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(12) ALIAS 2 AGOSTO 2014 di FRANKIE MANNING E CYNTHIA R. MILLMAN* A volte parlo del Savoy come fosse l’unica sala da ballo di Harlem. Non lo era. Harlem era un luogo unico negli anni Venti e Trenta. C’era una sala da ballo praticamente a ogni angolo del quartiere, con una big band che suonava per i ballerini: il Renaissance, l’Alhambra, il Dunbar Ballroom, l’Audubon Ballroom, il Rockland Palace (prima famoso come Manhattan Casino) e il Golden Gate. C’erano anche moltissimi night-club, ognuno dei quali aveva una band e una pista da ballo, sebbene io fossi ai tempi troppo giovane per frequentare quei posti. Erano gli anni della Depressione (il che non faceva grande differenza per la mia famiglia, visto che eravamo poveri comunque) e il ballo era un vero e proprio sfogo per la gente, perché non c’era molto altro che si potesse fare. Stavamo tutti ad Harlem, ma c’erano posti dove andare a passare del tempo ogni sera della settimana. Andare a ballare diventò la nostra vita sociale. Quando si finiva in chiesa la domenica, di solito portavo la mia ragazza a uno show di vaudeville, dove i posti in galleria costavano 25 centesimi. Dopo, prendevamo un ice-cream soda in gelateria e poi si andava al Savoy (entrare costava 25 centesimi) e si ballava con due band dal vivo dalle 9 di sera, quando apriva, alle 3 del mattino. L’intera giornata ci costava un dollaro e cinquanta e ci divertivamo un sacco. Anche se eravamo poveri, ci vestivamo sempre bene. Ad Harlem la gente si sentiva più rispettata vestendosi meglio. I ragazzi pensavano che, mostrandosi più curati, avrebbero avuto più possibilità che qualcuna ballasse con loro. Io avevo solo due abiti, ma li indossavo sempre con camicia, cravatta e belle scarpe, non a due colori, semplicemente nere o marroni. Era questa la moda all’epoca, e tutti si vestivano così. Il Savoy Ballroom ha aperto nel 1926, e fin dall’apertura è diventato subito uno dei posti di spicco di Harlem. Il proprietario era Moe Gale, un bianco, ma il manager era Charles Buchanan, nero. Gale non si vedeva in giro spesso, perché gestiva un’agenzia di prenotazioni che assumeva orchestre per il Savoy, fissava date per band individuali nei teatri e nei night-club e metteva insieme gruppi di artisti per show itineranti. Alla fine degli anni Trenta ha aperto anche il Golden Gate Ballroom, a due isolati di distanza, ma non è stato un successo. Se Gale si faceva vedere al Savoy non era un grande avvenimento: per noi era solo l’ennesima persona che non sapeva ballare. Buchanan, che era il vero uomo dietro il Savoy e gestiva anche il Golden Gate, a sua volta non sapeva ballare. A dirla tutta, con Gale era quasi socio. Ho letto o sentito dire da qualche parte che alla fine è diventato proprietario di una quota della sala da ballo. E infatti l’impressione era questa, perché il Savoy era la sua creatura. Sapeva tutto di ogni singola persona che lavorava lì, dalle donne delle pulizie ai buttafuori, ai musicisti sul palco. Tutti i lavoratori erano tenuti a rispondere a lui. Insisteva che le hostess fossero carine e si vestissero bene e penso che fosse una sua regola quella che prevedeva che non potessero uscire con i clienti. Anche se lo facevano, comunque non potevano lasciare la sala da ballo con loro. Buchanan faceva tutto quello che serviva per gestire il Savoy. Si occupava delle paghe, faceva il maestro di cerimonia e a volte assumeva le band. Si assicurava personalmente che fosse un posto rispettabile di cui la gente desiderasse essere cliente abituale, a fine giornata o dopo una settimana di lavoro. Le risse non erano permesse. Se ne iniziava una, arrivavano subito i buttafuori a mettere ordine. Ovviamente, poi, se c’era qualcuno in pista che tirava calci alla gente, i Lindy hopper lo circondavano e glieli restituivano. Buchanan era una persona piacevole, e sapeva anche essere divertente, ma principalmente era tutto affari e pretendeva rispetto. Lo conoscevo bene, ma non posso dire che fossimo amici. I musicisti del Sud e di tutto il paese venivano nella Grande Mela, ad Harlem, perché lì c’erano moltissimi posti per loro per lavorare. Ogni direttore di orchestra voleva suonare al Savoy perché si sapeva che, se lì eri in grado di tenere in pista la gente, allora voleva dire che ti eri guadagnato una reputazione. Ogni orchestra doveva tenere la pista sempre affollata. Se nessuno si alzava a ballare, voleva dire che la band non andava bene e non sarebbe stata sulla piazza a lungo. Grandi nomi come Duke Ellington, Cab Calloway, Count Basie, o Jimmie Lunceford suonavano al Savoy solo in occasioni speciali, perché la paga non era molto alta. Di solito venivano solo una sera, anche se a volte Basie restava in cartellone per un’intera settimana. Le band residenti, inclusi Erskine Hawkins, Lucky Millinder, Teddy Hill, i Savoy Sultans, Buddy Johnson, Fess Williams, Tiny Bradshow e Willie Bryant suonavano regolarmente al Savoy per lunghi periodi, forse per un mese o più. Il Savoy diventò la casa di tutte queste orchestre. Lì suonavano regolarmente e lì Un libro, di cui pubblichiamo alcuni estratti, racconta la vita e l'arte dell’artista afroamericano, uno dei padri fondatori del Lindy Hop, tra le più note danze jazz tornavano dopo aver suonato in altre sale o dopo un tour. Il mio preferito era Chick Webb, che stava lì più di chiunque altro. (...) Il Savoy era la sala da ballo, perché aveva le orchestre migliori e, di conseguenza, i ballerini migliori. Anche se molte persone andavano nelle sale da ballo solo per ascoltare la musica, all’epoca le band suonavano per i ballerini. Dopo tutto, si chiamavano dance band. I direttori di orchestra sapevano quali tempi suonare per tenere la gente in pista, e suonavano una vasta gamma di lenti e veloci, come piaceva a noi. I clienti del Savoy apprezzavano la varietà, non lo stesso tempo monotono da una canzone all’altra, come molti ballerini di oggi. I Lindy hopper del Savoy amavano ballare su pezzi veloci (come Clap Hands! Here comes Charley di Chick Webb: gli sventola-bandiera, come li chiamava lui, che significava che piacevano alla gente), ma non sempre, perché comunque le orchestre non suonavano brani veloci tutta la sera. Oggi vedo jam su Sing, Sing, Sing, ma noi non lo facevamo mai con musica simile. Nemmeno ci piaceva Sing, Sing, Sing. C’era troppa batteria. Io ballavo su brani veloci solo se swingavano e se mi piacevano, altrimenti, restavo seduto. Stessa cosa con le canzoni di tempi moderati. E sapevamo anche cosa fare su un lento... ci dondolavamo e ballavamo in maniera molto spinta con la nostra ragazza migliore, il corpo che oscillava, i piedi che si muovevano a malapena. Oltre al Lindy, al Savoy si ballavano altri balli. Per molti ballerini niente era troppo veloce, ma quando la band suonava musica davvero rapida, oltre al Lindy a volte facevano il peabody, un ballo da sala (tipo il foxtrot) che ha una base camminata. Si faceva in un grande cerchio ai bordi della pista da ballo, con le coppie che si muovevano in tondo cercando di girare più volte possibile, in una specie di gara continua (ecco perché chiamavamo il Savoy «la pista da competizione»). (...) Sebbene ad Harlem ci fossero locali in cui i neri non potevano entrare, al Savoy c’era integrazione. Infatti, per quanto ne so, all’epoca era l’unica sala da ballo mista del paese, e con questo intendo che i bianchi e i neri potevano ballare insieme. Era un posto straordinario. Al Savoy, non importava di che colore fossi: nero, bianco, verde, giallo o qualunque PAGINE ■ GLI ANNI DI CHICK WEBB E DEL SAVOY RACCONTATI IN PRIMA PERSONA DA FRANKIE MANNING L’uomo che non smetteva di ballare ALIAS 2 AGOSTO 2014 BRANDO, EL CONGUERO DI HOLLYWOOD ●●●di FRANCESCO ADINOLFI Certe passioni sono ben note. Ad esempio quella di Marcel Duchamp per gli scacchi, un'ossessione che lo distoglieva dal lavoro e dalla famiglia e che indusse la moglie ad incollargli i pezzi (da lui disegnati) sulla scacchiera. Altri amori vengono cancellati dalla storia. In particolare quello di Marlon Brando (foto) per congas e bonghi. Nel 1955 uno speciale tv Usa dedicato all'attore disvelava - attraverso le parole dello stesso Brando - un amore profondissimo per i due strumenti («a 15 anni suonavo la batteria in un Alcune immagini tratte dal libro «Frankie Manning. Ambasciatore del Lindy hop». In grande, a sinistra, lo stesso Manning altro. Non mi ricordo neppure del colore della pelle della gente con cui ho ballato. La sola cosa che ti chiedevano quando entravi era: «Sai ballare?». Non si badava mai alle facce, solo ai piedi. (...) Quando il Lindy hop iniziò a essere più popolare, si cominciò occasionalmente a organizzarne delle gare. All’inizio degli anni Trenta molti club erano ormai diventati un po’ più duri: più simili a delle gang che a veri club. Quelli come i Jolly Fellows iniziarono a morire e fu a quel punto che Whitey iniziò a formare i suoi Lindy Hoppers. Essere nei Savoy Lindy Hoppers significava che potevo entrare senza pagare: anche la mia fidanzata Dorothy Jackson, che avevo iniziato a frequentare a quell’epoca, poteva entrare gratis; e nel pomeriggio potevo andare ad allenarmi. C’erano ragazzi che stavano lì tutto il giorno, ma io lavoravo come pellicciaio. Durante la stagione (che per noi era l’estate, perché facevamo i cappotti per l’inverno) potevo anche arrivare a lavorare dodici ore al giorno. Appena staccavo, correvo a casa, mi lavavo, mangiavo e andavo in sala da ballo. In inverno, quando venivo messo in aspettativa per qualche mese o lavoravo meno ore, andavo ad allenarmi anche durante il giorno. Era dura a livello economico, ma, come la maggior parte dei ragazzi, vivevo in famiglia, per cui non dovevamo preoccuparci di fare la fame. A volte potevo stare al Savoy fino quando non chiudeva alle quattro del mattino. Dovevo essere al lavoro alle otto, mi trascinavo e arrivavo a fatica alla fine della giornata. Ma quando era di nuovo sera, ero sempre pronto ad andare. Fu in questo periodo che smisi del tutto di andare al Renaissance. Uno dei benefici di far parte del gruppo era che potevamo osservare i Lindy hopper con più esperienza e potevamo chiedere loro di mostrarci i passi. Questo era molto meglio che rubare, ma sapete una cosa? Scoprii che non stavamo davvero rubando, perché se avessimo chiesto a uno qualunque di quei ragazzi cosa stesse facendo, ce lo avrebbe fatto vedere. Ci diedero passi come il back charleston (ora chiamato tandem), il face-toface charleston, e gli heel... cose che erano molto più avanti di quello che avevamo fatto fino ad allora. Questo oggi ci sembra roba dell’asilo. A un certo punto noi ballerini nuovi abbiamo cominciato a creare passi più elaborati e mostrarli ai più grandi, che a volte approvavano e a volte no. Invece di prendere da loro, abbiamo iniziato a essere più creativi. Così, alla fine, anche se eravamo i giovani, siamo stati accolti nel gruppo a tutti gli effetti. Durante il giorno, ballavamo, ballavamo, ballavamo, scambiandoci passi, sulla musica dei dischi che giravano sul Victrola, o persino su quella delle band che studiavano nuovi arrangiamenti. (...) Al Savoy c’erano ballerini bianchi bravissimi e, nel corso degli anni, ce ne sono stati molti nei Whitey’s Lindy Hoppers. Jimmy Valentine, uno dei più grandi, aveva una gamba sola. Avrei voluto avere il suo senso del ritmo. Era così bravo da battere un’intera schiera di ragazzi a due gambe. Per fare lo swing out usava una stampella, poi la gettava da parte e saltava su una gamba. Una delle coppie migliori di Lindy hopper era formata da Harry Rosenberg e Ruthie Rheingold, una squadra pazzesca. Non andavamo in tour con un gruppo misto, ma a New York facevamo performance che potevano includere una coppia bianca e non ci fu mai alcun problema. Quando Harry iniziò a venire al Savoy, nel 1936, per poco non prese il sopravvento! Era uno dei ballerini migliori, e non intendo uno dei migliori ballerini bianchi. Dico uno dei migliori, punto. Noi gruppo»). Poi Marlon accompagnava l'intervistatore al piano inferiore della casa di Hollywood Hills e si lanciava in una performance alle congas. Accanto a lui Jack Costanzo, il «vero» Mister Bongo, colui che negli anni Cinquanta aveva insegnato agli Usa come «reggerli tra le gambe». Con Costanzo i bonghi perdevano qualsiasi connotazione etnica abbandonando anche la sfera dei beatnik che li usavano per accompagnare poesie e versificazioni varie. I bonghi diventavano il passatempo bianco medio/alto borghese preferito di gente comune e celebrità (James Dean su tutti). Marlon Brando andò oltre: depositò un brevetto per l'accordatura veloce (e meccanica) delle congas. Marlon conguero si vede qui: https://www.youtube. com/watch?v=oqcOMWMSoA8#t=522 Quei movimenti esplosivi e quei piedi frenetici hanno marchiato a fuoco negli Stati Uniti e altrove nel mondo il ritmo delle big band degli anni Trenta e Quaranta. A tutto swing! dicevamo «quel tipo sa ballare» non «quel ragazzo bianco sa ballare». Harry e io ci sfidavamo in competizioni accanite di social dance. Una volta all’Apollo ci fu una gara di Lindy hop tra bianchi e neri. Prima, sponsorizzarono le eliminatorie in varie sale da ballo in giro per la città. Poi io e la mia partner vincemmo le semifinali al Savoy, mentre Harry e la sua partner vinsero le semifinali per bianchi al Roseland, così finimmo per ballare l’uno contro l’altro all’Apollo. (Questo accadeva prima che lui iniziasse a ballare con Ruthie Rheingold. Purtroppo non ricordo chi fosse la sua partner né la mia). Ma io ed Harry eravamo davvero ottimi amici. Passavamo del tempo insieme e ci passavamo a trovare l’uno a casa dell’altro. Lui aveva persino una ragazza nera, Dottiemae Johnson. A Harry il ballo interessava molto, per questo frequentava i Savoy Lindy Hoppers e noi gli insegnavamo le nostre coreografie. Ci allenavamo insieme, e io gli mostravo molti passi. Copiava quasi tutto quello che facevo, incluso il mio stile: era bravo. A dire il vero, sapeva fare tutto quello che facevo io. Se ci avessero messo una tenda fino alle ginocchia e guardato solo i piedi, nessuno sarebbe stato in grado di distinguerci. La sera della finale, io ballai per primo e pensai di essere andato bene. Poi uscì Harry e fece i miei stessi passi! Come ho già detto, gli avevo insegnato quasi tutto quello che sapevo. A giudicare era il pubblico. Quando ci trovammo sul palco e Ralph Cooper, il presentatore, mi mise la mano sulla testa, ricevetti applausi incredibili, ma lo stesso accadde ad Harry. Eravamo in pareggio, e dovemmo sfidarci di nuovo. Era l’Apollo, sapete che non c’erano pregiudizi. Avrebbero dato la vittoria al più bravo. Quella era gente raffinata. Sapeva se eri bravo o no, e trovava il modo di fartelo capire. (...) Non sono sicuro se sia stato Pigmeat Markham, un attore che spesso si esibiva all’Apollo, a introdurre il truckin’, ma è stato lui a renderlo popolare per il suo modo comico di eseguirlo. Lo faceva con la parte superiore del corpo praticamente parallela al pavimento, le mani chiuse a pugno, facendo un movimento quando si girava che faceva sembrare il suo collo di gomma. Dopo di lui, erano pochi gli altri attori e i ballerini che uscivano con il truckin’. Un ballerino eccentrico di nome Rubberneck Holmes, che muoveva la parte superiore del corpo come se fosse di gomma, faceva la stessa cosa che faceva Pigmeat, ma con un giro più netto. Ognuno di noi aveva uno stile diverso. Jerome aveva copiato la versione del truckin’ di Pigmeat, ma aggiunse delle cose sue che lo rendevano più buffo. Il modo in cui lo faceva ci ricordava gli africani, per questo lo chiamavamo Congo. Jerome e Lucille svilupparono una coreografia molto comica. Mentre facevano il truckin’ con lei davanti, Lucille si piegava facendo sporgere parecchio il suo didietro. Non appena si fermavano, lei faceva una rotazione del bacino, mentre lui si girava a 360 gradi. Per un finale più buffo, chiesi a Lucille di dare un colpo sulla faccia di Jerome con il fondoschiena, cosa che lo faceva saltare indietro o cadere in una capriola. Poi tornava facendo il peckin’, mentre lei usciva dal palco con il solito passo. Una volta, eravamo all’Apollo e Pigmeat era sul palco a fare la sua routine, Jerome uscì da dietro le quinte facendo il truckin’ dietro di lui e imitandolo quasi alla perfezione. La gente moriva dal ridere, ma Pigmeat non si accorse di quello che accadeva finché non (13) si fermò e girò la testa. Avreste dovuto vedere la sorpresa sulla sua faccia! Ma era un professionista, e continuò con l’esibizione. Alla fine di giugno, ottenemmo un vero lavoro all’Apollo, con un nostro numero. Questa volta eravamo io e Naomi, Jerome e Lucille, Billy e Millie, e un’altra coppia. Ballavamo con l’orchestra di Chick Webb, con Ella Fitzgerald alla voce. (Nei cinque anni successivi avremmo lavorato all’Apollo con molte orchestre famose di Harlem, compresi Count Basie, Cab Calloway, Tiny Bradshaw, Buddy Johnson, Erskine Hawkins, e Lucky Millinder, ma con Chick Webb lavorammo più che con chiunque altro). Ella Fitzgerald doveva uscire dopo di noi, ma durante la nostra primissima performance gli applausi furono così scroscianti che non riuscì a farlo! Lo stage manager ci chiamò per un altro inchino, ma noi continuavamo a dire: «Che vuoi dire? C’è Ella!». Aveva dovuto spostarsi dietro le quinte mentre noi facevamo il bis, prima che il pubblico ci lasciasse andare. La direzione sentì che avevamo rubato la scena a Ella, così invertirono l’ordine e ci fecero chiudere lo show dopo di lei. Ma lei non era affatto arrabbiata. Era una persona così. Ella e io eravamo buoni amici fin dai tempi del Savoy - ci chiamavamo l’un l’altra fratello e sorella - e lei era felice per noi. Dopo il breve periodo di Camp Upton fui assegnato al corpo dei carristi e mandato a Camp Hood, una base di addestramento a sud di Waco, in Texas. Ero in una compagnia nera soprannominata «Tiger», con ufficiali bianchi. Tutti gli altri militari del campo erano bianchi. È stato in Texas che il mio atteggiamento è cambiato. I nostri ufficiali ci portavano in giro a visitare gli ospedali dove vedevamo i veterani che avevano combattuto nel Sud Pacifico e avevano perso una gamba o un braccio ed erano rimasti storpi, o dementi: era davvero penoso. Poi andammo a una conferenza su cosa significasse combattere al fronte, ed è in quell’occasione che decisi che forse sarebbe stato meglio sapere quello che facevo. Il corpo dei carristi era duro. Ti addestravano proprio come un marine. Completai le esercitazioni e iniziai a leggere e a studiare tutti i libri. Presto diventai soldato di prima classe e poi caporale. Restammo in Texas ad addestrarci per tre o quattro mesi, eravamo alla fine del 1943. Mentre ero laggiù, io e un mio amico facemmo un breve incontro con Jim Crow. Gli autobus avevano cartelli, a circa tre quarti della corsia, che dicevano «di colore». Un giorno, il mio amico Claude e io salimmo su un autobus praticamente vuoto e, per scherzo, spostammo il cartello sul davanti, così che per i bianchi rimasero solo due o tre file. Anziché sedersi nella sezione per la gente di colore insieme a noi, la gente continuò a salire sull’autobus e ad affollarsi nella parte anteriore. Fu buffissimo vederli appiccicati come sardine. Poi, dopo alcune fermate, l’autista notò l’affollamento, vide il cartello e capì. Non fece niente, ma quando incontrò una pattuglia fermò l’autobus. Mentre i poliziotti salivano dalla porta anteriore, Claude e io saltammo giù da quella posteriore. Ci corsero dietro, ma li seminammo alla svelta: tornammo veloci al campo, a sbellicarci. (...) *Alcuni estratti da “Frankie Manning, Ambasciatore del Lindy hop” (DeriveApprodi, pp. 330, euro 22), il libro di Frankie Manning e Cynthia R. Millman da pochi giorni in libreria. Si ringrazia la casa editrice, Millman e Chazz Young per averci concesso di utilizzare le foto di Manning tratte del suo archivio