La poesia di Marino Piazzola - Biblioteca Provinciale di Foggia La

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La poesia di Marino Piazzola
LA DIMENSIONE LIRICO-EVOCATIVA
L’inizio poetico di Piazzolla risale al decennio francese 1928-38. Sono
questi gli anni in cui viene a contatto con la Parigi degli anni trenta derivandone
più di uno stimolo per la sua poesia. E la frequenza dei poeti francesi da Valery
a Breton è avvertibile nei due poemetti pubblicati per le edizioni Deux Artisans
nel 1939 a Parigi: Horizons perdus e Caravanes. In Horizons la lezione di Valery si
snoda in una sintassi lirica particolarmente evocativa, in immagini lievitate su
un accordo di suoni, di cadenze foniche e ritmiche eccessivamente ricercate. Ed
è questa lievitazione delle immagini, questo senso di leggerezza e vorremmo
dire di aereità che ci fa amare questo primo Piazzolla. E si legga per tutte la «
Pluie »:
La pluie une légère main
qui passe sur mes paupières
dans l’air gris où pleurent les feuilles
mouillées dans les rues plaintives
où les arbres semblent meurtris
devant les vitres voilées à peine
par l’automne blessé de mes joies
dove la musicalità del verso si libera in quel senso di scorrevolezza che
l’intreccio delle liquide rinnova continuamente (pluie, légère, paupières, l’air
gris, pleurent). Ma l’importanza di questo primo Piazzolla è la disposizione al
momento lirico-evocativo che sarà la costante di tutta la poesia in lingua
italiana. Disposizione alla réve come registrazione di momenti lirici e quindi
bisogno di scavare all’interno sensazioni nuove. Ma sempre questa scritttra
vaga, indefinita, questo valerismo di Piazzolla, non sa distaccarsi da un senso di
malinconia e di calma che sono momenti centrali di Horizons. E se qualche
verso come a chiusura di volume:
Et j’ai roulé dans l’abime
ci dà la sensazione di un Piazzolla maudit, esso è più una dolce tentazione
giovanile che una scelta. L’altr’aspetto di Horizons è la contrazione della parola
in un analogismo che allontana gli oggetti in un mondo
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tra realtà e sogno. Piazzolla si abbandona al fascino di una fantasia evocatrice di
sensazioni e di eventi:
Ne parle plus aux fournis de perle
tes doigts sont déjà heureux dans l’herbe
on répète ta voix dans una cauge jaune
et l’air a peur d’oublier tes épaules
(Evocation)
In Caravanes si accentua questa tendenza all’abbandono, meno
voluttuoso di Horizons, certamente spinto ai limiti d’un’atmosfera d’intimità
paesana. Il più delle volte sono stati d’animo che riempiono queste pagine,
figure esili d’amore, confessioni tra stupore e smarrimento, in una Parigi che fa
sognare ad occhi aperti e strugge di malinconia il giovane poeta. Insomma
Caravanes è un diario lirico dove contano più d’ogni poetica gli affetti, i ricordi,
trascritti in una dizione sobria, senza sdilinquimenti romanticheggianti. Di più
conta poichè chiarisce i termini di una vocazione poetica lirico-intimistica. Del
periodo francese è il poemetto Pèrsite e Melasia apparso per la prima volta sul n.
14 della rivista « Ars et Idée » nell’aprile del 1938. Poi ripubblicato in italiano
nel 1940.
Un dialogo che nella sua struttura fondamentalmente mitico-lirica
richiama alla mente personaggi e motivi della mitologia classica. L’impostazione
ricalca il tema della primavera-estate-felicità a cui è contrapposto la fine della
vita autunno-tramonto-dolore rappresenta nei due contrappunti temporali
equinozio di primavera-solstizio-d’estate ed equinozio d’autunno-solstiziod’inverno. Qui Piazzolla insegue un’età aurea in cui i due personaggi agiscono
quasi istintivamente, non appesantiti da credi morali o da astratte convinzioni
religiose e magari filosofiche; la felicità e la gioia di Pèrsite e Melasia sono quasi
il frutto di una legge naturale. Vi è solo un leggero presentimento che di tanto
in tanto incrina il loro dialogo e cioè che il loro amore e la loro felicità
finiranno.
Una malinconia soffusa scorre in tutto il volume che appena il poeta
lascia trasparire. Pure la fine di questa felicità è inizio di una piú grande: « E’
tempo Melasia, ch’io ritrovi l’antica mia immagine e mi confonda al creato, solo
per sentirmi infinitamente libero e ritrovare me stesso come fai tu che ripensi i
destini terreni e non piangi se non per udire te stessa, non soffri se non per
sentirti più umana ». E anche se la scrittura è frenata da un lirismo volutamente
ingenuo ed effusivo, quello che più conta è l’abbandono ad una verve creativa,
ad una sospensione della realtà in un sogno che dura tutto il poemetto. E’
questa classicità, è questo pudore di Pèrsite e Melasia che li avvicina a tanti
personaggi delle ecloghe virgiliane. Ore bianche che si pubblica parallelamente a
Pèrsite e Malasia da un punto di vista strettamente stilistico non segna
un’evoluzione o una maturazione. Un’opera giovanile e sicuramente anteriore,
in cui si nota un fraseggio sensibilmente pascoliano: la primavera, con le sue
dita / di violette... I suoi piedini sull’erba (p. 7,
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v. 1 - 2, 13); ciocche di stelle (p. 10, v. 12); le sue tendine di seta (p. 19, v. 2);
l’api segavan l’aria / colma d’ali d’oro (p. 21, v. 1-2); le scarpine di seta (p. 23, v.
3); il suo lettuccio di luce (p. 23, v. 1 l); per la ghiaia d’oro (p. 25, v. 16); da un
suo lettuccio, / bianco come nido di fata (p. 36, v. 6-7); ai suoi raggi di seta (p.
37, v. 13).
E finanche cadenze dannunziane come in questo intermezzo di Estiva:
Le viti gonfie d’uva d’oro,
con dita d’api, suonavan
arpi leggere;
vespro sorgeva timido,
dalle verdure assorte,
parlando con voce vellutata...
E in particolare la prima parte del volume l’Incauta non disdegna temi di un
labile crepuscolarismo (Le mani dei morti, Ora squallida, Favola, Pastello ecc.)
o un vago descrittivismo di maniera (Miracolo, Fuga, Primavera. Offerta,
Vendemmia). E anche se nella seconda parte Parvenze resiste un certo turgore
scolastico essa può considerarsi un volumetto a sé, sia per la costante tensione
morale, sia per per una più solida strutturazione dell’endecasillabo.
Il leopardismo piazzolliano mediato attraverso la presenza cardarelliana
vi si riconosce per quel continuo fluire del verso in pause interrogativemeditative sull’onda del l’endecasillabo e del settenario. E ancor più per la
costante reiterazione a risolvere il discorso in soluzioni moralistiche e in un
aut,obiografismo in cui l’io si confina ai limiti di una storia privata il cui
contrassegno è la negatività, l’emarginazione esistenziale:
Questo lento svanire della vita
in me sempre più si sprofonda;
e sembra ch’io affoghi omai...
(Globo)
E il richiamo quasi leopardiano all’assurdità e alla inutilità della vita
(fragile illusione) sempre si stempera fra ricordo e speranza. Disillusione che
non si attenua, anzi tende a rinchiudersi in un più cupo diarismo lirico proprio
nell’ultima parte del volume come ad esempio in Buio dove la dizione
prosastica si scioglie nella confessione dell’ultima quartina di acre sapore
cardarelliano:
Ma mi sento già inutile
e sconto la vita
che ho sempre agognata
stando fermo nel buio.
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dove quel ma prosastico iniziale, costrutto frequente in quest’ultimo Piazzolla,
accentua quasi nel tempo la pena del vivere. Proietta la certezza temporale del
presente (mi sento) in un lontano passato; proprio perchè essa è continua, dentro la
vita. Segue un periodo di apparente stasi. In effetti Piazzolla è tutto teso a registrare
eventi che non possono non coinvolgerlo come testimonia il volume Gli anni del
silenzìo che raccoglie le poesie scritte nel decennio 1940-50 e pubblicato il 1972. E
già questo « Nido di upupe » ci offre una misura stilistica nuova:
Era tramonto steso sulle rame
dal tronco dell’ulivo,
giunse al mio orecchio sillaba confusa.
Due endecasillabi e un settenario che dimostrano la chiara qualità della
parola, il nesso rigoroso delle immagini, essenziali, di derivazione ermetica,
vorremmo dire, se la parola non ingenerasse equivoci. E gli esiti formali di questo
Piazzolla post-ermetico sono anche da vedere in quel lento giro della frase, in quel
recupero del tema elegiaco su cui tanto avevano insistito i nostri Gatto, Penna,
Quasimodo, ecc., qui sciolto in ampie cadenze colloquiali:
Ora che è inverno,
ho pulito la casa. I muri bianchi
t’aspettano, con ansia
intorno al lume. Tu puoi venire
vestito come sei.
(Lettera della madre vecchia al figlio lontano)
D’altra parte Piazzolla non sfugge alla tagliola degli eventi facendo registrare
una serie di componimenti scritti tra il 1943-44, che, come per molti impegnati e
non, sono una testimonianza contro la barbarie che si andava perpetrando contro
l’uomo. E il Nostro reagisce nella maniera più forte:
Pochi uomini,
poche belve,
danno alla memoria
cibo di sangue
e alla terra
ossa fredde come sassi.
(L’offerta)
e se qui Piazzolla non sfugge a questo prevalicare della rabbia sulla ragione, altrove
ci sembra di ascoltare qualche canto di Monterosso:
Cantano i vetri perché si è fatto
notte, all’improvviso,
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sugli orologi a sole
nella via di ossa umane.
(Apparizione)
o qualche canto di Quasimodo dell’impegno:
Ora son prigioni le case,
ove le pietre celano
echi di bestemmie,
gridi rimasti nelle ossa
come tarli di fuoco.
(Metamorfosi, IX)
Ma l’importanza di questo volume è nel recupero di quelle zone liriche
tra levità idillico-epigrammatica e registri fantastici che preannunciano da una
parte Elegie doriche e dall’altra Lettere della sposa demente.
Si legga ad esempio Felice loto:
Colombe silenziose
spiccan voli dall’onde.
Ora amoroso il mare
canta al mio giovane cuore.
E sicuramente il componimento che è un anticipo felice delle Lettere è la liricapoemetto Nel mio sangue un nome. Qui Piazzolla piace per quella capacità di
fondere immagini sensuose, per quella capacità di trasportare il piano della
realtà su un piano di note fantastiche dove anche la memoria e il ricordo (che
sono le condizioni di partenza di questa poesia) si volatilizzano per cedere il
posto alla fantasia:
Mi chiami! E l’eco,
a notte, giunge stanca
al mio vago silenzio,
e ti ritrovo.
Qui già l’inverno gela:
ti penso fortemente!
Ma l’ora tarda
fa limpido il silenzio
di te pieno.
Sono questi nuclei lirici dove parola e immagine si fondono in un
equilibrio e in una compostezza strofica rara che fanno di Piazzolla uno dei
pochi continuatori della lirica d’amore greca. E non meno è da notare la
sospensione del personaggio che mai ingenera monotonia per quella capacità di
penetrarne fino in fondo ogni moto impercettibile. E tutte le sfumature di una
rinnovata psicologia petrarchesca non gli sono
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estranee. Elegie doriche si pubblicano proprio quando piú vivace è la polemica tra
neorealisti e neormetici. Ogni dubbio sul recupero della parola essenziale è
fugato da questo « Bronzo etrusco » uno dei più alti componimenti della
raccolta:
Al tempo incolore
porgi il profilo antico;
ed è mestizia il gracile sorriso
sul bronzo dissepolto.
dove la figura della madre ci giunge come da lontano, inattesa, sospesa, tra
mestizia ed elegia, tra presente e passato, come la stessa struttura sintattica
suggerisce: ai presenti (porgi. è) fanno riscontro i passati remoti (rinnovasti,
fosti, avesti). Il tema della memoria resta uno dei iopoi della lirica piazzofliana a
cui ritornerà ininterrottamente. Si legga ancora « Nebbia su mia madre »:
Se tu sei vera sulla riva ignota
che divide il mio cuore dal tuo abisso,
non dirmelo quaggiù
finché ogni fibra mia ti cercherà.
Non dirmi se la morte
è solo un’assentarsi,
ma reggimi, soltanto,
col tuo apparire, fragile, ogni sera;
raccontami s’è buia
la tua valle nascosta dietro il tempo.
Ancora Piazzolla insiste sulla dialettica finito-infinito servendosi di agaettivi di
un vago sapore intemporale, quasi indefinito (“assente” del v. 12, “ignota” del
v. 28) che riportano la figura della madre in uno spazio tra realtà e sogno,
mentre il fragile del v. 35 quasi fisicamente ce la fa toccare. Così mentre ì
predicati svanisti del v. 4, si sfanno del v. 7, e apparire del v. 35 adombrano il
sentimento della sua morte proiettandolo nel sogno, come se fosse meno certa;
i sostantivi abisso del v. 29 e valle del v. 37 definiscono topograficamente, ce ne
fanno sentire tutta la certezza, distruggendo il sogno.
Altre volte come in Buio su mio padre è la figura del padre, riproposto da
Piazzolla con forza sbarbariana, l’oggetto di questa dialettica. Il tema elegiaco
che ritornerà in Esilio sull’Himataya, ne Le favole di Dio, in Adagio Quotidiano, in
Pietà della notte, in ogni caso non è un tempo d’evasione, come la memoria non è
un puro ricordare, ché sempre il dato temporale, ora ammorbidito dalla
paratassi discorsiva, ora diluito nelle cadenze della preghiera, gli si configura
come possibilità d’incontro e di tensione verso l’assoluto. Dall’altra parte Elegie
Doriche fanno registrare una condizione di momenti di intensa contemplazione
quasi sul filo di una epigrammatica neogreca che ricorda Alceo, Saffo,
Meleagro. Si leggano per esempio questi versi di « Stagione »:
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All’ape il tempo
dolcissimo già cola.
o ancora:
Per l’aria di tenera pietra
mansueti passeri
ricordano gli autunni.
(Urna dorica)
dove la brevità del verso non è frammentismo; né la parola è tessuta di fronzoli
come dimostrano Novilunio, Sirio, Via Lattea. Condizione di estrema purezza a cui
Piazzolla ritorna ne Le favole di Dio (1954) dove i rimandi vanno senz’altro
all’Antologia Palatina.
Insomma Piazzolla di Elegie ha scavato dentro se stesso portandosi
all’interno di un’area poetica greco-mediterranea (l’antica Daunia) come recupero di
un tempo poetico che non è solo contemplazione o nitore della parola, come la
castità o la brevità dei componimenti potrebbe suggerire, ma soprattutto misura
spirituale ed umana.
Il ’52 Piazzolla pubblica le Lettere della sposa demente le quali ritorneranno in un
disegno molto più ampio e per la verità fin troppo ardito nel volume del ’60 Mia
figlia è innamorata. Piazzolla qui trasferisce la sua capacità di sentire la realtà per
immagini, per nuclei lirici, ad una vicenda di sogno-irrealtà dove quella capacità si
acutizza fino a farei respirare un’aria di demenza.
La vicenda si svolge, come si legge nel prologo, in un paese delle Fiandre, ma
ogni riferimento temporale è pressocché inutile poiché il poemetto non si appoggia
ad una trama narrativa entro cui si muovono i personaggi. Né vi sono causanti che
possono giustificare questo o quel sentimento, questa o quell’azione.
Il sogno della demente (il suo dramma, il suo amore, la sua vita) si svolge su
un piano metatemporale, in uno spazio-tempo che è la nostra coscienza. Il
personaggio non si confessa (per questo non è un canzoniere d’amore), ma vive il
suo amore su una sospensione di pause per un tempo quanto può durare un sogno.
Ed è proprio questo risucchiamento della realtà nell’irrealtà del sogno che fa delle
Lettere un poemetto sui generis e certamente un unicum nella poesia del Novecento.
Ma le Lettere proprio per questo fluire della realtà nel sogno rispondevano
perfettamente al temperamento poetico del Nostro, alla sua verve lirico-fantasticoirriflessiva. E rispondevano ancora al suo bisogno di sentire la realtà quasi
alogicamente, e immaginalmente come lui stesso dice nel suo diario E l’uomo non
sarà solo: « Per me scrivere è stato seguire un ordine alogico che scaturisce proprio
dalla sproporzione tra l’azione del pensiero che intensifica il mio tempo, e
l’inazione del mio corpo che resta bloccato nello spazio, in cui mi muovo appena
»1. In questo senso
1
M. PIAZZOLLA, E l’uomo non sarà solo, Milano, Ceschina, 1960, p. 10.
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la sua poesia è quella che meno sopporta schemi mentali o filosofici in genere.
E quando egli continuando dice: « La poesia è per me alogica come la musica.
Essa procede per salti e per trapassi come il tempo che, velocemente,
s’aggruma nel pensiero »2, non tanto ci sembra di capire che egli voglia dire
irrazionale o arazionale, ma che essa non sopporta altro tempo se non quello
delle immagini velocissime che si sovrappongono fantasticamente. Poi il
Nostro a dieci anni di distanza rielabora Le Lettere operando tagli e apportando
modifiche, ma quello che più importa notare allargando la vicenda: dall’unico
tempo delle Lettere ai tre tempi di Mia figlia innamorata. Insomma
dall’indistinzione del personaggio si passa alla distinzione e alla triplicazione di
esso nelle tre figure: sposa-figlia, sposa-madre, sposo-padre. Invariato resta il
prologo.
Più ristretto il registro dei moti psicologici che s’intrecciano fino al
delirio del personaggio:
Mi sento nuova e il tempo mi travolge.
Mai m’abbandoni:
tu vibri col mio petto e resto muta,
piena del tuo silenzio.
In particolare è nel primo tempo che assistiamo al lento vibrare di una
passione-desiderio. Passione che mai sfocia nel dramma; è piuttosto un riandare
dell’anima, di un’anima delicata, che si ascolta sul filo di impercettibili
movimenti che si fondono col paesaggio.
Ma sempre questo poemetto è l’esplosione di uno stato d’animo in
continua decontrazione sia attraverso notazioni temporali: (la sera, la notte, il
giorno, l’aurora, ecc.)
Quando la sera mi raccoglie stanca
e la mia stanza trema,
l’ombra mi suona come un soffio lieve.
Tu mi tieni sospesa ed io ti chiamo. (p. 17)
sia attraverso connotazioni atmosferiche (il vento, la pioggia, l’acqua, l’aria, ecc.)
Oggi è con me la pioggia
e non so cosa dirti.
Come è vasto il freddo
sceso nelle mie stanze... (p. 20)
che riportano il sogno nella realtà. Ed è proprio in questo continuo proiettarsi
della realtà nel sogno e del sogno nella irrealtà della realtà la molla del
poemetto. Pure non mancano momenti di sosta e allora la parola
2
Idern, p. 10.
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si prova a ripetere luoghi comuni della casistica d’amore che smorzano la passione.
E’ così breve ogni istante
che va da un cuore all’altro,
ch’io mi senta travolta...
è allora che vorrei forse morire. (p. 30)
Fondamentalmente Piazzolla non evita lo schema della ripetizione che
ingenera nel secondo tempo monotonia, essendo la madre un duplicato della figlia,
e anche perché non si capisce fino in fondo il ruolo della madre che nei confronti
della figlia resta una temibìle rivale:
Stasera sono lieta
perché l’autunno è in fuga.
Ho indossato la veste di mia figlia
e aspetto per te la nuova luna. (p. 67)
Nel terzo tempo è la figura dello sposo-padre che fa la sua comparsa. Anche
su di lui incombe lo stesso destino l’irrealtà del sogno. Ed è forse questa coscienza
dell’attesa vana a creare la tensione poetica del poemetto:
Lo so che tu non m’odi.
Così, di sera in sera,
solo ti sciupa il buio.
Ove tu non mi pensi
e pìú t’incurvi
nel tuo grido ormai secco nel petto. (p. 82)
Contribuisce alla riuscita di questa figura anche il taglio che resta più
scorciato. Insomma passando dalle Lettere della sposa demente a Mia figlia è innamorata
la vicenda si temporalizza, ora vi è una trama, che si complica mediante il vecchio
artificio di una mezza agnizione della figlia-sposa che è poi sposa-madre (figlia poi
donna) che finisce col pregiudicare il loro libero comportamento. Non a torto il
Frattini così concludeva: « Non diremmo che la più vasta e complessa
orchestrazione del tema originario abbia giovato... all’intensità e all’intima necessità
della parola poetica. E se le accorte riduzioni, rilevabili per il II tempo, sul testo
delle Lettere, testimoniano più rigorose esigenze formali, altrove si avverte il
concedersi a un gusto sottilmente compiaciuto della figurazione astratta, campita e
delibata sui puri arabeschi di un sogno, il cui lento dipanarsi, su una candida
geologia di sensibilità - al limite di una innaturale casualità e di una « follia di
comodo » - ingenera qua e là un senso di gratuità e di monotonia... » ‘. La ballata
Viaggio di nozze al
3
A. FRATTINI, in « Humanitas », novembre 1969, p. 840.
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paese di nessuno inclusa nel volume Ballata per mille ombre continua il tema delle
Lettere della sposa demente. Essa fu scritta il ’53 subito dopo la loro pubblicazione.
Qui l’amore, anche se il linguaggio si è disciolto .n cadenze iterative, ha perduto
la demenza del sogno e si è proiettato n un futuro prossimo (andremo,
incontreremo, vedremo, pasceremo, scriveremo, viaggeremo) che ha riassorbito
ogni singulto, ogni tensione. Vi resta la speranza-certezza:
Andremo a villeggiare a un’isola verde,
dove si fanno ceste con raggi di sole
………………….
e si può scrivere t’amo sulla luce.
I Poemetti pubblicati nel ’58 sono stati scritti tra il ’50-53. Questo spiega
il loro legame stretto con le Lettere. Diciamo subito che il poemetto d’apertura «
La sonnambula in esilio » (1950-’51) è senz’altro un anticipo della sposa demente.
Non solo l’amore è al centro del poemetto quanto la vicenda si svolge in
un’atmosfera di sogno, al limite della realtà. L’altra caratteristica che avvicina la
sonnambula alla demente è l’impossibilità dell’amore che ingenera nel
personaggio solitudine e un palese desiderio di amore verso la natura. Anche
qui la pena si estrinseca nel parteciparla ad altri esseri: la rosa, la tortora, le
farfale. il vento che sono gli interlocutori di questo monologo:
Ascoltami, tu, rosa venuta
fin dietro i vetri. Ascoltami e non dirmi
che son triste.
.........
…e quando dormo guarda
se ancora penso o sogno chi non torna. (p. 7)
Come pure la demenza (qui appena partecipata), l’essere in preda al sogno, il
dissolversi di ogni misura spazio-temporale, creano in tutto il poemetto quella
fabulosità che è propria della fiaba. Invece nel « Soliloquio di una fanciulla
antica » (1949-50) è il fiabesco il tono predominante. Il linguaggio ha tutti gli
ingredienti della fiaba (il tono del racconto, l’uso frequente del discorso diretto,
l’inizio del verso col quando temporale, ecc.). Addirittura il raccontare è la
misura di questo poemetto; un raccontare, a volte, eccessivamente innocente ed
ingenuo:
Nonna mi dice sempre:
Vedi la luna?
Vedi la sua faccia?
Guardala, guardala sempre.
Essa è una signorina
che non volle morire.
Mai volle morire veramente.
E allora se ne andò nel cielo
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per essere felice e non morire.
lo so che non ancora
è morta; non è morta;
ma si è fatta più bianca. (p. 15)
Si noti anche l’uso insistente del verbo dire (mi dice, mi ha detto) proprio della
narrazione; e nel finale il racconto porta al sonno e al sogno. Questo poemetto
ci induce a pensare che sia stato scritto proprio per gli adulti-bambini e bene
starebbe in un’antologia di favole e racconti. Meglio risponde alla natura miticofavolosa della poesia piazzolliana. Il sogno è la ricreazione di un sovramondo,
vero e solido mondo, oltre l’effimero del sogno; perchè questi poemetti non
sfociando nella favolistica didattico-morale sono un chiaro ritorno del poeta
all’infanzia; rifugio alla sua solitudine:
Se la luna venisse
sul mio letto
a farmi compagnia,
io la vestirei
da sposa con il velo:
quello che la nonna
nascose in un tiretto
dicendomi, felice:
questo non è un velo;
questa è l’anima mia;
e chiuse a chiave. (p. 31)
Il verso qui è un puro pretesto che sottintende un più vasto disegno
autobiografico e una pena più vasta che l’apparente ingenuità della scrittura in
parte riesce a nascondere. Ora questa « ingenuità » è anche l’estraneità di un
mondo non suo; il fuggire sin da giovane il suo mondo meridionale: prima
Parigi, poi Roma.
Eppure questo dolore non si traduce in lamento verso la sua terra che
apparentemente mai riesce ad essere oggetto immediato di canto. Estraneità
che è sempre avvertita:
Io sono fermo in un celeste esilio
a guardia della luce.
(Quando l’angelo parla)
E pensiamo ad autori come Quasimodo, Gatto, Sinisgalli e ai più giovani
Scotellaro, Pierro, Marniti e al recupero tramite la memoria della loro terra,
avvertita in un mondo lontano dalla loro esistenza, ma gioia immensa. Gli
accenni di Piazzolla al Sud sono rarissimi, quasi evitati, e in genere sobrii; la
pena è quasi trattenuta:
Morire fra gli ulivi;
con le cicale in festa,
e l’afa meridionale sulle cime.
(da Le favole di Dio, p. 146)
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Non ha che pietre
e vento il mio paese...
(da Il mattutino delle tenebre, p. 43)
Ma il recupero della terra avviene mediante il tema elegiaco incentrato sulla figura
paterna e per questa via la sua poesia si salda alla tradizione lirica meridionale. La
figura del padre, a parte la sua popolarità nella poesia del Novecento, e in specie in
quella meridionale (e pensiamo al volume di Spagnoletti A mio padre, d’estate), ritorna
sistematicamente in tutti i volumi del decennio 1950-60. Non solo come simbolo
affettivo, ma bisogno impellente di sentirsi attaccato alla propria terra tramite la sua
amara esistenza. In questo senso il filone elegiaco e il filone favolostico
s’incontrano. E i lineamenti lirici di questa figura ricordano la forza dei versi al
padre di Sbarbaro. Non insisteremo mai abbastanza sulla dialettica padre-infanziaterra-solitudine che è un altro punto di forza della poesia piazzolliana. E
ascoltiamone insieme qualche canto:
E tu, padre,
metti radice alle nuove ginestre.
L’aria d’aprile
non sa che sei venuto
alle sue contrade di fiori.
Ti sanno a memoria
tante frasche appassite;
e l’ombra che avesti
fa da guida alla luna per questa pianura vuota
che mi ha fatto straniero.
Verrà il tempo
in cui ti coglierò
come una calda viola al mio paese.
(da Esilio sull’Himalaia, VIII)
Il tono idillico è sempre smorzato dai continui riferimenti al paesaggio (le
ginestre del v. 2, le frasche del v. 7, la pianura del v. 10, la calda viola dell’ultimo
verso). E queste note di paesaggio non avrebbero alcun senso se non accentuassero
il senso di estrancità-separazione del poeta dalla propria terra che la figura del padre
mette in moto. Si capirà così il senso della nostra affermazione padre-terra-infanziasolitudine. Al di fuori di questa dialettica avremmo annotazioni generiche di
paesaggio e disarticolate invocazioni affettive. Un volume che in effetti sembra
staccato da tutti gli altri, ma che fa il punto su questo primo Piazzolla è Adagio
Quotidiano (1958). Per la verità Adagio Quo71
tidiano resta un diario, se vogliamo lirico, più che un libro di poesia. Un diario in
versi che esplicitamente preannuncia le prose di E l’uomo non sarà solo. L’infanzia, il
sentimento della morte, della solitudine, la figura della madre e del padre, sono
questi i temi che riempiono il volume. Temi che però mai si risolvono in poesia
proprio per quell’urgenza di autoanalisi, di autocritica da cui in fondo sono dettati.
Le clausole gnomiche testimoniano di questa eccessiva prosasticità, di questo
ritornante cardarellismo di Piazzolla. Si legga ad esempio Vivere non è umiliarsi:
Esistere è giacere nell’essere:
soffrire tutto per amore
finché andremo nel sole
Si noti l’attacco iniziale filosofico (esistere è giacere) che si continua in tutta
la lirica con rigidità sillogistica:
Se è vero che il mondo
è soltanto il sogno di Dio,
ogni giornata è luce meritata...
pure ragionativa è la struttura sintattica del componimento completamente
innervata sugli infiniti esistere è giacere; vivere è non umiliarsi; vivere è... intendersi.
La tendenza all’analisi, ereditata anche dalla familiarità con la filosofia, si estrinseca
nelle prose di E l’uomo non sarà solo (1960). Confessioni che si accavallano e che
ritornano con puntuale frequenza nei quarantacinque capitoli di cui si compone il
volume.
E la chiave d’interpretazione dell’intero volume va cercata in una frase posta
all’inizio dell’ultimo capitolo: « Ho scritto soltanto per conoscermi. Ho tentato la
sapienza: ecco il crollo »4. Questo senso di autoconoscenza e di penetrazione
all’interno del proprio io informa questi pensieri, anche se mai vi è in lui quel
solipsismo, quel pirandellismo, quella negatività propria delle filosofie e delle
poetiche del Novecento. Vi domina un senso di smarrimento, di amarezza, di
rimpianto che è insieme attaccamento alla vita e bisogno di viverla fino in fondo: «
La mia giovinezza è finita... Mi stringe l’amarezza degli anni e l’ostilità di un mondo
che si brucia. L’indifferenza è terribile. E’ finita anche la poesia e sono solo »5.
Ma fondamentalmente è il bisogno di sentirsi radicato in Dio, di non averlo
cercato invano che anima queste pagine. E ancora ce ne fa certi il finale dell’ultimo
capitolo: « La speranza è questo sentirsi assolutamente vivi nel pensiero costante
della morte. Gli uomini di domani scopriranno questa tenera dimensione del
tempo. Faranno un
4
5
ibidem, p. 155.
ibidem, p. 31.
72
coro, come lo fanno, da sempre, i morti di tutte le latitudini che ci vengono
dietro come tante foglie secche e non ce ne accorgiamo. Per questo. senza
sapere perché, ogni morto è vestito a festa. E sale dove siamo tutti fratelli; dove
Dio solo parla per tutti, col suo silenzio da sempre »6. La morte insomma è
l’ultimo atto per chi cerca Dio. Anzi il pensiero della morte come
ricongiungimento, come svelamento della presenza di Dio ritorna più volte
come in questo capitolo quindicesimo:
« Quando verrà la morte, spero di scoprirmi definitivamente... Pare che
la morte si avvicini proprio come un alito in cui la memoria può scoprire tutto
ciò che nasconde. Pensate di ritrovare tutta la vita in pochi istanti. E’ il
miracolo del tempo che soccombe davanti all’eternità di Dio, venuto a visitarci
in un momento così terribile da farci tacere per sempre »7.
Non mancano ricordi autobiografici, pensieri, disgressioni filosofiche,
come tutto il capitolo XXIII che si attarda sul problema della felicità e del male.
Ma sono queste pagine dettate dall’urgenza di giustificare le proprie azioni, di
dare un senso alla propria vita, e quindi indirettamente espressione della tensione religiosa del Piazzolla. Mai i ricordi (siano essi affettivi come la rievocazione
della figura materna e paterna; siano essi esperienze di vita vissuta) sfociano in
blande pose rievocative o le confessioni in uno stato morboso di autoeccitazione. Così mai del Dio di Piazzolla riusciamo completamente a farcene una idea.
Proprio per quel continuo sentirlo vicino e lontano. E questo andare tra cielo e
terra fa slittare la prosa in un lirismo, caratteristico del Piazzolla-poeta, che si
estrinseca in preghiera. E la preghiera è tutt’uno con l’uomo Piazzolla, in quanto essa non nasce da un’analisi esistenziale (e pensiamo a Papini): non è il volume un diario di un uomo finito o tantomeno provvisorio: né frutto di una
stasi mistico-contemplativa.
La sua spontaneità ci ricorda qualche preghiera a Cristo di Claude e
ascoltiamone qualcuna: « Non te ne andare, Signore; non smettere di sognarci
anche se tutta la terra è colma di fanciulli uccisi. Lasciaci pregare almeno senza
il tuo nome, se tu sai che siamo assassini: se ci pesa la carne e questo antico
sangue che ci brucia... Non lasciarci quaggiù se vanno più lontane le tue stelle,
da sempre. Dacci l’amore quotidiano e la ragione e il sole; fallo per i fanciulli e
le farfalle che scendono dal tuo riposo a dirci che la vita può essere un volo...
Colma il nostro abisso almeno con un tuo raggio e torna nelle parole a dar
senso alla vita. Da tempo il nulla ci chiama con tutto il buio e l’uomo non sa se
è vero più il tuo cielo o la sua fine. Parlaci una volta del tuo paese intatto. Che
domani l’aurora sia colma delle tue colombe, colma della tua luce e di silenzio
»8.
ibidem, p. 160.
ibidem, p. 48.
8 ibidem, 150-152.
6
7
73
La disposizione fantastica che aveva trovato piena attuazione nelle Lettere
ritorna con altra misura ne Gli occhi di Orfeo (1964). In apertura Piazzolla
chiarisce la sua poetica. Vi si legge:
La parola è sola. Fa luce.
Aggiunge suono al vuoto ed è raggio
d’un paese volato.
Pronta a chiamarsi assenza
o a farsi aureola
di qua dal Nulla.
Ha sangue d’oro. Vocali ad ala
fulmini accesi dall’Eternità.
Scatta l’usignolo d’una sillaba
e segno resta: null’altro.
La parola è tuono di favola,
cominciata e finita.
Chiama l’angelo.
Scorta l’uomo.
Addiziona i Soli sulla lavagna
e inventa il dio che non c’è.
(Poetica)
Ora che altro è questo manifesto se non l’esposizione della sua poetica?
O almeno la poetica de Gli occhi di Orfeo. Non si vuol dire che il Nostro è
un voyant o un orfico come ha affermato il Pento9. A noi sembra che non si
possa parlare di un orfismo piazzolliano della parola almeno nell’accezione
onofriana e campaniana e in genere di gran parte di un certo ermetismo.
L’orfismo consiste sì come vuole il Pozzi: « ... in questa sopraffazione del
canto sopra il significato, nell’irrazionalismo metasemantico che domina e
determina, con impeto oscuro, il contenuto di Onofri, di Campana, giù giù,
fino ad Alfonso Gatto, a Parronchi o a Sinisgalli »10, ma implica altresì dei
conati metafisici e delle entrature simboliste assenti nella parabola piazzolliana.
E quando il Piazzolla dice che La parola è sola. Fa luce. non ci sembra voglia
dire quasi simbolisticamente che essa è un mezzo di penetrazione del reale o
meglio del mistero, dell’inconnu, ma piuttosto che è sufficiente a ricreare tutto
un mondo di sogno, di favola, d’irrealtà. Infatti aggiunge suono al vuoto ... / Ha
sangue d’oro. Vocali ad ala... / è tuono di favola... / Addiziona i soli sulla lavagna / e
inventa il dio che non c’è. Ed è in questa ricreazione di un sovramondo, riscattato
solo dalle immagini, per cui diventa ba5 Cfr. B. PENTO, in « Annali della Pubblica Istruzione », gennaio-aprile, 1965; si
veda anche N. SIGILLINO, in Persona, giugno 1965.
10 G. Pozzi, La poesia italiana del Novecento, Torino, Einaudi, 1970, p. 116.
74
roccheggiante, il significato e il valore della parola.
Né vogliamo dire che Piazzolla qui fa prova della poetica delle parole in
libertà che si uniscono o si allontanano, si sommano e si sottraggono in preda ad
un’empiria immaginale. Né fa della poesia visiva o fonica allineandosi ai movimenti
avanguardistici di quegli anni. Per cui è questa poetica della parola in pieno accordo
con la parabola lirico-evocativa e lirico-favolistica del Piazzolla. Certo si deve
prendere atto di un neobarocchismo piazzolliano proprio come esplosione della
parola, prepotenza delle immagini, delle sensazioni, dei suoni, dei colori sui
contenuti. Infatti dalle Lettere, attraverso il passaggio obbligato dei Poemetti, a Gli
occhi di Orfeo, l’assottigliarsi del contenuto fino alla sua scomparsa è evidente:
Il fulmine giocava al cervo
tra i boschi di nuvole
obese di tuoni e crepacci
briosi d’acqua nuova.
Poi la pioggia, con aghi lucenti,
trafisse le foglie accartocciate
sui rami; e l’aria musicò,
tra il ridere del piano, le margherite. (p. 9)
E non mancano zone di puro capriccio, di vaga surrealità, dove
l’appariscente analogismo incuriosisce:
Butta sangue la nube.
E’ un agnello sgozzato
sui gigli dell’onda.
Fiorisce d’api il ponente:
scocca la luce sconfitta
fra mille campane.
Perde porpora il sole:
cardinale impiccato
a una forca di rame.
Squilla il fondo marino.
Appare la stella bianca
caduta giù dalla luna.
Talora come in Estate quasi sulla scia di Marino la natura si esalta in immagini
eccessivamente lucidate, sontuose, colorate:
Ecco l’estate
col dorso di cicale
e l’anima di calce.
Butta cetonie ed api
dai suoi rami di luce.
75
Si scioglie nei frutti
scivola nel miele:
è frasca sonora al vespro.
Asciuga l’ombra
ha il sapore del sangue.
E la rosa, la farfalla, il sole, il vento sono momenti di questa esaltazione,
che non evita il fastidio dell’amplificazione e finanche la monotonia dell’elenco:
Cinque vocali
cinque rondini che vanno a scuola.
Nelle vocali fanciulle
il volo delle vocali.
Sui fili d’erba
la voce delle rondini.
Aula bianca
nel bianco
volo delle vocali.
Prato verde
nel verde canto delle rondini.
Questo neobarocchismo di Piazzolla trova la sua misura più valida nella
sezione « Gli occhi di Orfeo »: immagini in fuga, suoni, colori, ritmi, legati tra loro
da un tessuto lirico fragilissimo al limite di un frammentismo impressionistico:
Sulle vetrate volano
agili uccelli
colorati di fresche ferite.
Queste felici impressioni che sono già un avvio verso il recupero
semantico della parola non sopportano altro peso se non quello di una lenta
sillabazione che crea un dolce piacere retorico. Ed è proprio nella levità di
immagini senza peso, scorporcizzate, la misura de Gli Occhi di Orfeo.
Le ultime due parti Dolore e morte e il poemetto Il mare sono un ritorno
alla parola pregnante di significato; a una dialettica di vita-morte che
sostanzialmente riabilita il contenuto. In particolare il rapporto dolore-morte
che presuppone quello di nascita-vita è visto alla luce di una natura umanízzata
che partecipa agli avvenimenti-accadimenti della vita umana.
76
Gli scrittori al Caffè Strega: (da sinistra a destra) Carlo Ternari,
Guglielmo Petroni, Marino Piazzola, Vincenzo Cardarelli,
Vitaliano Brancati e ErcolePatti.
77
VIAGGIO NEL SILENZIO DI DIO
La dimensione religiosa nella poesia piazzolliana non è un fatto
marginale e tanto meno di poco peso; in effetti l’intera sua produzione
sottintende (e come non lo potrebbe la poesia) una presenza costante: Dio. E
se la dimensione religiosa resta per così dire nascosta sotto un apparente
disimpegno idillico-elegiaco fino a Elegie doriche e alle Lettere della sposa demente
esplode in Esilio sull’Himalaya (1953). Ora Piazzolla non è un poeta
dichiaratamente religioso almeno nel senso confessionale del termine. La sua
poesia religiosa nasce da un’insoddisfazione umana, da uno stato di
irrequietudine-solitudine comune a tutta la sua poesia. Insomma Dio non si
pone come alternativa ad un mondo dominato dall’ingiustizia o dalla barbarie.
La sua preghiera nasce proprio dal bisogno di sentirlo vicino giorno per giorno:
« Mi dispero perché non potrò mai ricordarmi di Dio. Ci sfuggiamo da
sempre... Eppure batte col mio cuore e si colloca in me come una dimensione
su cui è vano ragionare. Mi è necessario come l’aria e come la luce del sole
dopo il sonno »11. In Esilio sull’Himalaya il dialogo con Dio accenna a farsi
serrato e perfino angoscioso. Infatti Dio è qui luce, come il mondo è tenebre:
T’immagino vestito
con il raggio che abbaglia (p. 11)
dove non sei che favola di luce (p. 17)
Pensarti è vestirsi di luce (p. 18)
Io torno alla tua luce (p. 22)
e ancora dantescamente Dio è guida, abisso, sapienza, pietà, rifugio.
Un dialogo sempre riferito ad una condizione umana precaria:
Io brucio
e tu m’inchiodi
a questa magra terra.
Così consumo i giorni
senza mai fissarti
mentre vai più lontano.
(XX)
Ma Piazzolla è riuscito a tenersi lontano sia dagli ardori di una
commozione troppo sdolcinata sia dal peso di una parola eccessivamente
indulgente all’enfasi del cuore; come pure ha saputo evitare il rigore metafisico
del verso di Comi:
11
M. PIAZZOLLA, E l’uomo non sarà solo, cit., p. 27.
78
Ch’io mi perda,
come sopra un nevaio,
per accostarmi a te,
o antica mia innocenza.
(XXXII)
Dove l’inizio del primo verso crea un alone di smarrimento e di dolce
perdimento nell’innocenza di Dio.
Con Le favole di Dio (1954) il dialogo subisce una brusca svolta. Il linguaggio
si offre a spunti filosofici su una linea di interrogazioni in cui il dialogo-preghiera di
Esilio si arrende all’ipotesi di un monologo-assenza.
Dio è relegato nella concavità di mondi favolosi, in plaghe, gli intermundia
lucreziani, dove ogni voce umana sembra perdersi nella immensità degli astri:
Eppure siamo soli e tu non odi
quando chiamiamo tanto è il tuo silenzio.
...
Ma sei dove nessuno potrà giungere:
sei dove nessuno può pensarti.
(Dio è solo, v. 23-24; 59-60)
Qui il recupero di Dio avviene all’interno di un discorso che Lo nega in tutti
i suoi attributi, sentiti dal poeta troppo lontani. Piazzolla, così ci sembra, non ipotizza un mondo senza Dio quanto Lo nega nella sua infinità per recuperarLo come
possibilità realmente umana. E’ una sfida che non ha altro significato se non quello,
anche se non mancano sfumature ironiche, di accentuare la fragilità della condizione umana:
Il passo tuo guida fanciulli uccisi.
La tua parola
è per i sordi che sognano.
...
tu non sei mai
morto sulla croce
per la troppo innocenza
che ti preserva dai millenni.
. . .
Tu sei troppo eterno
per venire quaggiù
come un’eco sulle labbra.
(v. 80-82; 91-94; 107-109)
E ci viene in mente Piccolo uomo di creta di Cosma Siani12
12
Cfr. C. SIANI, Ciclo chiuso (trenta poesie), Poggibonsi (Siena), 1972.
79
dove gli stessi interrogativi si fanno eco di una condizione esistenziale
tormentata fino ai limiti della negazione. Ma dicevamo questo tormento è
assente in Piazzolla e il finale della lirica è da sillabarsi in lenta preghiera:
O signore,
...
lasciaci soli nella vita
lasciaci soli nella morte
che a nulla serve credere
. . .
accompagnaci soltanto per l’infinito
quando non saremo più.
(v. 132; 135-137; 142-143)
Il crollo del Tempo e Tempo di sangue registrano un acuirsi delle immagini
fino all’esplosione magmatici di ” Sabba ,, che è il canto del dolore umano. Gli
accenni apocalittici ad una realtà terrificante di distruzione e di morte sono
frequenti:
I fanciulli si uccidono in piena luce
con le armi che sognano.
E’ cessato il tempo delle rondini.
Le colombe si vedono sui quadri dipinti
e nelle feste sono sole
le girandole cinesi e le orchestre pazze.
...
Poeti murate la bocca
e fate bancarotta sulle onde
se il sole ha sete di oceani
e la fame non basta a punirci.
...
Dai pulpiti di ossame anonimo
predicano i profeti di pietra
e il loro giorno è grazia nera
sui nostri pensieri inabissati.
E non v’è chi non veda in questi versi un’allusione agli avvenimenti
contemporanei e un’ironia sprezzante fino al sarcasmo. li linguaggio si carica di
tinte epico-narrative sconosciute alla sua poesia. Meglio la contaminazione tra
cadenze epiche e litaniche fa slittare le immagini in una demenza linguistica e
sintattica, espressione di una visione di mondi quasi in ebollizione:
Verranno qui a piegarsi le foreste
in bufere di foglie immense
80
sui capelli dei vivi;
verranno a gemere in tuta nera
gli operai dai volti rotti,
appena sarà viva la notte
e suoneranno le luci altissime
dell’Orsa...
(Verrà il vento stanotte)
Il Mattutino delle tenebre (1966) resta uno dei punti più alti della tensione
lirico-religiosa di Piazzolla. Tutta l’acerbità, il tormento, i singulti de Le favole di
Dio si sono rasserenati nel ritmo composto e disteso della confessione.
Nell’Esilio sull’Himalaya la preghiera domina come punto di partenza e
d’arrivo dell’inquietudine piazzolliana, in quest’ultima Dio è al centro di un
canto più vasto, al centro di una natura redenta dal suo sacrificio.
Piazzolla in questo senso rifà la storia di tutti gli uomini in ascesa verso
Dio. La sua storia individuale qui conta ben poco. All’io si è sostituita la coralità
del noi:
Ti offriamo le mani crudeli.
Ti offriamo le vecchie parole
...
E ora basta di vederci assassini!
Te lo chiede il fiore
che si sente fratello
e il tronco che ti saluta
agli eventi la natura:
Ce lo dice il monte
che chiude a sera un mare di ginestre.
Ce lo dice il sole
che batte ai vetri, come un usignolo
di scintille, all’alba.
E la memoria di Dio è certezza del perire delle cose umane:
Quaggiù esatto è il solo perire
in una gelida penombra di stagioni.
Se tu non fossi che parola vuota
io avrei la morte certa.
Allora Il mattutino delle tenebre è il limite-confine dove l’uomo scopre Dio.
Questa felice condizione di dialogo s’interrompe nel volumetto Per archi
impazziti (1970). Se il paradigma di riferimento resta pur sempre Dio, in effetti
Piazzolla si abbandona ad una specie di
81
lussuria della parola che allarga le maglie del discorso in saliscendi di immagini che
non solo scompigliano per gli ardui riferimenti e vorremmo dire anche sintattici,
quanto per il disperdersi delle immagini in pure e rabescate creazioni ipofantastiche
come il titolo stesso vorrebbe suggerire. E ascoltiamo l’inizio di una lirica
presuntuosamente meditativa:
Ho visto l’anima. L’ho vista
come un’ala che abbaglia il buio.
Ho udito l’anima: ho udito
un’arpa e c’era il mio silenzio.
Suonava con verdi
scale
d’usignoli
gole d’aria d’ovunque.
. . .
Ho udito i galli
svegliarmi negli occhi
papaveri, lampeggianti
negli
anelli
dell’alba.
(In interiore homine)
L’intera lirica vorrebbe essere un fantastico viaggio dell’anima all’interno di
se stessa, condizione indispensabile per un Viaggio nel silenzio di Dio.
In effetti la prolissità delle immagini, il ritornante barocchismo, fanno
scadere il componimento in un gioco di preziosità e di geometrie finissime:
Vedo architetture
emergere da nebbia;
fiato rosa di mesti simulacri
guizzi d’alte nubi,
guide arcane
vive nei colori
. . .
Ascolto antiche note
echi di conchiglie
brusio di fossili
nel sasso
moti di candide geometrie.
In Gesù muore ogni giorno l’ordito intellettualistico è maggiormente evidente
per lo scadere del dialogo, né preghiera, né confessione, in una inventio che fa
lampe9giare le immagini:
82
Ardi come fiocco d’alba
e scendi alle spelonche, tu, invisibile.
La luna è vela sull’occhio.
L’angelo t’asciuga parole;
lo scheletro è radice
sotto il buio
e tutta la tua carne
schizza stille come gerani.
Il tuo volto è un incrocio
di rughe improvvise:
paesaggio di vecchio pianto
spremuto all’agonia.
In particolare il contrasto tra Dio-luce-creazione-potenza e Diouomosofferenza-dolore è niù nel cuore che nella parola, più presunto che vissuto.
Con Viaggio nel silenzio di Dio questo pericolo è corso sin dall’ inizio. Non
solo perché Piazzolla tenta il lungo poemetto, accettando una misura stilistica a
lui non molto congeniale; soprattutto perché ubbidisce ad una poetica, e non
solo poetica, ma ad una filosofia, ad una teologia, che impongono al poeta
difficili equilibri e suture non sempre riuscite tra zone filosofico-teologiche e
aperture liriche. Il viaggio segue la duplice linea dalla natura a Dio, da Dio alla
natura. Ma il fatto più importante è che Piazzolla trasferisce la possibilità di
questo disegno su un piano puramente metafantastico. E non è da escludere
l’influsso dei simbolisti da Rimbaud a Mallarmé e la tranche surreale di Breton
ed Eluard.
In effetti questi influssi restano marginali, interessano più la scrittura che
non il disegno piazzolliano. Lo squadernarsi della scrittura quasi magmatica è
l’effetto d’un’esplosione fantastica, d’una fantasia che ha fatto come sua misura
il proiettarsi dell’io in un al di là. In questo senso il poemetto è in intima
connessione, perché ne è il superamento, sia delle Lettere che de Gli Occhi di
Orfeo. Piazzolla si è liberato di ogni riferimento temporale. Ogni visione, anche
quelle che ci riportano apparentamente nell’al di qua, labili riflessi dell’io che si
ricorda del mondo (ne vede le meschinità, gli odi, le lotte, le catastrofi; ne
osserva gli spettacoli naturali, le meraviglie, le creature ecc.), si situano in spazi
di mondi, più o meno vicini a Dio. Mentre si stabilisce sin dall’ inizio del
poemetto un curioso rapporto di causa-effetto tra immagine-parola e veicolo
linguistico responsabile in parte della scrittura automatica. Insomma la « qualità
» del viaggio non giustifica, come vuole Aventi 13 « l’apparente alogicità di
alcune strofe ».
Ed anche l’impostazione filosofica inaridisce e coarta la vena lirica del
Piazzolla. Favorisce il dualismo linguistico del poemetto che sem13 Cfr. G. AVENTI,, pref. a Viaggio nel silenzio di Dio, Roma, Ippogrifo, 1973, p.
8.
83
pre si attorciglia tra il frammento alogico e pause filosofiche, tra scrittura
automatica e costrutto logico. Il primo tempo è il tripudio della natura come
complesso animale vegetale che fa le sue lodi a Dio. Non mancano abbandoni dove
la scrittura si redime in felice tocchi descrittivi:
E nel vespro
abbandonarsi al vento,
che nel grumo di un’onda
sbatte il mare, o ti conduce nell’oro dell’autunno,
quando il ramo
lamenta il distacco
di un fiore
il filo d’erba ti rapisce
l’occhio per condurlo altrove, forse in un verde limbo
di svanite mattine. (p. 15).
ma subito la tendenza al ragionamento si fa avanti:
Ogni immagine
è impeto di vita. Necessita d’ogni pensiero
e si completa in sé. S’infiamma o cede in un lampo... (p. 16).
e qua e là le clausole gnomiche non mancano:
Sacro è
ciò che allo stupore avvia
e si rivela quasi come ferita
in ogni gemma del creato. (p. 18).
o ancora:
Ogni vita
è un impeto che scoppia
e si colora in un punto. (p. 19).
Amore è questo
fermarsi nella bellezza,
in una luce
che lega l’occhio alle cose
e le chiama
per nome. (p. 21).
Altrove l’espressione si fa ardua e per il salto delle immagini diviene
oltremodo difficile seguire il poeta:
Occorre compiersi fra gli uomini:
non basta più evocare; il tempo
84
si fa coltello:
e nel midollo che ci regge suona
l’essenza,
che sale a farsi riso o dolore sul volto,
e impasta l’aria
e scoppia la parola, nostra presenza
tra le cose... (p. 25).
Da questo punto fino alla fine del primo tempo queste sacche filosofiche si
fano più frequenti e Dio compare e dispare: ora vento, ora silenzio, ora morte in
questa cosmogonia universale. Ma solo l’evento onirico ce lo può far penetrare. Si
assiste così al sogno del poeta vagante (prima gallo, poi rosa, lucciola, fanciullo) per
il mistero dell’universo, fra gli astri, per le profondità degli oceani, per le altezze dei
monti. Ci viene in mente il bateau ivre di Rimbaud, ma qui diviene tutto più
complicato per i continui rimandi ad un linguaggio che sconvolge la stessa logica:
Occorre
scomporre l’istante: Qui c’è
l’immagine; luce e fumo.
paesaggio e acqua in senso verticale, dove passa
il mattutino
e con l’occhio
il poeta
ascolta la tangara nel volo... (p. 3 1)
Mentre il finale è tutto per una visione babelica del mondo:
Già le città
hanno viscere per mostri; giardini
putrefatti per fantasmi. Ogni muro
si macchia di sangue bianco; e sembra calce di lazzaretto
lo spazio
verticale,
dove
abbaia la notte che verrà
da un sole nero, non si sa perché. Già si tace
per i mille rami: qui la terra
giace e non c’è buio
che basti per la sua voce. O terra, morta
fino a Dio
per sempre.
Il secondo tempo carica di morte il paesaggio. E l’avvento di una umanità
più giusta s’intreccia continuamente alla disumanità dell’uomo
85
contemporaneo. Per un momento sembra che Piazzolla interrompa il viaggio e gli
prema da vicino la condizione umana. Il poeta abbandona gli spazi siderali per
unirsi all’altro uomo, per lottare insieme e scacciare il « mostro »:
Ma col sangue perduto s’alza l’uomo
che si fa
poeta
e aiuta
chi scaccia il mostro
dalla terra, offre fuoco e luce
al volto, rivolto al cielo
per tacere... (p. 49)
In verità subito dopo il discorso si frantuma in rievocazioni di visioni
naturali, in nuove « illuminations » edeniche. Il terzo tempo ci riporta nel silenzio di
Dio. La contrapposizione tra regno di Dio e regno dell’uomo diventa totale. Ad un
mondo metatemporale dove la natura partecipa della gloria di Dio Piazzolla
contrappone il mondo terreno:
Caotico
è questo mondo, che si fa scatto
dove la forma erompe e la parola
si fa storia per l’uomo. E così vibra il pianto, abisso
dì spazio
contratto,
dove il segno
si fa colore di cosa ferma,
o forza in movimento nel viso d’un’immagine,
che vergine può insorgere e far diversa
la terra in moto, fra gli alti
soli nota. (p. 56)
Vi domina in questo terzo tempo la cupezza di un mondo in preda al caos.
Le visioni apocalittiche si seguono senza lasciare alcun spazio alla speranza;
ritorna quell’insistente monologo inframmezzato di immagini asfissianti di morte, il
periodare si fa ellittico, o si carica d’indeterminazione per accrescere maggiormente
la tensione:
... Si va
nel senso che strazia e decompone il volto. Si è dentro
l’ombra...
…Si è soli in quel freddo che piomba
al risveglio dal sonno. (p. 57)
86
Il pessimismo raggiunge punte altissime e Dio è sempre più distante da
noi. E voler trovare uno spiraglio di luce è vano. Il linguaggio va ad attingere in
un’area linguistica ibrida; connotazioni anatomiche, diluite in un verso ametrico
che ribolle, si uniscono alle pause di una prosa distesa e quasi rievocativa:
la pelle ora si sfascia, l’occhio e la vena
dimentica,
nel tempo
la pupilla
vuota. Col sangue
si patisce; il teschio calvo, il dente sopravvissuto
nella bocca, dove l"alcool distilla un’ebrezza
che frana. E si sghignazza per tedio,
pieni di sogni uccisi e di speranze sconfitte.
Si pensa
agli amici scomparsi e si chiama con un silenzio nuovo
il tempo che ci ha bruciati; e come un’ombra
la donna degli anni verdi s’avanza
quasi nel fumo coll’appassire della fronte. (p. 59)
Altrove ci sembra di assistere ad un sogno da una passerella lunare e di
vedere attorno a noi i pianeti che ruotano, le galassie, le comete. E in fondo a
questa visione, di là dei mondi percepiti dall’uomo, comparirà Dio. E il finale è
tutto biblico:
Tacerà
la terra; il vento
nelle ossa scenderà
dall’Orsa esatta sulla fronte; e infine
sarà
il tempo
a tacere,
fra i lumi piú soli
d’ogni essere solo sul pianeta. Verrà l’impeto che squarcia
il vortice, sanguinerà la crosta cozzando
contro un sole nero, che si nasconde
dalla eternità. Si vedrà Dio, di là d’ogni silenzio,
Occhio
solo nell’occhio ed infinito. (p. 66).
Certo è che la Resurrezione di Dio quale ci è trasmessa dai Vangeli è
tenuta presente in tutti i suoi particolari (Il silenzio, il vento che scuote le
membra dell’uomo, il tempo che si oscura fino a fermarsi. Poi il fulmine in
mezzo a tanta oscurità, anticipo di un evento più grande: Dio). Piazzolla non
dice vedremo, ma si vedrà. Indeterminazione che accresce la sua potenza e ce lo fa
sentire ancora lontano.
87
Lo scivolamento di quest’ultimo Piazzolla verso posizioni arbitrarie
trova conferma nel volumetto di appunti e pastelli. In un pianeta che ignoro (1974).
In effetti uno stretto rapporto vi è con Viaggio nel silenzio di Dio. Non solo
rapporto temporale, ma soprattutto ideativo e creativo.
Ferrara nel saggio-prefazione al volume parla di: « ... ideogrammi
dell’altrove, ierografie cromosomiche affidate ad impulsi in lotta con la massa
confusa e, visivamente, articolati nella tensione frenante del tracciato e del
collocamento sulla pagina bianca assunta pertanto a significato hylico »14.
Non diversamente si era espresso Aventi 15 nel presentare Viaggio nel
silenzio di Dio parlando di immagini che si dispongono in una prospettiva a
quattro dimensioni e richiamando in causa le teorie pittoriche del Klee e di
Kandinsky. Questa rarefazione del contenuto fino alla proiezione di esso in
immagini che si associano secondo schemi aspaziali e atemporali segue
graficamente il dissolversi della scrittura in Viaggio. Così un ideogramma
rappresenta la « rosa di un volto, in bilico sul raggio attento al mutamento di
una gemma astrale » e un altro « Torri su torri nel ghiaccio d’una stella ai limiti
del cielo » o un « Astronave in un porto veglia sugli anni luce » ecc. Insomma
siamo al limite del regno dell’onirico al di là del quale le forze naturali si
sprigionano in arabeschi di giochi-luce. Ora tutto questo nasce proprio per il
rompersi di quell’unità fantastica che aveva originato le Lettere o Gli occhi di Orfeo.
Rottura che qui è delirio del segno, altrove è delirio della parola. Piazzolla anche
se non tenta, animato da soli intenti polemici, la bagarre avanguardistica, poiché
sempre quel mondo nasce da un’inquietudine dello spirito, vi si porta molto
vicino.
LA BALLATA
La formula Piazzolla poeta della ballata non vuole discriminare il Piazzolla
lirico-elegiaco-evocativo dal Piazzolla lirico-narrativo ché un legame stretto c’è
tra i due. In entrambi vi corre quella favolosità, quell’estro eccentrico e
delirante. Né è da pensare che egli rimetta a nuovo le canzoni a ballo della
nostra letteratura popolare o continui la tradizione della ballata romantica. Si
vuole, invece, insistere sulla libertà dirompente, quasi anarchica, di questa
poesia. E la ballata nasce al limite di una contaminatio tra lirico e narrativo.
Meglio come lui stesso ha sottolineato nell’avvertenza al volume Ouando gli
angeli ascoltano come bisogno di sostituire la soggettività del poeta al personaggio
poetico.
Quasi per sfuggire ad ogni forma di autobiografismo e di psico14 F. FERRARA, pref. a In un pianeta che ignoro, Roma, E.R.S.I., 1974, p. g. Il Cfr.
G. AVENTI, pref. a Viaggio nel silenzio di Dio, cit. p. 8.
88
logismo che in effetti avrebbero limitato di molto la sua enèrgeia. Il primo
volume di ballate Quando gli angeli ascoltano pubblicato nel 1969 risale agli anni
1945-46. Queste prime ballate rispondono all’esigenza di creare il personaggio:
« ... un personaggio non narrato, non descritto, non dotato di qualità più
o meno talentosamente escogitate, o anche acutamente analizzate dal prosatore
o dal poeta, ma che è egli stesso la sua dimensione poetica, nell’amore, nella
malinconia, nella speranza, nella morte » 16.
Così la ballata « Un negro in Paradiso » rappresenta il mito della libertà, «
Lamento di Carmela madre » il mito dell’amore filiale, « Il pilota scomparso » il
mito della temerarietà, « Il sole » il mito di Ulisse, ecc.
In tutte la dimensione discorsiva sostenuta qua e là da slanci lirici ci
sembra la caratteristica costante. In particolare in « Quando un angelo ascolta »
certe arie e alcuni recitativi ci portano nel clima delle Lettere:
Una notte venne il mare nel petto.
Sentii battere alla finestra.
Fuori c’era solo l’aria
e nel mio cuore un altro cuore.
Mentre sin d’ora Piazzolla non sa resistere a certi sfoghi che creano vere
zone di stasi come nelle ultime ballate: « Ballata tragica per Ciampolini », « Luigi
Ciro Martini suicida », « Canto funebre in morte di Giuseppe Di Vittorio ». Qui
la creazione del personaggio diventa un’operazione a posteriori, meglio si attua
la poetica del personaggio. I fatti presi a raccontare sono assunti nella loro
immobilità. E’ la notorietà dei personaggi o lo scalpore della loro morte a
impressionarci di volta in volta. La ricostruzione si attarda su particolari della
loro vita che ci incuriosiscono lasciandoci indifferenti. Non tanto assistiamo
allo sliricamento o allo sliricizzarsi della sua poesia quanto a un certo
compiacimento, a un neo-crepuscolarismo ritornante. Compiacimento che è
massimo nel « Canto funebre in memoria di G. Di Vittorio » dove la morte non
viene assunta simbolicamente a significare il senso della caducità della vita
umana o cristianamente il ricongiungimento dell’uomo a Dio. Il poeta si attarda
a cantare le sue lodi ricreando il personaggio in un’aria di estrema morbidezza:
Ti ricorderanno le sirene al mattino
quando gli occhi degli operai
lacrimano pieni di freddo dolore
e le mani sono soltanto mani abbandonate.
Ti ricorderà il bracciante
che vede crollare il suo scheletro
____________
16
G, AVENTI, pref. a Gli anni del silenzio, Roma, Cardini, 1972, p. 18.
89
e abbraccia il tronco che non è suo.
Ti ricorderà il vecchio in esilio
nei suoi ultimi giorni
e la madre che ai figli offre soltanto
il pane sognato ogni notte.
perfino troppo enfatica, sostenuta dalla martellante anafora triadica:
Chi ti chiamava era muto.
Chi ti pensava non era più solo.
Chi ti portò tra i fiori.
Con Il naese d’Iride (1962) l’eccentricità di questa poesia risulta chiaramente.
Oui il frammentismo in sospensione de Gli occhi di Orfeo si articola nella struttura
ampia della ballata. Piazzolla inizia la penetrazione in un regno non meno favoloso
di quello della natura o di Dio: il colore.
Il contenuto tradizionale a cui in effetti era legato (si pensi ad Elegie
Doriche, Poemetti, Adagio quotidiano) s’invola per cedere il posto ad una inventio
che non è solo un invenire, ma è uno scomporre l’anima degli oggetti con la fantasia.
Non esistono più davanti a lui gli oggetti, le cose, ma i colori e i loro rapporti con il
mondo esterno:
Nell’orchidea si spoglia
una bimba cinese
e coi fiato
spinge l’ombra del seno
a posarsi sui vetri.
Coi rosso sul dito
puoi svestire la nube
fare un orto
sul dorso dell’agnello
appeso al cielo.
o ancora:
(Farandola per Niko Nardulli)
Lo zampillo dell’iride
cola sul martin pescatore.
. . .
Prendile il rosa
e il viola
che fa da vena al cielo
poi schiaccia la colomba
celeste contro il bianco
curvo dell’orizzonte
. . .
90
Per impastare il sole
e allungarlo
nel velo di cenere
metteresti un pavone
a far vento a una vetrata
che mette in fuga
i colori a picco.
…
Se vuoi comporre il caos
o sciogliere la luce
in uno specchio
spremi due rose
pungiti con la spina
e lascia il sangue
colare sui crateri scotti.
(Gavotta per Edoardo Giordano)
Siamo al limite di una poesia che, proprio per questa sua fuga del contenuto,
poggia esclusivamente sul proiettarsi in avanti della fantasia, non senza il rischio di
assottigliarsi in una docile prosa in versi. Insomma il rischio di una poesia riflessa è
corso sino a prevalicare ogni misura ritmica. Il pericolo è nella fantasia stessa che
compone e scompone la realtà a suo piacimento. E se pensiamo a Gli Occhi di Orfeo,
al Viaggio nel silenzio di Dio l’ipotesi avanzata dal Sigillino17 di « una scapigliatura
novecentesca » non è poi azzardata. Anche perché in tutto questo è evidente
l’atteggiamento polemico di Piazzolla nei confronti di una certa tradizione aurea
della nostra poesia. Una scapigliatura non sempre spinta fino in fondo se in questo
paese d’iride Piazzolla accetta la polemica sul terreno degli altri anche
scomponendosi:
Si uccide perché soltanto
la vita degli altri non vale.
Terra di trippe accomodate
piena di cavalieri mascherati
borsaioli di luce
figli di fauni traditori
e di ninfe cornute.
(Minuetto per Antonio Delfini)
o come in « Rondò per Michele Parrella » dove la tradizione, il recupero del
paesaggio diventa lamento per il Sud:
A Matera si suona il cupo cupo
per le feste nere-
17Cfr.
N, SIGILINO, in « La Fiera Letteraria », 14 ottobre 19-62.
91
preludio
agli amori di giovani
che hanno camicie bucate
e tasche piene di bestemmie .
Il volume Ballata per mille ombre (1965) raccoglie le ballate scrítte tra il 1951 e
il 1959. Certamente il libro in cui Piazzolla è disposto a sorridere, a concedersi una
pausa, a guardare il mondo con una superiorità, con un distacco quasi ariostesco. Vi
riversa il suo humour leggero, divertito:
lo sono un dittatore senza scettro
e propongo la luce alle stelle.
Giuocheremo allo sposa con la luna,
faremo il sole compare di nozze.
Inviteremo i santi a fare un coro
e ognuno di noi avrà un angelo a braccetto.
(Dittatura bianca)
Uno strano mondo, perfino assurdo, dove tutti sono assassini. Il re non
meno del prete, il politico e l’uomo della strada, il poeta e il giudice, sono presi alla
berlina. Su di essi, protagonisti indiscussi di queste ballate, Piazzolla riversa il suo
sorriso e in contemporanea la sua satira amara. Proprio come bene ha
nuntualizzato il Marotta nella prefazione qui « favola e beffa si amalgamano ».
Un mondo dove la ragione, il filo della logica sono capovolti non in
funzione di un vuoto irrazionalismo, ma perché il sogno diventi realtà, la realtà
sogno. E siamo ad un’altra antinomia di queste ballate realtà-sogno. E ci viene in
mente il nostro Carrieri e il Prevert di Storie e altre storie. Ma la novità di queste
ballate è il ritmo arioso che ora chiama in causa la rima, l’assonanza, la consonanza.
I cardinali se ne andranno tristi
a deporre la porpora sui lampioni
e li vedremo scavare le fosse
per sepellirsi con rassegnazione.
Faremo entrare lucciole e milioni
nelle stanze dai muri gentili;
vestiremo a festa finanche le ortiche
e i rospi impareranno le orazioni.
(idern)
Ma è in « Ritocchiamo la vita » che il Nostro mostra la sua natura di poetasognatore, di poeta delle favole (non sono forse delle favole Le lettere della sposa
demente o i Poemetti?). Il suo stato di anarchico sognatore è l’infanzia, il ritorno alla
natura. In « Luna park » l’ironia si riacutizza: il mondo è diventato una luna park
sulla stregua delle
92
filastrocche di Gianni Rodari e a farne le spese sono ancora ministri e re,
cardinali e angeli, re e papi:
In un trenino che non fa rumore
viaggiono le bambole cocotte;
è qui un monsignore scamiciato
che fa discorsi ai grilli mutilati.
Chi vuol farsi eleggere ministro
basti che rubi un piccolo orologio
al controllore che è sempre distratto
e giuoca all’aquilone con la nube.
Scesi dai loro piedistalli, certamente più buffi, senza corone, senza
mitrie, diventano piccini piccini come tanti bambini. E’ questa fusione di ironia
e favolosità, di sogno e di realtà, che fa di Ballate per mille ombre il libro meno
lirico di Piazzolla, ma il più umano perché nasce da una condizione umana che
ha risolto il rapporto io-altri nel monologo dell’io per il quale la realtà è
estraneità, rottura:
Si liquida, si liquida, Signori.
lo sono un venditore di passaggio
vendo collane di schiuma al mare
e medaglioni con goccie di luna.
...
Vendo poi al dettaglio l’ombra mia
che conosce a memoria le strade del mondo
e fa da lampione nei vicoli oscuri.
(Bazar in liquidazione)
La ballata si appesantisce in Per archi impazziti relegata al ruolo di un
repertorio d’immagini che creano all’interno del verso il gonfiore e perfino una
nuova arcadia:
Chi trotta sull’erba
è il cavallino d’un re
onda riccia agnello
insegue la striscia blu segna
le tue vene
pietà bagna gli occhi
d’acqua celeste
bagna la strada che inventi
ed ecco il cielo
per la capra
in esilio
il lume per lo sposo
che vola e s’intreccia a una bocca...
(Balletto per Mare Chagall)
93
Altrove come in « Arabeschi e vetrate per Corrado Cagli », « Fantasia
per Sebastiano Carta », « Notturno ner Giovanni Stradone » lo scivolare verso
posizioni anarchiche e scapigliate è fin troppo manifesto. Anche in Per archi
impazziti è possibile registrare un Piazzolla impegnato, portavoce di un
umanitarismo evangelico che, a volte, prescinde da ogni condizione ideologica e
politica, a volte, è dettato da una concitazione politica che si risolve nella
protesta.
Il movente ideologico ritorna con maggiore veemenza in « Lettere a
Evtuscenko » dove l’amore per la condizione umana offesa, la primavera di
Praga, ha accenti di dura condanna. Non mancano versi di rabbia della ragione:
A Praga hanno strozzato l’aria.
A Praga è riapparso il mostro
che se stesso covava.
A Praga se non si uccide
è presente la morte con il suo mitra.
A nessuno sfuggirà la truculenza di questi versi, il cursus delle cadenze
strozzate, quasi a mezza gola; la concitazione anaforica sconosciuta a Piazzolla.
A nessuno sfuggirà che qui Piazzolla non cerca di capire la storia o di
penetrarne i moventi o i fini occulti; a lui interessa l’umanità vittorinianamente
offesa. Umanità che in « Proclama d’assedio » si vanifica in un pessimismo
vagamente irrazionale. E’ il momento niù acuto dell’impegno civile che lo porta
ad un rifiuto totale e a smarrire il senso della storia:
Dai loro Bunker dove il sole ha freddo i funzionari dell’odio
dànno ordini esatti:
occorre uccidere, uccidere,
uccidere anche la morte.
...
Che s’impicchi l’uomo giusto: è un mostro
sia soffocato nel sonno l’innocente.
Sia fatta bere fiele o cicuta al saggio.
Sia falciata, per sempre, la luna.
...
Da oggi, fino al giudizio Universale,
gli uomini devono temere
finanche se stessi,
Devono restare morti nella vita.
Devono restare vivi nella morte.
Al Piazzolla ironico sono da collegare I fiori c’insegnano a sorridere (1973)
o come dice il sottotitolo « favole per adulti » scritte
94
pure tra il 1952 e il 1956. Cioè parallelamente alle Lettere e ai Poemetti.
E al linguaggio favoloso, ingenuo, come certe pitture naïf, dei Poemetti, qui
si sostituisce un linguaggio malizioso, ironico. Protagonisti indiscussi sono i fiori
dalla rosa al garofano, dal mughetto al giglio, dal tulipano alla margherita,
all’ortensia ecc., resi indimenticabili nei colori di Omiccioli. Ma più che una
tipizzazione di virtù (per la verità ben poche) e di vizi come si può pensare
scorrendo i titoli: il tulipano iettatore, il papavero lenone, la vanitosa ortensia, il
rosolaccio povero e rassegnato, la casta camelia, il gladiolo pettegolo, queste favole
sono la rappresentazione di un mondo in cui domina incontrastata la legge
dell’amore. Quasi che la vanità e la castità, la rassegnazione e la miseria, siano delle
sottovirtù o dei sotto-vizi che meglio fanno risaltare un mondo in cui prevale il
sesso come legge naturale. Il « peccato floreale » è certamente tanto comune e tanto
diffuso in questo decamerone floreale che assistiamo a veri e propri vizi sessuali:
così la febbre d’amore fa venire i « petaligiri »; e l’eccesso d’amore può causare la «
stelite » che è un vero e proprio esaurimento da indebolire lo stelo e renderlo
pieghevole e indurre il fiore alla morte. E non mancano gelosie e tradimenti.
Ora a parte l’intento moralistico e satirico, queste favole sono da leggere
come espressione di quella vaga favolosità del Piazzolla che si esprime nella
dimensione stilistica del raccontare. Come queste pagine de Il Giacinto favoloso: «
C’era una volta un Arcobaleno. Da tempo, non sapeva più resistere al desiderio di
adagiarsi sulla terra e di riposarsi finalmente della celeste fatica. Lo stare fisso e
curvo sull’orizzonte aveva in lui generato stanchezza.
Si era alquanto annoiato di apparire e svanire a cicli prestabiliti, dopo le
piogge, come un emblema di festa, messo in Cielo a salutare il Sole, intento lassù a
cucire le stille di pioggia ai suoi raggi »18. Sono pagine in cui Piazzolla diventa poeta
per bambini, dove il confine tra mondo della favola e mondo reale è annullato. E ci
ritorna in mente nel leggere « La rosa addolorata » il prologo della sposa demente: «
Quello che vi racconterò accadde molti anni fa. In un giardino delle Fiandre, viveva
una donna che parlava da sola e, sovente, veniva in mezzo a noi a confessarci le sue
pene... Fu dunque una notte di maggio che noi tutti, presi da una invincibile
commozione, decidemmo di fare una sorpresa a quella che mia nonna, chiromante
e un po’ maga, definì una Sposa demente. Ci consultammo noi Rose appena
bbocciate... Ci consultammo con i Gigli e le Margherite... Le Viole e i Crisantemi
fecero una certa opposizione, dicendo che non si poteva danzare il Minuetto senza
chiaro di luna. I Mughetti e le Mimose approvarono con energia la nostra idea e
dissero che avrebbero invitato tutte le lucciole del quartiere per supplire la luce
della luna » `. Men18 M. PIAZZOLLA, I fiori c’insegnano a sorridere, Verona, Chelfi, 1973, p. 199.
19 Ibidem, p. 157-58.
95
tre non mancano qua e là spunti polemici (L’anemone ermetico) o la violenta satira
contro l’organizzazione burocratica del nostro Stato (Il tulipano travet), tirata a tal
punto da ingenerare il sorriso. E comicità e satira, ironia e follia, spregiudicatezza e
realtà, avventura e sogno, si fondono anche nei due volumetti I detti immemorabili di
R.M. Ratti (1966). Espressione compiuta della solitudine del poeta che si
autoinventa in un nuovo personaggio. Ma i detti importano per quell’ennesima
prova che Piazzolla ci dà della sua inventiva poetica: dalla elegia alla ballata, dal
poemetto all’epigrammi, dalla favola alla satira. Essi in ogni caso non vogliono
essere la summa della saggezza umana, e come tali non vanno confusi con le
massime eterne, niente dì più provvisorio il lettore vi avvertirà leggendo questi detti
e provvisorio nel senso di umano, contingente, reale:
A volte, nella vita,
mi ricordo di Dio
come di una lucciola
sospesa nel buio.
(La lucciola, vol. I)
Come pure non vogliono essere scherzi umoristici ché vi circola tanta
malinconia. L’autobiografia di R.M. Ratti, quindi, è un consuntivo sincero della
nostra vita, senza troppe pretese. Ratti è l’alter-ego che sonnecchia in ognuno di
noi ora assillato dal pensiero della morte ora da contingenze economiche ora dal
bisogno di sentirsi in armonia col mondo. E’ questa disponibilità che avvicina il
Ratti a ognuno di noi; è questa provvisorietà della vita umana che sprigiona da
queste nugae a rendercele care. Cimatti20 giustamente ha parlato di « un’allegria che
ha le sue trincee in una camera d’affitto ».
APPUNTI DI STILE E DI LINGUA
Nell’ambito del nostro discorso sulla poesia di Piazzolla abbiamo accennato
a notazioni di stile volta per volta. Qui ne faremo seguire altre per fermare alcuni
caratteri dello stile piazzolliano. Primamente è da notare come la poesia piazzolliana
è da collegare alla linea Leopardi-Ungaretti, anche se le ultime sue opere ne sono un
superamento.
Ora quando si dice che la poesia contemporanea e in specie quella postermetica sono da riportare nell’area leopardiana21 più che in quella simbolista22, non
tanto si vuol mettere fuori causa la lezione dei
Cfr. P. CIMATTI, in « La Fiera Letteraria », 20 marzo 1960.
Cfr. M. PETRUCCIANI, Segnali e archetipi della poesia, Milano, Mursia, 1974; in particolare
il capitolo I, p. 9-21.
22 Cfr. A. VALLONE, Aspetti della poesia italiana contemporanea, Pisa, NistriLischi, 1960; si
veda il capitolo Caratteri linguistici della poesia d’oggi.
20
21
96
Marino Piazzolla con Giuseppe Marotta.
97
poeti « maudits », quanto si vuole insistere sull’attualità della poesia leopardiana, che
ha contato tanto da influenzare non solo la fascia lirico-elegiaca o monodico-lirica
della nostra poesia, ma anche quella polemico-ironica.
Ma ritornando a Piazzolla dobbiamo notare come più di qualche cadenza
leopardiana è in Ore bianche. In « Naufragio » l’inizio « Non somiglia al tuo passo /
morte, il mio errare » è già una contaminazione dei v. 17-18 del Passero solitario «
Oimè, quanto somiglia / al tuo costume il mio! ». E l’endecasillabo « Pur, tu,
necessaria sei al vivere / terreno » (p. 47, v. 23) richiama i versi 61-63 del Canto
notturno « Pur tu,... tu forse intendi, / questo viver terreno ».
Frequente anche in questo componimento l’uso dell’infinito leopardiano:
Chi, fino a te, sale,
ben s’accorge del patire umano,
...
dell’errare vano
...
Anche tu, morte, mi sei cara
nelle sere lente...
quando sospiro nella grigia stanza
e penso al mio finire,
al tuo venire incontro...
(v. 36-37, 40, 46-50)
Così il settenario « ornare ella si appresta » (Il sabato del villaggio, v. 6) in Purità
si è trasformato in « a ornar s’appressa l’avvenire » (p. 52, v. 16); e i tre settenari «
Intatta luna, tale / è lo stato mortale. / Ma tu mortal non sei » di Canto notturno (v.
57-59) diventano in Piazzolla « Forse tale è il destino / ma tu ad altre mete aneli »
(Solitudine, v. 57-58). E tipicamente leopardiane sono le aperture di versi con ove e
forse, nonché stilemi come acerbo nascer, di spenti, arcana soglia.
E prestiti leopardiani non mancano in Elegie doriche (antica, vasta, remota,
immensità, immota soglia ecc.). Mentre lemmi come naufragio, abisso, urlo, inabissata
rimandano ad Ungaretti. Come pure la rapidità dei nessi, la dizione evocativa,
l’essenzialità della parola. Piazzolla in Elegie insisterà particolarmente sulla memoria.
Essa nasce proprio da una situazione di assenza (quasi sempre oggetto di questa
memoria è la madre, che non è) e come dice Petrucciani: « Solo quando quelle
figure e l’uomo con le sue passioni sono morti, e dunque assenti, insorge la
memoria: nel momento cioè in cui, distaccandosi dal flusso biologico, rischiano di
polverizzarsi e sparire negli interminati spazi della dimenticanza: di perdersi quindi
per sempre »23. Così Piazzolla in « Naufragio » dirà:
23
M. PETRUCCIANI, Segnali e archetipi della poesia, cit., p. 71.
98
Non distruggete, tempo,
quel volto che ogni notte
accende la memoria...
Funzione, quindi, di recupero contro l’abisso, il naufragio della vita.
E il riferimento a Preghiera viene spontaneo. Solo se si tiene conto che in
Ungaretti il termine della tensione è il Signore, in Piazzolla la madre. In ogni caso
per entrambi la memoria è approdo, recupero d’innocenza.
E il Nostro vi ritornerà in Ecco celeste l’Orsa dove il sentimento dell’innocenza
nascerà da uno stato idillico-contemplativo, che sottintende Dio. E Ungaretti24 in
Inno alla morte dirà « Mi darai il cuore immobile / d’un iddio, sarò innocente » (p.
117, v. 21-22). Piazzolla con più arditezza dirà « lo son di nuovo innocente », p. 14,
v. 9. E ancora l’emistichio ungarettiano « o statua dell’abisso umano » (Statua, p.
139, v. 2) si è trasformato in « il favoloso abisso della vita » (Pietà, p. 4, v. 10); e il
grido esistenziale ungarettiano « Tutto ho perduto dell’infanzia / e non potrò mai
più / smemorarmi in un grido » (Tutto ho perduto, p. 201, v. 1-3) si contrarrà
nell’endecasillabo « D’ogni speranza mi rimane un grido » (D’Ogni speranza, p. 22, v.
1).
Quindi memoria-assenza ma anche memoria-evocazione: « ... che - come ha
bene puntualizzato Vallone - va al di là del significato acquisito con Dante e
Petrarca come puro ricordo perché assume tutto un vago senso di smemorata
evocazione... »25. E ad un tempo di atmosfera assorta di vaga intemporalità
d’immobilità, di fissità è legato il linguaggio delle Lettere della sposa demente. Infatti il
dramma della demente è proprio in questo consumarsi-inconsumato del suo amore
tra temporalità e intemporalità, come se il tempo che pure accenna a farsi (il tempo
mi travolge), non fosse mai stato (il tempo è fermo). Sospensione che nell’aggettivo
si traduce sempre in una connotazione interna: resto muta (p. 11), m’allungo lieve
come l’aria (p. 15), mi trovo sola (p. 15), mi sento smemorata (p. 16), ascolto,
insonne (p. 22), mi ritrovo sospesa (p. 31). Questi riferimenti sono ancora una
prova dei classicismo piazzolliano. La tendenza ad una maggiore discorsività e
colloquialità del linguaggio, si accentua in Esilio sull’Himalaya. In particolar modo le
strutture linguistiche si avvalgono di una maggiore articolazione sintattica fondata
sul come modale e sul quando temporale. o sul che relativo:
Forse tu sei illusione:
...
quando, a sera,
24 Cfr. G. UNGARETTI, Innocence et mémoire, in Vita d’un uomo, saggi e interventi,
Milano, Mondador,i, 1974; per le poesie i riferimenti vanno all’edizione mondadoriana Vita
d’un uomo - Tutte le poesie, Milano, 72, VI.
25 A. VALLONE, Aspetti della poesia it. contemporanea, cit., p. 214.
99
è pozzo la mia noia.
...
quando la voce
è piena del tuo nome,
...
... quando l’alba
batte al mio sangue...
(III)
...
Pietà che mi chiudi neri giorni
e che onoro sognando.
Al tempo che mi avanza
tu fai l’eco
e tutto il mio dolore
non ti cancella ove cresco.
Segui il mio passo
come una foglia
che mai vedrò verde
sul ramo che sono.
Ti ascolto quando
è pietra il mio corpo
e il tuo volto che ignoro...
(XV)
Mentre la frantumazione della frase in immagini, fino alla riduzione delle
immagini in suoni, fa registrare Gli occhi di Orfeo. I rapporti tra predicato e aggettivo,
sostantivo e aggettivo, non sono più rapporti di analogia e di somiglianza, bensì di
simpatia fonologica e coloristica. E la predominanza dell’astratto sul concreto, del
metatemporale sul temporale, è anche motivata da una riduzione sensibile (fino alla
loro scomparsa) dei nessi logici. Così ad esempio:
Nel tuono d’una campana
fiorisce l’udito e in fondo
al ricciuto orecchio l’eco
è volo d’onde accese
dal bronzo nell’aria
che si dilata fra stuoli
di passeri impauriti. (p. 36)
Ora quel tuono d’inizio di verso non è né suono, né fenomeno atmosferico;
né il predicato (fiorisce) del verso successivo è con esso in alcun rapporto logico (o
analogico) e tantomeno col suo soggetto (l’udito).
Ma sia udito che tuono, in particolare per la carica esplosiva delle dentali, si
accordano bene con fondo, ricciuto, onde, dilata, da creare quei suoni stridenti e
martellanti di qualche cosa che rompe e irrom100
pe nell’aria. Il processo di sliricamento già in atto in Adagio quotidiano si
completa con Ballata per mille ombre. E non solo per lo slittare del verso nella
frase, soprattutto per l’intromissione di patterns espressivi del parlato: mazzo di
carte, re, dittatore, ufficio, pistola ad acqua, ministro, pugnale, gabbia, prete, cuscino e di
intere locuzioni: a tre soldi il metro, si farà rosso come un peperone, ti mettono di guardia,
ti fa l’eco, ecc.
Queste poche considerazioni linguistiche e stilistiche che altri potrà
sviluppare, con riferimento ad altre opere di Piazzolla, testimoniano da una
parte dell’appartenenza di questa poesia alla linea classica del nostro
Novecento, dall’altra della complessità e della dinamicità del linguaggio
piazzolliano teso a creare, a rinnovarsi continuamente.
PER UNA BIBLIOGRAFIA RAGIONATA DELLA CRITICA
Prima di tracciare un rapido registro della poesia piazzolliana nella critica
è bene accennare al posto che occupa nella giovane poesia del dopoguerra.
E accettando il metodo generazionale del Macrì26 colle correzioni
apportate da Falqui27 iscriveremo Piazzolla fra i giovani della terza generazione
accanto a Corsaro, Laurano, Ghiselli, Tognelli, ecc. Ora pur coincidendo la sua
scrittura con le polemiche tra ermetismo e realismo, o meglio tra neoermetismo
e neorealismo, essa resta al di qua e al di là di tali posizioni.
Lontana com’è sia dall’accensioni populistiche degli uni, sia: « ... dalle
suggestioni del vieto epigonismo dell’arcadia, come bene ha osservato il Frattini
» 28, degli altri. Insomma per Piazzolla non si trattava di scegliere nell’intricato
panoroma della poesia del dopoguerra tra poesia pura e impura, tra poesia lirica
o narrativa, tra poesia monodica o corale, ma di partire da se stesso, fermo
restando che la poesia è sempre pura e impura, corale e lirica, impegnata e
disimpegnata. Né certamente la sua è una posizione di comodo, o di rifiuto, e
tantomeno di attesa nei confronti di una certa realtà29. Forse non sarebbe una
soluzione, certamente non la più giusta, se vedessimo nella
26 Cfr. O. MACRÌ, Realtà del simbolo, Firenze, Vallecchi, 1968; in particolare si vedano i
capitoli I, II rispettivamente p. 465 e 473.
27 Cfr. E. FALQUI, La giovane poesia, Roma, Colombo, 1957, p. 17 e segg.
28 A FRATTINI, in « Idea », 8 maggio 1955.
29 Cfr. A. MARCOVECCHIO, « Presente », inverno 52-53; infatti per il Marcovecchio
tra le due correnti, post-ermetica e neorealistica, si registrano: « ... voci solitarie che non
fanno corpo con la corale poesia ermetica o mistica o umanitaristica o sociale che
intorno a loro si intona »: ma che, « sia pure ai margini della vita letteraria estrinseca e
mondana, partecipa per manifesti segni al dramma della poetica e della poesia
novecentesca ».
101
sua poesia il superamento delle istanze neoermetiche e neorealistiche. In ogni
caso resta la sua poesia, accanto a tanti nomi del nostro Novecento, si pensi a
Saba e fra i più giovani a Carrieri, una poesia che non si lascia irreggimentare in
nessuna corrente, anche per un tantino di irregolarità, di sovversività che è
propria del carattere del Novecento, e per quel modo naïf di guardare la realtà.
Ma ormai da oltre un ventennio la critica più attenta e più qualificata ha scritto
sulla sua poesia. Non sono mancati veleni di certa critica ufficializzata, a volte
volontariamente diffidente, a volte palesamente distratta e assente. Ma se è con
gli anni ’50 che Piazzolla ha cominciato a far parlare di sé, già la sua poesia era
conosciuta negli ambienti letterari francesi. E fu proprio Gide nel lontano 1938
in una lettera ad esprimersi in questi termini: - La poesia di questo giovane
poeta italiano, leggendo il mito di « Pérsite e Melasia » mi è sembrata inventata
ed espressa con quella patetica innocenza con cui i lirici greci sentivano i loro
bellissimi canti -. Insomma Gide poneva nell’inventività e quindi nel momento
lirico-evocativo la costante più vera della sua poesia. Inventività che è capacità
d’incantarsi, di adererire ad una visione fresca e ingenua, quasi mitico-poetica,
della realtà. E l’accostamento ai lirici greci era puntuale se pensiamo ad Elegie
doriche. E quando nel ’51 il volumetto uscì la critica fu concorde nel sottolineare
quest’aria di ingenuità e di candore di Elegie doriche. E uno dei primi a parlarne
fu Frattini in Idea, (novembre, 1951).
L’intervento di Frattini oltre a risottolineare « certi temi e inflessioni e
raccordi della lirica antica greca » presenti nella sua poesia l’agganciava alla
nostra tradizione più illustre a partire dal Leopardi fino alle esperienze più
sicure del Novecento, lievitate e assorbite in tutta naturalezza.
Per di più Frattini parlava di Elegie doriche come poesia oscillante tra idillio
ed elegia, a conferma di quanto precedentemente osservato.
Ma da più parti non si finiva mai d’insistere sulla chiarezza, sul pudore, sullo
stupore delle immagini. In un altro intervento il Claudi in Alfabeto (Roma, 15-30
settembre 1951) parlava di nitore elementare e di ritorno alla chiarezza del
pensiero ontologico greco. Alle stesse conclusioni giungeva E. Miscia (Voce
Repubblicana, ottobre 1951). Non meno provocazioni portò negli ambienti
letterari l’edizione delle Lettere della sposa demente che si pubblicò in
un’edizioncina quasi alla macchia. Il testo, di mano in mano, incuriosì anche un
poeta e critico quale F. Fortini che in Comunità (Milano, dicembre ’52, n. 16)
così si esprimeva: - Un incontro curioso è quello con le « Lettere della sposa
demente » ... un patetico rosario di fedeltà, vagamente rilkiano, con alcuni
frammenti notevoli e un fraseggio sensibile -. A suo modo Fortini calcando
l’accento su incontro curioso sottolineava la novità delle Lettere, non tanto dal
punto di vista strettamente poetico, quanto per l’invenzione del personaggio.
Ma fu Ciarletta nella prefazione al volume a indicarne puntualmente ogni
aspetto. Ciarletta dopo aver rintracciato nell’Ofelia di Shakeaspeare la sorella
maggiore della de102
mente insiste sulla psicologia tutta femminile della protagonista. Egli parla di «
capriccio » come espressione esaustiva dell’amore femminile. Capriccio che poi
genera quella tensione continua tra speranza-attesa, sogno-realtà. Entro questi poli
oscilla il dramma della demente. Invece Virdia (La Voce Repubblicana, 5 agosto ’52)
proponeva il termine « delirio » e considerava le Lettere un poemetto
lirico-evocativo. Sostanzialmente Vicari recensendo il volume su La Settimana Incom
dell’ottobre dello stesso anno vi si allineava. Era Vernieri che dalle pagine di L’Italia
che scrive (novembre ’52) accusava Piazzolla di avere scelto a metà: - Ma l’Autore ha
avuto paura del racconto, dei procedimenti narrativi (e fin qua non gli si può dar
torto); ma soprattutto non ha avuto la lena di affrontare in pieno la situazione
felicemente creata; e di darci nelle linee più profonde e psicologiche il dramma della
demente... -. Anche il Mele (Corriere del Giorno, 7 dicembre ’52) e poi il Ramperti
(Roma, 12 maggio ’53) si ripetevano in formule ormai acquisite come frenesia, tragico
lucore senza modificare il discorso.
A Esilio sull’Himalaya subito dedicava la sua benevola lettura E. F. Accrocca
su La Fiera Letteraria del 15 novembre ’53. Accrocca come il Battistini (Il Giornale
d’Italia, 7 ottobre dello stesso anno) parlava di Esilio come poesia di affetti, cose
familiari, cose vere, cose reali. Un mondo insomma ancorato ad una visione di valori
primitivi ed essenziali. Ed entrambi i recensori sottolineavano come il canto di
Esilio nasceva da un’accettazione sommessa quasi pascoliana del mistero di fronte
alle cose. Sull’aspetto più propriamente religioso insisteva prima Etna (Il Giornale del
Mezzogiorno, 17 maggio ’54), poi vi ritornerà dopo molti anni Villaroel nella
prefazione a Il mattutino delle tenebre. Etna parlava di misticismo panteistico che lo
avvicina a Tagore e agli scrittori religiosi indiani del Trecento. Anche per Villaroel il
Dio di Piazzolla resta nei suoi attributi il Dio di Dante: luce ed amore.
Su Le favole di Dio ritornava Frattini (Idea, 8 maggio ’55) sottolineando in
apertura il limite immanente di una poesia per vocazione lirico-fantastica.
A dire del Frattini alla complessità della tematica e alla varietà delle soluzioni
espressive fa riscontro: « una fantasia logorata da un gioco di invenzioni che
sfiorano l’alea del meccanismo, dell’artificio ». Quasi che la poesia piazzolliana non
sopporti il peso di una maggiore o più solida partecipazione del contenuto. E sul
lirismo di Piazzolla come sua misura, la più naturale e la più congeniale, si parlò con
insistenza e da più parti con il volume edito da Cino del Duca Mia figlia è innamorata.
Gli interventi e le recensioni che seguirono a breve distanza concordavano
con quanto già osservato a proposito delle Lettere. Da Marletta (Il Paese, 30 agosto
1960) che parlava di intenso lirismo a Cimatti (La Fiera Letteraria, 14 agosto 1960) che
insisteva sulla fiaba-sogno creata da Piazzolla. Qualche riserva avanzò ancora il
Frattini (Humani103
tas, novembre ’60). L’ampliamento del tema-originario (il testo delle Lettere),
secondo il Frattini, ha provocato uno scadere dell’intensità ingenerando qua e là
compiacimento e monotonia.
Per ultimo è da notare il recente saggio di R. Méjean (La France Latine, 4e.
Trimestre ’74 n.s., n. 60) che una volta sottolineata importanza del personaggio
della demente nella poesia del Novecento, faceva scaturire questa poesia dalla tendenze, di Piazzolla: « ... à capter, par tous les sens, les potentialités oniriques de ce
que l’on appelle « le réel » - qui n’est, bien entendu, que la forme un peu plus stable
du songe -, l’obsession d’une métaphysique de chair et de sang, une fecondité que
l’on pouvait, sans exagération, qualifier d’exceptionnelle, et un pouvoir expressif
d’un tel impact qu’il semblait provenir d’une initiation orphique effectuée dans une
autre vie ».
Importante nella bibliografia critica su Piazzolla è la prefazione di Aventi al
volume Gli occhi di Orfeo che segna un altro aspetto del mondo poetico piazzolliano.
Per Aventi Gli occhi di Orfeo non sono l’espressione di un neo-barocchismo o di un
marinismo ritornante, bensì la risoluzione-invenzione dell’universo in immagini. Un
universo post-relatività. Infatti Aventi usa la parola cosmogenesi come giustifica di
quel continuo riandare e muoversi delle immagini in fuga, in combutta, in espansione e
in compenetrazione, proprio come tanti protoni e neutroni che ruotano attorno ad un
nucleo. Scartata anche da Bevilacqua (Il Messaggero di Roma, 14 settembre ’64)
l’ipotesi di un neobarocchismo piazzolliano. E sintetizzando così si esprimeva: « Se
in ” E segno resta ” , infatti il colorismo sfiora la rarefazione, senza mai cessare,
tuttavia, la sua funzione passionale e sentimentale, in ” Metamorfosi ” il poeta si
scopre meno istintivo, più controllato nella correlazione tra immagine e pensiero:
una prudenza stilistica ancor più avvertibile nella terza sezione, che dà il titolo al
volume e dove la fusione tra istinto e contemplazione si fa pressoché perfetta ».
Il Pento (Annali della Pubblico Istruzione, gennaio-aprile ’65) invece parlava di «
poetica » della parola da cui scaturiva l’orfismo piazzolliano: « E’ la parola che crea,
in forza di una immanente potenzialità lirica-allusiva, evocativa, fonicamente
prestigiosa e simbolica - una polivalente e orfica realtà (una surrealtà, quindi),
condizionata a un’ ardua misura metafisica ». Addirittura il Pento collegava tale
poetica al filone più attivo del nostro ermetismo.
Sull’orfismo piazzolliano ritornava qualche mese dopo (Persona, giugno ’65) il
Sigillino.
Su Il paese d’Iride ancora è da registrare un intervento di Sigillino (La Fiera
Letteraria, 14 ottobre 1962) per il quale il volume è espressione di una « scapigliatura
novecentesca ». Scapigliatura come reagente contro l’accademismo di certa cultura.
Questo però non vuol dire che si possa parlare di « estetica visiva » o di «
avanguardismo » o di « spettacolarità » fumettistica, nascendo quella reazione da un
bisogno di « interiore solitudine » e da una profonda umanità.
Importante anche la prefazione di Aventi al volume Viaggio nel
104
silenzio di Dio. Anche perché Aventi fa il punto sul periodo francese e sugli influssi
dell’avanguardia simbolista nella sua opera. Egli vi ravvisa quattro costanti che
s’intrecciono continuamente: la costante lirica, la costante filosofica, la costante
teologica, la costante panteistica, le quali si fondono nella categoria dell’Immaginario:
« Comunque, Immaginario è qualcosa, o Qualcuno, da cui scaturiscono le strutture
nuove, le morfologie nuove della vita ... e della Parola ». Suggestiva, invece, l’idea di
Aventi di voler giustificare la scrittura automatica del poemetto perché essa coglie
la profonda essenza del creato dove si entra solo « per salti qualitativi, o trapassi e
non mai attraverso una analisi logico-esplicativa ».
INTERVISTA CON L’AUTORE
D. In che senso ha contato per te l’amicizia con la bohème parigina degli anni trenta: da
Valery a Breton, da Gide ad Aragon?
R. Posso dire che da Valery ho imparato la magia dell’impasto lirico e l’idea
architettonica del poema, nelle sue strutture interne e in certe cadenze sostenute dal
pensiero.
Breton me lo sentivo lontano come poeta, ma ero interessato alla sua poetica
e a quell’amore per la libertà della creazione artistica.
Di Gide ammiravo la impeccabile stesura dello stile e quello spirito di
finezza che mi ha fatto capire l’anima della Francia culturale.
Più che Aragon, per un certo periodo m’interessarono Eluard e Reverdy, i
poeti che io sentivo congeniali sia alla mia poetica che alla mia poesia.
D. Qualcuno ha scritto che hai ereditato da Cardarelli « il culto per la chiarezza ». Ora
la tua ricerca poetica, a parte qualche ricordo cardarelliano come in Ore bianche, si è sviluppata
proprio in senso anticardarelliano. Come mai?
R. « Il culto per la chiarezza » ha ben altre origini e non l’ho sempre praticato
nel senso cardarelliano. Benché fra me e il poeta di Tarquinia ci sia stato un
sodalizio durato circa dieci anni, posso dire che nella mia opera non vi è traccia di
rondismo. « Ore bianche » non c’entrano, perché furono scritte a Parigi. C’è inoltre
da dire che se la mia poesia non è di proposito anticardarelliana ciò è dovuto al
fatto che essa ha le sue radici nella lirica francese da Baudelaire ad Apollinaire.
D. La pubblicazione delle « Lettere della sposa demente » è stata salutata da più parti
come l’invenzione del « personaggio poetico » nella poesia italiana del Novecento.
Cosa ha voluto dire per te la sostituzione del personaggio poetico all’io poetico?
R. Le « Lettere della sposa demente » sono le fasi di una psicologia
femminile evidentemente diversa dalla mia. Qui è una donna che racconta la sua
vicenda interiore ed autonoma. Il personaggio lirico, perciò, si diversifica da me,
poeta. Ed è qui il valore oggettivo
105
d’una poesia ch’io non avrei mai potuto esprimere direttamente, ricorrendo
all’io poetico.
E’ chiaro che, come Flaubert, anch’io potrei dire: la sposa demente sono
io. E qui il discorso ci porterebbe lontano. Comunque, il personaggio
femminile inventato nelle lettere procede per conto suo e, se mai, potrebbe
avere radici, come dice Cimatti, in donne da me conosciute ed amate nel senso
più alto e più profondo della parola.
D. Ti consideri un poeta religioso?
R. Le mie poesie, anzi in quasi tutte le mie raccolte, il rapporto uomo
Dio o è presente o è alluso con quel pathos che il sentimento autentico della
religiosità comporta.
Per me, tutta la vera poesia è mitica e religiosa. L’arte attinge dal Sacro e
spinge il poeta verso la trascendenza. E’ una mia antica convinzione.
D. A quale opera tieni di più?
R. Le opere nelle quali mi sono maggiormente impegnato e alle quali
tengo di più sono: « Le lettere della Sposa Demente », « I detti immemorabili di
R. Maria Ratti » (altro personaggio poetico) e « Viaggio nel Silenzio di Dio ».
D. E’ difficile immaginare un poeta meridionale del dopoguerra (pensiamo a
Scotellaro, Sinisgalli, Bodini, Carrieri) che non si ritrovi nel suo paesaggio e nella sua terra.
Eppure tu hai evitato sistematicamente ogni accenno alla condizione meridionale. Perché?
R. Se non mi sono occupato esplicitamente della condizione meridionale,
nella mia poesia si sente, e questo è dimostrabile sempre, il tono, il calore, la
struggente forza lirica che è segretamente implicita nel dramma del
mezzogiorno.
C’è poi un’altra ragione. Io ho vissuto pochissimo nelle Puglie e ciò forse
ha finito col determinare la mia lontananza spirituale dalla « realtà esterna » del
meridione.
D. Tu, sei stato e resti un poeta « solitario » lontano dalle conventicole letterarie e
dalle beghe di scuola. Ritieni che tutto questo sia stato nocivo alla tua poesia?
R. E’ vero che sono stato e sono tuttora un poeta appartato.
Comunque, ciò non mi ha impedito di avere molti amici poeti e letterati.
Mi manca forse il senso pratico dell’affare editoriale. C’è intorno a me come
una tacita congiura del silenzio, pur ricevendo, quotidianamente, attestati di
stima da parte di personalità illustri del mondo letterario. Mi hanno dato molti
premi, ma non ho ancora il mio editore.
Tutto questo è veramente misterioso; e, in più, per me tanto, ma tanto
nocivo. Le conventicole letterarie non mi tentano, come trovo vane le beghe di
scuola. Amo semplicemente la poesia e stimo non pochi poeti autentici, molti
dei quali sono già scomparsi dalla scena letteraria.
106
D. Ci è parso di vedere nelle ultime opere e in particolare nel volume « Viaggio nel
Silenzio di Dio » uno scivolamento verso certa avanguardia. Che ne pensi?
R. Nel « Viaggio nel Silenzio di Dio » non c’è affatto « uno scivolamento
verso certa avanguardia ». Devi sapere che sin dagli anni trenta io elaborai una
poetica che è andata sempre più evolvendosi e sviluppandosi.
Quel che in poesia scrivono oggi gli sperimentalisti o i poeti dell’avanguardia,
io l’ho scritto circa quarant’anni fa, al tempo del Dadaismo, del Surrealismo e della
scrittura automatica. « Il viaggio » è perciò esattamente il punto di arrivo di un
processo poetico che si è maturato nel tempo e dall’interno. Esso comunque
richiede una conoscenza profonda e particolareggiata della lirica europea. Non è
facile capire tutti i piani della mia poesia. Ti dico questo perché desidero che tu
sappia che critici come Bo, Macrì, Villaroel, Salveti e tanti altri, hanno sempre
confessato di sentirsi disorientati dalla mia poesia. Gli unici ai quali devo giudizi
molto vicini al mio mondo poetico sono stati Giuseppe Aventi, (Villaroel con
ritardo) René Méjean; qualche volta Alberto Frattini, Pietro Cimatti e soprattutto
Corrado Govoni, che avrebbe voluto includere la mia lirica « Il Mattutino delle
Tenebre » al posto di onore della sua antologia « Il fiore della poesia italiana ».
D. Un’ultima domanda: hai in preparazione una nuova raccolta?
R. Oltre alla imminente pubblicazione della terza edizione delle « Lettere
della sposa demente » ho in preparazione un’antologia delle Opere edite e
un’antologia delle raccolte inedite. Si tratta, per questi due ultimi lavori, di
un’operazione difficile e massacrante dal punto di vista editoriale.
Roma, gennaio 1975
107
NOTIZIE BIOGRAFICHE
1910
1913
1928
1930
1931
1933
1934
1935
1936
1938
1939
1940
Nasce a San Ferdinando di Puglia (Foggia) il 16 aprile 1910 Marino
Pasquale Piazzolla.
Muore il padre e con la madre va a vivere in casa del nonno materno
dove resterà fino all’età di diciotto anni.
Frequenta le classi elementari in paese, passando gran parte della
giornata in campagna di suo nonno. A dodici anni interrompe gli studi.
Legge come può testi che trova nella piccola biblioteca paterna, dai
volumi di Lombroso a quelli di Darwin, ai testi di sociologia di Zino
Zini.
Frequenta il corso allievi sottufficiali e in caserma amplia e completa la
sua preparazione scolastica.
Muore la madre mentre sostiene a Roma gli esami di abilitazione
magistrale.
Con la sorella si trasferisce a Parigi. Assunto in qualità di segretario e
bibliotecario della Società Dante Alighieri, qui conosce Pierre di Nolhoe, Marinetti e Fiumi.
Quando ormai ha buona conoscenza della lingua, fa amicizia con i giovani poeti parigini: Bergeal, Guillik, Méjean, Amelin. Dirà il poeta: « Ci
si riuniva nei caffé più rinomati della capitale e si parlava di poesia o si
declamavano i nostri versi ».
Conosce il critico Jean Royère, fondatore del movimento poetico « Il
Musicismo » e autore di vari saggi importanti su Poe, Baudelaire. E’
Royere a fargli conoscere la lirica simbolista e in particolare Mallarmè e
Valery.
S’iscrive alla facoltà di Filosofia alla Sorbona.
Esordisce con un saggio su Pirandello sulla rivista Ars et Idée. In
seguito stringe amicizia con Gide, che lo chiama fra i collaboratori della
rivista, e Valery.
Ottiene il diploma di Studi Superiori di Filosofia discutendo una tesi su
Le poetiche da Aristotele all’abate Bremond. Collabora a « L’Age Nuveau »
rivista diretta da Marcel Fevre che raccoglieva attorno a sé le forze della
intellighentia francese. L’ultimo periodo parigino frequenta i poeti
surrealisti tra cui Eluard, Breton, ma in particolare apprezza la
raffinatezza di Jean Gilbert De Couript.
Pubblica in francese le due raccolte di versi Horizons perdus e Caravanes.
Tornato in Italia dà alle stampe Ore bianche e il poemetto mitologico
Pèrsite e Melasia. Si dedica all’insegnamento di Storia e Filosofia.
108
1945
1947
1948
1951
1952
1953
1954
1956
1957
1958
1960
1963
1964
1967
1973
1974
1975
Si stabilisce a Roma dove tutt’ora vive.
Dirige la rivista « Narciso ». Si lega d’amicizia con i pittori Monachesi,
Fantuzzi, Omiccioli, Stradone e con gli scrittori Iavarone, Carta, Mucci,
Barilli, Natta con cui subito fraternizza.
Conosce al Caffé Greco Cardarelli, allora direttore de « La Fiera
Letteraria » che in seguito gli affiderà la rubrica « Critica di poesia ».
Di Cardarelli diviene uno dei più intimi. Sono questi gli anni di più
intensa attività di critico letterario e d’arte: dai saggi su Penna, Valeri,
Bontempelli, Montale, Eliot, Raphael, Michaux, S.J. Perse, agli articoli
su Klee, Cezanne, Picasso, Roaualt, Braque ecc.
L’assidua collaborazione alla Fiera gli dà modo di conoscere i più noti
scrittori italiani da Bernari, a Moravia, a Govoni, a Falqui.
Pubblica Elegie Doriche che gli vale il premio Etna-Taormina per l’opera
prima.
Seguono le Lettere della sposa demente.
Esilio sull’Himalaya che merita con Bartolini il premio Chianciano.
Conosce lo scrittore napoletano G. Marotta che apprezzerà moltissimo
la sua poesia.
Pubblica Le favole di Dio, un volume che resta quasi clandestino.
Ottiene la cattedra di Filosofia e Pedagogia all’Istituto Magigistrale « B.
Croce » di Avezzano. Mentre s’intensifica la sua collaborazione ai
quotidiani dal « Piccolo » di Trieste a « La Gazzetta del Sud » di
Messina, nonché ai giornali dell’A.G.A.
Esce il volume antologico Pietà della notte, premio di poesia città di
Avezzano. Mentre vanno facendosi tesi i rapporti con Cardarelli, fino
alla rottura definitiva che seguirà di lì a poco.
Pubblica Adagio Quotidiano e i Poemetti.
Gli viene assegnato la medaglia d’oro del Presidente della Repubblica al
premio Viareggio di poesia con il volume Mia figlia è innamorata. Dà alle
stampe il volume di prose E l’uomo non sarà solo.
Inizia a praticare la pittura ideografica che culminerà nelle due mostre
di Parigi e di Milano.
Publica Gli occhi di Orfeo che ottiene ex equo con Sanesi il
Tarquinia-Cardarelli.
Dirige la rivista umoristica « L’Idiota ».
Pubblica il volume Viaggio nel silenzio di Dio che merita con Marvardi il
premio di poesia Città di Capua.
Raccoglie i testi delle favole umoristiche nel volume illustrato
interamente da Omiccioli I fiori c’insegnano a sorridere.
Esce con prefazione di R. Méjean la terza edizione delle Lettere della
sposa demente.
109
BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE
Horizons perdus (liriche), Paris, Edition des Deux Artisans, 1939.
Caravanes (liriche), Paris, Edition des Deux Artisans, 1939.
Pèrsite e Melasia (mito), pref. di R. D’Este, Trani, Paganelli, 1940.
Ore bianche (liriche), Trani, Paganelli, 1940.
Elegie doriche, (liriche), Roma, Eros, 1951.
Un negro in Paradiso, Roma, Eros, 1952.
Lettere della sposa demente, (liriche) pref. di N. Ciarletta, Roma, Ed. dell’Ippogrifo,
1952.
Esilio sull’Himalaya (liriche), Roma, Ed. del Canzoniere, 1953.
Le favole di Dio (liriche), Roma, Ed. Alabatros, 1954.
Pietà della notte, (volume antologico 1937-1957; contiene le seguenti sezioni
inedite: Morte è antica e Gli epigrammi del mandarino 1954-1957); Pietà della notte
(1956-57), Bologna, Cappelli, 1957.
Il paese di nessuno, (volume antologico; oltre una parte inedita che dà il titolo al
volume, esso contiene un’ampia scelta dei volumi precedenti dalle Lettere a Pietà
della notte), Roma, Porfiri, 1958.
Poemetti, Roma, Porfiri, 1958.
Adagio quotidiano (liriche), Padova, Rebellato, 1958.
Mia figlia è innamorata, Milano, Cino del Duca, 1960.
E l’uomo non sarà solo (prosa), Milano, Ceschina, 1960.
Il paese d’Iride, (liriche), Roma, Carucci, 1962.
Mabò lo straniero (poemetto), in « Il Protagora », 21 giugno 1962.
Gli occhi di Orfeo, pref. di G. Aventi, Roma, Ippogrifo, 1964.
Ballata per mille ombre, Roma, Canesi, 1965.
Il mattutino delle tenebre, avvertenza di G. Villaroel, Pisa, La Soffitta, 1964.
I detti immemorabili di R.M. Ratti, 2 voll., Roma, Ippogrifo, 1965 e 1966.
Quando gli angeli ascoltano, Roma, Ed. Ciranna, 1968.
Minuetto per ombre sole (antologia poetica 1951-1969), Padova, Rebellato, 1970.
Per archi impazziti, Roma, Ed. Veutro, 1970.
Gli anni del silenzio, pref. di G. Aventi, Roma, Ed. Cardini, 1972.
Viaggio nel silenzio di Dio, pref. di G. Aventi, Roma, Ippogrifo, 1973.
In un pianeta che ignoro (appunti e pastelli), con un saggio di F. Ferrara, Roma,
Ed. E.R.S.I., 1974.
I fiori c’insegnano a sorridere (favole umoristiche), pref. di F. Ceriotto, con 36
disegni di G. Omiccioli, Verona, Ghelfi, 1974.
Lettere della sposa demente, pref. di R. Méjean, Roma, Ippogrifo, 3a ed., 1975.
M. PIAZZOLLA-R. MÉJEAN, Balado d’a dos voues / Ballade à deux voix, (testo
bilingue, provenzale e francese; contiene M. Piazzolla, Dins Paris li dos oumbro
nostro / Dans Paris nos deux ombres; R. Méjean, Balado dou darrie vespre / Ballade du
dernier soir), Toulon, L’Astrado, 1975.
110
TRADUZIONI
RENÈ MÉJEAN, L’almanacco strappato, Milano, Ceschina, 1974.
BIBLIOGRAFIA DELLA CRITICA LETTERARIA
Surrealismo realtà umana e marxismo, in « La Giustizia », 19 ottobre 1954.
Colloquio con Valery, in « Il Piccolo », 20 dicembre 1956.
Ritratto di Leopardi, in « Il Piccolo », 5 febbraio 1957, poi in « Iniziative », sett.-ott.
1958.
Critica Letteraria, in « Gazzetta del Sud », 13 febbraio 1957.
Poesia di Claudel, in « Il Piccolo », 16 febbraio 1957.
Sincerità di Gide, in « Gazzetta del Sud », 2 aprile 1957.
Ritratto di Edgar Poe, in « Il Piccolo », 13 aprile 1957.
Ritratto di Rimbaud, in « Il Piccolo », 30 maggio 1957.
Il vagabondaggio del « saggio » Virgilio, in « Gazzetta del Sud », 25 giugno 1957.
Lo spirito classico di G. Leopardi, in « Il Piccolo », 12 luglio 1957.
Maestro Dante, in « Gazzetta del Sud », 27 luglio 1957.
Il gigante Omero, in « Il Piccolo », 7 agosto 1957; poi in « Iniziative », nov.-dic. 1957.
Cardarelli a Via Veneto, in « Gazzetta del Sud », 8 agosto 1957.
Riflessioni sulla cultura, in « Il Piccolo », 17 agosto 1957.
Infelicità di Pascal, in « Il Piccolo », 5 ottobre 1957; poi in « La Fiera Letteraria », 4
giugno 1961.
Il messaggio di Nietzsche, in « Il Piccolo », 23 ottobre 1957.
Realismo lirico, in « Il Piccolo », 2 novembre 1957.
La poesia di Hólderlin, in « Il Piccolo », 14 novembre 1957.
Il « Mago » Marotta, in « Gazzetta del Sud », 20 dicembre 1957.
Purezza di Mallarmé, in « Il Piccolo », 15 gennaio 1958.
L’angoscia di Kafka, in « Il Piccolo », 7 febbraio 1958.
Candore di Govoni, in « Il Piccolo », 25 febbraio 1958.
La lirica in esilio, in « Il Piccolo », 1 marzo 1958.
Elegia di Villaroel, in « Gazzetta del Sud », 19 marzo 1958; poi in « Cinzia », aprile
1958.
Arte di Proust, in « Gazzetta del Sud » 1 aprile 1958.
Baudelaire immorale? in « Gazzetta áel Sud », 9 aprile 1958.
« Scandalo della speranza », in « Il Piccolo », 24 aprile 1958; poi in « La Fiera Letteraria
», 16 aprile 1961.
Proust e il tempo, in « Il Piccolo », 29 aprile 1958.
Pirandello tragico, in « Il Piccolo », 20 maggio 1958.
La poesia di Eliot, in « Il Piccolo », 24 giugno 1958.
L’Universo di joyce, in « Il Piccolo » ‘ 4 luglio 1958.
Valery il perfetto, in « Il Piccolo », 16 luglio 1958; poi in « La Fiera Letteraria », 14
maggio 1961.
La lirica di Ungaretti, in « Il Piccolo », 19 agosto 1958.
111
Garcia Lorca, in « li Piccolo », 6 settembre 1958.
Su Apollinaire, in « Gazzetta del Sud », 2 ottobre 1958.
Vittorio Sereni, in « Il Piccolo », 15 ottobre 1958.
Attilio Bertolucci, in « Il Piccolo », 29 novembre 1958.
Poeti d’oggi: lorge Guillén, in « Il Piccolo », 12 dicembre 1958.
Poeti d’oggi: Saint-John Perse, in « Il Piccolo », 2 gennaio 1959.
Poeti d’oggi: Henri Michaux, in « Il Picolo », 21 febbraio 1959.
Giuseppe Marotta, in « Il Piccolo », 5 marzo 1959.
L’estetica di Cecchi, in « Il Piccolo », 18 marzo 1959.
Il canto di Saffo, in « Il Piccolo », 18 aprile 1959.
Poeti d’oggi: Rafael Alberti, in « Il Piccolo », 13 maggio 1959.
Alberto Moravia, in « Il Piccolo », 21 maggio 1959.
Orfismo di Campana, in « Il Piccolo », 16 giugno 1959.
Lirici Greci, in « Il Piccolo », 28 giugno 1959; poi in « Il Sestante Letterario »,
sett-ott. 1962.
La lirica di E. Montale, in « L’Unione Sarda », 25 luglio 1959.
Orfeo ed Euridice, in « Il Piccolo », 21 agosto 1959.
Critici d’oggi: G. Trombatore, in « Il Piccolo », 28 agosto 1959; poi in « La Fiera
Letteraria », 11 febbraio 1962.
Presenza di Dio, in « Il Piccolo », 3 dicembre 1959.
Pensatori d’oggi: Maria Zambrano, in « Il Piccolo », 29 dicembre ‘59. Soren
Kierkegaard, in « Il Piccolo », 20 gennaio 1960.
Pensatori d’oggi: Maria Zambrano, in « Il Piccolo », 29 dicembre 1959. Pietro Cimatti,
in « Il Piccolo », 29 marzo 1960.
Simone Weil, in « Il Piccolo », 7 febbraio 1961.
Salvatore Quasimodo, in « Il Piccolo », 28 aprile 1961.
Il sacro e l’orfico, in « Crisi e Letteratura », (Roma) 15-30 luglio 1961. Lo stile poetico
e la rivolta, in « Il Piccolo », 13 luglio 1962; poi in « Il Sestante Letterario », sett.-ott.
1962.
Marotta e i suoi alunni, in « Dialoghi », (Roma), sett.-ott. 1967.
S. Ouasimodo, « Operaio di sogni », in « La Carovana », aprile-giugno. 1968.
De Pisis, pittore-poeta, in « Persona », (Roma), novembre 1969.
La lirica di Ungaretti: dal « Porto Sepolto» a « La Terra Promessa », in « La Carovana
», aprile-settembre 1970.
Ritratto di Barilli, in « Persona », nn. 2, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, giugnodicembre 1970.
Saggi apparsi ne « La Fiera Letteraria ».
Il poeta di Narciso deriva da Mallarmé, 26 giugno 1949.
Gide nel millenovecentotrentotto, visita ad un utopista, 28 agosto 1949; poi in « La
Giustizia », 22 settembre 1954.
Un uomo antico in esilio in mezzo a noi, 21 maggio 1950.
Anna Claudi alla finestra, 4 giugno 1950.
Poesie Marginali di S. Penna e Fuoco Bianco di A. Grande, 13 agosto 1950.
I martedì letterari; Diego Valeri e le creature di Racine, 4 febbraio 1951.
Amore di Gide alle lettere italiane, 25 febbraio 1951.
112
Risposta a Leone Piccioni, 11 marzo 195 1.
La poesia di Luciana Frassati, 10 giugno 1951.
Ritratto di un poeta dopo il trittico della felicità perduta, 20 dicembre 1953.
Artisti italiani: Franco lurlo, 2 maggio 1954.
Marotta, il suo estro è poesia, 12 dicembre 1954.
T. S. Elíot, poeta cattolico, 11 gennaio 1959.
Il sacro in Rouault, 17 aprile 1960.
Eugenio Montale, 12 giugno 1960.
A proposito degli «Alunni del sole» Napoli secondo Marotta, 26 giugno 1960.
« Solo, povero, candido se ne è andato M. Bontempelli », 31 luglio 1960. La notte
dell'anno uno, 25 dicembre 1960.
Michaux surreale, 12 febbraio 1961.
I vincitori della « Penna d'oro »; profilo di E. Cecchi, 19 febbraio 1961. Il poeta degli
angeli, 26 febbraio 1961.
Un ritratto della nostra società in « Visti e Perduti »; Marotta in poltrona, 19 marzo
1961.
La sorridente disperazione dell'ultimo Delfini, 26 marzo 1961.
Ironia e mistero ne « La Farfalla di Dinard », 2 aprile 1961.
La persona e il destino; meditazioni di Simone Weil, 9 aprile 1961.
Un'acuta indagine critica di Gianni Nicoletti: la bellezza di Baudelaire, 23 aprile 1961.
Artisti italiani: Gino Croari, 30 aprile 1961.
L'Assoluto di Mallarmé, 7 maggio 1961.
Noteralle di revisione critica; IQ spirito clausica di Leopardi, 21 maggio 196 1.
Due critici nella nostra civiltà. Carteggio Nietzsche-Burckhardt, 28 maggio 196 l.
Su « Vento in gabbia », raccolta di prose di varia ispirazione. Marotta favoloso e
beffardo, 9 luglio 1961.
« Il re di Sardegna » e altre poesie. L'ironia di Frattini, 16 luglio 1961. Un nuovo
poeta per il Sud: la Calabria di Costabile, 23 luglio 1961. L'antiretorica dell'eroismo:
Risi pensieroso, 6 agosto 1961.
Per una storia spirituale della poesia italiana. Linea Umbra: un'ardita testimonianza, 10
settembre 1961.
Un fanciullo che scopre il mondo e se lo racconta. Poesie di Gatto, 17 settembre 1961.
Giovani poeti italiani; Un uomo e una fede, 24 settembre 1961.
Giovani poeti italiani. Due lirici della discrezione, 1 ottobre 1961.
Il poeta del poeta: Holderlin, 15 ottobre 1961.
Ricordi parigini. Sincerità di Gide, 22 ottobre 1961.
Ricordi parigini. Valery su Mallarmé, 29 ottobre 1961.
Ricordi parigini. Paul Claudel tra Rimbaud e Dio, 5 novembre 1961; poi in «
Iniziative », maggio-agosto, 1966.
La missione dell'uomo di cultura, 12 novembre 1961.
Ricordi parigini. Royere, 26 novembre 1961.
113
Ricordi parigini, La Grecia di Beaudouin, 3 dicembre 1961.
Saggio e antologia esemplari: La Voce, 10 dicembre 1961.
Ricordi parigini. Il poeta Topalian, 31 dicembre 1961.
Ricordi parigini. Notturno a « Notre Dame », 7 gennaio 1962.
Dal terrore alla felicità. Camus uomo della rinascita, 14 gennaio 1962.
Dall'assurdo quotidiano alla saggezza. La poesia di Ferrari, 20 gennaio 1962.
L'uomo e il divino di Maria Zambrano. Una filosofia per l'uomo, 18 febbraio 1962.
Tradotta da Manara Valgimigli la lirica dei Greci, 25 febbraio 1962.
Il libriccino di Anna Curcio, 4 marzo 1962.
Giuseppe Marotta, scrittore solitario e uomo sulla breccia. Le sue donne, 20 gennaio 1963.
Interviste immaginarie apparse su « La Fiera Letteraria ».
Visita a Igor Iravic, 23 ottobre 1960.
Visita a Peppotoston, 30 ottobre 1960. Visita a Organon, 13 novembre 1960.
Visita a Leviatano, 27 novembre 1960.
Visita a Egopatìcos, 4 dicembre 1960.
Visita al dott. Ervad, 11 dicembre 1960.
Visita a Zatti, 18 dicembre 1960.
Monologo del dittatore, 1 gennaio 1961.
Visita a Rascellini, 8 gennaio 1961.
Visita a Ermete Trimegisto, 15 gennaio 1961.
Visita a Salintari, 29 gennaio 1961.
CRITICHE D'ARTE
Ritratto di Giotto, in « Gazzetta del Sud », 16 maggio 1957.
Ritratto di Michelangelo, in « Il Piccolo », 24 aprile 1957.
I sogni di Utrillo, in « Il Piccolo », 29 novembre 1957; poi in « La Fiera Letteraria », 9
ottobre 1960.
Magia di Klee, in « Il Piccolo », 31 gennaio 1958.
Libertà di Picasso, in « Il Piccolo », 21 marzo 1958.
Tristezza di Modigliani, in « Il Piccolo », 12 aprile 1958.
Il sole di Van Gogh, in « Il Piccolo », 10 maggio 1958.
Pollock e il caos, in « Gazzetta del Sud », 16 maggio 1958.
Monachesi polemico: Apologia della luce, in « Gazzetta del Sud », 21 ottobre 1958.
Vangelli: Moderno e umano, in « Gazzetta del Sud », 6 novembre 1958.
Le intuizioni di Braque, in « Il Piccolo », 20 novembre 1958.
Wassily Kandisky, in « fl Piccolo », 31 gennaio 1959.
Georges Rouault, in « Il Piccolo », 15 febbraio 1959.
Armiro Yaria, in « Il Piccolo », 29 maggio 1959.
Poetica di Cezanne, in « Il Piccolo », 12 aprile 1958; poi in « La Fiera Letteraria », 18
settembre 1960.
Edoardo Giordano, in « Il Piccolo », 7 agosto 1959.
114
VanGogh e il dolore, in « Il Piccolo », 25 settembre 1959.
Giovanni Omiccioli, in « Il Piccolo », 17 ottobre 1959.
Mauro Manca, in « Il Piccolo », 31 ottobre 1959.
La pittura astratta, in « Il Piccolo », 8 marzo 1961; poi in « Iniziative »,
settembre-ottobre 1964.
Antonio Delfini, in « Il Piccolo », 4 settembre 1962.
PROSE D'ARTE
Costellazione dell'Orsa Minore, in « Il Popolo di Roma », 4 marzo 1953.
Nascita di Roma, in « Il Mezzogiorno », 2 ottobre 1954.
Fantasia al Colosseo, in « Il Mezzogiorno », 12 ottobre 1954.
« Notre Dame », in « Gazzetta del Sud », 27 novembre 1956.
Domenica al Pincio, in « Gazzetta del Sud », 15 febbraio 1957.
Le Piazze di Roma, in « Il Piccolo », 2 marzo 1957.
Fantasia al Colosseo, in « Gazzetta del Sud », 13 marzo 1957.
Piazze di Roma, in « Il Piccolo », 23 marzo 1957; poi in « Gazzetta del Sud », 26
marzo 1957.
Parole discrete, in « Gazzetta del Sud », 17 aprile 1957.
Presenza della natura, in « Gazzetta del Sud », 30 giugno 1957.
Immagine dell'universo, in « Gazzetta del Sud », 29 luglio 1957.
Con Beethoven nella bufera, in « Gazzetta del Sud », 22 agosto 1957.
L'Uomo e la storia, in « Gazzetta del Sud », 29 agosto 1957.
Il giorno della creazione con Bach, in « Gazzetta del Sud », 3 settembre 1957.
Due ombre, in « Gazzetta del Sud », 7 settembre 1957.
Piazze di Roma, in « Gazzetta del Sud », 10 settembre 1957.
Carte cinesi, in « Gazzetta del Sud », 6 ottobre 1957.
Monologo, in « Gazzetta del Sud », 16 ottobre 1957.
Ravel e Agazarian, in « Gazzetta del Sud », 8 novembre 1957.
Metamorfosi dell'autunno, in « Gazzetta del Sud », 15 novembre 1957.
Carte cinesi, in « Gazzetta del Sud », 29 novembre 1957.
Favole per Euterpe, in « Gazzetta del Sud », 6 dicembre 1957.
Soliloquio del Duomo, in « Gazzetta del Sud », 15 dicembre 1957.
Favole, in «Gazzetta del Sud », 28 gennaio 1958.
Lirica-Carte cinesi, in « Gazzetta del Sud », 11 febbraio 1958.
Momenti musicali, in « Gazzetta del Sud », 20 febbraio 1958.
Momenti musicali: Grieg e De Bussy, in « Gazzetta del Sud », 27 aprile 1958.
Quadri parigini, in « Gazzetta del Sud », 30 aprile 1958.
Vecchi volti, in « Gazzetta del Sud », 3 maggio 1958.
Bisanzio Topalian: Spettro di poeta, in « Gazzetta del Sud », 9 maggio 1958.
Due nani a nozze, in « Gazzetta del Sud », 13 giugno 1958.
Momenti musicali: Mozart e Vivaldi, in « Gazzetta del Sud », 8 giugno 1958.
Concerto e solstizio, in « Gazzetta del Sud », 8 settembre 1958.
115
Considerazioni all'alba, in « Gazzetta del Sud », 11 ottobre 1958.
Momenti musicali: Paganini e Scarlatti, in « Gazzetta del Sud », 16 ottobre 1958.
Momenti musicali: Strawinski e Georiwik, in « Gazzetta del Sud », 21 novembre 1958.
Elogio dei mansueti, in « Il Piccolo », 24 febbraio 1960.
Divagazioni e favole, in « Telesera » (Roma), 17-18 aprile 1961.
Condannato all'ozio, in « Il Gazzettino di Venezia », 1 giugno 1962.
Saggi e prose apparsi in « Iniziative » (Roma):
Ritratto di Baudelaire, luglio-agosto 1953.
Colloquio con Beaudouin; Agazarian e l'usignolo, novembre-dic. 1953.
Incontro con Gide, marzo-aprile 1954.
Mortificazione dell'intelligenza, maggio-giugno 1954.
Un mio incontro con Valery, nov. dic. 1954.
Alcuni aspetti della critica letteraria in Italia, genn. febbraio 1955.
La funzione della critica letteraria militante, marzo-aprile 1955.
Dilettantismo e disumanità della lirica italiana contemporanea, maggiogiugno 1955.
Paura della fantasia e disprezzo del cuore nell'arte italiana d'oggi, nov.dic. 1955.
J.Paul Sartre o della responsabilità, genn. febbraio 1956.
Poesia di Villaroel, nov.-dic. 1956.
Ritratto di Virgilio e Versione di Orfeo ed Euridice dal libro IV delle
Georgiche, genn.-febbraio 1957.
La Catania di Villaroel, genn.-febbraio 1958.
Due nani a nozze (racconto), marzo-aprile 1958.
Mal di Galleria, genn.-febbraio 1959.
Poeti d'oggi: Eugenio Montale, genn.-febbraio 1960.
La poesia di S. Quasìmodo, marzo-aprile 1960.
Saint-john Perse, premio Nobel, genn.-febbraio 1961.
Il sacro nelle meditazioni di S. Weil, genn.-febbraio 1962; poi in « Il
Sestante Letterario » (Roma), maggio-agosto 1963.
Riflessioni sulla cultura, maggio-giugno 1962.
Poeti d'oggi: Alfonso Gatto, nov.-dic. 1962.
Narratori d'oggi: Giuseppe Marotta, maggio-giugno 1963.
La donna nella narrativa di Marotta, sett.-ott. 1963; poi in « Il Sestante
Letterario », marzo-aprile 1963.
Nascita dell'uomo, genn.-aprile 1966.
Saggi e poesie in lingua francese apparsi su ARTS ET IDÈES (Paris):
Aventure (poesia), n. 7 février 1937.
Pirandello et la tragedie, n. 8 avril 1937.
Paul Valery et l'intelligence du siecle, n. 9 juin 1937.
La poesie de Dante, n. 10 aoùt 1937.
116
Seine (poesia); Nicolas Beauduin ou la beauté hellenique, n. 11 octobre
1937.
Poèmes: « Petrarca » « Dante », n. 12 décembre 1937.
Poème: « Fontaine », n. 13 février 1938.
Persite et Melasia (fragment d'un myte), n. 14 avril 1938.
L'arbre (poesia), n. 15 luillet 1938.
Globo (poemetto), n. 17 décembre 1938.
Moi,l'inutile (salmo), n. 18 février-mars 1939.
Bonheur (poemetto), n. 19 avril-mai 1939.
Altri saggi e poesie, prosa in lingua francese:
Terre relleurissante (poemetto), in « Dante » (Paris), n. 8 septembreoctobre 1935.
Broderie (poesia), in « Dante », n. 7-8 juillet-aoùt 1938.
Deux Poèmes: « La favola dell'universo », in « La Phalange », (Paris), 15 mai 1938.
Le theatre et Pirandello, in « L'Age Nouveau » (Paris), n. 12 février 1939.
Un monde sans paix (prosa), in « L'Appel » (Paris), n. 3 ianvier 1974.
L'utopie possible (prosa), in « L'Appel », n. 11-12 nov.-déc. 1974.
Lettre de Rome (prosa), in « L'Appel », n. 18 juillet-aoùt 1975.
BIBLIOGRAFIA DELLA CRITICA
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C. CLAUDI, in « Alfabeto », sett. 195 1, n. 17-18.
R. D'ESTE, in « Il Tirreno », 3 sett. 1951.
E. MISCIA, in « La Voce Repubblicana », ott. 1951.
A. FRATTINI, in « Idea », novembre 1951.
Lettere della sposa demente:
N. CIARLETTA, prefazione al volume.
F. VIRDIA, in « Il punto nelle lettere e nelle arti », (Roma) ag.-sett. 1952.
F. BRUNO, in « Gazzetta di Salerno », 15 settembre 1952.
R. Mucci, in « Idea », 4 ottobre 1952.
L.M., in « La Fiera Letteraria », 5 ottobre 1952.
F. VIRDIA, in « La Voce Repubblicana », 10 ottobre 1952.
G. VICARI, in « La Settimana Incom » 11 ottobre 1952.
N. VERNIERI, in « L'Italia che scrive », novembre 1952.
A. MELE, in « Corriere del Giorno », (Taranto) 7 dicembre 1952.
F. FORTINI, in « Comunità » dicembre 1952, n. 16.
M. RAMPERTI, in « Roma », 12 maggio 1953.
G. MAROTTA, in « L'Europeo », 20 dicembre 1959.
R. MÈJEAN, in « La France Latine », 4e. Trimestre 1974 (Paris), n.s. n. 60.
C. SIANI, in « Stampa di Puglia », 12 febbraio 1976.
117
Esilio sull'Himalaya:
E. BATTISTINI, in « Il Giornale d'Italia », 7 ottobre 1953.
E.F. ACCROCCA, in « La Fiera Leteraria », 15 novembre 1953.
F. DESIDERI, in « Il Secolo d'Italia », 18 febbraio 1954.
G. ETNA, in « Il Giornale del Mezzogiorno », 17 maggio 1954.
A.FRATTINI, in « L'Osservatore Romano », 17 giuono 1954.
M. ZAMBRANO, in « Quadernos », (Paris), maggio-giugno 1954, n. 6.
Le favole di Dio:
A. FRATTINI, in « Idea », 8 maggio 1955.
Pietà della notte:
M. CAMILUCCI, in « Il Fuoco », marzo-aprile 1959.
F. GRISI, in « Mistica Rosa », (Roma) febbraio-marzo 1962.
Adagio quotidiano:
P. DALLAMANO, in « Paese Sera », 25 febbraio 1959.
G. RIMANELLI, in « Rotosei », (Roma) 16 aprile 1959.
Mia figlia è innamorata:
A. DEL MASSA, in « Il Secolo d'Italia », 13 agosto 1960.
G. PASSALACOUA, in « La Giustizia », 13 agosto 1960.
P. CIMATTI, in « La Fiera Letteraria », 14 agosto 1960.
G. BALDUCCI, in « Telesera », (Roma), 25 agosto 1960.
P. MARLETTA, in « Il Paese », (Roma), 30 agosto 1960.
M. AYCARD, in « Ponente d'Italia », (Savona), settembre 1960.
U. MORETTI, in « Il Reporter », (Roma) 11 ottobre 1960.
A. FRATTINI, in « Humanitas », novembre 1960.
ANONIMO, in « Libri e riviste d'Italia », dicembre 1960.
V. DE TOMMASO, in « La Carovana », (Roma) genn.-Febbraio 1961.
A. CURCIO, in « Europa Sociale », (Roma) luglio-agosto 1962.
Il paese d'Iride:
N. SIGILLINO, in « La Fiera Letteraria », 14 ottobre 1962.
E. MAIZZA, in « Civitas », (Roma) dicembre 1962.
Gli occhi di Orfeo:
G. AVENTI, pref. al volume. G. Fusco, in « Le Ore », (Roma) 11 giugno 1964.
A. BEVILAQCUA, in « Il Messaggero di Roma », 14 settembre 1964.
ANONIMO, in « La Notte », (Milano) 1 ottobre 1964.
118
B. PENTO, in « Annali della Pubblica Istruzione », (Roma) genn.aprile
1965.
N. SIGILLINO, in « Persona », giugno 1965.
Ballata per mille ombre:
G. MAROTTA, prefazione al volume.
F. GRISI, in « Persona », ottobre 1967.
Il mattutino delle tenebre:
G. VILLAROEL, avvertenza al volume.
N. G., in « Il secolo XIX », 21 maggio 1966,
V. TALARICO, in « Momento Sera », (Roma) 30-31 maggio 1966.
G. SALVETI, in « Pubblicismo Letterario », (Roma) 30 settembre 1966;
poi in Dimenticanze e successi ingiustificati, Cosenza, Pellegrini,
1973.
I detti immemorabili di R.M. Ratti:
P. CIMATTI, in « La Fiera Letteraria », 20 marzo 1960.
M. CAMILUCCI, in « L'Osservatore Romano », 11 luglio 1970.
Si veda inoltre la prefazione-saggio di G. Aventi al volume Gli
anni del silenzio e i due profili di G. Villaroel (Radio Trasmissioni del 7 novembre
1953: Trampolino) e di R. Gaudio (La Gazzetta del Mezzogiorno, 13 dicembre
1967); nonché i volumi di A. Frattini La giovane poesia italiana; Pisa, Nistri-Lischi,
1964 e Poesia nuova in Italia, Milano, I.P.L., 1967.
Pure riferimenti linguistici a Piazzolla sono nel volume Aspetti
della poesia italiana contemporanea, di A. Vallone, cit..
Pure importanti sono le seguenti antologie:
Splendore della poesia italiana, a cura di C. Govoni, Milano, Ceschina,1958.
Anthologie de la poesie italienne, a cura di I. Chuzev;lle, Paris, Edition
d'histoir d'Art, 1959.
Lirici pugliesi del Novecento, a cura di F. Ulivi e E.F. Accrocca, Bari,
Adriatica, 1967.
Prima biennale della poesia italiana, a cura di A. Noferi, Firenze,
I Centauri, 1969.
Poeti dauni contemporanei, (pref. di M. Sansone) a cura di A. Motta,
C. Serricchio e C. Siani. (In corso di stampa).
ANTONIO MOTTA
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