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IL CAVALIERE E L'ARMATURA
DAL XI AL XV SECOLO
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Introduzione
L'Arazzo Di Bayeux
Arciere Normanno a Hastings
Cavaliere di Fine XII Secolo
1210 circa - Cavaliere Svevo
1250 - Peter De Dreoux
1260 - Gualtieri d'Astinberg
1289 - Corso Donati
1320 circa - Castruccio Castracane
1325 circa - Cavaliere dell'Italia centromeridionale
1360 circa - Amedeo VI di Savoia
XIV sec. - Jacopo Cavalli
1415 - Arciere Inglese
1450 circa - Cavaliere in armatura all'italiana
XV sec. - Cavaliere in armatura gotica
1500 circa - Fante veneziano
1500 circa - Archibugiere lanzichenecco
Se una notte d'inverno un soldatino...
Introduzione
Dall'epoca dei Carolingi in poi, in tutto il Sacro Romano Impero, iniziò una lenta trasformazione
nella cultura della guerra. Questa trasformazione è stata molto spesso attribuita all'introduzione
della staffa, innovazione attribuita da molti storici agli Avari, uno dei tanti Reitervolker (popoli a
cavallo) che premeva dall'est attratto dagli agi e dalle ricchezze offerte dall'Impero.
Ma tale novità, da sola, non sarebbe sufficiente a giustificare quella rivoluzione che più che tecnica
è da considerarsi sociale. Questo a giudicare dagli effetti che ne derivarono. Infatti la gerarchia
feudale che si andava stratificando era non soltanto imposta dalla corona, ma derivava dalle
esigenze maturate negli anni bui della invasioni barbariche. Così, la necessità di mantenere un
gruppo di guerrieri addestrati a difendere la popolazione produttiva dal pericolo, e quella del
Sovrano, di garantirsi l'esazione dei tributi e al tempo stesso un esercito che difendesse la corona
dagli invasori esterni e dai sudditi, si tradussero nel vassallaggio. Un regime socioeconomico con
cui l'Imperatore assegnava un territorio ad ogni guerriero che in cambio di fedeltà in guerra, ne
avrebbe amministrato sia la giustizia che i proventi. Potendo così egli stesso provvedere al proprio
armamento. Gli altri strati sociali avrebbero invece contribuito con il lavoro all'economia collettiva,
e quindi salvo casi eccezionali, non avrebbero dovuto abbandonare le terre ed il villaggio per
partecipare agli eventi bellici.
Si veniva così a formare un'elite aristocratica di guerrieri, i miles, in un mondo di inermi (rusticus),
o al più di pedes. È proprio questa distinzione in termini, a suggerire che alla fine del primo
millennio, si considerasse armato solo chi combattesse a cavallo. Distinzione tanto più forte in
termini economici, se si considera che all'epoca il costo del cavallo e dell'armamentario, era
confrontabile con quello "del patrimonio bovino di un intero villaggio". La letteratura cavalleresca,
le chanson, i sentimenti di fraternitas e le condizioni di status, esaltate per ovvi motivi di sangue,
fecero il resto, tramandandoci fino ad oggi la figura del chavaliere. Una figura che in tutte le lingue
occidentali, più che in italiano, è distinta anche nella nomenclatura contemporanea, dal semplice
uomo a cavallo (cavaliere). Come si evince infatti dai termini inglesi knight-horseman, dal tedesco
reiter- ritter, dallo spagnolo jinete-caballero, e dal francese cavalier-chevalier.
È intorno a questo guerriero ed ai soldatini da collezione che ne riproducono le sue trasformazioni
tipologiche, in particolare delle armature, che si impernia il nostro viaggio nel medioevo. È
opportuno chiarire che questo certamente non vuole essere un trattato di storia militare, ma
l'occasione per mostrare quanto e cosa ci può essere dietro un "ludico" collezionare, dipingere,
quando non scolpire, soldatini in piombo. Pertanto saranno bene accette segnalazioni, precisazioni
ed integrazioni, che potrete, anzi siete invitati, ad inviare alla mia mail indicata alla fine dell’articolo, al
fine di meglio integrare l'illustrazione dei modelli, e della nostra "arte".
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L'ARAZZO DI BAYEOUX
La nostra avventura inizia da uno straordinario reperto: l'arazzo di Bayeux. Un inestimabile
documento, custodito da secoli nella abbazia della città omonima, che, come nei fotogrammi di una
pellicola cinematografica lunga una cinquantina di metri, narra le vicende di quell'epica impresa dei
Normanni, che fu la battaglia di Hastings. Dalla traversata della Manica alla vittoria finale,
illustrandone il probabile armamento dei partecipanti.
Quello che si tenne ad Hastings il 14 ottobre 1066, fu uno degli scontri decisivi per il corso della
storia del mondo occidentale. A contendersi il campo erano le truppe fedeli a Harold, Re
d'Inghilterra, e quelle al seguito del Duca di Normandia, Guglielmo, in seguito detto appunto "Il
Conquistatore". La Battaglia di Hastings divenne il primo passo verso la conquista dell'Inghilterra
da parte dei Normanni. Infatti nella battaglia, caddero molti nobili anglosassoni, tra cui lo stesso
Harold, ed al loro posto si insediarono i vincitori di lingua francese. Nel corso della battaglia, gli
arcieri di Guglielmo giocarono un ruolo fondamentale insieme alla cavalleria. Quest'ultima, divenne
più celebre sia per il lignaggio dei suoi componenti sia per la nuova tecnica di assalto di cui si
avvaleva, basata sull'uso della lancia imbracciata sotto l'ascella.
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1066 – ARCIERE NORMANNO A HASTINGS
Il modello originale proposto (pittura e scultura dell'autore) riproduce uno degli arcieri al seguito
di Guglielmo.
Queste fila, erano costituite da uomini di umili origini, forse marinai che avevano seguito l'armata
in battaglia, il cui semplice abbigliamento, raramente era arricchito da un elmo o da un caschetto,
che si ritiene fosse di cuoio o in tessuto imbottito. Spesso non erano nemmeno armati di spada, ma
di un coltellaccio da caccia. Anche l'arco, che impiegarono con esiti micidiali, era in realtà un'arma
da caccia, economico ma preciso, spesso utilizzato anche nelle battaglie navali. Non si trattava
ancora di un arco lungo, ma secondo alcune fonti si ritiene che fosse in un sol pezzo (forse in acero
o quercia), e di un'altezza approssimativamente pari alla distanza tra la testa e le ginocchia. Il loro
abbigliamento era dunque basato su abiti civili, ma come tradizione vuole per gli uomini del nord,
seppure in tessuti grezzi, erano talvolta arricchiti da decorazioni più o meno colorate, aggiunte per
arricchire e personalizzare quello che probabilmente era il loro unico indumento.
Naturalmente nell'arazzo fu dato molto rilievo ai cavalieri, sia per la loro nobile origine, che per il
loro aspetto tipico. Questi erano armati con un usbergo che proteggeva quasi tutto il corpo, al di
sotto del quale vi era una veste o un'imbottitura per proteggere delle escursioni termiche e dalle
abrasioni, l'immancabile spada ed uno scudo della caratteristica forma a mandorla.
Altra protezione era costituita da un elmo conico o ad ogiva, che secondo alcuni era lavorato a
spicchi, secondo altri imbutito in un sol pezzo, e provvisto di una protezione nasale.
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CAVALIERE DI FINE XII SECOLO
Il soldatino qui raffigurato, scolpito dalle abili mani di Adriano Laruccia, e dipinto dall'autore,
presenta tutti gli elementi caratteristici che nel XI al XII secolo contraddistinguevano il miles di
tutta l'Europa Occidentale. Eccetto che per alcuni elementi, che come si dirà, mutarono nel corso di
questi anni, più nella forma che nella sostanza.
Il tipo presentato, sarebbe molto più emblematico se raffigurato a cavallo. Infatti ciò che rese
celebre e praticamente invincibile il cavaliere, fu il suo pesante armamento associato alle sue
cariche lanciate contro fanterie poco efficienti e disciplinate. Cariche condotte come si suole dire
"lancia in resta", ovvero con la lancia imbracciata sotto l'ascella, una tecnica che unita all'uso della
staffa ed a selle provviste di una sorta di schienale, puntava tutto sulla forza d'urto.
Ma più frequentemente lo scontro avveniva dunque frontalmente, tra due schiere di cavalieri, con
l'obbiettivo minimo di disarcionare l'avversario. Ed è proprio nella successiva fase del
combattimento a terra che si deve immaginare il cavaliere riprodotto. Il modello si presenta con un
usbergo, un'evoluzione della brunia, un giaccone di stoffa o di cuoio coperto da scaglie o anelli di
metallo che lo rinforzavano, cioè una maglia di ferro uniti tra loro e ribattuti. Questa cotta di maglia
si presentava, nell'XI secolo, lunga fino al polpaccio, misura che nei secoli successivi si sarebbe via
via accorciata fino all'inguine, ma completando le difese con gambali pure in maglia di ferro, guanti
e cappuccio. Come già qui raffigurato.
Ovviamente è credibile, dato l'esorbitante costo, che nelle diverse epoche fossero
contemporaneamente presenti diversi tipi di armi difensive ed offensive. Al di sotto di tali
protezione le fonti iconografiche ci mostrano una lunga camicia che arrivava ai talloni provvista di
spaccature che consentissero di montare. Associata alla camicia vi sarà spesso un'imbottita, o
gambeson, avente la funzione di proteggere il guerriero sia dall'abrasione con gli anelli dell'usbergo,
sia dagli sbalzi termici che erano esaltati dal metallo. L'elmo inizialmente conico, durante il XII
secolo si modificò prima accentuandone la punta, poi addirittura arrotondandosi fino a divenire una
cervelliera, pur sempre provvista di protezione nasale.
A completare l'armamento del cavaliere, c'erano una lunga lancia spesso fornita di pennoncello e il
caratteristico lungo scudo a mandorla. Quest'ultimo inizialmente era ancora rinforzato dall'umbone
centrale, una reminiscenza degli scudi gotici, e forse romani, che negli anni scomparì. La sua forma
caratteristica era particolarmente efficiente nella protezione del lato sinistro del cavaliere durante le
cariche, e ed era sostenuto anche sulle spalle da una lunga cinghia. Non è mai stato chiarito se lo
scudo fosse costituito da più tavole affiancate e rinforzate in più strati, in uniche tavole in
multistrato; mentre è acclarato che fossero decorati in sgargianti colori, da disegni geometrici o
motivi simbolici (draghi a due zampe con code a spirale, o come nel caso dei crociati da croci).
Immancabile era la spada, lunga più di un metro, e forgiata in starti diversi che ne aumentassero la
durezza e la resilienza. Era il simbolo stesso del cavaliere, che per mezzo di essa era nominato, e
forse anche per la caratteristica forma cruciforme che assumeva con l'impugnatura. Il pomo, l'elsa e
gli speroni, via via che lo status cavalleresco veniva riconosciuto erano obbligatoriamente di colore
dorato, e per questo simbolo proprio del cavaliere. Così come pure le cinture, che nel tempo per
moda e per necessità si caricarono di decorazioni e di simbolismi.
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1210 circa. – CAVALIERE SVEVO
Nello scorcio fra XII e XIII secolo, forse in seguito alle crociate ed alle influenze che ne
conseguirono dall'Oriente, l'usbergo iniziava ad accorciarsi ed a coprirsi della sopravveste o cotta
d'arme, indumento leggero e talvolta impreziosito da ricami o damascature. Lo scudo andò
rimpicciolendosi e recando degli emblemi araldici, abbandonando la forma a mandorla e assumendo
quella triangolare, che consentiva maggior agilità.
Tuttavia le protezioni non erano diminuite, ad esempio l'elmo andò aumentando la protezione del
viso, prima ampliando il nasale a mò di T rovesciata, poi allargandosi in una maschera con feritoie
che consentissero la vista e l'areazione, per divenire completamente chiusi.
È questo stato di transizione che si vuole documentare con la panoplia di questo figurino che
riproduce un cavaliere al seguito di Federico II di Svevia, che a cavallo del 1200, nelle vesti di
imperatore del Sacro Romano Impero, dominava gran parte dell'Italia meridionale. Il soldatino
prodotto dalla ditta Berruto, reca appunto l'insegna imperiale, ed un elmo con maschera spesso
associato ai guerrieri di lingua tedesca. L'elmo veniva portato al di sopra di un cappuccio in maglia
di ferro (camaglio) a sua volta indossato al di sopra di un caschetto di cuoio o cotone imbottito.
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1250 – PETER DE DREUX
Durante il periodo delle crociate affluirono in Terra Santa e negli stati d'oltre mare (Outre Mer)
moltissimi cavalieri. Si trattava prevalentemente di giovani nobili diseredati in cerca di gloria
(l'unico erede della casata era il primogenito), con la speranza di guadagnarsi un titolo combattendo
al servizio di Dio. Uno di questi fu Peter De Dreoux, che mori in seguito alle ferite riportate nella
battaglia di Al Mansoura, al seguito della Crociata di San Luigi.
Egli è raffigurato in alcune fonti armato con una cotta di maglia di ferro completa di gambali,
un'imbottita di cuoio bollito e rinforzata con ginocchiere di ferro, un elmo tipo chapel-de-fer,
vestito con tunica azzurra e sottoveste gialla frangiata alle maniche. Il soldatino è ottenuto per
elaborazione di un pezzo della ditta Elite, scolpito da R.G. La Torre. L'araldica dello scudo è stata
tratta dall'emblema del pomo della spada ritrovato recentemente in un mercato arabo, ed è costituita
da uno scaccato di azzurro e di giallo con il primo quarto caricato d'ermellino.
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1260 – GUALTIERI D'ASTINBERGH
Il modello di serie scolpito da A. Laruccia per la Andrea, ritrae un cavaliere della seconda metà del
XIII secolo, con elmo chiuso, camaglio e cotta in maglia di ferro, sopravveste recante l'effigie
araldica, spada ed ascia. Lo scudo è già di dimensioni ridotte rispetto a quelli a mandorla di epoca
normanna e tardonormanna, ed è portato con una tracolla dietro le spalle. Rappresenta Gualtieri
d'Astinberg, il cavaliere tedesco che secondo le cronache del Villani, fu il primo feridore della
Cavalleria Senese nella battaglia di Montaperti. Prima dell'inizio del combattimento, Arigho
D'Astimbergh, zio del Gualtieri, rivendicò ai Capitani ghibellini il tradizionale privilegio concesso
ormai da tempo alla sua famiglia, di infliggere il primo colpo agli avversari del Sacro Romano
Impero. Si ritenne così di mantenere la tradizione, ma non appena fu fatta concessione, Gualtieri
inginocchiato pregò lo zio di concedergli tale "onore". E così fu.
Nell'attesa della battaglia
URLO FINALE
Alle prime luci la nebbia è ancora fitta,
tanto che la si può toccare.
Standoci dentro i fanti vestono i ferri e formano le fila, senza contarsi.
Ognuno dietro il suo stendardo a spalla dei compagni,
in silenzio, riascoltando le voci di iersera,
trascorsa a cerar gli scudi, tra il crepitio dei fuochi,
gli odori del vino, del cuoio conciato,
e del grasso ch'unge le armature.
L'attesa s'allunga,
gli usberghi ondeggiano e ciarlano,
mentre la nebbia si riduce a fili di ragnatele
che imprigionano le gambe e i pensieri dei guerrieri.
Così, mentre si dissolve, accarezza gli schinieri, sospesa dall'erba bagnata.
Gli uomino si cercano negli occhi:
chi ha paura? Chi dà coraggio?
I più scoperti dalla luce coi Rosari in mano
A contar preghiere alla Madonna.
Ancora i drappi fermi pendono
Come le braccia lungo i fianchi.
Al grido dei Baroni, s'alzano gli scudi a rispondere.
Riecheggia il nemico, or si vede pure.
Altre grida a scacciar paura e diavoli.
Finalmente muovono gli stendardi a chieder battaglia.
Gli ultimi sguardi.
Chi ha l'elmo lo calza, e si nasconde.
I respiri aumentano.
In fondo al pendio la cavalleria muove,
in ordine, prima della carica,
poi gli squilli di trombe,
il rumore degli zoccoli s'avvicina, aaumenta,
ora al galoppo,
salgono,
lancia in resta pronti all'urto,
i fanti puntano le lance,
ancora grida, e cavalli, e ferri, e paura,
son vicini, le aste tese, caricate del peso,
e ancora urla,
i cavalli tuonano,
odori, sudore e ancora grida,
urla e urla ancora,
è il momento , è l'impatto,
e poi ancora un urlo,
... finale.
In realtà è addirittura dubbia la sua reale esistenza, nonostante sia
rappresentato in diverse iconografie dell'epoca, che lo ritraggono recante
le insegne dei Ghibellini, la Wouivre, femmina del drago alato, verde, in
campo rosso. Egli rappresenta tuttavia l'importante ruolo svolto dalla
cavalleria senese, sia nella carica iniziale contro i fanti fiorentini, sia nella
risolutiva carica della retroguardia.
Ma non solo, il soldatino e l'evento in se, ci consente ricorda delle
trasformazioni anche sociali e del modo di guerreggiare che avvennero nel
XIII secolo. Le guerre infatti erano relativamente brevi, stagionali al massimo, e in base alla
fraternitas che univa i cavalieri si ritiene fossero non molto cruente, e questo appunto sino a quando
il vassus prestasse l'auxilium militare al suo senior. Servizio che era raramente superiore in durata ai
quaranta giorni. Ma quando fu addirittura consentito di esentarsi dal servizio pagando lo scutagium
si aprì la via del guerriero di professione a pagamento, il mercenario, che al soldo (da cui il termine
soldato) di questo o quel signore, o dell'altro comune, combattesse per la durata della campagna.
Campagna che, nella prassi più frequente, si riduceva a scorrerie, saccheggi in campo avverso e
qualche scaramuccia. Prassi che consentiva di prolungare l'ingaggio diminuendo i rischi,
salvaguardando la merce offerta al Signore dal Capitano di Ventura di turno. E fu proprio l'Italia il
terreno più fertile di questa evoluzione, sia per ragioni legate al numero delle tante Città Stato, sia
per la crescente popolazione borghese che grazie alle fortune accumulate con gli scambi con
l'Oriente era in grado di pagarsi la "cavallata". Termine appunto associato al tipo di azione
guerresca condotta da una "lancia", o gruppo di cavalieri, a danno del contado avverso. E proprio in
Italia si scontravano, più per ragioni economiche che altro, le principali fazioni: Ghibelline, tra cui
Siena, parteggiante per l'Impero, e Guelfa, tra cui Firenze, per il Papato.
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1289 – CORSO DONATI
È nel panorama delle guerre tra comuni, che si inserisce uno degli scontri più discussi della cultura
medioevale toscana, quello di Campaldino, ricordato anche da Dante Alighieri nella "Commedia".
Corso Donati, era il Capitano di Guerra della città di Pistoia all'epoca della Battaglia, città guelfa,
alleata di Firenze contro la ghibellina Siena. Per questo il cavallo da lui montato, è raffigurato con
la gualdrappa nei colori della città, scaccato di bianco e di rosso, mentre i suoi colori, troncato di
bianco e di rosso, sono portati sullo scudo e sulla veste, come di consueto all'epoca, sia avanti che
sul retro, proprio perché la funzione dell'araldica era quella di rendere riconoscibili i cavalieri
durante le mischie della battaglia. Infatti negli scontri dell'epoca era d'uso calzare anche un elmo
chiuso, di tipo "pentolare" come nel caso, che riduceva ulteriormente la possibilità di essere
riconosciuti anche da vicino. Nelle cronache del tempo è descritto "bellissimo nel corpo"…. "un
cavaliere delle sembianze di Catellina Romano, ma più crudele di questo"…
Da queste note se ne deduce che il ruolo a lui attribuito di Capitano della cavalleria posta in riserva
"di costa", non gli fosse perfettamente calzante. Così contravvenendo all'ordine di proteggere la
ritirata, lanciò i suoi cavalieri contro i fanti aretini intenti a vibrare il colpo finale alle fila guelfe,
costringendoli alla rotta e ribaltando così un esito che pareva ormai segnato.
Non è un caso che si sottolinei la questione araldica. Infatti durante il XIII secolo, questa usanza,
soddisfaceva all'esigenza già manifestatasi precedentemente di poter riconoscere i combattenti nella
mischia. Vieppiù quando l'elmo ne nascondeva completamente il volto. L'araldica assunse valori
simbolici sempre più importanti e complessi con il progredire delle dinastie, e i simboli elementari
assunti inizialmente basati su disegni geometrici elementari o animali più o meno mitologici, si
complicarono in intrecci narranti non solo le gesta del cavaliere, ma anche la sua origine e le unioni
matrimoniali.
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1320 circa – CASTRUCCIO CASTRACANE
Castruccio Castracane degli Antelminelli, nato nel 1281 e morto nel 1328, fu Vicario Imperiale e
Duca di Lucca dal 1316 alla morte. Fu un Capitano di Ventura di straordinaria fierezza, è ricordato
nell'inferno di Dante, tra i più pericolosi avversari di Firenze, e per aver imperversato mettendo a
ferro e fuoco gran parte della Valle dell'Arno. Fu Guelfo Bianco e tenne sotto scacco Firenze per
diversi mesi, in un assedio serrato in una campagna che coinvolse città quali Prato, Calenzano e
Pisa. La sua lapide è conservata presso S.Pietro in Vincoli a Roma.
All'epoca, l'arme dei Castracane annoverata "troncato d'azzurro e d'argento, il primo al levriero
nascente del secondo, linguato e collarinato di rosso". Il modello è una ricostruzione ipotizzata sulla
base delle armature del lignaggio del Castruccio, portate sul finire degli anni venti del XIV secolo.
In particolare è ottenuta mediando dalla lastra terragna di suo figlio Giovanni, conservata in
S.Francesco a Pisa, ed i bozzetti del volume "Guerre e Assoldati in Toscana, 1260-1364 (Ed. Museo
Stibbert di Firenze), ed altre indicazioni suggerite da Marco Giuliani, studioso del medioevo
toscano. Dall'inizio del XIV secolo la cotta di maglia si era andata rinforzando di piastre sagornate
di cuoio e poi di metallo, particolarmente nei punti più critici dando luogo a gorgiere, corazze,
bracciali, gambiere, ginocchiere, gomitiere o cubitiere. Ampliandosi sempre più fino quando nel
Quattrocento, il cavaliere sarebbe stato sempre più coperto con corazze, bracciali, spallacci, ecc
Per la carenza di materie prime, in particolare in Italia, le protezioni degli armati venivano spesso
ottenuti con del cuoio bollito. Il cuoio così indurito, poteva essere decorato e colorato in diversi
modi ed ulteriormente protetto con cera. Il tutto veniva al solito integrato con usberghi di maglia di
ferro di svariata lunghezza, gambali imbottiti, ginocchiere e manopole in cuoio, rinforzato con
elementi metallici. L'armamento veniva completato con daga, spada dritta a una mano o una mano e
mezza, e talvolta anche come simbolo di comando alcuni utilizzavano la mazza d'urto. L'elmo
ipotizzato, una barbuta con camaglio pendente e protezione nasale, non era infrequente e denota le
influenze che tramite la "Marinara Pisa", la Toscana riceveva dalle popolazioni arabe. Il modello
proposto, mostra una sopravveste a teli diseguali, spallacci di cuoio cotto, rotelline guardacubito,
ginocchiere in cuoio bollito e rinforzato, come pure per avambraccio e parastinchi. Il cappuccio
portato come copricapo poteva fungere da imbottitura al di sotto dell'elmo.
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1325 circa - CAVALIERE DELL'ITALIA CENTROMERIDIONALE
Il soldatino ottenuto dall'autore per trasformazione di un pezzo di serie
scolpito da Adriano Laruccia (Pegaso) raffigura un cavaliere nell'armatura
tipica italiana del XIV secolo, documentante le molte trasformazioni in atto
nella tecnologia militare del periodo. Corazza, spallacci, cannoni, schinieri ed
altre protezioni erano in cuoio bollito e decorato. L'elmo in particolare, è
antesignano delle celate movibili. Si tratta di un bascinetto con camaglio
integrato da una visiera alzabile, guarnito con un cimiero a stella. Esso è
ispirato ad una pietra tombale conservata presso la Cattedrale di Salerno
(epoca angioina) e l'effigie araldica è tratta da alcuni affreschi conservati nelle
sale del Comune di Siena, ed incertamente attribuita ad un avventuriero o
mercenaria di probabile origine Campana.
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1360 circa. – AMEDEO VI DI SAVOIA DETTO IL "CONTE VERDE"
La miniatura raffigurata, è una trasformazione riproducente una probabile tenuta indossata dal
"Conte Verde" durante una delle sue imprese. Egli infatti partecipò sia alla guerra dei cento anni, sia
a molteplici tornei. Per motivi non certi, è noto che Amedeo VI fosse particolarmente affezionato al
colore verde, e nonostante la casata, che presumendo essere imparentata con i duchi del Sacro
Romano Impero, avesse per emblema un'aquila nera in campo oro, detto Savoia antico, e nonostante
la famiglia fosse già stata insignita dal Potere Pontificio della croce bianca in campo rosso, (Savoia
moderno) per aver partecipato alle crociate, egli amava vestire il verde. È quindi così ipotizzata la
sua tenuta.
Dato il periodo di transizione, che dalla cotta di maglia completa del XII secolo andava verso la
corazzatura metallica completa del XV secolo, è probabile che l'armatura consistesse in una maglia
di ferro su imbottita, cannoni metallici sugli avambracci, oppure in cuoio bollito, mentre schinieri,
ginocchiere e calzari potevano già essere metallici. Il bascinetto con camaglio pendente sulle spalle
completavano quasi certamente la protezione per il capo.
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XIV sec. – JACOPO CAVALLI
Come detto negli ultimi tre secoli del medioevo, l'Italia era continuamente pervasa da guerre tra le
diverse città stato in cui era divisa. Conseguentemente, per molti uomini l'arte della guerra era da
considerarsi una professione, per la quale giovani di molte famiglie nobili, venivano addestrati ed
educati. In questo clima si misero in luce molti condottieri , mercenari e nobili cavalieri. Tra questi
viene segnalato in diversi scontri, al servizio della Serenissima, il giovane Jacopo della famiglia De'
Cavalli.
La miniatura è ottenuta per elaborazione e trasformazione di un pezzo Pegaso, e riproduce il
cavaliere come rappresentato in un dipinto conservato presso il Palazzo Ducale di Venezia. Questi
indossa una cotta di maglia al di sotto della veste araldica, bracciali a piastre, gambali in cuoio
conciato e colorato rinforzato con chiodature. L'armamento, completato da ginocchiere e schinieri
in ferro, è caratteristico di molti nobili mercenari dell'epoca presenti in Italia. Infatti dopo i primi
tedeschi, seguirono avventurieri di diverse origini, particolarmente durante i periodi di tregua della
guerra dei cent'anni, durante i quali molti cavalieri rimanevano "disoccupati" e recuperavano
mettendosi al servizio dei casati italiani. Uno per tutti Jhonn Hawcksn noto a firenze come Giovanni
Acuto. Particolare accenno merita l'elmo, sormontato da un cimiero raffigurante una testa di
cavallo, che è soltanto un esempio delle variegate forge che i copricapi potevano assumere nelle
occasioni di rappresentanza come feste e tornei. Caratteristica era in Italia l'usanza dell'incatenatura
delle armi da offesa al petto. Le armi di Jacopo, come intuibile erano un cavallo bianco rampante in
campo rosso.
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1415 – ARCIERE INGLESE AD AGINCOURT
Il 25 ottobre 1415, in uno degli scontri più famosi della Guerra Dei Cento Anni, l'armata inglese di
Enrico V sconfisse i Francesi, che secondo le cronache del tempo era superiore in numero, per
almeno il triplo. I nobili di Francia nell'occasione, condussero un attacco scriteriato nei confronti
della fanteria inglese, che sfruttò al meglio i vantaggi di un terreno reso molle dalla pioggia e
dell'arco lungo. Nonostante l'esito della prima carica di cavalleria, in preda alla foga ed all'ardore, i
francesi si lanciarono in un secondo attacco, investendo i compagni in ritirata o feriti, costringendo
inoltre gli inglesi, per poter riprendere la pugna, ad uccidere i cavalieri prigionieri, nonostante il
riscatto ricavabile. I principali artefici della vittoria furono proprio gli arcieri, che come già
cinquant'anni prima a Crecy e poi a Poitieres, si distinsero nel combattimento corpo a corpo, per
l'ardore e la fedeltà al loro Re, ma principalmente risultando devastanti nel tiro a distanza, grazie
alla pioggia di frecce che lasciavano ricadere sulla cavalleria in avanzata. Il loro abbigliamento, che
peraltro non era molto diverso da quello dei fanti di tutta Europa, era povero e molto spesso il
meglio delle protezioni del corpo potevano consistere in un corsetto di cuoio. Deposto l'arco,
combattevano con mezze spade, mazze, pugnali, scuri ed altre armi più o meno improprie, derivanti
da attrezzi di lavoro dei campi.
L'elmo poteva essere una sorta di bascinetto, una cervelliera o un semplice caschetto di cuoio, altri
fanti o balestrieri potevano portare, non avendone intralcio nel tiro dell'arco, un "Chapel de fer", un
cappello metallico a falde larghe. Vestivano brache a due gambali separati, camicia, ed una casacca
che nel caso di Agincourt, recava il simbolo distintivo dell'Inghilterra, la Croce di S. Giorgio. Tale
pezzo ottenuto per elaborazione di un pezzo Soldier, può essere preso ad emblema dell'inizio della
decadenza della cavalleria che, pur avendo sempre pagato tributo agli arcieri ed ai balestrieri,
iniziava a segnare il passo contro le fanterie più disciplinate e meglio organizzate che in passato.
Nell'occasione di Agincourt gli Inglesi ebbero la meglio in virtù della capacità anche dei cavalieri di
combattere adeguandosi alle esigenze della fanteria, la quale agli ordini del Gran Maestro degli
Arcieri sir Thomas Erpingham, si asserragliò dietro siepi di palizzate infisse nel terreno attendendo
la carica francese.
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1450 circa - CAVALIERE IN ARMATURA ALL'ITALIANA
Il modello di serie prodotto dall'Andrea, si è facilmente prestato alla tecnica della lucidatura del
metallo che restituisce l'effetto lucente dell'armatura, particolarmente realistico. Il soldatino
testimonia fedelmente una tipica armatura all'italiana del XV secolo. Le armerie italiane, avevano
raggiunto pressoché la perfezione, e producendo su commissione di molti principi e nobili
esportarono in tutto l'occidente. Armature dei "Missaglia" sono state ritrovate in tutta Europa. Gli
artigiani del tempo erano riusciti a realizzare elementi di tale perfezione, che pur ricoprendo
pressoché totalmente il corpo, consentivano tutti i movimenti, e nonostante il peso, che raggiungeva
i 30-50 Kg, si poteva montare a cavallo e combattere. Caratteristico dell'iconografia dei manufatti
italiani erano l'elmo cosiddetto a becco di passero, ovvero un casco a più flange provvisto di una
visiera movibile con la possibilità di fissaggio in diverse posizioni, sormontato da cimieri piumati di
molteplici fogge e colori. Talvolta la corazza era guarnita da una veste araldica del casato del
cavaliere. Al di sotto dell'armatura vera e proprie, guarnita di spallacci e rotelle per parare colpi
diretti anche in luoghi accessibili in seguito a particolari movimenti, la protezione si completava
con maglie di ferro e imbottite.
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XV sec. - CAVALIERE IN ARMATURA GOTICA
Il modello di serie prodotto dalla Pegaso, è stato ridipinto nei colori araldici dei Castelbarco, una
nobile famiglia di Trento. È probabile che le zone del trentino come documentato per quelle del
Tirolo, fossero influenzate dalle mode tedesche. Per questo motivo è stato scelta la rappresentazione
con armatura nel così detto stile gotico. Si tratta di un'armatura a piastra in voga nell'Europa del
Nord, con finiture accentuate e spigolose, provviste di elmi con visiera mobile e spioventi larghi.
Ciononostante molte di queste armature erano di produzione brianzola.
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1500 circa – FANTE VENEZIANO
Il figurino raffigurato, è un autocostruito ispirato a diversi dipinti del Carpaccio. Rappresenta un
tipico fante del periodo a cavallo tra il XV ed il XVI sec. Questo è protetto sul corpo da una
brigantina, un giubbotto di cuoio conciato e colorato nei cui strati di imbottitura erano inserite delle
piastre metalliche di rinforzo, fissate al corsetto con delle borchie. L'elmo, una barbuta all'italiana
con protezione nasale, è caratterizzato dalla decorazione di un cercine ed una piuma, tracce tipiche
della contaminazione culturale assorbita dalla Serenissima durante tutto il medioevo ed il
rinascimento, in seguito ai continui scambi con il medio oriente. L'armatura difensiva, è completata
da una maglia di ferro di comode misure, sempre di influenza orientale, delle manopole a piastre, e
da schinieri in metallo a due embrici fissati da fibbie di cuoio al di sopra delle brache di tela. Queste
peraltro, di foggia e colorazione tipicamente italiana. L'armamento offensivo è infine costituito da
spada dritta, e da un'alabarda, con manico misto in acciaio e legno chiodati.
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1500 circa – ARCHIBUGIERE LANZICHENECCO
Nel modello della EMI-Miles, viene riassunta la fine di un'era. Verso la fine del XV secolo l'Italia
settentrionale e l'Europa centrale, vennero sconvolte da numerose guerre che videro prevalere le
fanterie svizzere o tedesche. In particolare questo impugna ed osserva fiero, il trofeo di guerra
guadagnatosi in uno scontro contro i Cavalieri del Toson D'Oro, l'ordine cavalleresco istituito da
Filippo il Buono. Per questa ragione e per la presenza dell'archibugio, una delle prime armi a fuoco
portatili (a miccia), il figurino rappresenta la fine della Cavalleria, così come romanticamente
intesa: un modo di vivere, di essere e di combattere.
I "Lanzi", come tradizione vuole, vestivano colori sgargianti ornati di fronzoli e drappi, in cui erano
ritagliate le giubbe, le camice ed i pantaloni. I calzettoni, pure variopinti erano tenuti da un nastro, il
cappello qui in cuoio, era usualmente ornato di piume sgargianti. Sembrerebbe che il loro modo di
vestire tragga origine proprio dal loro carattere, rozzo e crudele. Infatti, erano spesso contadini
provenienti dai "Landes" della Germania Meridionale, e per il loro mantenimento erano spesso
dediti al saccheggio. In tali occasioni venivano in possesso di tessuti preziosi che reimpiegavano
alla meglio, facendone nel tempo un costume tradizionale il tempo. Erano sempre armati di una
spada che molte volte usavano come picche, ed infatti spesso erano provviste di manico a due mani.
Il corsetto era spesso di cuoio ma non mancavano casi di corazzine metalliche, come in questo caso.
I Lanzichenecchi, abili nell'uso della picca e dell'alabarda, furono tra i primi ad introdurre tra le fila,
o meglio tra le "maniche", veri e propri corpi di archibugieri. Questi caricavano l'arma con polveri
tenute in una fiaschetta portata a tracolla. L'accendevano per mezzo di una miccia che portavano
sovente stretta in vita, come una cinta. L'imprecisione del fuoco, la lentezza di ricarica e la
pericolosità per gli stessi utilizzatori, fece sì che in principio l'archibugio fosse relegato a spaventare
la prima carica di cavalleria. Per la prerogativa di colpire l'avversario a distanza, fu, come già prima
per la balestra, un'arma disprezzata per molto tempo da nobili e cavalieri, e l'uso venne così ridotto
ai soldati di linea per molto tempo, prima di venire utilizzata in massa, e soprattutto anche dalla
cavalleria.
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Articolo di Stefano Castracane
liberamente tratto dal sito: http://users.erols.com/sabatinr/mempages.htm