3.4 Se 35 ore vi sembran poche Nella discussione

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3.4 Se 35 ore vi sembran poche Nella discussione
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Capitolo 3
3.4 Se 35 ore vi sembran poche
Se il limite dell’ammontare dei salari [fosse] stabilito da
una legge economica, indipendente sia dalla volontà dei
capitalisti come dalla volontà degli operai, la prima cosa
che [la teoria economica] avrebbe dovuto fare era di esporre questa legge e di provarla. Inoltre ... avrebbe dovuto dimostrare che l’ammontare dei salari realmente
pagato corrisponde sempre, in ogni momento, al necessario ammontare dei salari, e non se ne discosta mai. Se
d’altra parte il limite dato dell’ammontare dei salari dipende unicamente dalla volontà del capitalista o dai limiti della sua ingordigia, in tal caso si tratta di un limite
arbitrario. Esso non ha nulla in sé di necessario. Esso
può venire modificato dalla volontà del capitalista e può
quindi venire modificato contro la sua volontà.
Karl Marx, Salario, prezzo e profitto, Editori Riuniti,
Roma 1970, pp. 25-26.
Nella discussione relativa agli effetti di una riduzione dell’orario di
lavoro si sono dette molte cose, forse troppe, e quando un argomento
serio diventa di moda è molto facile che la discussione diventi confusa
e superficiale.
In economia poche cose sono certe e una valutazione degli effetti
della riduzione dell’orario di lavoro non è esente da un elevato grado
di indeterminatezza. Una cosa però è, a mio avviso, sicuramente certa:
per fare una discussione sensata su un argomento di questo tipo vanno
evitati ragionamenti statici.
Chiarisco, con due esempi, come ragionamenti statici possano portare a conclusioni errate:
a) È noto che algebricamente l’occupazione è data dal numero totale
di ore lavorate, diviso per il numero medio di ore lavorate da ogni
singolo lavoratore; ma dedurre da ciò che, riducendo il numero
medio di ore lavorate, aumenti automaticamente il numero degli
occupati è sbagliato. Questo semplicemente perché ogni intervento
sul numero medio di ore lavorate (il denominatore) può accompagnarsi (attraverso un effetto sulla produzione e sulla produttività
oraria) a una diminuzione del numero totale di ore lavorate, cioè il
L’economia italiana
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numeratore del rapporto. Il risultato finale potrebbe quindi essere
una occupazione costante o minore.
b) Il costo orario del lavoro è definito dal salario settimanale diviso per
il numero di ore lavorate nella settimana; ma pensare che, se diminuiscono le ore lavorate, a parità di salario, aumenti necessariamente
il costo del lavoro è sbagliato. Infatti il costo del lavoro che interessa
il processo produttivo è quello per unità di prodotto, non quello orario. Una variazione del costo del lavoro orario potrebbe essere più
che compensata, attraverso una spinta all’aumento della produttività
oraria, in modo tale che il risultato finale possa portare a una diminuzione o costanza del costo per unità di prodotto.
Il problema è che in economia non si può fare quasi mai un discorso “a bocce ferme”. Tutto varia nel tempo e tutte le variabili sono tra
loro legate con relazioni spesso difficilmente individuabili e quasi mai
prevedibili. Il caso della riduzione dell’orario di lavoro è uno dei casi
in cui le previsioni degli effetti sono vaghe e inattendibili.
Allora rimangono le due posizioni contrapposte alle quali è ben difficile obiettare: per i lavoratori è meglio, a parità di paga, lavorare il
meno a lungo possibile; per gli industriali è meglio, a parità di paga,
far lavorare il più a lungo possibile i lavoratori.
Come uscire da questa contrapposizione tutt’altro che nuova?
L’unica via d’uscita è impostare il ragionamento da un punto di vista
dinamico, partendo dalla considerazione che, per le imprese, una riduzione dell’orario di lavoro può essere assimilata a un aumento del salario orario. Se l’Italia sola fosse interessata a questo processo, si avrebbero seri problemi dal punto di vista della competitività.
Gli aumenti di salario orario possono essere riassorbiti dalle imprese
in due modi: attraverso l’aumento dei prezzi o attraverso l’aumento di
produttività oraria. Un incremento dei prezzi sicuramente diminuirebbe
la competitività, rimane quindi come strategia possibile l’aumento di
produttività. A questo proposito si possono fare due ipotesi:
a) la diminuzione di orario non incentiva un aumento della produttività del lavoro; allora gli unici modi di riassorbire l’aumento di costo
orario sono una diminuzione di profitti, un rallentamento degli aumenti salariali già contrattati, o una combinazione dei due;
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Capitolo 3
b) la diminuzione di orario incentiva un aumento della produttività, il
che compensa l’aumento del costo orario: in questo caso la riduzione di orario sarebbe non solo indolore, ma rappresenterebbe uno
sprone alla crescita.
Quale delle due ipotesi si realizzerebbe non è possibile prevedere,
probabilmente una combinazione fra le due; giocheranno un ruolo decisivo l’iniziativa dei lavoratori, la capacità imprenditoriale e le politiche industriali e sul mercato del lavoro del governo.
Alla domanda “quali saranno gli effetti sull’occupazione?” è ancora
più difficile rispondere: può aumentare, diminuire o restare costante.
Dipende da un gran numero di fattori, alcuni dei quali sono stati accennati in precedenza.
Esiste però una condizione necessaria, anche se non sufficiente, affinché una riduzione dell’orario di lavoro possa avere un effetto positivo sull’occupazione: alla riduzione contrattuale dell’orario di lavoro
deve corrispondere una riduzione delle ore di lavoro di fatto lavorate
in media da ogni lavoratore. Questo vuol dire che i lavoratori dovrebbero preferire un aumento del tempo libero a un aumento di reddito,
ad esempio evitando un aumento dello straordinario o del lavoro nero.
Ma questo si scontra contro due grossi ostacoli: l’interesse degli industriali a utilizzare lo straordinario invece delle assunzioni (costa di
meno) e la spinta delle famiglie a un maggior reddito e a un maggior
consumo; ad esempio se ci fossimo accontentati del tenore di vita che
avevamo nel 1970, oggi si potrebbe avere una settimana lavorativa di
due giorni.
Ma questo è un altro discorso.