato molti premi, ma non ho ancora il mio editore. Tutto questo è veramente misterioso; e, in più, per me tanto, ma tanto nocivo. Le conventicole letterarie non mi tentano, come trovo vane le beghe di scuola. Amo semplicemente la poesia e stimo non pochi poeti autentici, molti dei quali sono già scomparsi dalla scena letteraria. 106 D. Ci è parso di vedere nelle ultime opere e in particolare nel volume « Viaggio nel Silenzio di Dio » uno scivolamento verso certa avanguardia. Che ne pensi? R. Nel « Viaggio nel Silenzio di Dio » non c’è affatto « uno scivolamento verso certa avanguardia ». Devi sapere che sin dagli anni trenta io elaborai una poetica che è andata sempre più evolvendosi e sviluppandosi. Quel che in poesia scrivono oggi gli sperimentalisti o i poeti dell’avanguardia, io l’ho scritto circa quarant’anni fa, al tempo del Dadaismo, del Surrealismo e della scrittura automatica. « Il viaggio » è perciò esattamente il punto di arrivo di un processo poetico che si è maturato nel tempo e dall’interno. Esso comunque richiede una conoscenza profonda e particolareggiata della lirica europea. Non è facile capire tutti i piani della mia poesia. Ti dico questo perché desidero che tu sappia che critici come Bo, Macrì, Villaroel, Salveti e tanti altri, hanno sempre confessato di sentirsi disorientati dalla mia poesia. Gli unici ai quali devo giudizi molto vicini al mio mondo poetico sono stati Giuseppe Aventi, (Villaroel con ritardo) René Méjean; qualche volta Alberto Frattini, Pietro Cimatti e soprattutto Corrado Govoni, che avrebbe voluto includere la mia lirica « Il Mattutino delle Tenebre » al posto di onore della sua antologia « Il fiore della poesia italiana ». D. Un’ultima domanda: hai in preparazione una nuova raccolta? R. Oltre alla imminente pubblicazione della terza edizione delle « Lettere della sposa demente » ho in preparazione un’antologia delle Opere edite e un’antologia delle raccolte inedite. Si tratta, per questi due ultimi lavori, di un’operazione difficile e massacrante dal punto di vista editoriale. Roma, gennaio 1975 107 NOTIZIE BIOGRAFICHE 1910 1913 1928 1930 1931 1933 1934 1935 1936 1938 1939 1940 Nasce a San Ferdinando di Puglia (Foggia) il 16 aprile 1910 Marino Pasquale Piazzolla. Muore il padre e con la madre va a vivere in casa del nonno materno dove resterà fino all’età di diciotto anni. Frequenta le classi elementari in paese, passando gran parte della giornata in campagna di suo nonno. A dodici anni interrompe gli studi. Legge come può testi che trova nella piccola biblioteca paterna, dai volumi di Lombroso a quelli di Darwin, ai testi di sociologia di Zino Zini. Frequenta il corso allievi sottufficiali e in caserma amplia e completa la sua preparazione scolastica. Muore la madre mentre sostiene a Roma gli esami di abilitazione magistrale. Con la sorella si trasferisce a Parigi. Assunto in qualità di segretario e bibliotecario della Società Dante Alighieri, qui conosce Pierre di Nolhoe, Marinetti e Fiumi. Quando ormai ha buona conoscenza della lingua, fa amicizia con i giovani poeti parigini: Bergeal, Guillik, Méjean, Amelin. Dirà il poeta: « Ci si riuniva nei caffé più rinomati della capitale e si parlava di poesia o si declamavano i nostri versi ». Conosce il critico Jean Royère, fondatore del movimento poetico « Il Musicismo » e autore di vari saggi importanti su Poe, Baudelaire. E’ Royere a fargli conoscere la lirica simbolista e in particolare Mallarmè e Valery. S’iscrive alla facoltà di Filosofia alla Sorbona. Esordisce con un saggio su Pirandello sulla rivista Ars et Idée. In seguito stringe amicizia con Gide, che lo chiama fra i collaboratori della rivista, e Valery. Ottiene il diploma di Studi Superiori di Filosofia discutendo una tesi su Le poetiche da Aristotele all’abate Bremond. Collabora a « L’Age Nuveau » rivista diretta da Marcel Fevre che raccoglieva attorno a sé le forze della intellighentia francese. L’ultimo periodo parigino frequenta i poeti surrealisti tra cui Eluard, Breton, ma in particolare apprezza la raffinatezza di Jean Gilbert De Couript. Pubblica in francese le due raccolte di versi Horizons perdus e Caravanes. Tornato in Italia dà alle stampe Ore bianche e il poemetto mitologico Pèrsite e Melasia. Si dedica all’insegnamento di Storia e Filosofia. 108 1945 1947 1948 1951 1952 1953 1954 1956 1957 1958 1960 1963 1964 1967 1973 1974 1975 Si stabilisce a Roma dove tutt’ora vive. Dirige la rivista « Narciso ». Si lega d’amicizia con i pittori Monachesi, Fantuzzi, Omiccioli, Stradone e con gli scrittori Iavarone, Carta, Mucci, Barilli, Natta con cui subito fraternizza. Conosce al Caffé Greco Cardarelli, allora direttore de « La Fiera Letteraria » che in seguito gli affiderà la rubrica « Critica di poesia ». Di Cardarelli diviene uno dei più intimi. Sono questi gli anni di più intensa attività di critico letterario e d’arte: dai saggi su Penna, Valeri, Bontempelli, Montale, Eliot, Raphael, Michaux, S.J. Perse, agli articoli su Klee, Cezanne, Picasso, Roaualt, Braque ecc. L’assidua collaborazione alla Fiera gli dà modo di conoscere i più noti scrittori italiani da Bernari, a Moravia, a Govoni, a Falqui. Pubblica Elegie Doriche che gli vale il premio Etna-Taormina per l’opera prima. Seguono le Lettere della sposa demente. Esilio sull’Himalaya che merita con Bartolini il premio Chianciano. Conosce lo scrittore napoletano G. Marotta che apprezzerà moltissimo la sua poesia. Pubblica Le favole di Dio, un volume che resta quasi clandestino. Ottiene la cattedra di Filosofia e Pedagogia all’Istituto Magigistrale « B. Croce » di Avezzano. Mentre s’intensifica la sua collaborazione ai quotidiani dal « Piccolo » di Trieste a « La Gazzetta del Sud » di Messina, nonché ai giornali dell’A.G.A. Esce il volume antologico Pietà della notte, premio di poesia città di Avezzano. Mentre vanno facendosi tesi i rapporti con Cardarelli, fino alla rottura definitiva che seguirà di lì a poco. Pubblica Adagio Quotidiano e i Poemetti. Gli viene assegnato la medaglia d’oro del Presidente della Repubblica al premio Viareggio di poesia con il volume Mia figlia è innamorata. Dà alle stampe il volume di prose E l’uomo non sarà solo. Inizia a praticare la pittura ideografica che culminerà nelle due mostre di Parigi e di Milano. Publica Gli occhi di Orfeo che ottiene ex equo con Sanesi il Tarquinia-Cardarelli. Dirige la rivista umoristica « L’Idiota ». Pubblica il volume Viaggio nel silenzio di Dio che merita con Marvardi il premio di poesia Città di Capua. Raccoglie i testi delle favole umoristiche nel volume illustrato interamente da Omiccioli I fiori c’insegnano a sorridere. Esce con prefazione di R. Méjean la terza edizione delle Lettere della sposa demente. 109 BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE Horizons perdus (liriche), Paris, Edition des Deux Artisans, 1939. Caravanes (liriche), Paris, Edition des Deux Artisans, 1939. Pèrsite e Melasia (mito), pref. di R. D’Este, Trani, Paganelli, 1940. Ore bianche (liriche), Trani, Paganelli, 1940. Elegie doriche, (liriche), Roma, Eros, 1951. Un negro in Paradiso, Roma, Eros, 1952. Lettere della sposa demente, (liriche) pref. di N. Ciarletta, Roma, Ed. dell’Ippogrifo, 1952. Esilio sull’Himalaya (liriche), Roma, Ed. del Canzoniere, 1953. Le favole di Dio (liriche), Roma, Ed. Alabatros, 1954. Pietà della notte, (volume antologico 1937-1957; contiene le seguenti sezioni inedite: Morte è antica e Gli epigrammi del mandarino 1954-1957); Pietà della notte (1956-57), Bologna, Cappelli, 1957. Il paese di nessuno, (volume antologico; oltre una parte inedita che dà il titolo al volume, esso contiene un’ampia scelta dei volumi precedenti dalle Lettere a Pietà della notte), Roma, Porfiri, 1958. Poemetti, Roma, Porfiri, 1958. Adagio quotidiano (liriche), Padova, Rebellato, 1958. Mia figlia è innamorata, Milano, Cino del Duca, 1960. E l’uomo non sarà solo (prosa), Milano, Ceschina, 1960. Il paese d’Iride, (liriche), Roma, Carucci, 1962. Mabò lo straniero (poemetto), in « Il Protagora », 21 giugno 1962. Gli occhi di Orfeo, pref. di G. Aventi, Roma, Ippogrifo, 1964. Ballata per mille ombre, Roma, Canesi, 1965. Il mattutino delle tenebre, avvertenza di G. Villaroel, Pisa, La Soffitta, 1964. I detti immemorabili di R.M. Ratti, 2 voll., Roma, Ippogrifo, 1965 e 1966. Quando gli angeli ascoltano, Roma, Ed. Ciranna, 1968. Minuetto per ombre sole (antologia poetica 1951-1969), Padova, Rebellato, 1970. Per archi impazziti, Roma, Ed. Veutro, 1970. Gli anni del silenzio, pref. di G. Aventi, Roma, Ed. Cardini, 1972. Viaggio nel silenzio di Dio, pref. di G. Aventi, Roma, Ippogrifo, 1973. In un pianeta che ignoro (appunti e pastelli), con un saggio di F. Ferrara, Roma, Ed. E.R.S.I., 1974. I fiori c’insegnano a sorridere (favole umoristiche), pref. di F. Ceriotto, con 36 disegni di G. Omiccioli, Verona, Ghelfi, 1974. Lettere della sposa demente, pref. di R. Méjean, Roma, Ippogrifo, 3a ed., 1975. M. PIAZZOLLA-R. MÉJEAN, Balado d’a dos voues / Ballade à deux voix, (testo bilingue, provenzale e francese; contiene M. Piazzolla, Dins Paris li dos oumbro nostro / Dans Paris nos deux ombres; R. Méjean, Balado dou darrie vespre / Ballade du dernier soir), Toulon, L’Astrado, 1975. 110 TRADUZIONI RENÈ MÉJEAN, L’almanacco strappato, Milano, Ceschina, 1974. BIBLIOGRAFIA DELLA CRITICA LETTERARIA Surrealismo realtà umana e marxismo, in « La Giustizia », 19 ottobre 1954. Colloquio con Valery, in « Il Piccolo », 20 dicembre 1956. Ritratto di Leopardi, in « Il Piccolo », 5 febbraio 1957, poi in « Iniziative », sett.-ott. 1958. Critica Letteraria, in « Gazzetta del Sud », 13 febbraio 1957. Poesia di Claudel, in « Il Piccolo », 16 febbraio 1957. Sincerità di Gide, in « Gazzetta del Sud », 2 aprile 1957. Ritratto di Edgar Poe, in « Il Piccolo », 13 aprile 1957. Ritratto di Rimbaud, in « Il Piccolo », 30 maggio 1957. Il vagabondaggio del « saggio » Virgilio, in « Gazzetta del Sud », 25 giugno 1957. Lo spirito classico di G. Leopardi, in « Il Piccolo », 12 luglio 1957. Maestro Dante, in « Gazzetta del Sud », 27 luglio 1957. Il gigante Omero, in « Il Piccolo », 7 agosto 1957; poi in « Iniziative », nov.-dic. 1957. Cardarelli a Via Veneto, in « Gazzetta del Sud », 8 agosto 1957. Riflessioni sulla cultura, in « Il Piccolo », 17 agosto 1957. Infelicità di Pascal, in « Il Piccolo », 5 ottobre 1957; poi in « La Fiera Letteraria », 4 giugno 1961. Il messaggio di Nietzsche, in « Il Piccolo », 23 ottobre 1957. Realismo lirico, in « Il Piccolo », 2 novembre 1957. La poesia di Hólderlin, in « Il Piccolo », 14 novembre 1957. Il « Mago » Marotta, in « Gazzetta del Sud », 20 dicembre 1957. Purezza di Mallarmé, in « Il Piccolo », 15 gennaio 1958. L’angoscia di Kafka, in « Il Piccolo », 7 febbraio 1958. Candore di Govoni, in « Il Piccolo », 25 febbraio 1958. La lirica in esilio, in « Il Piccolo », 1 marzo 1958. Elegia di Villaroel, in « Gazzetta del Sud », 19 marzo 1958; poi in « Cinzia », aprile 1958. Arte di Proust, in « Gazzetta del Sud » 1 aprile 1958. Baudelaire immorale? in « Gazzetta áel Sud », 9 aprile 1958. « Scandalo della speranza », in « Il Piccolo », 24 aprile 1958; poi in « La Fiera Letteraria », 16 aprile 1961. Proust e il tempo, in « Il Piccolo », 29 aprile 1958. Pirandello tragico, in « Il Piccolo », 20 maggio 1958. La poesia di Eliot, in « Il Piccolo », 24 giugno 1958. L’Universo di joyce, in « Il Piccolo » ‘ 4 luglio 1958. Valery il perfetto, in « Il Piccolo », 16 luglio 1958; poi in « La Fiera Letteraria », 14 maggio 1961. La lirica di Ungaretti, in « Il Piccolo », 19 agosto 1958. 111 Garcia Lorca, in « li Piccolo », 6 settembre 1958. Su Apollinaire, in « Gazzetta del Sud », 2 ottobre 1958. Vittorio Sereni, in « Il Piccolo », 15 ottobre 1958. Attilio Bertolucci, in « Il Piccolo », 29 novembre 1958. Poeti d’oggi: lorge Guillén, in « Il Piccolo », 12 dicembre 1958. Poeti d’oggi: Saint-John Perse, in « Il Piccolo », 2 gennaio 1959. Poeti d’oggi: Henri Michaux, in « Il Picolo », 21 febbraio 1959. Giuseppe Marotta, in « Il Piccolo », 5 marzo 1959. L’estetica di Cecchi, in « Il Piccolo », 18 marzo 1959. Il canto di Saffo, in « Il Piccolo », 18 aprile 1959. Poeti d’oggi: Rafael Alberti, in « Il Piccolo », 13 maggio 1959. Alberto Moravia, in « Il Piccolo », 21 maggio 1959. Orfismo di Campana, in « Il Piccolo », 16 giugno 1959. Lirici Greci, in « Il Piccolo », 28 giugno 1959; poi in « Il Sestante Letterario », sett-ott. 1962. La lirica di E. Montale, in « L’Unione Sarda », 25 luglio 1959. Orfeo ed Euridice, in « Il Piccolo », 21 agosto 1959. Critici d’oggi: G. Trombatore, in « Il Piccolo », 28 agosto 1959; poi in « La Fiera Letteraria », 11 febbraio 1962. Presenza di Dio, in « Il Piccolo », 3 dicembre 1959. Pensatori d’oggi: Maria Zambrano, in « Il Piccolo », 29 dicembre ‘59. Soren Kierkegaard, in « Il Piccolo », 20 gennaio 1960. Pensatori d’oggi: Maria Zambrano, in « Il Piccolo », 29 dicembre 1959. Pietro Cimatti, in « Il Piccolo », 29 marzo 1960. Simone Weil, in « Il Piccolo », 7 febbraio 1961. Salvatore Quasimodo, in « Il Piccolo », 28 aprile 1961. Il sacro e l’orfico, in « Crisi e Letteratura », (Roma) 15-30 luglio 1961. Lo stile poetico e la rivolta, in « Il Piccolo », 13 luglio 1962; poi in « Il Sestante Letterario », sett.-ott. 1962. Marotta e i suoi alunni, in « Dialoghi », (Roma), sett.-ott. 1967. S. Ouasimodo, « Operaio di sogni », in « La Carovana », aprile-giugno. 1968. De Pisis, pittore-poeta, in « Persona », (Roma), novembre 1969. La lirica di Ungaretti: dal « Porto Sepolto» a « La Terra Promessa », in « La Carovana », aprile-settembre 1970. Ritratto di Barilli, in « Persona », nn. 2, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, giugnodicembre 1970. Saggi apparsi ne « La Fiera Letteraria ». Il poeta di Narciso deriva da Mallarmé, 26 giugno 1949. Gide nel millenovecentotrentotto, visita ad un utopista, 28 agosto 1949; poi in « La Giustizia », 22 settembre 1954. Un uomo antico in esilio in mezzo a noi, 21 maggio 1950. Anna Claudi alla finestra, 4 giugno 1950. Poesie Marginali di S. Penna e Fuoco Bianco di A. Grande, 13 agosto 1950. I martedì letterari; Diego Valeri e le creature di Racine, 4 febbraio 1951. Amore di Gide alle lettere italiane, 25 febbraio 1951. 112 Risposta a Leone Piccioni, 11 marzo 195 1. La poesia di Luciana Frassati, 10 giugno 1951. Ritratto di un poeta dopo il trittico della felicità perduta, 20 dicembre 1953. Artisti italiani: Franco lurlo, 2 maggio 1954. Marotta, il suo estro è poesia, 12 dicembre 1954. T. S. Elíot, poeta cattolico, 11 gennaio 1959. Il sacro in Rouault, 17 aprile 1960. Eugenio Montale, 12 giugno 1960. A proposito degli «Alunni del sole» Napoli secondo Marotta, 26 giugno 1960. « Solo, povero, candido se ne è andato M. Bontempelli », 31 luglio 1960. La notte dell'anno uno, 25 dicembre 1960. Michaux surreale, 12 febbraio 1961. I vincitori della « Penna d'oro »; profilo di E. Cecchi, 19 febbraio 1961. Il poeta degli angeli, 26 febbraio 1961. Un ritratto della nostra società in « Visti e Perduti »; Marotta in poltrona, 19 marzo 1961. La sorridente disperazione dell'ultimo Delfini, 26 marzo 1961. Ironia e mistero ne « La Farfalla di Dinard », 2 aprile 1961. La persona e il destino; meditazioni di Simone Weil, 9 aprile 1961. Un'acuta indagine critica di Gianni Nicoletti: la bellezza di Baudelaire, 23 aprile 1961. Artisti italiani: Gino Croari, 30 aprile 1961. L'Assoluto di Mallarmé, 7 maggio 1961. Noteralle di revisione critica; IQ spirito clausica di Leopardi, 21 maggio 196 1. Due critici nella nostra civiltà. Carteggio Nietzsche-Burckhardt, 28 maggio 196 l. Su « Vento in gabbia », raccolta di prose di varia ispirazione. Marotta favoloso e beffardo, 9 luglio 1961. « Il re di Sardegna » e altre poesie. L'ironia di Frattini, 16 luglio 1961. Un nuovo poeta per il Sud: la Calabria di Costabile, 23 luglio 1961. L'antiretorica dell'eroismo: Risi pensieroso, 6 agosto 1961. Per una storia spirituale della poesia italiana. Linea Umbra: un'ardita testimonianza, 10 settembre 1961. Un fanciullo che scopre il mondo e se lo racconta. Poesie di Gatto, 17 settembre 1961. Giovani poeti italiani; Un uomo e una fede, 24 settembre 1961. Giovani poeti italiani. Due lirici della discrezione, 1 ottobre 1961. Il poeta del poeta: Holderlin, 15 ottobre 1961. Ricordi parigini. Sincerità di Gide, 22 ottobre 1961. Ricordi parigini. Valery su Mallarmé, 29 ottobre 1961. Ricordi parigini. Paul Claudel tra Rimbaud e Dio, 5 novembre 1961; poi in « Iniziative », maggio-agosto, 1966. La missione dell'uomo di cultura, 12 novembre 1961. Ricordi parigini. Royere, 26 novembre 1961. 113 Ricordi parigini, La Grecia di Beaudouin, 3 dicembre 1961. Saggio e antologia esemplari: La Voce, 10 dicembre 1961. Ricordi parigini. Il poeta Topalian, 31 dicembre 1961. Ricordi parigini. Notturno a « Notre Dame », 7 gennaio 1962. Dal terrore alla felicità. Camus uomo della rinascita, 14 gennaio 1962. Dall'assurdo quotidiano alla saggezza. La poesia di Ferrari, 20 gennaio 1962. L'uomo e il divino di Maria Zambrano. Una filosofia per l'uomo, 18 febbraio 1962. Tradotta da Manara Valgimigli la lirica dei Greci, 25 febbraio 1962. Il libriccino di Anna Curcio, 4 marzo 1962. Giuseppe Marotta, scrittore solitario e uomo sulla breccia. Le sue donne, 20 gennaio 1963. Interviste immaginarie apparse su « La Fiera Letteraria ». Visita a Igor Iravic, 23 ottobre 1960. Visita a Peppotoston, 30 ottobre 1960. Visita a Organon, 13 novembre 1960. Visita a Leviatano, 27 novembre 1960. Visita a Egopatìcos, 4 dicembre 1960. Visita al dott. Ervad, 11 dicembre 1960. Visita a Zatti, 18 dicembre 1960. Monologo del dittatore, 1 gennaio 1961. Visita a Rascellini, 8 gennaio 1961. Visita a Ermete Trimegisto, 15 gennaio 1961. Visita a Salintari, 29 gennaio 1961. CRITICHE D'ARTE Ritratto di Giotto, in « Gazzetta del Sud », 16 maggio 1957. Ritratto di Michelangelo, in « Il Piccolo », 24 aprile 1957. I sogni di Utrillo, in « Il Piccolo », 29 novembre 1957; poi in « La Fiera Letteraria », 9 ottobre 1960. Magia di Klee, in « Il Piccolo », 31 gennaio 1958. Libertà di Picasso, in « Il Piccolo », 21 marzo 1958. Tristezza di Modigliani, in « Il Piccolo », 12 aprile 1958. Il sole di Van Gogh, in « Il Piccolo », 10 maggio 1958. Pollock e il caos, in « Gazzetta del Sud », 16 maggio 1958. Monachesi polemico: Apologia della luce, in « Gazzetta del Sud », 21 ottobre 1958. Vangelli: Moderno e umano, in « Gazzetta del Sud », 6 novembre 1958. Le intuizioni di Braque, in « Il Piccolo », 20 novembre 1958. Wassily Kandisky, in « fl Piccolo », 31 gennaio 1959. Georges Rouault, in « Il Piccolo », 15 febbraio 1959. Armiro Yaria, in « Il Piccolo », 29 maggio 1959. Poetica di Cezanne, in « Il Piccolo », 12 aprile 1958; poi in « La Fiera Letteraria », 18 settembre 1960. Edoardo Giordano, in « Il Piccolo », 7 agosto 1959. 114 VanGogh e il dolore, in « Il Piccolo », 25 settembre 1959. Giovanni Omiccioli, in « Il Piccolo », 17 ottobre 1959. Mauro Manca, in « Il Piccolo », 31 ottobre 1959. La pittura astratta, in « Il Piccolo », 8 marzo 1961; poi in « Iniziative », settembre-ottobre 1964. Antonio Delfini, in « Il Piccolo », 4 settembre 1962. PROSE D'ARTE Costellazione dell'Orsa Minore, in « Il Popolo di Roma », 4 marzo 1953. Nascita di Roma, in « Il Mezzogiorno », 2 ottobre 1954. Fantasia al Colosseo, in « Il Mezzogiorno », 12 ottobre 1954. « Notre Dame », in « Gazzetta del Sud », 27 novembre 1956. Domenica al Pincio, in « Gazzetta del Sud », 15 febbraio 1957. Le Piazze di Roma, in « Il Piccolo », 2 marzo 1957. Fantasia al Colosseo, in « Gazzetta del Sud », 13 marzo 1957. Piazze di Roma, in « Il Piccolo », 23 marzo 1957; poi in « Gazzetta del Sud », 26 marzo 1957. Parole discrete, in « Gazzetta del Sud », 17 aprile 1957. Presenza della natura, in « Gazzetta del Sud », 30 giugno 1957. Immagine dell'universo, in « Gazzetta del Sud », 29 luglio 1957. Con Beethoven nella bufera, in « Gazzetta del Sud », 22 agosto 1957. L'Uomo e la storia, in « Gazzetta del Sud », 29 agosto 1957. Il giorno della creazione con Bach, in « Gazzetta del Sud », 3 settembre 1957. Due ombre, in « Gazzetta del Sud », 7 settembre 1957. Piazze di Roma, in « Gazzetta del Sud », 10 settembre 1957. Carte cinesi, in « Gazzetta del Sud », 6 ottobre 1957. Monologo, in « Gazzetta del Sud », 16 ottobre 1957. Ravel e Agazarian, in « Gazzetta del Sud », 8 novembre 1957. Metamorfosi dell'autunno, in « Gazzetta del Sud », 15 novembre 1957. Carte cinesi, in « Gazzetta del Sud », 29 novembre 1957. Favole per Euterpe, in « Gazzetta del Sud », 6 dicembre 1957. Soliloquio del Duomo, in « Gazzetta del Sud », 15 dicembre 1957. Favole, in «Gazzetta del Sud », 28 gennaio 1958. Lirica-Carte cinesi, in « Gazzetta del Sud », 11 febbraio 1958. Momenti musicali, in « Gazzetta del Sud », 20 febbraio 1958. Momenti musicali: Grieg e De Bussy, in « Gazzetta del Sud », 27 aprile 1958. Quadri parigini, in « Gazzetta del Sud », 30 aprile 1958. Vecchi volti, in « Gazzetta del Sud », 3 maggio 1958. Bisanzio Topalian: Spettro di poeta, in « Gazzetta del Sud », 9 maggio 1958. Due nani a nozze, in « Gazzetta del Sud », 13 giugno 1958. Momenti musicali: Mozart e Vivaldi, in « Gazzetta del Sud », 8 giugno 1958. Concerto e solstizio, in « Gazzetta del Sud », 8 settembre 1958. 115 Considerazioni all'alba, in « Gazzetta del Sud », 11 ottobre 1958. Momenti musicali: Paganini e Scarlatti, in « Gazzetta del Sud », 16 ottobre 1958. Momenti musicali: Strawinski e Georiwik, in « Gazzetta del Sud », 21 novembre 1958. Elogio dei mansueti, in « Il Piccolo », 24 febbraio 1960. Divagazioni e favole, in « Telesera » (Roma), 17-18 aprile 1961. Condannato all'ozio, in « Il Gazzettino di Venezia », 1 giugno 1962. Saggi e prose apparsi in « Iniziative » (Roma): Ritratto di Baudelaire, luglio-agosto 1953. Colloquio con Beaudouin; Agazarian e l'usignolo, novembre-dic. 1953. Incontro con Gide, marzo-aprile 1954. Mortificazione dell'intelligenza, maggio-giugno 1954. Un mio incontro con Valery, nov. dic. 1954. Alcuni aspetti della critica letteraria in Italia, genn. febbraio 1955. La funzione della critica letteraria militante, marzo-aprile 1955. Dilettantismo e disumanità della lirica italiana contemporanea, maggiogiugno 1955. Paura della fantasia e disprezzo del cuore nell'arte italiana d'oggi, nov.dic. 1955. J.Paul Sartre o della responsabilità, genn. febbraio 1956. Poesia di Villaroel, nov.-dic. 1956. Ritratto di Virgilio e Versione di Orfeo ed Euridice dal libro IV delle Georgiche, genn.-febbraio 1957. La Catania di Villaroel, genn.-febbraio 1958. Due nani a nozze (racconto), marzo-aprile 1958. Mal di Galleria, genn.-febbraio 1959. Poeti d'oggi: Eugenio Montale, genn.-febbraio 1960. La poesia di S. Quasìmodo, marzo-aprile 1960. Saint-john Perse, premio Nobel, genn.-febbraio 1961. Il sacro nelle meditazioni di S. Weil, genn.-febbraio 1962; poi in « Il Sestante Letterario » (Roma), maggio-agosto 1963. Riflessioni sulla cultura, maggio-giugno 1962. Poeti d'oggi: Alfonso Gatto, nov.-dic. 1962. Narratori d'oggi: Giuseppe Marotta, maggio-giugno 1963. La donna nella narrativa di Marotta, sett.-ott. 1963; poi in « Il Sestante Letterario », marzo-aprile 1963. Nascita dell'uomo, genn.-aprile 1966. Saggi e poesie in lingua francese apparsi su ARTS ET IDÈES (Paris): Aventure (poesia), n. 7 février 1937. Pirandello et la tragedie, n. 8 avril 1937. Paul Valery et l'intelligence du siecle, n. 9 juin 1937. La poesie de Dante, n. 10 aoùt 1937. 116 Seine (poesia); Nicolas Beauduin ou la beauté hellenique, n. 11 octobre 1937. Poèmes: « Petrarca » « Dante », n. 12 décembre 1937. Poème: « Fontaine », n. 13 février 1938. Persite et Melasia (fragment d'un myte), n. 14 avril 1938. L'arbre (poesia), n. 15 luillet 1938. Globo (poemetto), n. 17 décembre 1938. Moi,l'inutile (salmo), n. 18 février-mars 1939. Bonheur (poemetto), n. 19 avril-mai 1939. Altri saggi e poesie, prosa in lingua francese: Terre relleurissante (poemetto), in « Dante » (Paris), n. 8 septembreoctobre 1935. Broderie (poesia), in « Dante », n. 7-8 juillet-aoùt 1938. Deux Poèmes: « La favola dell'universo », in « La Phalange », (Paris), 15 mai 1938. Le theatre et Pirandello, in « L'Age Nouveau » (Paris), n. 12 février 1939. Un monde sans paix (prosa), in « L'Appel » (Paris), n. 3 ianvier 1974. L'utopie possible (prosa), in « L'Appel », n. 11-12 nov.-déc. 1974. Lettre de Rome (prosa), in « L'Appel », n. 18 juillet-aoùt 1975. BIBLIOGRAFIA DELLA CRITICA Elegie doriche: C. CLAUDI, in « Alfabeto », sett. 195 1, n. 17-18. R. D'ESTE, in « Il Tirreno », 3 sett. 1951. E. MISCIA, in « La Voce Repubblicana », ott. 1951. A. FRATTINI, in « Idea », novembre 1951. Lettere della sposa demente: N. CIARLETTA, prefazione al volume. F. VIRDIA, in « Il punto nelle lettere e nelle arti », (Roma) ag.-sett. 1952. F. BRUNO, in « Gazzetta di Salerno », 15 settembre 1952. R. Mucci, in « Idea », 4 ottobre 1952. L.M., in « La Fiera Letteraria », 5 ottobre 1952. F. VIRDIA, in « La Voce Repubblicana », 10 ottobre 1952. G. VICARI, in « La Settimana Incom » 11 ottobre 1952. N. VERNIERI, in « L'Italia che scrive », novembre 1952. A. MELE, in « Corriere del Giorno », (Taranto) 7 dicembre 1952. F. FORTINI, in « Comunità » dicembre 1952, n. 16. M. RAMPERTI, in « Roma », 12 maggio 1953. G. MAROTTA, in « L'Europeo », 20 dicembre 1959. R. MÈJEAN, in « La France Latine », 4e. Trimestre 1974 (Paris), n.s. n. 60. C. SIANI, in « Stampa di Puglia », 12 febbraio 1976. 117 Esilio sull'Himalaya: E. BATTISTINI, in « Il Giornale d'Italia », 7 ottobre 1953. E.F. ACCROCCA, in « La Fiera Leteraria », 15 novembre 1953. F. DESIDERI, in « Il Secolo d'Italia », 18 febbraio 1954. G. ETNA, in « Il Giornale del Mezzogiorno », 17 maggio 1954. A.FRATTINI, in « L'Osservatore Romano », 17 giuono 1954. M. ZAMBRANO, in « Quadernos », (Paris), maggio-giugno 1954, n. 6. Le favole di Dio: A. FRATTINI, in « Idea », 8 maggio 1955. Pietà della notte: M. CAMILUCCI, in « Il Fuoco », marzo-aprile 1959. F. GRISI, in « Mistica Rosa », (Roma) febbraio-marzo 1962. Adagio quotidiano: P. DALLAMANO, in « Paese Sera », 25 febbraio 1959. G. RIMANELLI, in « Rotosei », (Roma) 16 aprile 1959. Mia figlia è innamorata: A. DEL MASSA, in « Il Secolo d'Italia », 13 agosto 1960. G. PASSALACOUA, in « La Giustizia », 13 agosto 1960. P. CIMATTI, in « La Fiera Letteraria », 14 agosto 1960. G. BALDUCCI, in « Telesera », (Roma), 25 agosto 1960. P. MARLETTA, in « Il Paese », (Roma), 30 agosto 1960. M. AYCARD, in « Ponente d'Italia », (Savona), settembre 1960. U. MORETTI, in « Il Reporter », (Roma) 11 ottobre 1960. A. FRATTINI, in « Humanitas », novembre 1960. ANONIMO, in « Libri e riviste d'Italia », dicembre 1960. V. DE TOMMASO, in « La Carovana », (Roma) genn.-Febbraio 1961. A. CURCIO, in « Europa Sociale », (Roma) luglio-agosto 1962. Il paese d'Iride: N. SIGILLINO, in « La Fiera Letteraria », 14 ottobre 1962. E. MAIZZA, in « Civitas », (Roma) dicembre 1962. Gli occhi di Orfeo: G. AVENTI, pref. al volume. G. Fusco, in « Le Ore », (Roma) 11 giugno 1964. A. BEVILAQCUA, in « Il Messaggero di Roma », 14 settembre 1964. ANONIMO, in « La Notte », (Milano) 1 ottobre 1964. 118 B. PENTO, in « Annali della Pubblica Istruzione », (Roma) genn.aprile 1965. N. SIGILLINO, in « Persona », giugno 1965. Ballata per mille ombre: G. MAROTTA, prefazione al volume. F. GRISI, in « Persona », ottobre 1967. Il mattutino delle tenebre: G. VILLAROEL, avvertenza al volume. N. G., in « Il secolo XIX », 21 maggio 1966, V. TALARICO, in « Momento Sera », (Roma) 30-31 maggio 1966. G. SALVETI, in « Pubblicismo Letterario », (Roma) 30 settembre 1966; poi in Dimenticanze e successi ingiustificati, Cosenza, Pellegrini, 1973. I detti immemorabili di R.M. Ratti: P. CIMATTI, in « La Fiera Letteraria », 20 marzo 1960. M. CAMILUCCI, in « L'Osservatore Romano », 11 luglio 1970. Si veda inoltre la prefazione-saggio di G. Aventi al volume Gli anni del silenzio e i due profili di G. Villaroel (Radio Trasmissioni del 7 novembre 1953: Trampolino) e di R. Gaudio (La Gazzetta del Mezzogiorno, 13 dicembre 1967); nonché i volumi di A. Frattini La giovane poesia italiana; Pisa, Nistri-Lischi, 1964 e Poesia nuova in Italia, Milano, I.P.L., 1967. Pure riferimenti linguistici a Piazzolla sono nel volume Aspetti della poesia italiana contemporanea, di A. Vallone, cit.. Pure importanti sono le seguenti antologie: Splendore della poesia italiana, a cura di C. Govoni, Milano, Ceschina,1958. Anthologie de la poesie italienne, a cura di I. Chuzev;lle, Paris, Edition d'histoir d'Art, 1959. Lirici pugliesi del Novecento, a cura di F. Ulivi e E.F. Accrocca, Bari, Adriatica, 1967. Prima biennale della poesia italiana, a cura di A. Noferi, Firenze, I Centauri, 1969. Poeti dauni contemporanei, (pref. di M. Sansone) a cura di A. Motta, C. Serricchio e C. Siani. (In corso di stampa). ANTONIO MOTTA 119