Introduzione
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Introduzione La sorte del piccolo borghese è un argomento che probabilmente lascia indifferenti molti lettori. Quanti provano oggi compassione per il gretto «piccoloborghese» del vignettista francese Cabu o per i frustrati di Bretécher, quell’ammasso di riservisti del capitalismo, residui del mondo postindustriale, che si abbandonano senza ritegno alla propaganda pubblicitaria e al vuoto del mondo dello spettacolo? Quanti confesserebbero mai di avere a cuore gli idolatri dei rich & famous, i mollaccioni che praticano lo sport davanti alla tv o i nostalgici di Amélie, considerati un po’ alla stregua dei collaborazionisti di Pétain? A sinistra, il piccolo borghese incarna ciò che vi è di più umanamente detestabile, la vergogna del mondo occidentale, una specie di «ultimo uomo» corto di vedute, provinciale, timoroso, ancorato al passato, macho, conformista, a volte xenofobo se non razzista. In altre parole, l’uomo «senza qualità» che Brecht mette in scena in Le nozze dei piccolo borghesi, e la versione contemporanea del fiaubertiano Monsieur Homais ignorante, che ama il calcio, è abbonato a Sky o Mediaset Premium e che deride tutto e tutti, anche se stesso. 2 sfffiflffsa lfi vlttefie iepcoasa Ma il piccolo borghese non è più il capro espiatorio soltanto dei progressisti. Anche a destra gli si abbbiano tutte le tare possibili e immaginabili. Basta vedere come lo scrittore Maurice G. Dantec descrive il «piccolo borghese della sinistra benpensante» (sic), lettore impegnato, che a suo parere è addirittura «peggio di una setta». «Ricorda più un esercito», dice delineando un individuo ipocrita, falsamente generoso e geloso, che difende con le unghie e con i denti i diritti acquisiti, è idealista quando è in Darfur, dove non fa che parlare dei diritti dell’uomo, ma detesta a tal punto i suoi simili che in patria non è nemmeno capace di cedere il posto quando è in rla. In altre parole, da qualunque angolazione lo si guardi, il piccolo borghese non gode di buona fama. Tuttavia, con la crisi rnanziaria è emerso con grande chiarezza che il mondo è pieno di piccoli borghesi, che non sanno di esserlo o non vogliono ammetterlo: dal semplice lavoratore – incluso l’operaio – al piccolo imprenditore, al quadro (che non ha possibilità di far parte un giorno del consiglio di amministrazione della multinazionale per cui lavora). Rappresentano una via di mezzo, un insieme informe di salariati del settore privato e di intellettuali, piccoli imprenditori, commercianti, insegnanti, liberi professionisti e funzionari. Come direbbe Marx, «un’alleanza contro natura» di «interessi sordidi» e «sognatori dell’assoluto». Il rischio di fallimento che corrono oggi è lo stesso. E i loro rgli avranno le stesse dibcoltà a inserirsi nel mondo del lavoro. Anche a fronte di un reddi- introduflione ff to diverso, sottostanno alle stesse paure, alle stesse manipolazioni, alla stessa fragilità sociale. La piccola borghesia è ovunque non vi sia miseria ma solo un benessere molto relativo o, perlomeno, fragile. E questo fa sì che siano molti i luoghi in cui aleggia la paura... Dopo la crisi dei subprime, nei quartieri residenziali delle città americane, inglesi o spagnole in milioni vivono nel timore che arrivi un ufficiale giudiziario a porre sotto sequestro la loro casa. In Francia, dove la prudenza ha scongiurato il delirio ipotecario, il dipendente piccolo borghese chiude gli occhi sperando che la crisi mondiale non gli faccia perdere il lavoro, e il piccolo imprenditore prega ogni giorno che la sua azienda non venga strozzata dalla mancanza di credito (troppo spesso dimentichiamo che si suicidano anche i proprietari delle PMI, non solo i dipendenti). E i pensionati non sanno più se i fondi pensione, che si sciolgono come neve al sole, rappresenteranno una risposta alla crisi annunciata del Welfare State e del sistema della ripartizione. È come se, con la crisi, fossero venute meno tutte le regole e il mondo della Cena dei cretini di François Pignon fosse stato spazzato via da un processo complesso che ha trasformato le società occidentali e spezzato il loro fragile equilibrio. Giù al Nord Questa crisi è un 1789 al contrario. Vi ricordate quando l’abate Sieyès si chiedeva «Che cos’è il Terzo Stato?» e rispondeva «Tutto». «Che cosa è stato finora 4 sfffiflffsa lfi vlttefie iepcoasa nell’ordinamento politico? Nulla. Che cosa chiede? Di essere qualcosa»1... Non vale forse la pena di rifarsi questa domanda? Il sogno di una società decente ed equilibrata sembra ormai appartenere al passato. In realtà, se il piccolo borghese non è mai stato così vicino alla porta d’uscita della Storia, se ad alcuni questa rottura può essere sembrata repentina, in realtà il disastro covava da quasi un quarto di secolo. Ricordate – non sono passati neppure quarant’anni – i grandi progetti dell’era di Kennedy o di Johnson, di Pompidou o la «nuova società» del primo ministro francese Chaban-Delmas? La Francia, come tutto l’Occidente, sembrava progredire verso una società senza classi, in cui – salvo un 1 per cento di straricchi e un 10 per cento di indigenti – stava progressivamente emergendo un immenso gruppo centrale. Era un ideale che tradiva la speranza di un mondo piccolo borghese, abbastanza simpatico, più o meno in pace con se stesso. Quello che ritroviamo nei blm degli anni Settanta, testimoni di un’epoca critica ma ottimista, come nel blm La pendolare... I francesi ne sentono la mancanza, come testimonia il recente successo di Giù al Nord, esaltazione quasi caricaturale di un ideale piccolo borghese di fratellanza umana e professionale. Come appare superato questo sogno piccolo borghese! Che cosa è successo? Tutto è iniziato trent’anni fa, con il trionfo prima dei raider e degli yuppies, poi dei rich & famous e dei VIP. I commentatori non riuscivano a trovare parole surcienti per mettere in risalto le storie di successo del nuovo scenario: il mi- pntroduflpone ff racolo delle OPA, dell’effetto leva, dei bonus e dei premi astronomici. Una vera meraviglia. Purtroppo, è giunto il momento di fare i conti. E questo miracolo devastatore ha portato vantaggi solo a una piccola minoranza, che possiamo definire «superclasse». In queste alte sfere, sempre più separate dal resto della popolazione, agli ex potenti per denaro e lignaggio si sono aaancati i manager coccolati dalle grandi imprese (versione stock option e paracadute dorati), i famosi working rich. Loro sono sereni di fronte alla crisi: hanno messo al sicuro, al caldo, il loro denaro in conti offshore intestati a un trust o a una fiduciaria in un paradiso fiscale. Alcuni, per sfuggire al fisco, si sono persino trasformati in una nuova tipologia di emigrati, quelli fiscali, e hanno le stesse reazioni dei loro predecessori, quelli della crisi del 1792. Come il conte Artois e la duchessa di Polignac, si rifugiano a Londra o in Svizzera, ma anche in principati amici, come il Liechtenstein o Monaco. Tornati a essere gli unici soggetti della Storia, Christopher Lasch li definisce «rivoltosi» speciali: un’élite in rivolta contro il popolo2. Al contrario, i reietti dei ceti medi tremano. Non è che si ritroveranno sempre più vicini al «proletariato straccione», a quelle classi miserevoli dei «senza» (documenti, casa ecc.) che, parafrasando Hegel, sono ricaduti «al di fuori del processo dialettico vivente»? La crisi ha almeno un merito: obbliga il piccolo borghese ad abbandonare le sue illusioni e a uscire dal torpore. Gli è stato venduto un sistema formidabile, che avrebbe dovuto farlo sbocciare, lasciandosi alle h safiflasa lfi vlttefie iepcoasa spalle la mediocrità. È stato obbligato a svendere la maggior parte dei suoi sentimenti di solidarietà, delle sue tradizioni e del suo buonsenso, facendogli brillare davanti agli occhi il successo e la ricchezza... Gli è stato detto che doveva adattarsi al principio «tutto è mercato», ai fondi pensione e ai subprime; che il suo «modello» nazionale era una vergogna, che la sua difbdenza nei confronti della bnanza anglosassone era antiquata e che qualsiasi riforma sarebbe transitata dalla riabilitazione delle diseguaglianze, dalla cultura del rischio e della responsabilità3. Gli si è detto che era ora di farla bnita con quel timore «cattolico» (sic) nei confronti del dio denaro. Il futuro si giocava in borsa. Il piccolo borghese doveva cambiare. E se rimaneva stupefatto di fronte all’idea che l’economia venisse trasformata in un casinò – come ha detto il grande economista Maurice Allais –, veniva guardato dall’alto in basso e gli si rispondeva che era, come sempre, travolto dalla Storia. Poi è arrivata la crisi e il piccolo borghese si è ritrovato, assieme ai poveri, tra i perdenti di questo banchetto dei grandi probtti. Ma, a direrenza dei miserevoli, lui ci ha creduto a lungo. E così oggi si risveglia ancor più sbigottito, come dopo una lunga notte di bagordi. Com’è possibile che, durante questa lenta agonia, nessuno si sia veramente preso la briga di avvertirlo? La sorte del piccolo borghese non interessa a molti, si è detto. Il sociologo preferisce parlare di «ceti medi», gruppo informe che non ha sostanza e non è latore di messaggi. La critica mondana o rafnata condivide all’incirca le stesse vedute: nel suo brillante lavoro, introduflione ff La dictature de la petite bourgeoisie, Renaud Camus, uno che spara a zero su tutti e tutto, scrive che la piccola borghesia è «la classe che non può essere definita». Ma in fondo si tratta di una maniera abile di convincerci che tutto ciò che lui non ama è «piccolo borghese», dalla versione jet-set impersonificata da Berlusconi (strano definirlo piccolo borghese, considerato che è uno degli uomini più ricchi d’Europa) agli abitanti delle villette delle grandi periferie. Ed è proprio perché trascurata e disprezzata che la piccola borghesia è stata ingannata così facilmente. Sono lontani i tempi in cui – soprattutto con Balzac – era portatrice di valori umanitari, era una classe prudente, incarnata dal dottor Benassis, attenta a evitare gli eccessi per preservare il suo ambiente. A partire da Flaubert e poi da Nietzsche, il piccolo borghese diventa una creatura disprezzabile, prigioniera dei suoi limiti provinciali, su cui non soffia il grande vento del progresso... La morale del nuovo secolo inneggerà alla scienza, alla tecnica, al futuro, in netta rottura con il «gran bordello della Storia», come sosteneva Marinetti. L’uomo dell’avanguardia è chiaramente l’antitesi del piccolo borghese. E quest’ultimo farà suo il concetto fino ad arrivare a odiarsi. L’odio di sé Secondo François Furet, l’odio di sé è un tratto caratteristico della borghesia del XIX secolo4. Se è così, l’ha trasmesso alla piccola borghesia del XXI. È l’unica classe che non si considera tale e che svi- 8 sfffiflffsa lfi vlttefie iepcoasa luppa l’illusione dell’Altro. La borghesia del mondo degli abari sa che cos’è e, soprattutto, ciò che vuole. Anche il proletariato aveva una «coscienza di classe» e la forza che gli derivava dall’essere oppresso: era la classe messianica dell’antico pantheon comunista. L’operaio era orgoglioso della sua tuta blu e non era disposto a ridere di se stesso. Invece, il piccolo borghese non smette di cercare di evadere dalla sua realtà. E trascorre la maggior parte del tempo a immaginarsi parte della grande borghesia... Comunque sia, si guarda con indiberenza, persino con disprezzo, quando viene preso in giro. E il sistema cerca di confermargli questa utopia. Ah, l’utopia, un’altra grande trovata piccolo borghese (domandate a Charles Fourier, il piccolo impiegato francese di Besançon...). La grande astuzia della pubblicità è proprio incentrata su questo: «Perché io me lo merito» ci dice il volto sorridente della celebrità che pubblicizza il prodotto. «Se me lo merito» è perché io non sono come quella massa di persone che vedo la mattina e la sera in metropolitana. Io sono diverso, me lo garantisce la pubblicità... Peccato che anche tutti gli altri che viaggiano in metropolitana pensino esattamente lo stesso. Anche loro si sentono diversi. Come volevasi dimostrare. Fino alla crisi del 2008, aiutato dal suo snobismo, il piccolo borghese guardava piuttosto verso l’Alto. Chi non ha mai incontrato un grande «piccolo borghese», una rgura toccante, che legge riviste patinate, che smania per essere invitato a una battuta di caccia dal suo principale, a una cena di gala in un club introduflione ff privato (dove non si decide nulla, ma dove gli fanno credere di essere entrato nel sancta sanctorum), a un qualunque comitato di un circolo padronale rivestendo una qualche carica? Niente di più utile per trarne dei vantaggi. Sarà soddisfatto e diventerà il massimo difensore del sistema. La Fontaine ha dimenticato di dirci che «la rana che vuole essere più grossa del bue» è una garanzia per il regime. Non vi sarà difensore più strenuo delle sperimentazioni sociali. A partire da Reagan, figlio di un commesso viaggiatore scampato alla miseria grazie al New Deal di Roosevelt, il mondo è pieno di questi figli ingrati di postini e maestri di scuola che sono diventati i difensori più accaniti di un capitalismo devastatore. Soprattutto sulla stampa. Quando si ha a disposizione un paladino di questa portata, bisogna darsi da fare per metterlo in risalto. Il suo zelo è indubbio. Ne abbiamo visti molti coprirsi di ridicolo per difendere la generosità sociale di chi ha concesso i mutui subprime, affermare senza indugio che il capitalismo è «umanesimo» (un sistema di produzione che viene assurto al ruolo di filosofia!) o lamentarsi senza pudore dell’«inferno fiscale» che opprime i benestanti, proprio quando il governo francese cerca di lottare contro i paradisi fiscali, il vero buco nero della globalizzazione5. Saranno ancora loro a dare la caccia ai privilegi dei loro ex compagni – agli odiosi diritti del postino, alle entrate da nababbo dell’infermiera, agli intollerabili vantaggi di cui gode il pompiere e via discorrendo – dando così ragione ad Alphonse Allais, che sostiene: «Bisogna prendere il denaro là dove ce n’è, ovvero dai poveri visto che sono h0 sfiflsfial vfl tveeifli picoblsl più numerosi»6. La storia è ricca di esempi di questi «strumenti» idioti di un mondo che non è loro. Si racconta di un fabbricante di parrucche, al tempo del Regime del Terrore, che sognava di diventare marchese. Il suo desiderio di appartenere all’ancien régime era tale che accettò di scambiare i suoi abiti con quelli di un aristocratico inseguito dagli inviati del Comitato di salute pubblica. Salì al patibolo ebbro di gioia per essere riuscito, anche se solo per pochi istanti, a essere scambiato per un uomo di gran classe! Che dire oggi del piccolo borghese versione rich & famous che smania dal desiderio di frequentare i «VIP della tv» che incrocia a Saint-Tropez quando esce dal campeggio o che il suo capo gli orre l’occasione di incontrare durante il grande convegno annuale della società, cosa che – per inciso – gli fa dimenticare che per il momento non avrà alcun aumento di stipendio? Questo emulo di Mickael Vendetta, il blogger fenomeno dell’Internet francese, prima o poi riterrà intollerabile la pressione fscale cui sono sottoposte le star della Top 50 (l’indice di borsa della canzonetta). Pensate che esageri? Quando il grande Johnny (Hallyday) se n’è andato in esilio fscale dopo un eccesso di furore civico («Non me ne frega nulla. Semplicemente non ne posso più, come molti altri francesi, di pagare le tasse che ci impongono»), ha trovato un giovane apprendista contribuente della «Star Academy», un piccolo borghese della canzonetta ancora privo di reddito, che ha dichiarato che i suoi eroici compatrioti avevano tutte le ragioni di lamentarsi della pressione fscale che grava sugli artisti! Come sono toccanti (e pntroduflpone ffff utili) questi piccoletti che si mettono al servizio dei grandi! Ma non è forse nella nostra natura sentirci più sicuri prendendo le difese di coloro che ci dominano? Non sempre. Esiste anche il contrario. È più raro, bisogna ammetterlo, ma c’è anche il piccolo borghese che recita la parte del proletario o del militante di sinistra. Ne è un esempio il brillante Olivier Besancenot7, simpatico postino che abita nel centro di Parigi, modello di radical chic ben inserito ma che durante le ore di lavoro si trasforma in «proletario militante». Anche lui va alla televisione per spiegare la rivoluzione alle vecchie signore. È chiaro che funge da pungolo più che costituire una minaccia. Giochiamo a farci paura, ma è sempre e comunque il piccolo borghese a nascondersi sotto le sembianze cenciose di «dannato della terra». Meglio così, ma perché non ammetterlo? Valori piccolo borghesi? Non è un peccato che la piccola borghesia non si accetti per ciò che è? I suoi valori storici – nonostante siano stati straziati dalla propaganda pubblicitaria e dalla violenza consumerista – offrono spunti interessanti per questi tempi di crisi. Riflettiamo sulla condanna di Marx delle idee deanite «piccolo borghesi». È così che nel Manifesto del Partito Comunista8 il alosofo tedesco deanisce, con fare sprezzante, la critica umanista che Sismondi e i liberali moderati fanno del laissez-faire. È, a suo parere, la quintessenza di un ideale superato, «a un tempo reazionario e utopistico», che corrisponde al «campione di nozioni della piccola h2 sfiflsfial vfl tveeifli picoblsl borghesia e dei contadini». Lenin lo dernirà addirittura «romanticismo economico» e, detto da lui, non è sicuramente un complimento... I fondatori del socialismo «scientirco» preferiscono l’economia classica che ha il merito, secondo loro, di avere una superiorità teorica e astratta (è fuor di dubbio). Marx ammira il grande capitalismo, il suo dinamismo, il suo spirito distruttivo, il suo disprezzo per il passato. Ne tesse le lodi nel suo Discorso sul libero scambio del 1848 perché spera che l’ideale del capitalismo smisurato – l’economia-mondo per dirla alla Braudel – sconvolga le società, spazzi via famiglie, patrie, religioni... Sostenitore della mondializzazione ante litteram, spera di trarne vantaggio per il trionfo del comunismo (alla rne, è il capitalismo che arrafa tutto nel 1989)... Buono a sapersi: il marxismo condivide con il capitalismo quel materialismo che spinge entrambi a considerare lo stile di vita piccolo borghese – metodico, parsimonioso, «umanista» – un qualcosa di appartenente a una società arcaica, incarnazione dell’«idiozia della vita rurale», destinata, come sottolinea Marx con piacere, «a scomparire di fronte all’industria moderna». Ebbene, per non pochi aspetti, questi valori ridicolizzati da Marx e dalla borghesia capitalista non sono forse una delle risposte possibili alla crisi di fondo che si nasconde dietro alla crisi economica ed ecologica? Richiamano alla mente le abitudini e i codici etici delle antiche società rurali, che a lungo sono appartenuti anche alle aristocrazie e alle classi contadine, poi operaie. In breve, a tutte le categorie che hanno costruito le civiltà occidentali prima del pntroduflpone ff3 trionfo di quella che Charles Péguy definisce l’«immensa prostituzione del mondo moderno», ovvero il denaro. Questi valori, rinnovati e adattati allo spirito dei tempi dall’economista Ernst Friedrich Schumacher, autore del best seller Piccolo è bello9, nel 1973, aaondano le loro radici nella vecchia mentalità, soprattutto in Francia, nazione piccolo borghese per eccellenza. Nel nostro paese, ricorda Jacques Julliard su Le Figaro del 18 settembre 2008, vi è consanguineità tra i valori cristiani, aristocratici e del mondo operaio. Il cristianesimo predica la carità, l’aristocrazia l’onore, il socialismo la solidarietà: tutti valori antimonetari. Coloro che se ne sono fatti portatori non erano animati da un odio cieco verso il denaro, ma dal rifiuto di vederlo occupare un posto che non gli compete. È un modo corretto per sottolineare che questa mentalità – a prescindere dalla sua definizione contadina, operaia, aristocratica o piccolo borghese (nel senso marxista) – ha svolto un ruolo fondamentale nell’immaginario francese, un po’ come il Terzo Stato nel 1789! Il ruolo stabilizzante del piccolo borghese? Aggiungiamo all’attivo di questa piccola borghesia tanto denigrata (anche se è vero che ha in gran parte dimenticato i propri valori) una certa utilità politica. Senza scivolare nel patetico, bisogna con- z4 sflsafllv ts etiipsp cpobrvsv venire con Georg Simmel sul suo ruolo «stabilizzante». È anche una delle lezioni di Tocqueville. In fondo, esiste una sorta di legame impercettibile tra il piccolo borghese e la democrazia liberale. Quando il primo precipita, la situazione si fa critica. Non dimentichiamo che l’ultima volta che si è parlato di «panico dei ceti medi» è stato con geodor Geiger nel... 1932! Un anno prima che Hitler salisse al potere. Non si tratta di attribuire a una certa classe, come ai tempi d’oro del marxismo, un «ruolo messianico», ma di prendere coscienza della sua importanza storica. È ciò che hanno dimenticato gli allievi di Milton Friedman, i Chicago Boys, che continuano a confondere tasso di crescita e libertà. In un recente intervento (pur precedente alla crisi dei subprime, lo ammetto) alla facoltà di Scienze Politiche sul tema Che cos’ è il liberalismo economico?, un professore di Harvard ha potuto ancora sostenere, senza scioccare il pubblico, che «una democrazia più forte ritarda in maniera indefinita la crescita» (Les Echos, 12 maggio 2006, sic). Ecco a che cosa ci hanno portato trent’anni di predominio di idee che vengono definite neoliberali o ultraliberali, ma che sarebbe meglio chiamare, all’italiana, «liberiste»10. In efetti, bisogna distinguerle dal vero liberalismo, quello di Tocqueville o di Raymond Aron, che non ha nulla a che fare con questa storpiatura del darwinismo sociale! È stata l’applicazione ottusa e sistematica di queste idee liberiste a portarci alla situazione drammatica in cui i piccoli borghesi – ovvero la bntroduflbone ff5 maggior parte di noi – si trovano oggi. Perché dobbiamo confessarcelo: tutti noi (o quasi tutti) siamo dei piccoli borghesi. Nelle pagine che seguono vorrei raccontare la triste storia di come si è giunti prima a indebolire e poi a emarginare il nucleo centrale delle nostre democrazie. Tutto inizia in certe università americane, poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, dove c’è gente che cerca di giustificare le diseguaglianze sociali. Questo movimento permane durante gli anni di Reagan e della aatcher e quindi durante la globalizzazione promossa dai nuovi dirigenti delle organizzazioni internazionali (FMI e Banca Mondiale), obbligando addirittura paesi come la Francia ad adattarsi al grande vento anglosassone, fino ad arrivare al disastro mondiale odierno dei subprime in cui le élite globalizzate, per sostenere una forte crescita (e di conseguenza i bonus...) senza aumentare gli stipendi dei piccoli borghesi, aprono i rubinetti del credito a tutti. Finché non arriva il momento di pagare il conto: è la situazione in cui ci troviamo ora. Vediamo come ci siamo arrivati. Note 1. E.-J. Sieyès, Che cos’ è il Terzo Stato?, Giuffrè, Milano, 1993. 2. Christopher Lasch, La rivolta delle élite. Il tradimento della democrazia, Feltrinelli, Milano, 2001. 3. Uomini della finanza esclusi, visto che, nel settembre 2008, la famosa alea morale si è tradotta nel chiedere aiuto allo Stato (o, meglio, ai contribuenti) nel momento in cui le cose si sono messe male a Wall Street... 4. François Furet, Le passé d’une illusion, Robert Laffont/Calmann, Parigi, 1995. h6 sfiflsfial vfl tveeifli picoblsl 5. In proposito, va citato l’edircante editoriale di Les Echos del 22 ottobre 2008, il giorno successivo all’incontro dei paesi OCSE organizzato a Parigi dal primo ministro francese François Pillon, per lottare contro i paradisi rscali: l’editorialista, invece di ofrire il proprio sostegno all’iniziativa, preferisce denunciare l’«inferno rscale» cui sono sottoposti i capitali in Francia... La crisi rnanziaria non ha insegnato nulla. 6. Il libro di J. Cotta, Riches et presque décomplexés (Fayard, Parigi, 2008), riporta numerosi esempi sull’odio del parvenu (termine ormai desueto) che si prergge di mettere in riga i «piccoli». 7. Giovane uomo politico francese e principale esponente del Nouveau Parti Anticapitaliste (NdT). 8. Karl Marx, Friedrich Engels, Manifesto del Partito Comunista, Editori Riuniti, Roma, 1976, pp. 94 e ss. 9. E.F. Schumacher, Piccolo è bello, Mondadori, Milano, 1978. 10. Benedetto Croce, grande rlosofo liberale, distingue nettamente il liberalismo, rlosora per la libertà umana, dal «liberismo», dottrina strumentale e utilitarista che si basa sul principio «tutto è mercato». Non si può confondere il pensiero di Tocqueville con quello dei Chicago Boys di Milton Friedman; si veda J. De Saint Victor, «Libérisme contre libéralisme», in Y.-C. Zarka (a cura di), Critique des nouvelles servitures, PUF, Parigi, 2007, pp. 113 e ss.