Introduzione

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Introduzione
Introduzione
La sorte del piccolo borghese è un argomento che
probabilmente lascia indifferenti molti lettori. Quanti
provano oggi compassione per il gretto «piccoloborghese» del vignettista francese Cabu o per i frustrati
di Bretécher, quell’ammasso di riservisti del capitalismo, residui del mondo postindustriale, che si abbandonano senza ritegno alla propaganda pubblicitaria e
al vuoto del mondo dello spettacolo? Quanti confesserebbero mai di avere a cuore gli idolatri dei rich &
famous, i mollaccioni che praticano lo sport davanti
alla tv o i nostalgici di Amélie, considerati un po’ alla
stregua dei collaborazionisti di Pétain? A sinistra, il
piccolo borghese incarna ciò che vi è di più umanamente detestabile, la vergogna del mondo occidentale,
una specie di «ultimo uomo» corto di vedute, provinciale, timoroso, ancorato al passato, macho, conformista, a volte xenofobo se non razzista. In altre parole,
l’uomo «senza qualità» che Brecht mette in scena in
Le nozze dei piccolo borghesi, e la versione contemporanea del fiaubertiano Monsieur Homais ignorante, che
ama il calcio, è abbonato a Sky o Mediaset Premium
e che deride tutto e tutti, anche se stesso.
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Ma il piccolo borghese non è più il capro espiatorio soltanto dei progressisti. Anche a destra gli si
abbbiano tutte le tare possibili e immaginabili. Basta vedere come lo scrittore Maurice G. Dantec descrive il «piccolo borghese della sinistra benpensante»
(sic), lettore impegnato, che a suo parere è addirittura
«peggio di una setta».
«Ricorda più un esercito», dice delineando un individuo ipocrita, falsamente generoso e geloso, che
difende con le unghie e con i denti i diritti acquisiti,
è idealista quando è in Darfur, dove non fa che parlare dei diritti dell’uomo, ma detesta a tal punto i
suoi simili che in patria non è nemmeno capace di
cedere il posto quando è in rla.
In altre parole, da qualunque angolazione lo si
guardi, il piccolo borghese non gode di buona fama.
Tuttavia, con la crisi rnanziaria è emerso con grande
chiarezza che il mondo è pieno di piccoli borghesi,
che non sanno di esserlo o non vogliono ammetterlo:
dal semplice lavoratore – incluso l’operaio – al piccolo imprenditore, al quadro (che non ha possibilità di
far parte un giorno del consiglio di amministrazione
della multinazionale per cui lavora). Rappresentano
una via di mezzo, un insieme informe di salariati del
settore privato e di intellettuali, piccoli imprenditori,
commercianti, insegnanti, liberi professionisti e funzionari. Come direbbe Marx, «un’alleanza contro natura» di «interessi sordidi» e «sognatori dell’assoluto».
Il rischio di fallimento che corrono oggi è lo stesso.
E i loro rgli avranno le stesse dibcoltà a inserirsi
nel mondo del lavoro. Anche a fronte di un reddi-
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to diverso, sottostanno alle stesse paure, alle stesse
manipolazioni, alla stessa fragilità sociale. La piccola borghesia è ovunque non vi sia miseria ma solo
un benessere molto relativo o, perlomeno, fragile. E
questo fa sì che siano molti i luoghi in cui aleggia
la paura... Dopo la crisi dei subprime, nei quartieri
residenziali delle città americane, inglesi o spagnole
in milioni vivono nel timore che arrivi un ufficiale giudiziario a porre sotto sequestro la loro casa. In
Francia, dove la prudenza ha scongiurato il delirio
ipotecario, il dipendente piccolo borghese chiude gli
occhi sperando che la crisi mondiale non gli faccia
perdere il lavoro, e il piccolo imprenditore prega ogni
giorno che la sua azienda non venga strozzata dalla
mancanza di credito (troppo spesso dimentichiamo
che si suicidano anche i proprietari delle PMI, non
solo i dipendenti). E i pensionati non sanno più se i
fondi pensione, che si sciolgono come neve al sole,
rappresenteranno una risposta alla crisi annunciata
del Welfare State e del sistema della ripartizione. È
come se, con la crisi, fossero venute meno tutte le
regole e il mondo della Cena dei cretini di François
Pignon fosse stato spazzato via da un processo complesso che ha trasformato le società occidentali e
spezzato il loro fragile equilibrio.
Giù al Nord
Questa crisi è un 1789 al contrario. Vi ricordate
quando l’abate Sieyès si chiedeva «Che cos’è il Terzo
Stato?» e rispondeva «Tutto». «Che cosa è stato finora
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nell’ordinamento politico? Nulla. Che cosa chiede?
Di essere qualcosa»1... Non vale forse la pena di rifarsi questa domanda? Il sogno di una società decente
ed equilibrata sembra ormai appartenere al passato.
In realtà, se il piccolo borghese non è mai stato così
vicino alla porta d’uscita della Storia, se ad alcuni
questa rottura può essere sembrata repentina, in realtà il disastro covava da quasi un quarto di secolo.
Ricordate – non sono passati neppure quarant’anni
– i grandi progetti dell’era di Kennedy o di Johnson,
di Pompidou o la «nuova società» del primo ministro
francese Chaban-Delmas? La Francia, come tutto
l’Occidente, sembrava progredire verso una società
senza classi, in cui – salvo un 1 per cento di straricchi e un 10 per cento di indigenti – stava progressivamente emergendo un immenso gruppo centrale.
Era un ideale che tradiva la speranza di un mondo
piccolo borghese, abbastanza simpatico, più o meno
in pace con se stesso. Quello che ritroviamo nei blm
degli anni Settanta, testimoni di un’epoca critica ma
ottimista, come nel blm La pendolare... I francesi ne
sentono la mancanza, come testimonia il recente successo di Giù al Nord, esaltazione quasi caricaturale
di un ideale piccolo borghese di fratellanza umana e
professionale.
Come appare superato questo sogno piccolo borghese! Che cosa è successo? Tutto è iniziato trent’anni fa, con il trionfo prima dei raider e degli yuppies,
poi dei rich & famous e dei VIP. I commentatori non
riuscivano a trovare parole surcienti per mettere in
risalto le storie di successo del nuovo scenario: il mi-
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racolo delle OPA, dell’effetto leva, dei bonus e dei
premi astronomici. Una vera meraviglia. Purtroppo,
è giunto il momento di fare i conti. E questo miracolo devastatore ha portato vantaggi solo a una piccola
minoranza, che possiamo definire «superclasse». In
queste alte sfere, sempre più separate dal resto della
popolazione, agli ex potenti per denaro e lignaggio si
sono aaancati i manager coccolati dalle grandi imprese (versione stock option e paracadute dorati), i
famosi working rich. Loro sono sereni di fronte alla
crisi: hanno messo al sicuro, al caldo, il loro denaro
in conti offshore intestati a un trust o a una fiduciaria
in un paradiso fiscale. Alcuni, per sfuggire al fisco,
si sono persino trasformati in una nuova tipologia di
emigrati, quelli fiscali, e hanno le stesse reazioni dei
loro predecessori, quelli della crisi del 1792. Come il
conte Artois e la duchessa di Polignac, si rifugiano a
Londra o in Svizzera, ma anche in principati amici,
come il Liechtenstein o Monaco. Tornati a essere gli
unici soggetti della Storia, Christopher Lasch li definisce «rivoltosi» speciali: un’élite in rivolta contro
il popolo2. Al contrario, i reietti dei ceti medi tremano. Non è che si ritroveranno sempre più vicini
al «proletariato straccione», a quelle classi miserevoli
dei «senza» (documenti, casa ecc.) che, parafrasando
Hegel, sono ricaduti «al di fuori del processo dialettico vivente»?
La crisi ha almeno un merito: obbliga il piccolo
borghese ad abbandonare le sue illusioni e a uscire dal
torpore. Gli è stato venduto un sistema formidabile,
che avrebbe dovuto farlo sbocciare, lasciandosi alle
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spalle la mediocrità. È stato obbligato a svendere la
maggior parte dei suoi sentimenti di solidarietà, delle
sue tradizioni e del suo buonsenso, facendogli brillare davanti agli occhi il successo e la ricchezza... Gli è
stato detto che doveva adattarsi al principio «tutto è
mercato», ai fondi pensione e ai subprime; che il suo
«modello» nazionale era una vergogna, che la sua difbdenza nei confronti della bnanza anglosassone era
antiquata e che qualsiasi riforma sarebbe transitata
dalla riabilitazione delle diseguaglianze, dalla cultura del rischio e della responsabilità3. Gli si è detto
che era ora di farla bnita con quel timore «cattolico»
(sic) nei confronti del dio denaro. Il futuro si giocava
in borsa. Il piccolo borghese doveva cambiare. E se
rimaneva stupefatto di fronte all’idea che l’economia
venisse trasformata in un casinò – come ha detto il
grande economista Maurice Allais –, veniva guardato dall’alto in basso e gli si rispondeva che era, come
sempre, travolto dalla Storia. Poi è arrivata la crisi e
il piccolo borghese si è ritrovato, assieme ai poveri,
tra i perdenti di questo banchetto dei grandi probtti.
Ma, a direrenza dei miserevoli, lui ci ha creduto a
lungo. E così oggi si risveglia ancor più sbigottito,
come dopo una lunga notte di bagordi.
Com’è possibile che, durante questa lenta agonia,
nessuno si sia veramente preso la briga di avvertirlo?
La sorte del piccolo borghese non interessa a molti, si
è detto. Il sociologo preferisce parlare di «ceti medi»,
gruppo informe che non ha sostanza e non è latore di
messaggi. La critica mondana o rafnata condivide
all’incirca le stesse vedute: nel suo brillante lavoro,
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La dictature de la petite bourgeoisie, Renaud Camus,
uno che spara a zero su tutti e tutto, scrive che la
piccola borghesia è «la classe che non può essere definita». Ma in fondo si tratta di una maniera abile di
convincerci che tutto ciò che lui non ama è «piccolo
borghese», dalla versione jet-set impersonificata da
Berlusconi (strano definirlo piccolo borghese, considerato che è uno degli uomini più ricchi d’Europa)
agli abitanti delle villette delle grandi periferie. Ed è
proprio perché trascurata e disprezzata che la piccola borghesia è stata ingannata così facilmente. Sono
lontani i tempi in cui – soprattutto con Balzac – era
portatrice di valori umanitari, era una classe prudente, incarnata dal dottor Benassis, attenta a evitare gli
eccessi per preservare il suo ambiente. A partire da
Flaubert e poi da Nietzsche, il piccolo borghese diventa una creatura disprezzabile, prigioniera dei suoi
limiti provinciali, su cui non soffia il grande vento
del progresso... La morale del nuovo secolo inneggerà
alla scienza, alla tecnica, al futuro, in netta rottura
con il «gran bordello della Storia», come sosteneva
Marinetti. L’uomo dell’avanguardia è chiaramente
l’antitesi del piccolo borghese. E quest’ultimo farà
suo il concetto fino ad arrivare a odiarsi.
L’odio di sé
Secondo François Furet, l’odio di sé è un tratto caratteristico della borghesia del XIX secolo4. Se è
così, l’ha trasmesso alla piccola borghesia del XXI.
È l’unica classe che non si considera tale e che svi-
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luppa l’illusione dell’Altro. La borghesia del mondo
degli abari sa che cos’è e, soprattutto, ciò che vuole.
Anche il proletariato aveva una «coscienza di classe»
e la forza che gli derivava dall’essere oppresso: era la
classe messianica dell’antico pantheon comunista.
L’operaio era orgoglioso della sua tuta blu e non era
disposto a ridere di se stesso. Invece, il piccolo borghese non smette di cercare di evadere dalla sua realtà. E trascorre la maggior parte del tempo a immaginarsi parte della grande borghesia... Comunque sia,
si guarda con indiberenza, persino con disprezzo,
quando viene preso in giro. E il sistema cerca di confermargli questa utopia. Ah, l’utopia, un’altra grande
trovata piccolo borghese (domandate a Charles Fourier, il piccolo impiegato francese di Besançon...). La
grande astuzia della pubblicità è proprio incentrata
su questo: «Perché io me lo merito» ci dice il volto sorridente della celebrità che pubblicizza il prodotto. «Se me lo merito» è perché io non sono come
quella massa di persone che vedo la mattina e la sera
in metropolitana. Io sono diverso, me lo garantisce
la pubblicità... Peccato che anche tutti gli altri che
viaggiano in metropolitana pensino esattamente lo
stesso. Anche loro si sentono diversi. Come volevasi
dimostrare.
Fino alla crisi del 2008, aiutato dal suo snobismo,
il piccolo borghese guardava piuttosto verso l’Alto.
Chi non ha mai incontrato un grande «piccolo borghese», una rgura toccante, che legge riviste patinate,
che smania per essere invitato a una battuta di caccia dal suo principale, a una cena di gala in un club
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privato (dove non si decide nulla, ma dove gli fanno
credere di essere entrato nel sancta sanctorum), a un
qualunque comitato di un circolo padronale rivestendo una qualche carica? Niente di più utile per trarne
dei vantaggi. Sarà soddisfatto e diventerà il massimo
difensore del sistema. La Fontaine ha dimenticato di
dirci che «la rana che vuole essere più grossa del bue»
è una garanzia per il regime. Non vi sarà difensore
più strenuo delle sperimentazioni sociali. A partire da
Reagan, figlio di un commesso viaggiatore scampato
alla miseria grazie al New Deal di Roosevelt, il mondo è pieno di questi figli ingrati di postini e maestri
di scuola che sono diventati i difensori più accaniti di
un capitalismo devastatore. Soprattutto sulla stampa.
Quando si ha a disposizione un paladino di questa
portata, bisogna darsi da fare per metterlo in risalto.
Il suo zelo è indubbio. Ne abbiamo visti molti coprirsi di ridicolo per difendere la generosità sociale di
chi ha concesso i mutui subprime, affermare senza
indugio che il capitalismo è «umanesimo» (un sistema
di produzione che viene assurto al ruolo di filosofia!)
o lamentarsi senza pudore dell’«inferno fiscale» che
opprime i benestanti, proprio quando il governo francese cerca di lottare contro i paradisi fiscali, il vero
buco nero della globalizzazione5. Saranno ancora loro
a dare la caccia ai privilegi dei loro ex compagni –
agli odiosi diritti del postino, alle entrate da nababbo
dell’infermiera, agli intollerabili vantaggi di cui gode
il pompiere e via discorrendo – dando così ragione
ad Alphonse Allais, che sostiene: «Bisogna prendere il
denaro là dove ce n’è, ovvero dai poveri visto che sono
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più numerosi»6. La storia è ricca di esempi di questi
«strumenti» idioti di un mondo che non è loro. Si
racconta di un fabbricante di parrucche, al tempo del
Regime del Terrore, che sognava di diventare marchese. Il suo desiderio di appartenere all’ancien régime
era tale che accettò di scambiare i suoi abiti con quelli
di un aristocratico inseguito dagli inviati del Comitato di salute pubblica. Salì al patibolo ebbro di gioia
per essere riuscito, anche se solo per pochi istanti, a
essere scambiato per un uomo di gran classe!
Che dire oggi del piccolo borghese versione rich &
famous che smania dal desiderio di frequentare i «VIP
della tv» che incrocia a Saint-Tropez quando esce dal
campeggio o che il suo capo gli orre l’occasione di
incontrare durante il grande convegno annuale della società, cosa che – per inciso – gli fa dimenticare
che per il momento non avrà alcun aumento di stipendio? Questo emulo di Mickael Vendetta, il blogger
fenomeno dell’Internet francese, prima o poi riterrà
intollerabile la pressione fscale cui sono sottoposte le
star della Top 50 (l’indice di borsa della canzonetta).
Pensate che esageri? Quando il grande Johnny (Hallyday) se n’è andato in esilio fscale dopo un eccesso
di furore civico («Non me ne frega nulla. Semplicemente non ne posso più, come molti altri francesi, di
pagare le tasse che ci impongono»), ha trovato un giovane apprendista contribuente della «Star Academy»,
un piccolo borghese della canzonetta ancora privo di
reddito, che ha dichiarato che i suoi eroici compatrioti
avevano tutte le ragioni di lamentarsi della pressione
fscale che grava sugli artisti! Come sono toccanti (e
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utili) questi piccoletti che si mettono al servizio dei
grandi! Ma non è forse nella nostra natura sentirci più
sicuri prendendo le difese di coloro che ci dominano?
Non sempre. Esiste anche il contrario. È più raro, bisogna ammetterlo, ma c’è anche il piccolo borghese
che recita la parte del proletario o del militante di sinistra. Ne è un esempio il brillante Olivier Besancenot7, simpatico postino che abita nel centro di Parigi,
modello di radical chic ben inserito ma che durante
le ore di lavoro si trasforma in «proletario militante».
Anche lui va alla televisione per spiegare la rivoluzione
alle vecchie signore. È chiaro che funge da pungolo
più che costituire una minaccia. Giochiamo a farci
paura, ma è sempre e comunque il piccolo borghese
a nascondersi sotto le sembianze cenciose di «dannato
della terra». Meglio così, ma perché non ammetterlo?
Valori piccolo borghesi?
Non è un peccato che la piccola borghesia non si accetti per ciò che è? I suoi valori storici – nonostante
siano stati straziati dalla propaganda pubblicitaria e
dalla violenza consumerista – offrono spunti interessanti per questi tempi di crisi. Riflettiamo sulla condanna di Marx delle idee deanite «piccolo borghesi».
È così che nel Manifesto del Partito Comunista8 il alosofo tedesco deanisce, con fare sprezzante, la critica umanista che Sismondi e i liberali moderati fanno
del laissez-faire. È, a suo parere, la quintessenza di un
ideale superato, «a un tempo reazionario e utopistico»,
che corrisponde al «campione di nozioni della piccola
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borghesia e dei contadini». Lenin lo dernirà addirittura «romanticismo economico» e, detto da lui, non
è sicuramente un complimento... I fondatori del socialismo «scientirco» preferiscono l’economia classica
che ha il merito, secondo loro, di avere una superiorità
teorica e astratta (è fuor di dubbio). Marx ammira il
grande capitalismo, il suo dinamismo, il suo spirito
distruttivo, il suo disprezzo per il passato. Ne tesse le
lodi nel suo Discorso sul libero scambio del 1848 perché
spera che l’ideale del capitalismo smisurato – l’economia-mondo per dirla alla Braudel – sconvolga le società, spazzi via famiglie, patrie, religioni... Sostenitore
della mondializzazione ante litteram, spera di trarne
vantaggio per il trionfo del comunismo (alla rne, è
il capitalismo che arrafa tutto nel 1989)... Buono a
sapersi: il marxismo condivide con il capitalismo quel
materialismo che spinge entrambi a considerare lo stile di vita piccolo borghese – metodico, parsimonioso,
«umanista» – un qualcosa di appartenente a una società arcaica, incarnazione dell’«idiozia della vita rurale»,
destinata, come sottolinea Marx con piacere, «a scomparire di fronte all’industria moderna».
Ebbene, per non pochi aspetti, questi valori ridicolizzati da Marx e dalla borghesia capitalista
non sono forse una delle risposte possibili alla crisi
di fondo che si nasconde dietro alla crisi economica
ed ecologica? Richiamano alla mente le abitudini e
i codici etici delle antiche società rurali, che a lungo
sono appartenuti anche alle aristocrazie e alle classi
contadine, poi operaie. In breve, a tutte le categorie
che hanno costruito le civiltà occidentali prima del
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trionfo di quella che Charles Péguy definisce l’«immensa prostituzione del mondo moderno», ovvero il
denaro. Questi valori, rinnovati e adattati allo spirito
dei tempi dall’economista Ernst Friedrich Schumacher, autore del best seller Piccolo è bello9, nel 1973,
aaondano le loro radici nella vecchia mentalità, soprattutto in Francia, nazione piccolo borghese per
eccellenza. Nel nostro paese, ricorda Jacques Julliard
su Le Figaro del 18 settembre 2008, vi è
consanguineità tra i valori cristiani, aristocratici e
del mondo operaio. Il cristianesimo predica la carità, l’aristocrazia l’onore, il socialismo la solidarietà:
tutti valori antimonetari. Coloro che se ne sono fatti
portatori non erano animati da un odio cieco verso il
denaro, ma dal rifiuto di vederlo occupare un posto
che non gli compete.
È un modo corretto per sottolineare che questa mentalità – a prescindere dalla sua definizione contadina, operaia, aristocratica o piccolo borghese (nel
senso marxista) – ha svolto un ruolo fondamentale
nell’immaginario francese, un po’ come il Terzo Stato nel 1789!
Il ruolo stabilizzante del piccolo borghese?
Aggiungiamo all’attivo di questa piccola borghesia tanto denigrata (anche se è vero che ha in gran
parte dimenticato i propri valori) una certa utilità
politica. Senza scivolare nel patetico, bisogna con-
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sflsafllv ts etiipsp cpobrvsv
venire con Georg Simmel sul suo ruolo «stabilizzante». È anche una delle lezioni di Tocqueville. In
fondo, esiste una sorta di legame impercettibile tra
il piccolo borghese e la democrazia liberale. Quando il primo precipita, la situazione si fa critica. Non
dimentichiamo che l’ultima volta che si è parlato di
«panico dei ceti medi» è stato con geodor Geiger nel... 1932! Un anno prima che Hitler salisse
al potere. Non si tratta di attribuire a una certa
classe, come ai tempi d’oro del marxismo, un «ruolo messianico», ma di prendere coscienza della sua
importanza storica. È ciò che hanno dimenticato
gli allievi di Milton Friedman, i Chicago Boys, che
continuano a confondere tasso di crescita e libertà.
In un recente intervento (pur precedente alla crisi
dei subprime, lo ammetto) alla facoltà di Scienze
Politiche sul tema Che cos’ è il liberalismo economico?, un professore di Harvard ha potuto ancora
sostenere, senza scioccare il pubblico, che «una democrazia più forte ritarda in maniera indefinita la
crescita» (Les Echos, 12 maggio 2006, sic). Ecco a
che cosa ci hanno portato trent’anni di predominio
di idee che vengono definite neoliberali o ultraliberali, ma che sarebbe meglio chiamare, all’italiana,
«liberiste»10.
In efetti, bisogna distinguerle dal vero liberalismo,
quello di Tocqueville o di Raymond Aron, che non
ha nulla a che fare con questa storpiatura del darwinismo sociale! È stata l’applicazione ottusa e sistematica di queste idee liberiste a portarci alla situazione drammatica in cui i piccoli borghesi – ovvero la
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maggior parte di noi – si trovano oggi. Perché dobbiamo confessarcelo: tutti noi (o quasi tutti) siamo
dei piccoli borghesi.
Nelle pagine che seguono vorrei raccontare la triste storia di come si è giunti prima a indebolire e
poi a emarginare il nucleo centrale delle nostre democrazie. Tutto inizia in certe università americane,
poco dopo la fine della seconda guerra mondiale,
dove c’è gente che cerca di giustificare le diseguaglianze sociali. Questo movimento permane durante
gli anni di Reagan e della aatcher e quindi durante
la globalizzazione promossa dai nuovi dirigenti delle
organizzazioni internazionali (FMI e Banca Mondiale), obbligando addirittura paesi come la Francia
ad adattarsi al grande vento anglosassone, fino ad arrivare al disastro mondiale odierno dei subprime in
cui le élite globalizzate, per sostenere una forte crescita (e di conseguenza i bonus...) senza aumentare
gli stipendi dei piccoli borghesi, aprono i rubinetti
del credito a tutti. Finché non arriva il momento di
pagare il conto: è la situazione in cui ci troviamo ora.
Vediamo come ci siamo arrivati.
Note
1. E.-J. Sieyès, Che cos’ è il Terzo Stato?, Giuffrè, Milano, 1993.
2. Christopher Lasch, La rivolta delle élite. Il tradimento della democrazia,
Feltrinelli, Milano, 2001.
3. Uomini della finanza esclusi, visto che, nel settembre 2008, la famosa alea
morale si è tradotta nel chiedere aiuto allo Stato (o, meglio, ai contribuenti) nel
momento in cui le cose si sono messe male a Wall Street...
4. François Furet, Le passé d’une illusion, Robert Laffont/Calmann, Parigi, 1995.
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5. In proposito, va citato l’edircante editoriale di Les Echos del 22 ottobre
2008, il giorno successivo all’incontro dei paesi OCSE organizzato a Parigi dal
primo ministro francese François Pillon, per lottare contro i paradisi rscali:
l’editorialista, invece di ofrire il proprio sostegno all’iniziativa, preferisce
denunciare l’«inferno rscale» cui sono sottoposti i capitali in Francia... La crisi
rnanziaria non ha insegnato nulla.
6. Il libro di J. Cotta, Riches et presque décomplexés (Fayard, Parigi, 2008), riporta
numerosi esempi sull’odio del parvenu (termine ormai desueto) che si prergge di
mettere in riga i «piccoli».
7. Giovane uomo politico francese e principale esponente del Nouveau Parti
Anticapitaliste (NdT).
8. Karl Marx, Friedrich Engels, Manifesto del Partito Comunista, Editori Riuniti,
Roma, 1976, pp. 94 e ss.
9. E.F. Schumacher, Piccolo è bello, Mondadori, Milano, 1978.
10. Benedetto Croce, grande rlosofo liberale, distingue nettamente il liberalismo,
rlosora per la libertà umana, dal «liberismo», dottrina strumentale e utilitarista
che si basa sul principio «tutto è mercato». Non si può confondere il pensiero di
Tocqueville con quello dei Chicago Boys di Milton Friedman; si veda J. De Saint
Victor, «Libérisme contre libéralisme», in Y.-C. Zarka (a cura di), Critique des
nouvelles servitures, PUF, Parigi, 2007, pp. 113 e ss.