Problemi in psichiatria
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Problemi in psichiatria
01-04 COLOFON.qxp 29-10-2004 9:15 Pagina 1 Problemi in psichiatria Il fine è l’uomo, il principio la terra Direttore Responsabile Umberto Dinelli Comitato di Redazione Presidenti Umberto Dinelli Giovanni Ronca Coeditori Mario Guazzelli Gianni Moriani Pietro Pietrini Comitato Scientifico Eugenio Aguglia Nicoletta Brunello Angela Conte Maurizio De Vanna Gianluigi Gigli Carlo Alberto Madrignani Roberto Mutani Paolo Nichelli Stefano Pallanti Riccardo Torta Consulenti Internazionali Slavko Zihler - Ljubliana, Slovenia Irvin Feinberg - Davis, California Raphaël Massarelli - Grenoble, Francia Questo numero è stato curato da Irene Guerrini e Fabrizio De Grandis I disegni sono di Paolo Giordani 5. F. Nicolai Per un modello neurale del linguaggio 19. P. Pellegrini Qualità della vita, dei servizi, delle relazioni 35. G. Minichiello Il dionisiaco giovanile 47. C. Viti, S. Parpajola, U. Dinelli La linea d’ombra: credenze, superstizioni, esorcismi 69. M. Clement, C. Verdot, R. Massarelli L’attività fisica in detenzione 81. Anonimo Di qua e di là del muro 87. F. Battaglia Psicopatologia e fenomenologia jaspersiana 93. M. Guazzelli Viaggio nel cervello linguistico 01-04 COLOFON.qxp 29-10-2004 9:15 Pagina 2 Rivista quadrimestrale anno 12° numero 34 - Settembre 2004 Editore “Centro per lo studio dell’interazione Neuropsichiatria e Società”. Direzione, redazione, amministrazione: Mestre Galleria Medaglie d’Oro 5/9 - 30174 Mestre-Venezia Tel. 041.983630, Pisa Via Roma, 67 - 56100 Pisa Tel. 050.992658 Fax 050.835424, Preganziol Via Terraglio, 439 - 31022 PreganziolTreviso Tel. 0422.93215/6 Fax 0422.633545. Registrazione del Tribunale di Venezia n. 1058 del 25.06.1991. Stampa: Grafica & Stampa Via Brunacci, 5/A - 30175 Marghera Ve Fotocomposizione: Studio Pixart - Via Mutinelli, 19/21 Mestre Ve 01-04 COLOFON.qxp 29-10-2004 9:15 Pagina 3 Problemi in psichiatria Per un modello neurale del linguaggio 5 Qualità della vita, dei servizi, delle relazioni 19 Il dionisiaco giovanile 35 La linea d’ombra: credenze, superstizioni, esorcismi 47 3404 01-04 COLOFON.qxp 29-10-2004 9:15 Pagina 4 05-18 NICOLAI.qxp 29-10-2004 9:13 Pagina 5 5 Per un modello neurale del linguaggio F. Nicolai Introduzione Negli ultimi decenni lo studio del linguaggio, codificato nella disciplina demarcata della “linguistica”, ha cercato di appropriarsi dei metodi tipici delle scienze cosiddette dure e sperimentali. Diversamente da quanto era accaduto ad altre scienze umane demarcate, sino ad un tempo recente lo studio del linguaggio era rimasto sorprendentemente appannaggio di una ricerca astratta e assiomatica, in cui il corpus era dedotto dagli ‘auctores’, ovvero dai modelli letterari di un uso linguistico considerato normativo e oggetto di necessaria imitazione, anziché costituito da ricerche condotte sul campo, ovvero sull’uso linguistico effettivo dei parlanti. Eppure l’interesse e il fascino per il linguaggio non è certo un tema nuovo, essendo stato trattato, per esempio, da grandi filosofi dall’antichità ai giorni d’oggi che si sono ricorrentemente interrogati sulla sua genesi, le sue articolazioni, ma anche e soprattutto sul suo rapporto con il pensiero. E’ mancata tuttavia, almeno nella concezione di chi scrive, una rivoluzione copernicana nello studio del linguaggio come scienza “positiva”. Malgrado ciò, la strada si è aperta lentamente e dalle varie branche in cui la linguistica si è frammentata nel corso del tempo emergevano ed emergono le stesse domande e gli stessi interrogativi. Si potrebbero riassumere le questioni irrisolte sul linguaggio, appunto, in forma di domanda: 1) come è stato possibile, in senso evolutivo, lo sviluppo del linguaggio che sembra essere comparso dal nulla in un nostro progenitore comune quando non sembra mai essere esistito un modello animale? 2) come spiegare le molteplici differenze tra le varie lingue del globo e le ancora maggiori sorprendenti analogie? 3) come viene appreso il linguaggio durante la vita? 4) quali rapporti sono sottesi da linguaggio e pensiero? La rivoluzione americana A parziale correzione di quanto affermato prima, ammetto che una rivo- 05-18 NICOLAI.qxp 29-10-2004 9:13 Pagina 6 6 luzione nell’ambito della linguistica ci sia stata, ma quanto meno è stata tardiva al punto da presentarsi attualmente quasi come un fatto di cronaca piuttosto che, già, di storia, di fronte al quale l’atteggiamento più prudente sarebbe dunque lasciare ai posteri la sentenza. Tuttavia, immersi in questo clima di rinnovamento culturale, sarebbe davvero assurdo non tenere conto delle nuove basi teoriche della linguistica, gettate verso il futuro da Noam Chomsky. Il famoso linguista americano (famoso anche presso il pubblico dei non addetti ai lavori per i suoi scritti in materia politica, mediatica e saggistica), cui dobbiamo una produzione sterminata sul linguaggio, ha creato una cesura con la linguistica del XIX secolo, tant’è che al momento attuale nessuno studioso del linguaggio può ignorarlo. Le sue posizioni non sono unanimemente e nemmeno largamente condivise e anzi il dibattito internazionale tra le differenti correnti della grammatica generativa è ancora vivo e potrebbe essere esemplificato storicamente da un simposio, di ormai trenta anni fa, in cui le idee, per molti aspetti antitetiche, di Chomsky e Piaget vennero presentate e confrontate proprio dai due studiosi1; tuttavia Chomsky ha, in qualche modo, creato un terreno comune della discussione sul linguaggio. Ancora una volta, il nuovo corso di una disciplina scientifica è stato iniziato da un perfetto rappresentante del panorama culturale che sta per sovvertire. Chomsky è un linguista tradizionale, poliglotta, erudito e teorico: non cerca la conferma delle sue asserzioni in remote popolazioni primitive, non studia con l’occhio del clinico la lesione cerebrale dell’afasico né osserva o è interessato alle variazioni di attività cerebrale prodotte da un soggetto che svolge un compito linguistico. Forse rappresenta l’ultima personalità della storia dello studio del linguaggio che riesca a concepire un approccio olistico e proprio per questo porta con sé gli ineluttabili semi della diaspora. Chomsky fu peraltro il primo ( o tra i primi) a ricordare che l’evoluzione ‘fa salti’, un concetto assurto a dogma dalle teorie darwiniane dell’evoluzione ma che, come molti dogmi, è spesso venerato senza devozione e con un pò di timore. Un salto così grande da creare un “modulo” del linguaggio totalmente assente nel resto degli animali, compresi i primati antropomorfi, rischia di essere così ‘evoluzionista’ da sfiorare il ‘creazionismo’. Il salto del modulo Il concetto di modulo2 bene centra il problema che la linguistica sta affrontando nel suo percorso. Il modulo è un’entità molto utile per spiegare alcuni fenomeni, ma il suo grande limite è che la sua essenza è com- 05-18 NICOLAI.qxp 29-10-2004 9:13 Pagina 7 7 pletamente astratta, non basata su alcuna evidenza neurobiologica. Questo limite porta con sé limiti corollari ma ancor più minanti: come tutte le istanze astratte e teoriche, anche il modulo rischia di descrivere un’entità che, per quanto semplice ed elegante possa apparire ai nostri occhi, non corrisponda a nulla di reale. Ancora una volta il paradosso di tentare di descrivere la realtà in cui ci troviamo immersi (in questo caso di descrivere il linguaggio e il pensiero tramite essi stessi) rischia di essere l’inganno più subdolo e riuscito. L’applicazione di forme modulari semplici ha fatto ritenere che il linguaggio potesse venire spiegato con il funzionamento di due aree cerebrali collegate da un fascio di sostanza bianca nell’emisfero sinistro. La concezione tolemaica, appesantita dalle congetture costruite per tenerla in piedi, è infine crollata e i neuroscienziati cominciano a definire il linguaggio a partire dai propri dati sperimentali. La teoria del sistema integrato, che sta soppiantando la visione strettamente segregazionista, ha cominciato a farsi strada anche nello studio del linguaggio e ancora una volta c’è da stupirsi che sia durata tanto a lungo una teoria limitante come quella che vedeva tutto il problema del linguaggio nelle aree di Broca e Wernicke3. Questa integrazione ha riportato il linguaggio da entità avulsa ad estensione e costituente principe del pensiero: correlazione peraltro data per pacifica dai non specialisti del linguaggio quali, ad esempio, gli psichiatri che sono soliti giudicare le turbe del pensiero (nel soggetto schizofrenico4 per fare un esempio) tramite le alterazioni formali del linguaggio5. Proprio la possibilità di trarre ispirazione e linfa dagli altri ambiti delle neuroscienze dà alla neurolinguistica quell’impulso che ne sta facendo una disciplina innovativa e promettente. Penso, ad esempio, alla scoperta di Rizzolati ed Arbib (1998) che descrivono i neuroni specchio nella corteccia della scimmia: sono neuroni che rispondono sia all’afferramento e alla manipolazione di un oggetto che alla visione dello stesso gesto compiuto da un’altra scimmia o dallo sperimentatore e, più recentemente6, sono stati individuati nella stessa area i cosiddetti neuroni-specchio “audiovisivi”, in quanto scaricano anche quando l’animale ode il suono associato ad un’azione (come, ad esempio, il rumore di una nocciolina che si rompe), aprendo così alla possibilità che tali neuroni codifichino contenuti astratti (il significato delle azioni) con un accesso uditivo che è proprio del linguaggio umano. L’area F5 si presenta dunque come una sorta di magazzino di schemi motori, un vocabolario di azioni, ognuna rappresentata da una serie di neuroni, facilitandosi in tale modo esecuzione e 05-18 NICOLAI.qxp 29-10-2004 9:13 Pagina 8 8 riconoscimento di azioni. E’ evidente come queste scoperte aprano numerose prospettive alla teoria dell’apprendimento, ma la ricerca di aree ”specchio” nell’uomo ha portato a risultati ancor più intriganti. Per diversi autori l’area omologa di F5 (l’area originariamente descritta da Rizzolati e Arbib) altro non sarebbe che la Broadmann Area 44, ovvero il giro frontale inferiore conosciuto come l’area di Broca. Sull’omologia tra la F5, area che contiene un sistema che lega riconoscimento di un’azione e produzione dell’azione stessa, con l’area di Broca (o con parte di essa) c’è abbastanza accordo. Recenti studi hanno tra l’altro evidenziato come l’area di Broca si attiva anche nell’esecuzione di movimenti della mano e delle braccia, si attiva anche se solo si immagina di afferrare con la mano un oggetto o durante compiti che coinvolgono rotazioni mentali delle mani. Da qui, il passo a porre un legame evolutivo tra le due aree e, quindi, tra percezione e produzione di gesti e tra percezione e produzione linguistica non ci occorre molto. Sia la F5 che l’area di Broca controllano i movimenti orolaringali, orofacciali e brachiomanuali; entrambe sono equipaggiate con meccanismi che legano percezione e produzione dell’azione. Con queste premesse in un approccio continuista, il linguaggio potrebbe essersi evoluto da un meccanismo originariamente non finalizzato alla comunicazione, ma al riconoscimento di azioni7. Il processo di acquisizione del linguaggio si ammanta di una nuova luce, e anche il grosso salto di moduli proposto da Chomsky verrebbe in parte ridotto. Il sistema dei neuroni specchio con funzione di imitazione e di comprensione di azioni sembra infatti rappresentare un sistema di abbinamento tra immagini interne e immagini esterne, tra sensazioni esterne (percezioni) e sensazioni interne (immaginazione, ricordo), creando un legame tra chi osserva e chi agisce e costituendo, pertanto, quel collegamento tra emittente e ricevente che costituisce il prerequisito per qualsiasi comunicazione8, sia gestuale che vocale, sia perché ha la capacità di rappresentare i contenuti dell’azione sia perché a tale contenuto ha accesso sia visivo che acustico. Ma non solo gli aspetti pragmatico-comunicativi possono dipendere da un sistema funzionale di neuroni specchio: la mancanza di invarianza nella struttura fisica dei suoni ha dato luogo alla nascita della cosiddetta teoria motoria della percezione linguistica9 che suggerisce che udiamo i suoni sulla base di come li produciamo: cioè, la percezione linguistica implica la ricostruzione dei gesti, più precisamente, la ricostruzione dello schema motorio che il parlante intende produrre. 05-18 NICOLAI.qxp 29-10-2004 9:13 Pagina 9 9 In considerazione di queste funzioni, ipotesi recenti vedono proprio in un inadeguato funzionamento di tale sistema specchio il fondamento del disturbo linguistico e comportamentale dell’autismo. La disfunzione del sistema dei neuroni specchio nei soggetti autistici potrebbe spiegare sia il loro fallimento a sviluppare abilità sociali reciproche, quali l’attenzione condivisa, il riconoscimento gestuale e il linguaggio (soprattutto negli aspetti socio-pragmatici) sia il mancato sviluppo dell’empatia, l’incompleta Teoria della Mente, i disturbi dell’imitazione (ovviamente, anche nella sua manifestazione paradossa e iterata). La teoria rimodulata E’ difficile pensare che Chomsky sia stato direttamente influenzato da questa letteratura, ma è certo che il suo pensiero possa essere stato influenzato sia dal crescente interesse per il funzionamento della mente e i suoi rapporti con il cervello sia dall’assunto, sempre più radicato nella cultura neuroscientifica, che la natura conserva ciò che c’è e va bene e costruisce su di esso. In questo modo si può comprendere come il linguista americano sia arrivato al clamoroso articolo del 2002 comparso su Science10, di cui ha parlato anche la stampa popolare e da alcuni giudicato una sorta di abiura, di vera e propria ritrattazione del proprio pensiero (cfr. Figura 1). In questo lavoro Chomsky rinuncia ad uno dei suoi assunti fondamentali, radicati e difesi: ammette cioè l’esistenza di una facoltà del linguaggio larga (FLL), che risulta composta di parti condivise sia da altre specie sia da altre abilità psicologiche. Solo la “recursion”11 (facoltà di linguaggio stretta, FLS), resta appannaggio esclusivo della specie umana, e si precisa che può essersi evoluta non specificamente per il linguaggio, bensì per altre abilità come la navigazione, il calcolo, le relazioni sociali. Non è qui il caso di entrare nello specifico del dibattito che, come sempre, le idee di Chomsky accendono12, ma questa revisione teorica è soprattutto un esempio di un clima culturale e scientifico che va cambiando e cambiando rapidamente. Chi studia la linguistica, chi vuole tentare di rispondere alle domande postulate più sopra (o magari, almeno, di formularne altre) difficilmente potrà prescindere dalla neurolinguistica. Non è pensabile e nemmeno auspicabile che un tipologo studi l’afasiologia o la risonanza magnetica funzionale, e pur tuttavia ogni scoperta e ogni assunzione dovranno (augurabilmente) e potranno trovare una base neurolinguistica. 05-18 NICOLAI.qxp 29-10-2004 9:13 Pagina 10 10 Figura 1: Adattamento da M. D. Hauser, N. Chomsky, W. T. Fitch (2002): 1570 Le risposte mancanti Il metodo scientifico si basa, come si sa, sull’osservazione, formulazione di ipotesi e verifica sperimentale. Dotando la linguistica di un assetto più scientifico e pragmatico, comunque meno speculativo, dobbiamo adeguarci a tale procedura. Al momento attuale ci troviamo nel punto in cui abbiamo davanti a noi molte osservazioni e moltissime possibilità di verifica. Le osservazioni ci derivano dall’ampia letteratura non solo strettamente linguistica, ma anche neurologica, neuropsichiatrica, antropologica e sociologica. Questa letteratura ha già tentato di dare risposte e di verificare ipotesi formulate. Sono purtroppo ipotesi di teorie parziali che ancora falliscono nel fornire una formulazione unitaria per il problema del linguaggio. In più, talvolta, le ipotesi sono tra loro contraddittorie, pur apparendo tutte confermabili. Prima di ritirarsi sconfitti davanti all’evidente paradosso è necessario tuttavia considerare la possibilità che non sia il linguaggio a sfuggire ad un tentativo di sistematizzazione e di inquadramento in determinati pattern di attività neurale, ma che sia il metodo con cui esso viene studiato ad essere ancora incompleto e fallace. Quando si 05-18 NICOLAI.qxp 29-10-2004 9:13 Pagina 11 11 pensa alla neurolinguistica, si pensa subito allo studio afasiologico e alla valutazione dell’attività cerebrale connessa con compiti linguistici tramite le metodiche di esplorazione funzionale del cervello quali la risonanza magnetica funzionale (fMRI) e la tomografia ad emissione di positroni (PET) o tramite le metodiche che valutano i potenziali evocati corticali (ERP). La neurolinguistica è ben più complessa e articolata, si serve di questi approcci ma non si identifica con essi; tuttavia, è possibile esemplificare i punti in cui questi metodi nascondono quelle problematiche che possono rendere i dati contradditori o quanto meno interpretabili in modi diversi quando non antitetici. Gli studi afasiologici sono storicamente quelli più importanti, e già questo dato, di per sé, ci dà informazioni interessanti. L’afasico di Broca, il famoso paziente “tam tam” (così chiamato perché era in grado di pronunciare solo questa sillaba) aveva lesioni dell’area che prende il nome del neurologo francese che seguì il paziente e ne fece la autopsia. Su questo riscontro si è concluso e dato per certo quasi aristotelicamente per molto tempo che l’area 44 (di Broca, appunto) fosse deputata alla produzione del linguaggio. In realtà, non si è considerato abbastanza che il soggetto aveva un infarto massivo della zona e che, probabilmente, la lesione non era limitata all’area 44, ma si estendeva anche alle zone limitrofe e coinvolgeva la sostanza bianca che nell’area faceva arrivare e partire informazioni. Né si è considerato che un danno tanto massivo come quello in questione, tale da ridurre una persona di cultura nella media ad un solo monosillabo, poteva mascherare in questa patetica ripetizione ben più complessi danni al delicato equilibrio del sistema linguistico. Oggi non possiamo accettare teorie basate su alterazioni neurologiche che non siano superselettive, data la consapevolezza attuale che le differenze di funzione si giocano talvolta quasi a livello neuronale. Ma, così facendo, rimane il problema che una lesione neurologica non è mai totalmente uguale ad un’altra. Infine, bisogna tenere presente che il cervello di un individuo con un deficit neurologico non è più un cervello sano: non è illecito pensare che un sistema ad alta comunicazione come il cervello risenta in toto di alterazioni regionali. Anche la variabilità intersoggettiva è un problema spinoso per chi cerca conferma su differenti soggetti, e questo è ovviamente un problema anche quando ci serviamo delle metodiche di esplorazione funzionale in vivo del sistema nervoso. Per queste metodiche si pongono anche problemi di natura tecnica: in particolare, il tipo di paradigma sperimentale utilizzato e il tipo di analisi possono produrre risultati che talvolta si pre- 05-18 NICOLAI.qxp 29-10-2004 9:13 Pagina 12 12 stano ad operazioni di esegesi post-hoc. E, del resto, la natura dei task, il ruolo della loro validità “ecologica” è una preoccupazione costante di quanti si occupano dell’interpretazione dei dati neurobiologici. Non è la sede adatta per la disamina di queste problematiche. Da queste poche annotazioni sembra tuttavia evidente la necessità di accostarsi all’utilizzo di tali metodiche con un'ipotesi forte da verificare e non con vaghe idee da valutare, approccio che, se è fondamentale in questo àmbito, sarebbe comunque quello corretto in ogni àmbito di ricerca. Un secondo problema con l’utilizzo di queste tecniche sta nei risultati stessi che esse propongono. Sia la PET che la fMRI valutano la variazione dell’attività cerebrale nel senso di variazione di flusso ematico o di consumo di glucosio nel primo caso e di frazione di emoglobina ossigenata sul totale nel secondo. In questo modo si trovano aree “attivate” o “disattivate” durante un determinato compito. Si finisce, quindi, per concentrarsi sull’una o sull’altra area “attivata” senza considerare che in un sistema complesso come il linguaggio l’informazione passa da un’area all’altra e che solo il funzionamento coordinato e “sinfonico” di diverse aree cerebrali permette la comprensione e la produzione. Finché, per esempio, non considereremo le aree cerebrali deputate all’attenzione o all’astrazione, alla memoria procedurale o a quella dichiarativa, importanti per il linguaggio quanto l’area di Broca o quella di Wernicke, non ci sarà possibile capire come il linguaggio funzioni. Il linguaggio è un “system of remarkable complexity” (Chomsky 1975:6) la cui complessità, però, per dirla ancora con l’ultimo Chomsky (2002), va oltre la concezione di un “mental organ” (Chomsky, 1980:3) distinto da altre abilità cognitive, dal momento che coinvolge anche componenti sensomotorie e concettuali-intenzionali. Anche Chomsky, cioè, riduce le distanze dai suoi ‘competitori’: esiste ormai un nucleo concettuale comune che rende difficile una ‘preferibilità’ dell’una o dell’altra posizione su basi oggettive. La facoltà di linguaggio (irrilevante se accompagnata da un qualche aggettivo) prevede come suoi costituenti elementi molto vasti e importanti per altre funzioni cognitive. In effetti, la comunità di studiosi del linguaggio che adopera le metodiche di neuroimaging ha cominciato a seguire questa strada, da un lato proponendo protocolli sempre più eleganti e solidi, dall’altro affinando le metodiche di analisi. Per esempio, è stato eliminato quasi del tutto il metodo della sottrazione cognitiva in cui si postulava che l’attivazione differenziale tra due processi cognitivi corrispondesse tout court alla differenza di pattern neurale tra i due processi: era essenzialmente a causa di que- 05-18 NICOLAI.qxp 29-10-2004 9:13 Pagina 13 13 sto metodo che i neuroscienziati e ancor di più i media si affannavano a proclamare la scoperta dell’area dedicata ad una particolare attività mentale, sollevando problemi computazionali irrisolvibili (troppe funzioni cerebrali per troppo poche aree!): vengono invece privilegiate metodiche di analisi nuove volte anche alla identificazione di connettività funzionali13. Una modesta proposta Che cosa dovrà impegnarsi a scoprire la neurolinguistica? La risposta alle nostre domande: la teoria unica del linguaggio e, ancora una volta, è Chomsky ad alzare il sasso e a sollevare esplicitamente la questione della “unification” (Chomsky 2000), della spiegazione unificata del cervello e del linguaggio. Come dovrebbe essere una teoria unica del linguaggio per rispettare da un lato gli assunti chomskiani della Grammatica Universale (GU)14, i principi di linguistic design di Hockett15 e, dall’altro, le leggi che governano lo sviluppo e il funzionamento del cervello? Anzitutto è davvero necessario il rispetto di questi assunti diciamo “psicolinguistici”? La risposta è no, ma la loro caduta dovrebbe essere sostenuta da assunti più forti e validabili, che per il momento non sembrano all’orizzonte: tali assunti sono, pertanto, delle ipotesi di lavoro da cui non è lecito prescindere16. Ricordiamo inoltre che il sistema nervoso sembra svilupparsi con una logica di “risparmio”: lascia ciò che funziona e si modifica aggiungendo, sistema neurale su sistema neurale, sotto la spinta della selezione naturale. E’ presumibile che il sistema linguistico si sia sviluppato utilizzando sistemi neurali in parte presenti e modificandone e aggiungendone altri. In questo senso parlare di moduli appare riduttivo, in un cervello plastico in senso filogenetico ed ontogenetico con miliardi di sinapsi e connessioni dendritiche (senza entrare nel dettaglio della problematica e discussa fisiologia del sistema nervoso centrale). In questo sistema integrato, in cui pensiero, movimento, feedback sensoriali, tentativi di imitazione, coordinamento cerebellare e spinte motivazionali si integrano senza soluzione di continuità, la combinazione di diverse attività neuronali contemporanee o comunque consensuali è alla base delle nostre capacità linguistiche. Anche se queste sono libere di esprimersi nei numerosissimi idiomi parlati, compresi i dialetti, i gerghi e le lingue dei segni, possono essere plasmate dall'istruzione, dalla cultura materiale e, addirittura, dall’habitat naturale, e risentono di un deficit sensoriale acustico o addirittura visivo, esse tuttavia obbediscono ad alcune leggi generali. A tali leggi non obbedisce il linguaggio in quanto tale, quanto i sistemi neuronali che lo sottendono. 05-18 NICOLAI.qxp 29-10-2004 9:13 Pagina 14 14 Saranno problemi computazionali, organizzazioni neuronali precipue, ma qualunque siano i limiti del sistema, essi sembrano essere stati descritti ma non dimostrati (un pò come alcune particelle fondamentali della fisica); tuttavia, non sono molto diversi da ciò che sappiamo, per esempio, sul numero magico 7 + o - 2 del digit spam. Così linguaggio e pensiero sono due entità che si servono di pattern neurali simili, talvolta identici e che richiedono la presenza e lo sviluppo l’uno dell’altro per svilupparsi e maturare correttamente, così come, d’altronde, gli studi sulla crossmodalità di alcune aree senso-percettive ci presentano un cervello in grado di “astrarre” e creare una immagine percettiva della realtà fruibile in diversi modi17. La scatola chiusa Una lesione di alcune aree cerebrali determina la cessazione dei sogni: e se, invece, il soggetto sognasse ancora e non potesse ricordarli? E se ancora non potesse formarsi un’immagine linguistica coerente degli eventi onirici e, pertanto, non potesse fissarli in quel momento fondamentale che sono i primi secondi di veglia? Ovviamente, la prima ipotesi è la più verisimile, ma il dubbio provocatorio è posto per indurre la riflessione sul lavoro di chi indaga il funzionamento del cervello. La scatola cranica rimane sigillata a molti tentativi di guardarvi dentro troppo da vicino. Il problema che la nostra visione del mondo è filtrata dai nostri sensi è ovviamente insuperabile, ma il nostro lavoro è quello di creare modelli che sempre più da vicino sfidino questi limiti. Non è solo la pura ancorché nobile filosofia (intesa proprio come amore della conoscenza) che guida la ricerca del neurolinguista. La speranza è che il suo lavoro teorico sia vicino, e forse più vicino di altre discipline neuroscientifiche, ad una applicazione pratica. Lo sguardo è ovviamente alla riabilitazione degli afasici, dei bambini con disturbi dell’acquisizione del linguaggio, dei sordi che riacquistano l’udito dopo la protesi o, sempre più frequentemente, dopo impianto cocleare. Spesso, infatti, la riabilitazione si basa su metodi che vanno precipuamente a “stimolare” la plasticità neuronale e, peraltro, senza la plasticità del sistema nervoso (nella accezione più ampia del termine) non ci sarebbe riabilitazione18. Bibliografia Bookheimer S. (2002), Functional MRI of Language: new approaches to understanding the cortical organization of semantic processing. Annual Revew of Neuroscience, 25, 05-18 NICOLAI.qxp 29-10-2004 9:13 Pagina 15 15 151-188. Chomsky N. (1975), Reflections on language. New York: Pantheon (trad. it. Riflessioni sul linguaggio, Torino: Einaudi, 1981) Chomsky N. (1980), Rules and representations. New York: Columbia University press Chomsky N. (2000), Linguistics and brain science. In Y. Miyashita, A. Marantz, W. O’Neill (eds.), Image, language, brain. Cambridge, MA: MIT Press Fodor J. A. (1983), The Modularity of Mind, Cambridge, Mass: MIT Press (trad it. 1989, Bologna: Il Mulino) Hauser M. D., Chomsky N., Fitch W. T. 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La nozione di “modulo” rinvia, come è noto, alla teoria (opposta alle teorie cognitive) che vede la mente divisa, per così dire, in moduli separati, ciascuno responsabile di qualche aspetto della vita mentale. La facoltà di linguaggio è, per l’appunto, un modulo (è cioè considerata come separata da tutte le altre facoltà mentali) contenente un proprio insieme di principi distinti e diversi da quelli di altre moduli con cui non si pone in relazione (cfr. J. A. Fodor, 1983). 05-18 NICOLAI.qxp 29-10-2004 9:13 Pagina 16 16 3. Il “diagramma anatomico” (area di Broca, area di Werniche e fascicolo arcuato), indubbiamente fruttuoso modello euristico e clinico per più di 150 anni, è ormai unanimemente riconosciuto nei suoi limiti empirici (su cui torneremo), linguistici e anatomici. Empiricamente carente, in quanto non rende conto della varietà delle sindromi afasiche che non sono poi delle entità veramente omogenee e, in più, la dissociabilità dei sintomi rinvia ad un’architettura assai complessa; linguisticamente, perché presuppone un modello del linguaggio fortemente sottospecificato, inadeguato rispetto ai progressi della sofisticata analisi linguistica che, non solo non può accettare la sola distinzione tra aspetto recettivo e aspetto produttivo del linguaggio (come Broca e Wernicke facevano), ma neppure può accontentarsi degli adattamenti successivi del modello che individuano subsistemi quali la sintassi, la semantica e la fonologia: ognuno di questi, infatti, è variamente strutturato, al suo interno, in diversi sottocomponenti. L’inadeguatezza anatomica ha due ordini di motivi, essenzialmente: le aree linguistiche tradizionali risultano morfologicamente e funzionalmente non omogenee e nuove aree, sia corticali che subcorticali, risultano rilevanti per l’elaborazione del linguaggio. Lo stesso imperialismo dell’emisfero sinistro non sembra più così al sicuro: almeno per quanto riguarda la percezione linguistica, l’emisfero destro (precisamente il lobo temporale) sembra svolgere un ruolo importante. 4. Irigary (1973) afferma che lo schizofrenico “(forse) è il più rigoroso sintassiere” dal momento che esibisce un’esuberante e illimitata attività manipolativa e generativa del linguaggio: per lui, il “casolare” è “una casa piena di sole” e un “bucaniere” “un uomo cui le ciambelle riescono con il buco”. Ma esibisce, contemporaneamente, mutismo, mostrando, dunque, anche nel linguaggio, il quadro sintomatico ‘separato, frammentato’ costituito da sintomi positivi e negativi. Non a caso, nella pratica clinica il mutismo è inserito tra i sintomi negativi della schizofrenia, mentre i neologismi, le paralogie e tutti i fenomeni di illimitata e incontrollata capacità metalinguistica sono rubricati tra i sintomi positivi accanto ad allucinazioni e deliri. 5. Non sono, ovviamente, qui pertinenti i dettagli della discussione sul tipo di rapporto, diversamente gerarchico, tra linguaggio e pensiero. Ormai superata l’ipotesi forte di Whorf , degli anni 50 del secolo scorso, che vede il pensiero interamente dipendente dal linguaggio, è un dato che l’aspetto più notevole del linguaggio sia il suo potere espressivo e la sua capacità di far passare un numero illimitato (teoricamente infinito) di idee da un parlante ad un altro e che molti domini concettuali, con grande probabilità, possono essere appresi solo con l’aiuto del linguaggio (Jackendoff, 1996). L’unità della parola, in quanto organizzatore di legami di strutture fonologiche, grammaticali e concettuali, è dunque parte specifica del linguaggio e parte della conoscenza umana. In una prospettiva integrata, dunque, la conoscenza del linguaggio è parte della conoscenza della struttura cognitiva. 6. cfr. E. Kohler, Ch. Keysers, M. A. Umiltà, et al. (2002). 7. La definizione dell’uomo come animale parlante potrebbe pertanto vantaggiosamente sostituirsi con quella di animale prassico, anche nel senso aristotelico del termine (F. Savater, 2004: 69). Cfr. F. Nicolai (2000). 8. Del resto, parlare e ascoltare non possono non essere pensati come strettamente coevolutivi: se un ‘singolo’ mutamento avesse garantito ad un ominide la capacità di “parlare”, questi non avrebbe poi avuto nessuno con cui farlo! Differentemente da altri com- 05-18 NICOLAI.qxp 29-10-2004 9:13 Pagina 17 17 portamenti complementari (complessi e interdipendenti) il linguaggio è l’unico che colloca i comportamenti complementari (parlare e ascoltare, appunto) in un singolo individuo (cfr. il tratto dell’Intercambiabilità, nota 14). 9. La più sviluppata (non l’unica) Teoria Motoria della Percezione Linguistica (TMPL) è stata formulata da un gruppo di studiosi dei Laboratori di ricerca Haskins (New Haven, Connecticut). Cfr., in particolare, I. G. Mattingly, M. Studdert-Kennedy (eds.) 1991; A. M. Liberman (1996); M. I. Stamenov, V. Gallese (2002). 10. M. D. Hauser, N. Chomsky, W. T. Fitch (2002). 11. La ricorsività è la proprietà formale delle “regole”, in base alla quale una regola è riapplicabile al proprio prodotto o risultato. A partire da “Carlo dorme”, posso inserire una frase relativa collegata a Carlo: “Carlo, che ha bevuto il vino, dorme” e, ancora, “Carlo, che ha bevuto il vino che tu gli hai regalato, dorme”. A partire da “Carlo corre”, posso ottenere “Mario vede che Carlo corre”, “Luigi dice che Mario vede che Carlo corre”, “Anna sente Luigi che dice che Mario vede che Carlo corre”, ecc, con un’applicazione della ricorsività, in teoria, illimitata; di fatto, limitata dai sistemi concettuali e neurofisiologici (!). 12. Cfr., in particolare, S. Pinker, R. Jackendoff (in press). 13. Cfr. S. Bookheimer (2002). 14. Il concetto di GU è centrale nella teoria del linguaggio di Chomshy: “Definiamo “grammatica universale” (GU) il sistema di principi, condizioni e regole che sono elementi o proprietà di tutti i linguaggi umani non per puro caso, ma per necessità, naturalmente per necessità biologica, non logica. Così GU può essere considerata l’espressione della “essenza del linguaggio umano” e non varietà tra gli esseri umani” (Chomsky, 1976:29). La teoria, pertanto, parte dall’assioma che ogni essere umano conosce (perché fanno parte della mente umana) un insieme di principi, potenzialmente realizzabili da ogni lingua del mondo, passata presente e futura, vocale e segnica, e un insieme di parametri che possono variare da una lingua all’altra entro dei limiti definiti. 15. Il linguista americano Ch. F. Hocket (1961), ha proposto una lista di “tratti costitutivi” (design futures) delle lingue che, per quanto sottoposti talora a rivisitazioni più o meno parziali, sono tuttavia ancora largamente accettati. Ne ricordiamo alcuni: Apprendibilità, Intercambiabilità (ogni parlante svolge, nell’atto enunciativo, il ruolo di emittente e ricevente), Feedback completo (il parlante riceve il suo enunciato nel momento stesso in cui lo produce), Spiazzamento ( possibilità di parlare di cose lontane nel tempo e nello spazio), Riflessività ( possibilità di parlare con la lingua della lingua stessa), Prevaricazione (possibilità di mentire, cioè produrre proposizioni che non hanno corrispondente nella realtà), Trasferibilità (relativa indipendenza delle lingue verbali dalla sostanza dell’espressione), Narratività, ecc. 16. Non ritengo necessaria una modifica dell’apparato concettuale di linguistica e neurobiologia, diversamente da quanto si sostiene da parte di alcuni. Recentemente, ad esempio, D. Poeppel, G. Hickok (2004) affermano che, non solo occorre gettare un ponte tra l’apparato concettuale e tecnico della linguistica e i meccanismi neurobiologici – come è ovvio ed auspicabile - ma, anche, che sia necessaria una modifica dell’apparato concettuale delle due discipline. 17. Cfr. P. Pietrini, et al. (2004). 18. E’ noto, ad esempio, che il sistema uditivo centrale può sperimentare una riorganiz- 05-18 NICOLAI.qxp 29-10-2004 9:13 Pagina 18 18 zazione funzionale in seguito a mutamenti negli stimoli uditivi. E’ molto illuminante, relativamente a questo aspetto di una plasticità di tipo adattivo, un esperimento condotto, prima e dopo intervento riparatore, su soggetti sordi acquisiti (Tecchio et al. 2000). Le vie acustiche ascendenti arrivano alla corteccia temporale, dove si collocano secondo una distribuzione tonotopica: ad ogni punto corrisponde un tono puro differente, tanto che, se si mappano dei soggetti con la MEG mentre si fanno loro ascoltare dei toni puri e si valuta la distribuzione di questi in termini di attivazione cerebrale, si ha una particolare distribuzione della localizzazione del tono sulla corteccia. Il dato interessante è che, se si misura quanta corteccia è occupata da questa gamma di toni (che, nell’esperimento in oggetto, va da 250 a 2000 Hz), si osserva che tale lunghezza è in media di 9 mm. Quando però sono mappati pazienti con ipoacusia da otosclerosi, questa distanza si riduce a 2 mm di lunghezza: la discriminazione tonale è cioè contratta e si sovrappone parzialmente. In modo ancora più interessante, in seguito a timpanoplastica, comincia a manifestarsi, a due mesi dall’intervento, un miglioramento che procede linearmente (nello studio il follow up termina a 8 mesi) e la situazione torna simile a quella dei soggetti normoudenti. 19-34 PELLEGRINI.qxp 29-10-2004 9:09 Pagina 19 19 Qualità della vita, dei servizi, delle relazioni P. Pellegrini In questo contributo vorrei svolgere alcune riflessioni sul concetto “qualità della vita”, che è di utilizzo sempre più frequente in sanità ed anche in psichiatria. L’argomento non è semplice in quanto parlare di qualità della vita pone difficoltà di definizione e di tipo metodologico. Inoltre la valutazione della qualità della vita è piuttosto recente, essendo iniziata nel periodo della deistituzionalizzazione e dell’inserimento nella società di pazienti con gravi disturbi mentali che accanto a bisogni sanitari presentavano anche rilevanti problemi sociali (reddito, casa, lavoro). Mi sembra utile cominciare riassumendo brevemente alcune nozioni tratte dallo studio di Ruggeri et al. (1999) cui rinvio per approfondimento. Nella letteratura il problema della qualità della vita è stato affrontato secondo 3 diverse prospettive: - La qualità della vita in generale che risulta costituita da tre dimensioni: il livello di funzionamento globale, le risorse disponibili per raggiungere i propri obiettivi, il senso di benessere e soddisfazione. Queste dimensioni includono a loro volta numerose aree di vita (famiglia, relazioni sociali, lavoro, situazione finanziaria e abitativa). La prospettiva globale è quella che viene privilegiata non solo per gli studi sulla qualità della vita nella popolazione generale ma anche per quanto attiene agli studi sull’efficacia degli interventi effettuati dai servizi di salute mentale collocati nella comunità. - La qualità della vita legata alla salute che prende in considerazione il funzionamento globale e il senso di benessere soggettivo mentre omette ogni riferimento alle risorse che una persona ha per raggiungere i propri obiettivi. - La qualità della vita legata alla malattia che valuta l’impatto che i sintomi di un disturbo e gli effetti della terapia hanno sulla qualità della vita. E’ quindi importante sapere, di volta in volta, a quale tipo di prospettiva 19-34 PELLEGRINI.qxp 29-10-2004 9:09 Pagina 20 20 si fa riferimento. Per l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la qualità della vita “è una percezione individuale della propria posizione nella vita all’interno del contesto della cultura e dei valori in cui si vive, in relazione ai propri scopi, aspettative, standard e interessi” (WHOQOL Group,1995) Secondo altre definizioni la qualità della vita viene variamente intesa come salute, benessere, felicità, soddisfazione, insieme di tutti gli aspetti dell’esistenza, combinazione di elementi oggettivi e soggettivi, come percezione individuale. Per studiare la qualità della vita vengono presi in considerazione 3 tipi di indicatori: indicatori economici indicatori sociali indicatori soggettivi 1) Indicatori economici: reddito, attività produttive e commerciali Nella scelta di questi indicatori vi è l’assunzione implicita che un incremento dell’attività economica comporti un aumento del benessere. Sappiamo che non esiste un legame diretto, lineare fra prosperità e benessere. 2) Indicatori sociali: si sono via via prese in considerazione caratteristiche socio-demografiche, stratificazione sociale, tassi di disoccupazione , tecnologia, organizzazioni dello stato e dei servizi, religione ecc. Gli indicatori sono stati raggruppati in gruppi omogenei definiti aree di vita: aree del benessere fisico e mentale, area delle relazioni con gli altri, area delle attività sociali e del tempo libero. Gli indicatori sociali sono parzialmente inadeguati perché descrivono le condizioni di vita ma non valutano direttamente le esperienze vissute. La debole associazione tra condizioni di vita e percezione soggettiva di esse è ben dimostrata empiricamente. Molto importanti sono le esperienze interne, la propria realizzazione, la fiducia in se stessi, l’armonia, la libertà , il piacere, l’amore. 3) Indicatori soggettivi sono il benessere, la felicità, la soddisfazione verso la propria vita. Benessere soggettivo: si compone di percezione della qualità di vita, benessere psicologico (autostima e forza dell’Io). Katsching (1997) distingue i seguenti modelli di qualità della vita: Modello della soddisfazione: prende in considerazione tre variabili: le caratteristiche personali, le condizioni oggettive nelle varie aree della vita, la soddisfazione circa le condizioni di vita. 19-34 PELLEGRINI.qxp 29-10-2004 9:09 Pagina 21 21 Alla base vi è l’assunzione implicita che il livello della qualità della vita dipenda dalla misura in cui le condizioni oggettive ne soddisfano i bisogni e desideri. Modello della importanza - soddisfazione: valuta sia la soddisfazione in un’area di vita sia l’importanza che essa riveste per la persona. Modello della funzionalità di ruolo: le opportunità sociali sono inserite in ruoli sociali e ciascuno è interprete di uno o più ruoli (genitore, amico, lavoratore ecc. ) e attraverso essi ottiene la possibilità di soddisfare i suoi bisogni di base e quelli di grado più elevato (stima, autonomia, affiliazione ecc.) Modello multidimensionale: orientato all’azione che prende in considerazione dimensioni psicologiche cognitiva (soddisfazione) affettiva (benessere), dimensioni sociali (funzionamento psico sociale e condizioni ambientali). Ogni dimensione può influenzare l’altra. Modello stress- vulnerabilità: la qualità della vita dipende dalla differenza fra aspettative personali e realtà oggettiva. In questo caso, la qualità della vita, che deve essere considerata all’interno di un contesto ambientale, sociale e culturale, può essere definita solo in termini soggettivi. Quindi vanno tenuti in considerazione i processi di frustrazione e perdita che la malattia mentale, specie se grave, può determinare alla persona riguardo alle sue aspettative e a quelle della famiglia; il possibile crearsi di aree fortemente conflittuali fra utente, familiari e servizi investiti di aspettative irrealistiche ma molto comprensibili: guarire subito, ritornare in fretta ai progetti, riprendere i precedenti rapporti ecc. Viene da chiedersi se una quota di insoddisfazione verso i servizi non abbia anche a che vedere con questi fattori. Tenere conto solo del dato soggettivo porta a valutazioni che possono essere deformate. Ad esempio alcuni studi hanno rilevato un alto livello di soddisfazione di pazienti ricoverati nonostante le scadenti condizioni oggettive di vita. Successivamente, analisi più accurate hanno dimostrato che in molti pazienti più che di soddisfazione si trattava di rassegnazione a vivere ricoverati visto l’elevato grado di incertezza e di insicurezza che avrebbero riscontrato una volta dimessi. Pertanto sembra necessaria una valutazione sia soggettiva che oggettiva. Dopo aver brevemente esaminato i problemi di definizione e metodolo- 19-34 PELLEGRINI.qxp 29-10-2004 9:09 Pagina 22 22 gici esporrò quanto sembra emergere dalle ricerche e che pare trovare riscontro anche nella percezione che si ha nei servizi. Vedremo prima la qualità della vita dei pazienti e poi dei familiari. Qualità della vita dei pazienti psichiatrici In sintesi si può dire che: I pazienti affetti da disturbi mentali gravi possiedono una qualità di vita peggiore rispetto alla popolazione generale. Questo viene attribuito: alle precarie condizioni economiche, alla mancanza di un’occupazione stabile, all’assenza/carenza di una rete sociale di supporto. Il ruolo delle variabili socio-demografiche è controverso (anche se il sesso femminile sembra avere una maggiore facilità nello svolgimento di ruoli sociali che favoriscono una maggiore integrazione ed una conseguente migliore qualità di vita). Per quanto attiene alla psicopatologia, pur con risultati non sempre univoci, pare che i sintomi psicotici, in particolare quelli negativi e in misura minore anche i sintomi ansioso/depressivi siano correlati con la peggiore qualità della vita. Esiste una correlazione fra qualità della vita e il grado di psicopatologia percepita dal paziente; la gravità della disabilità è correlata alla insoddisfazione per la propria salute ma anche ad una scarsità di rapporti affettivi e ad una rete sociale molto povera. Gli studi accreditano l’ipotesi che una rete di rapporti sociali più ampia si associ ad una migliore qualità della vita. I pazienti che vivono in contesti che favoriscono una maggiore autonomia hanno una qualità di vita migliore rispetto ai pazienti ricoverati o che risiedono in strutture ad alto grado di protezione. Studi che hanno riguardato i pazienti dimessi hanno rilevato le maggiori variazioni nelle condizioni abitative, relazioni sociali e tempo libero. Mentre, soggettivamente, le persone si sentono più libere e indipendenti. Tuttavia non sempre questo corrisponde ad una maggiore soddisfazione. Probabilmente per comprendere come si formi il giudizio sulla qualità della vita soggettiva è necessario esplorare concetti psicologici più ampi come l’autostima e il senso di padronanza dell’ambiente, fattori questi ritenuti responsabili del successo degli interventi terapeutici e del benessere del paziente. (Barry,1997 citato in Ruggeri, 1999). Qualità della vita dei familiari 19-34 PELLEGRINI.qxp 29-10-2004 9:09 Pagina 23 23 Dallo studio EUFAMI (Hogman,1994) riguardante familiari conviventi emerge: L’età media dei familiari è piuttosto elevata circa 60 anni; si tratta per il 7288% di donne, per il 70% sono madri che spesso vivono sole; la salute fisica e psichica (ansia, insonnia, irritabilità, depressione) dei familiari viene considerata peggiore rispetto ai pari età della popolazione generale; La famiglia viene spesso sconvolta nei suoi progetti, la vita è dominata dalla sensazione di doversi far carico della persona malata, in un clima di paura, preoccupazione, assenza di prospettive; Il carico di lavoro viene riferito come eccessivo; all’incirca un terzo dei familiari passa più di 30 ore in attività di assistenza; il 60-90% riferisce di aver bisogno di una pausa; Il 50% dei familiari si assume la responsabilità di somministrare la terapia farmacologica; i sintomi psicotici (positivi e negativi), l’abuso di sostanze, l’aggressività, le minacce di suicidio, il rifiuto delle cure costituiscono i principali problemi. I timori per il futuro: oltre il 90% riferisce che la sua più grande preoccupazione è “cosa succederà quando sarò invalido o non ci sarò più?”; timore di ricadute in episodi psicotici. Vengono riferite anche difficoltà sociali: indifferenza, rifiuto, stigma, esclusione sociale, difficoltà di tipo economico (spesso il paziente non lavora e il familiare deve ridurre o abbandonare la propria attività per seguirlo). Le richieste ai servizi: essere più presenti nella gestione delle crisi; non essere colpevolizzati ma sostenuti; aver informazioni sulla malattia e il trattamento; avere più contatti con i curanti; essere compresi dagli operatori circa le difficoltà della vita quotidiana; aver rapido accesso all’ospedalizzazione e avere più strutture residenziali, semiresidenziali e ambulatoriali; costruire la continuità terapeutica (case manager, infermieri di comunità ecc.) Essere maggiormente aiutati sul piano sociale ed economico: il 45% degli intervistati ha detto di aver tratto beneficio dall’assistenza al congiunto malato (affetto, maggiore comprensione della dimensione umana, sentirsi utili, importanti, necessari, avere un compito anche in età avanzata, aver conosciuto altre persone, amici, operatori); sembra importante la struttura di personalità; la maggior parte dei familiari non vede alcun vantaggio e scarse possibilità di miglioramento; la qualità della vita dei familiari dipende dallo stato di salute del congiunto malato: ”se lui sta bene, sto bene anch’io, se lui soffre soffro anch’io”. Indicazioni: riconoscere il ruolo dei familiari nella salute mentale; soste- 19-34 PELLEGRINI.qxp 29-10-2004 9:09 Pagina 24 24 nerli, aiutarli e trovare forme di “gratificazione” per il carico; aumentare la sensibilità delle istituzioni; predisporre strumenti per il futuro (che consentano di affrontare i problemi assistenziali ed economici). La qualità di vita dei pazienti e dei familiari sembra chiamare in causa la qualità dei servizi su cui vorrei svolgere ora alcune riflessioni. Qualità dei servizi Come è noto la qualità dei servizi è dovuta a molteplici fattori e in questa sede mi limiterò ad alcune riflessioni sulla qualità percepita. E’ fuori dubbio che la soddisfazione degli utenti è sempre più uno dei parametri per la valutazione dell’esito e della qualità degli interventi psichiatrici. Raggiungere un buon livello di soddisfazione sembra importante anche perché migliora l’adesione alle cure. Pascoe et al. (1983, citato in Ruggeri, 1999) definiscono la soddisfazione dell’utente come “la reazione dell’utente al contesto, al processo e al risultato della sua esperienza con il Servizio”. Tale reazione si basa su una valutazione sia cognitiva che emotiva dell’utente in particolare attraverso un confronto tra aspetti della sua esperienza e le sue aspettative. Alcune aspettative consapevoli o inconsapevoli sono: guarire completamente e subito, essere considerati pazienti unici e speciali, investire il terapeuta di tutti i problemi affettivi, relazionali e sociali (non avere soldi, casa, essere in crisi con il partner, non sapere come trascorrere il tempo, solitudine ecc.) fino a cercare di sviluppare una relazione al di fuori della cura con aspettative salvifiche; portare allo psichiatra tutti i problemi sanitari (anche non psichiatrici, esempio la non autosufficienza) esistenziali o religiosi. Pur tenendo conto delle diverse difficoltà metodologiche, sembra che circa il 70- 80% dei pazienti sia soddisfatto delle cure ricevute in ospedale, nelle residenze, nel territorio. Le aree di maggiore soddisfazione sono quelle che riguardano il rapporto con lo staff curante piuttosto che le caratteristiche fisiche o ambientali delle strutture. I pazienti che traggono meno soddisfazione sono i pazienti affetti da disturbi psicotici, che hanno subìto TSO, o hanno avuto lunghi periodi di ospedalizzazione. La soddisfazione del processo di cura è correlata all’esito clinico del disturbo, alla qualità del programma terapeutico, alle capacità tecniche e al- 19-34 PELLEGRINI.qxp 29-10-2004 9:09 Pagina 25 25 la professionalità. Elevati livelli di soddisfazione sono predetti da un basso grado di disabilità all’inizio del trattamento e da un miglioramento del funzionamento globale nei primi 6 mesi di cura. La qualità della cura è correlata positivamente con la qualità della vita e quindi una buona cura può contribuire in modo diretto a parità di altre variabili, a migliorare la qualità di vita; dai dati delle ricerche effettuate dal Servizio di Verona Sud (Ruggeri, 1999) emerge che non è tanto l’intensità dell’utilizzazione del servizio quanto la qualità dell’interazione utente operatori, cioè la soddisfazione dell’utente ad essere correlata con la qualità della vita. Il che, di contro, fa pensare che vi siano altri utilizzatori poco soddisfatti forse perché il Servizio non fornisce o non può fornire ciò che essi si aspettano. Le aree dove le persone dichiarano la maggiore insoddisfazione sono quella del benessere generale (80% di insoddisfatti) e quella finanziaria (80% di insoddisfatti). Il benessere generale richiama la necessità di tutelare in modo più efficace la salute (compresa quella somatica) dei pazienti, visti anche i dati su mortalità e attesa di vita delle persone con disturbi mentali (Dinelli, 1998) . Mentre, per quanto riguarda la situazione finanziaria, voglio ricordare i dati emersi da una ricerca effettuata presso il Dipartimento di Parma (Bertoli, 2001) su 50 utenti affetti da schizofrenia da cui emergeva che il 20% dei pazienti (in larga parte giovani sotto i 30 anni) non aveva alcun reddito e che il 75% aveva entrate inferiori al “minimo vitale” (allora considerato di £800.000) il che comportava gravi limitazioni nella partecipazione ad attività sociali e ricreative e contribuiva a favorire la lungodegenza nelle strutture di ricovero. E questo fa riflettere sull’entità delle pensioni, sussidi e delle borse lavoro (che spesso bastano a coprire solo le spese per caffè e sigarette) e sul peso economico che i pazienti gravi hanno per le loro famiglie. Altre ricerche confermano che le aree delle relazioni sociali, attività ricreative e del lavoro sono ad elevato indice di insoddisfazione (circa il 60%) e basta pensare al “tempo vuoto” dei pazienti, al loro “deserto relazionale”, ai fine settimana e alle festività... Dagli studi emerge che la soddisfazione per le cure ricevute non è tanto legata a fattori ambientali o organizzativi quanto alle caratteristiche umane di chi fornisce assistenza e al clima emotivo all’interno del quale si svolge il trattamento. Nello studio di Uttaro e Mechanic (1994) la maggior parte degli utenti 19-34 PELLEGRINI.qxp 29-10-2004 9:09 Pagina 26 26 esprimeva il desiderio di avere ruoli e opportunità simili a quelli delle altre persone: attività lavorative, relazioni intime, un luogo decoroso dove vivere, denaro. Solo il 5% di essi chiedeva una maggiore assistenza psichiatrica. “Questi dati suggeriscono come che il miglioramento della qualità di vita (...) dipenda da aspetti sostanzialmente al di fuori del controllo del personale dei servizi psichiatrici “(Mechanic, 1997 citato in Katsching). Da quanto emerso sembra che, da un lato la qualità della cura possa essere uno dei possibili fattori di miglioramento della qualità della vita e dall’altro che molti altri aspetti fondamentali per la qualità della vita non dipendano dagli operatori psichiatrici. Qualità della cura significa in primo luogo qualità delle relazioni. Questo a partire da una corretta valutazione del quadro clinico, sociale e degli interventi conseguenti, che risulta essere un’operazione complessa nella quale, consapevolmente o meno, entrano sempre molte componenti: paziente, familiari, contesto sociale, operatori, assetto dei servizi. Le posizioni di ciascuno di questi soggetti può essere molto diversa, a volte gravemente conflittuale e la parola dell’utente, in molti casi, per una presunta scarsa attendibilità, sembra essere quella che conta meno. Tuttavia, gli studi sulla “credibilità” indicano che le valutazioni soggettive sulla qualità della vita dei pazienti affetti da schizofrenia, nel complesso, non sembrano diverse da quelle espresse dai pazienti dei servizi di medicina generale (anche se talora, il giudizio può essere più o meno gravemente distorto dagli aspetti psicopatologici e in condizioni di istituzionalizzazione possono essere considerate soddisfacenti condizioni che ad una valutazione esterna, “oggettiva”, non appaiono tali). Molti utenti portano la loro sofferenza, il loro dolore, la rassegnazione, la mancanza di speranze e sotto il profilo clinico è bene identificare le aree che possono migliorare con un intervento medico o psicologico e quelle che richiedono interventi sociali. E’ questo il primo livello dell’appropriatezza. La relazione utente operatore e l’alleanza terapeutica divengono così i parametri di riferimento e le possibili misure del livello di concordanza circa gli obiettivi di salute, i metodi per raggiungerli, gli impegni reciproci da perseguire. In questo ambito va compresa la eventuale insorgenza di conflitti tra utente - famiglia - servizio - contesto, con tutti i possibili diversi scenari. In questo ambito, la composizione e l’elaborazione dei conflitti, la condi- 19-34 PELLEGRINI.qxp 29-10-2004 9:09 Pagina 27 27 visione e la gestione dei livelli di rischio sono, a mio parere, i metodi principali per il miglioramento della qualità. Tutto questo implica che il servizio, tenendo conto dell’attuale legislazione, insieme alle competenze tecniche specifiche e alla chiarezza circa le proprie prestazioni, assuma fra i suoi compiti la promozione dei diritti/doveri dell’utente, in una logica di inclusione sociale che tenda a valorizzare tutta la rete informale, ed in particolare le risorse di cui sono portatori gli utenti; in altre parole non rientra nei compiti degli operatori la risoluzione dei problemi non sanitari ma ritengo che i servizi abbiano il compito comunque di orientare, sostenere, dare forza agli utenti e alle famiglie senza logiche di delega abbandonica (agli stessi interessati che sperimenterebbero ulteriormente la loro impotenza o ad altri enti che facilmente dichiarano, spesso a torto, la loro incompetenza o le loro difficoltà: a un paziente che cercava casa, in Comune gli risposero che prima dovevano sistemare gli extracomunitari). E’ un compito difficile, spesso ingrato, quello di sollecitare altre agenzie e altri servizi (carichi a loro volta di problemi), di cercare soluzioni creative, di scoprire opportunità, ma è a mio avviso un compito ineludibile se si vuole che il contesto possa pian piano cambiare, se si vuole che il paziente possa esprimere le sue potenzialità. Questo sul versante esterno mentre all’interno del servizio è necessario sviluppare esperienze di protagonismo, emancipazione, responsabilizzazione, autogestione (comprese anche le esperienze di mutuo aiuto) che evitino o riducano la regressione, la dipendenza istituzionale, lo stigma. Si pone così il problema della qualità dell’accoglienza sociale dei pazienti psichiatrici e forse più in generale dei portatori di diversità. Viene da chiedersi se non sia la qualità dell’accoglienza sociale (del sentirsi partecipi, dell’avvertire di avere un proprio posto e ruolo) un importante fattore di qualità della vita di tutti ed anche un possibile fattore preventivo del disagio (giovanile ad esempio). Da questi elementi sembra emergere la necessità di una valutazione pluriassiale della qualità della vita che tenga conto oltre che della prospettiva del paziente anche delle opinioni dei familiari (inclusa la valutazione del c.d. carico familiare), degli operatori e dei dati obiettivi relativi alla qualità della vita in un determinato contesto sociale. Qualità intesa come qualità delle relazioni che, accanto a precise definizioni di responsabilità e a capacità professionali in grado di rendere terapeutiche le relazioni stesse, portino ad una dinamica capace di generare 19-34 PELLEGRINI.qxp 29-10-2004 9:09 Pagina 28 28 processi evolutivi ed equilibrati nella gestione dei poteri di cura, di limitazione della libertà, di denuncia , di abbandono o delega. Questo rischia di far scivolare il discorso sulle politiche sanitarie e sociali. Ed è chiaro che se il rapporto con l’erogatore delle prestazioni assume un connotato privatistico si possono avere buoni standard di qualità delle cure ma le ricadute sulla qualità della vita o sulla qualità sociale possono essere molto variabili e in molti casi trascurabili. Ci si muove in quel contesto negli USA dove sono più frequenti le controversie legali ma nessuno si meraviglia o protesta per le migliaia di senza tetto, molti dei quali sono malati di mente non curati, in giro giorno e notte nelle grandi città. Nel nostro contesto, caratterizzato da un sistema di welfare universalistico e pubblico nella programmazione e nei finanziamenti (mentre è a gestione integrata: pubblico, privato sociale e imprenditoriale), il legame fra qualità delle cure, qualità di vita e qualità sociale può essere più diretto, i servizi sono stimolati giustamente a fare di più e meglio, ma anche altri soggetti e istituzioni non sanitarie sono chiamate ad intervenire per promuovere quel bene individuale, relazionale e sociale che è la salute mentale. Ed è chiaro che produrre salute costituisce un fattore produttivo per un paese e non solo fonte di spesa. La qualità dei servizi comprende molte variabili: qualità organizzativa, qualità dei professionisti, qualità percepita; per migliorare la qualità vi sono i diversi strumenti del “governo clinico”: procedure, linee guida, audit, carta dei servizi, appropriatezza, efficacia, ecc. Su questi temi, un grosso sforzo è in atto in diverse aree del paese, sia nel pubblico che nel privato. Cito tra gli altri, per appartenenza, la Regione Emilia Romagna che ha cercato di definire gli standard di prodotto dei Dipartimenti di salute mentale.(De Plato G., 2002), e uno dei lavori sull’accreditamento dei Servizi (Erlicher, 1999) Qualità e conflitti In questa sede, senza entrare nel merito dei singoli fattori sopracitati, mi piace soffermare l’attenzione sulla qualità come prodotto relazionale complesso, come capacità adulta di affrontare aree potenzialmente conflittuali che insorgono nell’attività clinica. Sono possibili diversi scenari. Alleanza familiari - tecnici a scapito del paziente; accadeva spesso in manicomio e purtroppo ancora oggi questo scenario è frequente. E se un giusto protagonismo dei familiari costituisce un fattore utile al miglioramento della qualità, va evitato che esso porti a 19-34 PELLEGRINI.qxp 29-10-2004 9:09 Pagina 29 29 pesanti condizionamenti dell’attività clinica e in fondo si traduca in un danno per gli utenti, specie se si realizza poi una stretta alleanza fra soggetti forti, società, familiari, tecnici (a cui viene chiesto/preteso il compito di tutela sociale, di contenimento - esclusione sociale, per rendere silenzioso il conflitto) proprio a scapito del soggetto debole, il paziente. Alleanza familiari - paziente a scapito dei tecnici/servizio: sono le tipiche situazioni in cui viene avanzata una richiesta di aiuto che contemporaneamente viene svalutata e negata, impedendo ai tecnici, consapevolmente o meno, di svolgere ogni azione efficace, magari per riproporre subito dopo una richiesta urgente. La relazione con il servizio è ovviamente insoddisfacente perché serve come area ove proiettare il male, l’inefficienza, il negativo per poter mantenere lo status quo. Alleanza società - familiari a scapito di paziente e servizio: è la situazione che si determina, ad esempio, quando la rivendicazione dei familiari viene ad avere un grande rilievo pubblico, con riscontri politici ecc. ma si distacca totalmente dai bisogni dei pazienti e degli operatori che finiscono con il subirne dall’esterno le posizioni. E’ importante riflettere in una società basata sull’informazione (e sul rischio della deformazione) circa il ruolo della denuncia (l’articolo, la lettera al giornale, l’interpellanza ecc.) e le diverse ricadute comprese quelle nell’ambito di relazioni di cura in cui fiducia, stigma, chiusura, rischio sono spesso fortemente intrecciati e particolarmente fragili. Alleanza paziente - servizio contro i familiari: in passato la colpevolizzazione dei familiari era frequente e come è noto non portava a risultati positivi. Come è augurabile che non si torni ad una psichiatria ideologica (di qualsiasi indirizzo o scuola!), autoreferenziale, distaccata e settaria. Alleanza paziente - familiari - servizio contro la società: quando si attuano dinamiche rivendicative che a volte travalicano la giusta richiesta di rispetto dei diritti ma mettono in moto meccanismi proiettivi e identificano nella società la responsabilità di tutto. Se è ovvio riconoscere che ogni società ha i suoi limiti, occorre anche evitare l’idea che possano esistere soluzioni miracolose o spazi contenitori asociali (al di fuori della società) ove collocare i conflitti e le contraddizioni, spazi a valenza manicomiale. La qualità sociale di una comunità è certamente minore se viene avvallata, sostenuta e praticata la segregazione dei diversi. La qualità è data anche dall’appropriatezza degli interventi tecnici e della relativa spesa. Ma questi come si declinano rispetto ai conflitti prima citati? 19-34 PELLEGRINI.qxp 29-10-2004 9:09 Pagina 30 30 Ad esempio dai dati rilevati da una ricerca multicentrica effettuata nella Regione Lombardia (Arrighi, 2002) un paziente affetto da schizofrenia ha costi molto variabili a seconda del programma attuato: si va da una media di circa 11 milioni all’anno, ad un costo di circa 2,3 milioni nel territorio, a poco più di 10 milioni in una semiresidenza, ad un costo di 66 milioni di lire/anno per le strutture residenziali. In termini di appropriatezza/qualità quale ruolo giocano famiglia e comunità sociale nel determinarsi della domanda/bisogno (inteso come socialmente negoziato) di strutture residenziali? Siamo certi che i pazienti che sono a domicilio abbiano potuto usufruire di tutti i percorsi terapeutici indicati per la loro patologia? Il punto di vista del paziente viene sempre tenuto nella giusta considerazione? Quale risposta dare a quei pazienti che necessitano di assistenza a lungo termine e che tendenzialmente peggiorano nel tempo? Gli studi sulla qualità indicano la necessità di pensare a soluzioni non ospedaliere, il più possibile vicine alla casa di abitazione ma questo percorso richiede alti livelli di collaborazione fra soggetti diversi (pubblici e privati). Familiari, pazienti e comunità sociale devono essere partecipi dei processi che portano a confrontarsi con l’appropriatezza clinico riabilitativa e di conseguenza anche con il problema delle risorse (psichiche, culturali, sociali ed economiche) e sulla libertà di scelta (accade sempre più spesso che si visitino pazienti che non accettano la terapia farmacologica consigliata o utenti che non accettano il ricovero in casa di cura o di entrare in una comunità) e quindi sulla libertà di cura (o il servizio, specie se pubblico, deve sempre?) con i necessari approfondimenti etici e i riflessi legislativi. Qualità quindi diviene chiarezza nella contrattualità. Almeno così mi pare oggi , nella nostra società. La qualità è il tema intorno al quale si esprime l’idea che ciascuno ha delle relazioni con l’altro e la definizione di sé e quindi fortemente connessa con l’identità e l’identità riflessa. E quindi anche un’idea dei servizi e della società. In questo processo il soggetto più debole è certamente il paziente con disturbi mentali gravi, quello che ha bisogno del massimo sostegno per affermare i suoi diritti. Relativamente a questo, pur con diverse peculiarità, il problema del paziente grave trova affinità con quello di altri soggetti deboli (anziani, disabili ecc.) e implica la ricerca di forme in grado di garantire il rispetto dei diritti delle persone sofferenti e, al tempo stesso, ade- 19-34 PELLEGRINI.qxp 29-10-2004 9:09 Pagina 31 31 guati livelli di cura e protezione. Per questo è auspicabile la presenza responsabile di “figure terze” rispetto ai conflitti sopracitati (Sindaci, Giudici, commissioni, autorità ecc.) e lo studio di forme innovative per affrontare le controversie. Voglio fare ancora un cenno agli aspetti economici, visto che la questione finanziaria è una di quelle di maggiore insoddisfazione dei pazienti e da essa deriva un peso alle famiglie anche di tipo economico. Vi è una richiesta molto forte delle associazioni dei familiari affinché l’assistenza psichiatrica rimanga nell’ambito della sanità (pubblica e universalistica); è una richiesta che personalmente condivido in un’ottica che abbia la capacità di valutare quale è il miglior intervento possibile (dall’ottimale al possibile, all’interno di una strategia di gestione dei conflitti e condivisione dei rischi) e non nell’ambito di una visione meramente difensiva di posizioni acquisite (ad esempio non si può dimettere nessuno) oppure di stampo neomanicomiale (se non guarisce non si può dimettere o andare in un’altra struttura) che fanno venire il sospetto che si guardi più a preservare la tranquillità o posizioni di privilegio (a volte anche di tipo economico) dei familiari che alle effettive necessità dei pazienti i cui diritti vanno promossi e tutelati al pari degli altri cittadini compreso il diritto ad utilizzare per sé il proprio patrimonio economico. In merito a questo colpisce come spesso, in diverse realtà, ci siano più preoccupazioni a tutelare patrimoni di lungodegenti che ad assicurare un minimo di reddito a giovani utenti. Integrare il punto di vista degli utenti e dei familiari nella programmazione dei servizi costituisce un obiettivo di grande importanza che può portare a sviluppare iniziative anche nell’ambito della ricerca, della sperimentazione e della gestione dei servizi (faccio riferimento a coraggiose esperienze di auto aiuto, auto gestione ecc.) ma non può sostituire la visione degli operatori e soprattutto fare a meno delle conoscenze scientifiche e tecniche. Al riguardo, ritengo essenziale considerare sempre il punto di vista degli operatori spesso sottoposti ad un impegnativo lavoro che certamente si può definire “a rischio” (di burn out, drop out) che va compreso, valorizzato (attraverso formazione continua, supervisioni, partecipazione alla programmazione, benefici economici , valorizzazione del ruolo sociale ecc.), anche perché, come si è visto una buona interazione utente-operatori - familiari è garanzia di qualità in senso generale. Infine, senza dimenticare quanto ci siamo detti, in tempi di pianificazione, procedure ecc. da molti vissuti come noiosi ed opachi, voglio ricor- 19-34 PELLEGRINI.qxp 29-10-2004 9:09 Pagina 32 32 dare che la qualità implica, studio, ricerca e creatività (Goleman, 1999), anche nostra. Conclusioni La qualità della vita, pur essendo un concetto molto complesso e articolato, rappresenta un riferimento importante per le politiche sanitarie e sociali. Le conoscenze acquisite sembrano indicare la necessità di porre fra gli obiettivi delle politiche per la salute mentale il miglioramento della qualità della vita di pazienti e familiari. Questa dipende solo in parte dall’attività degli operatori dei servizi e molti interventi sembrano essere di tipo sociale, legati al contesto, alle strategie per affrontare le diversità, alle modalità di accoglienza, ad un insieme di elementi che riguardano la rete informale e che, nel complesso, tendono a costruire la qualità sociale. Ai servizi giungono segnali chiari circa la necessità di migliorare la salute/benessere degli utenti, le condizioni economiche, il loro protagonismo aumentando, direttamente o attraverso azioni sul contesto, le opportunità di ruoli diversi da quello di paziente psichiatrico. I servizi devono migliorare la qualità delle cure e questo può avvenire con maggiori competenze scientifiche, tecniche e relazionali. Su questo ultimo elemento ho voluto concentrare l’attenzione in quanto ritengo che la psichiatria debba e possa gestire con saggezza ed equilibrio situazioni sempre potenzialmente conflittuali fra i molteplici attori in atto (pazienti, familiari, contesto sociale , operatori,) preservando il compito della cura e, al contempo, promuovendo il rispetto dei diritti/doveri e la qualità sociale. La capacità di comporre in modo autorevole i conflitti costituisce un fattore di qualità. Ai singoli operatori (e al loro lavoro in/di gruppo) è richiesta la capacità di saper creare e mantenere relazioni che siano terapeutiche, di qualità, percepite dal paziente come emotivamente soddisfacenti. Relazioni fondate sul rispetto, la chiarezza, la contrattualità. Questo migliora l’adesione alle cure e può creare un ambito (la ” realtà psichica condivisa”, la “base sicura”) in cui affrontare anche i problemi esterni. Resta aperto il problema di fondo su come, nella realtà italiana così profondamente mutata dalla riforma, si intenda affrontare il problema della qualità di vita dei pazienti cronici che vanno incontro a decadimento cognitivo, dei pazienti soli e di come fare politiche per le famiglie veramente efficaci. Bibliografia Arrighi E., Baj G et al. (2002) Pattern di trattamento e costi nei dipartimenti di Salute Men- 19-34 PELLEGRINI.qxp 29-10-2004 9:09 Pagina 33 33 tale della Regione Lombardia Epidemiologia e Psichiatria Sociale, Monograf Supplement 5 Bertoli S., Pellegrini P. et al. (2001) “Costi e redditi in schizofrenia”, Problemi in psichiatria, 25/01 43-50 Dinelli U, De Marco P., Sartorelli S. (1998) Mortalità e attesa di vita come strumento di valutazione gestionale in psichiatria Problemi in Psichiatria , 16/98 23-32 De Plato G., Gasparini M (2002) (a cura di) Psichiatria e garanzia di qualità. Il progetto della regione Emilia Romagna. Atti del Work shop Bologna 11 dicembre 2001, Editrice Compositori. Erlicher A., Rossi G., (1999) Manuale di accreditamento professionale per il Dipartimento di Salute Mentale. Centro Scientifico Editore Goleman D. (1992) Ray M., Kaufman P. Lo spirito creativo , Bur Saggi Hogman G. (1994) Eurpean Questionnaire Survey of Carers. European Federation of Families of the Mentall Ill (EUFAMI) Heverlee Belgium: Groeneweg 151, B 3001 Katsching H., Freeman H, Sartorius N (1997)., “La qualità di vita in psichiatria” Pensiero Scientifico Ed. 1999 Ruggeri M, Santolini N, Stegagno M et al. (1999) “La qualità di vita dei pazienti psichiatrici” Epidemiologia e Psichiatria Sociale Vol. 8 supplemto al N°1 , gennaio marzo 1999 Uttaro CT, Mechanic D. (1994) The NAMI Consumer Survey:Analysis of unmet needs :Hosp comm Psychiatry 45: 372-4 WHOQOL Group (1995) The World Healt Organization Quality of Life Assessment (WHOQOLL) :position paper from the World Healt Organization Social Science and Medicine 41, 1403-1409 19-34 PELLEGRINI.qxp 34 29-10-2004 9:09 Pagina 34 35-46 MINICHIELLO.qxp 29-10-2004 9:10 Pagina 35 35 Il dionisiaco giovanile G. Minichiello 0. La tesi sostenuta da Maffesoli nel saggio “L’ombre de Dionysos. Contribution à une sociologie de l’orge” è a prima vista paradossale. L’attuale società, erede del processo di razionalizzazione così rigorosamente descritto da M. Weber agli inizi del secolo, caratterizzata dal dominio dell’archetipo prometeico su quello dionisiaco cioè dal trionfo della potenza della tecnica e dell'economia, è in effetti già tramontata, è ormai alle nostre spalle anche se si presenta ancora con i caratteri della insuperabilità e della intrascendibilità, ed una nuova età le si è silenziosamente sostituita, l’età del trionfo dell'eccesso e della dissipazione, del principio del piacere e della gratuità, dell'orgiasmo e dell'ombra: l’età dell’indiviso Dioniso. Del resto, a detta di Maffesoli, che qui ben si inserisce in una corrente sociologica di marca “continentale” in opposizione con una corrente più “fredda” di ispirazione anglosassone, i fattori vitali, emozionali e simbolici sono da sempre il fondamento e il cemento dell’insieme societario, ciò che alimenta la “respirazione” e il ringiovanimento perenne delle società, per cui anche il “ritorno” di Dioniso è solo apparente, essendo stato, l’antico dio dei misteri, sempre e comunque il punto di convergenza sotterraneo della società occidentale: questa, infatti, si è sviluppata lungo i canali della razionalizzazione, del primato della tecnica e dell'economia, ma si è conservata restando legata ad un’alta valenza simbolica di natura comunitaria e societaria, ad una logica passionale che anima sempre e di nuovo il corpo sociale, giacché è la socialità che precede ogni società. Oggi che le forme della razionalizzazione sono stanche e soprattutto sono in disgregazione i due elementi che l’hanno sostenuta nel corso degli ultimi due secoli: l’individuale e il sociale (versione impersonale e astratta del legame societario), emerge in primo piano il sostrato dionisiaco di ogni società, il quale non è ancora del tutto manifesto ma è percepibile nei rituali diffusi della vita quotidiana, in ciò che Maffesoli chiama la “confusione banale” e in particolare nelle forme della coscienza giovanile, da 35-46 MINICHIELLO.qxp 29-10-2004 9:10 Pagina 36 36 quelle più comuni a quelle che riflettono un’esperienza limite. Il dionisiaco potrebbe essere l’archetipo unificante una gran massa di fenomeni disparati, sia di tipo sociale quali il tifo, soprattutto calcistico, assunto dai giovani come“senso totale" (Acone, 1988), la fusione comunitaria da discoteca e da concerto, i furori notturni delle bande giovanili, l’uso “eccessivo” del sesso e l’assunzione della droga come comunione consumistica , sia di tipo psicologico come la formazione di un “politeismo psicologico» privo di centro (Hillman, 1983), o la degradazione dell’identità ai livelli di un “io minimo” (Lasch, 1985; Guggenberger, 1987) e di una soggettività “frattale” (Baudrillard, 1987). Il presente lavoro si articola in due parti: una prima, mirante a verificare la validità della categoria del dionisiaco per la comprensione, in prospettiva pedagogica, di alcuni aspetti rilevanti dell’attuale coscienza culturale, soprattutto giovanile; una seconda, che cerca di mostrare come, nella presente società dei “sistemi”, possa stabilirsi un rapporto di analogia tra l’insieme sociale e le forme della “comunione” dionisiaco-orgiastica: risulterebbe di conseguenza molto ridimensionato il “paradosso” di una formazione sociale sopravvivente a sé stessa e si comprenderebbe come, forse, il rumoroso Dioniso attuale non sia che un’altra faccia del taciturno Prometeo. l. Esiste, secondo Maffesoli, una “costante dionisiaca” nella nostra società: la tendenza all’orgia, come elemento catartico e insieme panico, di ebbrezza ma anche di comunione, di furore ma anche di amore. Questo principio orgiastico anche se rientra nelle situazioni di ebbrezza da alcool e da droga, nelle cerimonie tribali in uso presso popolazioni “primitive” richiamanti i baccanali dell’antichità, nei riti di iniziazione e di fondazione, presenta, ai nostri giorni, molti aspetti diversi che si possono far rientrare in una nuova forma di socializzazione; ed è per questo che l’orgia, secondo l’Autore, può essere considerata come una condizione ubiquitaria e accostata a forme di esaltazione o entusiasmo neotribale di cui abbiamo continui esempi nei diversi concerti e festival rock, pop, ecc. e in tante infatuazioni agonistiche e sportive attuali. C’è un preciso rapporto dei giovani con la condizione orgiastica; lo sfrenarsi di istinti “dionisiaci”, che accompagna tante avventure adolescenziali dalla smania di velocità alle luci psichedeliche e alla ricerca della risonanza totale del ritmo della discomusìc è sempre più alla base della loro vita di relazione. Le costanti dell’orgiasmo, come lo definisce Maffesoli, possono essere facilmente individuate. La prima e più rimarchevole è nella sospensione del 35-46 MINICHIELLO.qxp 29-10-2004 9:10 Pagina 37 37 principium individuationis: attraverso l’orgiasmo “l’individuo e il sociale che gli fa da corollario tendono a svanire nel confusionale”. Il processo di civilizzazione e di educazione o l’addomesticamento dei costumi si è fondato su quello che Maffesoli chiama il “principio di individuazione”. L’atomizzazione individuale, i cui grandi momenti sono dapprima la riforma, quindi il cartesianesimo, poi la rivoluzione del 1789, ha prodotto in modo del tutto naturale quell’altra entità che è il “sociale”. L’istituzione del “servizio pubblico” vuole ovviare, con palliativi, alla scomparsa della solidarietà organica e alla espansione della “solitudine gregaria”. Nell’orgiasmo societario, al contrario, “invece di un io attivo, di un soggetto-attore che determina una storia in cammino, quale quello progressivamente impostosi nel XVIII e nel XIX secolo, l’io si diluisce in un’entità più vischiosa, più confusionale. L’individuo non è più fossilizzato in uno stato, in una funzione determinata”. La logica dell’orgia tende all’integrazione dell’inividuo e del sociale in un “confusionale societario indefinito”: è ciò che si verifica nelle situazioni di entusiasmo collettivo, quali la discoteca, il concerto, lo stadio: non c’è più la condizione della “solitudine gregaria”, cioè dell’individuo chiuso in sé di contro al sociale impersonale, ma quella di un soggetto collettivo, di un “io esploso”, in cui vale il principio “io è un altro”. L’esplosione iniziatica dell’io rimanda certamente all’estasi, al superamento dell’individuo. Non si fatica a ravvisare in questa dispersione dell’io, in questa negazione di sé a favore di una identità più vasta, nella quale alla fine ci si ritrova trasfigurati, la radice anche di itinerari di autodistruzione attraverso i “paradisi artificiali” della droga e dell’alcool, ma questo scacco è, in un certo senso, dal punto di vista di Maffesoli, da mettere nel conto, giacché il fondamento della condizione orgiastica è proprio la dissipazione, cioè il meccanismo attraverso il quale la morte stessa viene integrata omeopaticamente con la vita: la droga e l’alcool sono “mezzi” che diventano distruttivi non per i fini che perseguono ma quando questi fini vengono interdetti. La sospensione momentanea del principium individuationis si presenta essenzialmente come equivocità. “Infatti, nella turbolenza delle passioni, è l’equivocità nel suo senso più forte a potersi esprimere. Il carnevale intersessuale, la festa del vino (o della birra), le ‘catene unite’ dei cortei studenteschi o le feste burlesche medievali, le riunioni parzialmente o totalmente religiose, tutto ciò, attraverso l’oscenità e la sfrenatezza che sono loro corollari, permette di scuotere l’assegnazione funzionale, utilitaria e produttiva. Consente anche che si esprima in una maniera più o meno 35-46 MINICHIELLO.qxp 29-10-2004 9:10 Pagina 38 38 spiccata quell’androginia mitica e primordiale che il sociologo può scoprire in molti dei comportamenti della gioventù contemporanea” . Una seconda costante dell’orgiasmo è perciò quella che si può chiamare “complessità olistica”. “In un insieme organico in cui la comunità è primordiale vediamo elaborarsi un intenso gioco delle differenze in ciò che possiamo chiamare reversibilità. Noi intendiamo questa affermazione come il determinarsi, in seno al gruppo, di una simmetria di non equilibrio (Minichiello, 1988): in una simmetria di funzioni si sviluppa un’asimmetria di ruoli. Nella condizione di orgiasmo, infatti, si articola un simbolismo teatrale in virtù del quale l’ordine consueto viene raffigurato in forma capovolta e ciascuno può diventare chiunque (come nel carnevale o nelle feste medievali, diffusamente indagate da M. Eliade, E. Le Roy Ladurie, A. Durand, ecc.). Afferma Maffesoli: “L’effervescenza dionisiaca, con la reversibilità delle figure e grazie alla ‘corrispondenza’ profonda che si instaura tra gli esseri, è una duplicazione di ciò che chiamo’unione cosmica’” Nella situazione di complessità olistica le consuete differenze di funzioni che costituiscono la società perdono il loro valore e invertono la gerarchia che le articola: così il lavoro è destituito di valore a vantaggio del gratuito, che perciò diventa anche esso lavoro (e lo stesso si può dire per la canalizzazione dell’eros, che diventa invece libero e perciò dissipativo, non finalizzato ma applicato, sadianamente, a se stesso). Tale “disordine” non è però assoluto, giacché si articola in una gerarchia del ludico, in una asimmetria di ruoli, in cui ciascuno percorre normalmente le varie fasi del rito. “Il disordine fecondo mette in scena una architettura profonda, una circolazione rapida, talvolta sfrenata, dei ruoli, dei ‘caratteri’, come altrettante espressioni legittime della globalità societaria”. La costituzione di una simmetria di non equilibrio in seno al gruppo orgiasmatico è finalizzata alla produzione di senso. “È certo, infatti, che la differenza ha come situazione limite la morte. L’alterità è la negazione di sé. Ma l’analogia cosmica ci insegna, anche in questo caso, come sia possibile negoziare con la finitudine, come si possa blandirla. In certo modo l’orgiasmo non ha altro scopo”. “Il ludico, non dimentichiamolo, è costantemente abitato dall’idea della morte. Che si tratti delle feste primitive, o si tratti anche di semplici divertimenti, tutte le manifestazioni festive sono travagliate in maniera più o meno apparente dalla pregnanza della finitudine. Esse cristallizzano così l’angoscia del tempo che passa e la integrano in un rituale che la rende accettabile” Così che, mentre nell’immaginario moderno la produzione di senso è af- 35-46 MINICHIELLO.qxp 29-10-2004 9:10 Pagina 39 39 fidata ad una concezione lineare del tempo (il tempo della storia e del progresso), nell’immaginario dionisiaco è proprio la ripetizione, il tempo ciclico che mostra l’affinità di Thanatos ed Eros, a riempire la vita di significato, giacché 1a ripetizione nella vita banale non è la morte, ma l’incorporazione di una certa morte per poter trionfare su di essa; “l’orgiasmo scongiura la morte, la integra in maniera omeopatica”. Ecco una nuova costante dell’orgiasmo: il principio del senso non è amministrato da un regime temporale lineare bensì da un regime temporale ciclico. Ciò significa che al di là e più profondamente di una dilatazione del presente come forma che ingloba, annullandole, le dimensioni della memoria (passato) e della progettualità (futuro), c’è, nelle giovani generazioni, una oscura percezione ritmica dello scorrere del tempo, che è particolarmente evidente nelle cristallizzazioni notturne, in quelle immersioni nel caos della notte in cui più facilmente il corpo proprio individuale può amplificarsi in corpo collettivo e l’io può esplodere in una miriade di morti e di rinascite parziali. Ciò che si afferma nel “regime notturno” giovanile è la forma della circolarità: la circolazione dei beni (doni, furti), la circolazione del sesso (libertà di scambio, inversione, orge), o la circolazione della parola (espressioni libere molteplici e varie), tutto ciò vuole insegnare alla gioventù “che qualunque società si fonda sullo scambio, sull’apertura all’alterità, e che la riaffermazione puntuale di questi aspetti, al di là della gravità naturale, costituisce il motore della perduranza”; sta soprattutto a mostrare che la rigenerazione rituale interviene nel tempo ciclico, in cui la vita nasce dalla morte ed è una potenza che non appartiene al singolo ma alla collettività, al corpo collettivo. La “destrutturazione” del futuro, la crisi della progettualità, la perdita della memoria storica che sono tutte caratteristiche della condizione giovanile che la moderna indagine psicosociologica (Cavalli, De Lillo, Melucci, Garelli, ecc.) ha identificato, andrebbero quindi lette come tracce in negativo di una nuova nascente forma di percezione del tempo, una percezione naturale e rituale, fondata sulla ripetizione, sulla ritmicità e sulla discontinuità, per la quale più che di temporalità del presente che ha comunque una estensione lineare si dovrebbe parlare di temporalità dell’istante, in cui l’estensione è sostituita dall’intensità, dalla portata vitale dell’esperienza, potendo ogni istante contenere virtualmente tutto il tempo. La cronologia giovanile è la ricerca di “grandi attimi”. A una diversa percezione del tempo, sulla quale si struttura il bisogno di un surplus di senso, si accompagna una forma di conoscenza analogica (o 35-46 MINICHIELLO.qxp 29-10-2004 9:10 Pagina 40 40 olistica), che può provvisoriamente definirsi come quella conoscenza che coglie intuitivamente l’equilibrio o lo squilibrio di un insieme e il posto che occupa l’individuo rispetto all’architettura del tutto. Afferma Maffesoli: “L’analogia è una tecnica simbolica che, contrariamente alla dialettica, non supera le contraddizioni, ma le mantiene in quanto tali in una globalità conflittuale di cui l’amore e l’odio, la crudeltà e la tenerezza, ecc., sono, in una stessa situazione, le espressioni più compiute». Nella conoscenza analogica, di cui sembrano capaci i soggetti giovani in particolari circostanze, si manifesta una sorta di percezione immediata del gioco di differenze che consente la respirazione generale dell’insieme societario, una capacità di avvertimento istantaneo del punto di equilibrio e delle sproporzioni che lo mettono in pericolo, al di là dell’opposizione di analitico e sintetico, giacché qui la percezione del rapporto parte-tutto è, oltre che logica, affettiva e coinvolgente, tale da richiedere all’individuo una immediata dislocazione di sé riguardo all’insieme e una conseguente azione tendente a saturare gli squilibri. Anche da questo punto di vista si afferma uno scarto tra semplice comunicazione e più profonda aspirazione a forme di pluralità congiunta. L’orgiasmo, il dionisiaco, afferma Maffesoli, in quanto “integrazione compiuta del contraddittoriale, non è necessariamente comunicazione, è prima di tutto comunione”. E questo bisogno di comunione (opportunamente distinta dalla comunicazione) che investe la costante più profonda del dionisiaco giovanile. “L’arte della coniugazione” dell’orgiasmo si avvicina, secondo Maffesoli, alla procedura poetica, giacché restituisce pluralità originaria ai diversi elementi che compongono l’aggregazione. La poesia frantuma il linguaggio corrente o razionale per far scaturire immagini e sensi occultati ma potenziali; essa intende, secondo un’espressione di Mallarmé, “dare un senso più puro alle parole della tribù”. La preoccupazione dionisiaca è identica. “Una esplosione continua dell’io consente di far risaltare una sintassi collettiva nuova; mettendo a fuoco la pluralità negata dal fantasma di unidimensionalità, si riallaccia a un ordine complesso ma organico e generatore di ogni socialità”. Il bisogno di comunione deriva cioè dalla esigenza di superare l’individuazione “mortifera” e si riverbera come pratica dell’eccesso: questo rinvia all’affermazione dell’esistenza nella sua globalità di positivo e di negativo, a ciò che Nietzsche chiamava il “dire sì alla vita”: “infatti, che cosa c’è di più mortale dell’estenuarsi nel bere, nel vegliare, nello spendersi sessualmente, nella sontuosità alimentare, e tuttavia tutti questi fatti che scandalizzano la grettezza filistea, non 35-46 MINICHIELLO.qxp 29-10-2004 9:10 Pagina 41 41 sono forse indizi di una pulsione vitale irreprimibile?... Infatti, integrare la ‘morte’ nello sviluppo vitale, significa assicurare a tale sviluppo un ‘plusessere’ importante” ). L’estasi, l’ebbrezza, il pathos e ciò che la sociologia chiama l’effervescenza hanno dunque la funzione essenziale di “scongiurare il pericolo che minaccia dagli inferi” (Jung). Il giovane è così immerso, quotidianamente, in una sorta di continuum pulsionale oggettivo, fatto di molteplici sensazioni e percezioni (visive, tattili, olfattive, sonore), di pensieri in circolazione e di linguaggio in perenne stato nascente: in questo flusso, che è fatto dai media ma che soprattutto si genera da sé solo, il singolo non è semplice parte, è elemento integrato, non si avverte ma è avvertito, il suo io si estende oltre se stesso, all’intero, il suo corpo è il corpo collettivo, sempre in vita e pronto allo scambio, i suoi sensi sono continuamente tesi, giocati al limite, il suo tempo può essere speso sempre perché è inesauribile, non lineare, così i suoi pensieri: circolari, non lineari, la sua vita è in questo flusso privo di direzione e di scopo ma ricco di senso, di “plusessere”, in un continuum del gratuito solo puntualmente frazionato dal tempo dell’istituzione. 2. Esiste un rapporto di analogia tra il tutto sociale sistemico e la comunione dionisiaco-orgiastica. Contrariamente a quanto sostiene Maffesoli, il rinascente Dioniso non è l’antico Dio dei misteri ma una sua incarnazione più pallida e tenue, incapace di riversarsi in una autentica esperienza culturale (come seppe fare invece il primo Dioniso, legando la sua epifania all’apparizione del tragico e del logos nella cultura occidentale). L’orgiasmo contemporaneo, che è soprattutto fenomeno della coscienza giovanile, è perciò non una configurazione di stato nascente (Alberoni, 1989) ma un riflesso, un bagliore dell’istituzione, della quale riproduce la morfologia, talvolta in forma speculare, talaltra in modo antitetico. Possiamo schematizzare il rapporto tra istituzione e condizione orgiastica, assumendo per la prima la categorizzazione sistemica e per la seconda le costanti strutturali già rimarcate: Istituzione Principium individuationis, univocità, complessità sistemica, molteplicità dei ruoli dell’io, conoscenza ricorsiva, tempo lineare, comunicazione, funzione. Orgiasmo coincidentia oppositorum, equivocità, complessità olistica, esplosione del- 35-46 MINICHIELLO.qxp 29-10-2004 9:10 Pagina 42 42 l’io, conoscenza olistica o analogica, tempo ritmico, comunione, senso. Fra gli elementi messi in corrispondenza, come si vede, c’è un rapporto isomorfico che talvolta diventa di opposizione: in questo senso, c’è, per dirla con lo stesso Maffesoli, legame di analogia, cioè di risonanza puntuale. L’orgiasmo si configura così come mimesi analogica dell’istituzione e ne diventa “ridondanza funzionale» (Luhmann, 1985), piuttosto che polo alternativo. Detto questo, riconosciuta cioè la sostanziale infondatezza della tesi di un avvenuto oltrepassamento dell’orizzonte modernoprometeico per effetto di una rinascita ciclica dell’originario principio dionisiaco, occorre anche spiegare o tentare di spiegare perché nell’orizzonte sociale e culturale contemporaneo è proprio sotto la forma del dionisiaco che si manifesta la “ridondanza funzionale” del sistema vale a dire l’espressione non istituzionale della forma stessa che articola il sistema e perché la coscienza giovanile di oggi è così fortemente, se non totalmente, compresa ed “invasa” dai modi dell’orgiasmo. Non crediamo che la spiegazione consista nel rapporto tra società della iperproduzione di massa e coscienza consumistica di massa (nella nascita del soggetto “consumatore”: Barcellona, 1987), giacché qui Maffesoli ha ragione di sottolineare come la pregnanza dell’orgiasmo si svolga in forme prevalentemente sotterranee, svincolate dai canali comunicativi di rilevanza sociale (televisione, radio, cinema, ecc.), anche se di essi si serve in qualche misura. Né crediamo che il fenomeno del dionisiaco sia semplicemente da ascriversi al ritorno di una religiosità pagana e anticristiana, giacché l’orgiasmo ha forti caratteristiche dissipative che lo pongono, anziché nell’area di un risorgente politeismo “ecologico” o naturalistico, in uno spazio ambiguo tra il gioco e il nichilismo. L’accento va spostato, piuttosto, sui processi profondi di costruzione della modernità, mediante i quali si è formato, ad opera anche se non soprattutto di una universale paideia razionalistica, realizzata nelle forme dell’autodisciplinamento (Elias, 1982), il soggetto autonomo e le varie forme di soggettività della modernità. Tali processi possono essere compresi nella comune definizione di interiorizzazione della dipendenza (Acone e Minichiello, 1986): con essa si intende, in generale, il progressivo spostamento nello spazio interiore umano del legame naturale immediato; attraverso tale spostamento l’uomo in quanto specie viene a dipendere, per 35-46 MINICHIELLO.qxp 29-10-2004 9:10 Pagina 43 43 la propria esistenza, sempre meno direttamente dall’ambiente naturale esterno e sempre più da un ambiente artificiale costruito socialmente: l’ambiente tecnologico, divenuto progressivamente una sorta di neocorteccia comunicativa e informatica sovrapposta alla corteccia naturale del pianeta Terra. In conseguenza di questo primo spostamento della dipendenza dalla natura alla tecnica, poiché la tecnologia è una costruzione sociale, interviene un secondo spostamento caratteristico della costituzione della modernità, in virtù del quale l’individuo diventa sempre meno dipendente dalla capacità di gestire in proprio una tecnologia e sempre più dipendente dalla capacità di gestione collettiva delle tecnologie, cioè dalla società: è in questo trasferimento che si afferma quello che Maffesoli chiama “principio di individuazione”, cioè l’atomizzazione individuale legata alla nascita del “sociale” e del “pubblico”, e che si potrebbe definire il paradosso costitutivo della soggettività moderna: la sua affermazione e il suo potenziamento (economico, giuridico, politico, etico, formativo), accompagnato però dalla necessità di un suo riconoscimento oggettivo senza del quale non potrebbe nemmeno sussistere cioè di una sua dipendenza dal sociale e dal pubblico, che sono i luoghi della autentica soggettività. Interviene perciò un terzo spostamento, grazie al quale la capacità dell’individuo di stabilire rapporti con l’insieme sociale (la sua “educazione”) dipende sempre meno dalla diretta coercizione esterna e sempre più dalla sua capacità autocoercitiva, per effetto della quale si crea al suo interno un meccanismo di controllo quasi automatico e lo spazio interiore si scinde nella regione dell’io e in quella delle pulsioni (Elias, 1983). Tale grandioso processo di costituzione della moderna società “razionalizzata” è stato accompagnato, e per certi versi reso possibile, da un altrettanto grande processo storico ed istituzionale di educazione, che ha dovuto mirare all’autodisciplinamento come condizione ed essenza del soggetto autonomo, allo spirito di sacrificio e alla prevalenza del «principio di realtà”, come presupposto della socializzazione dell’individuo, all’etica della produzione, come condizione di accesso al riconoscimento e alla ricchezza sociale, alle forme del sapere scientifico-tecnologico e alla istruzione come elemento di realismo conoscitivo e di altruismo sociale. La modernità si è formata e si regge sulla base di tale processo di interiorizzazione della dipendenza. Nel tempo presente il processo stesso è divenuto “sistema”, cioè articolazione funzionale complessa nella quale gli individui diventano variabili indipendenti. Il meccanismo di autodiscipli- 35-46 MINICHIELLO.qxp 29-10-2004 9:10 Pagina 44 44 namento, sul quale, in ultima analisi, si fondava l’intero processo, è divenuto contingente, non funzionale alla modularità del sistema. Così che l’educazione della soggettività è divenuta socialmente superflua (il suo peso ricade se mai sull’individuo “privato”) e resiste come compito istituzionale solo per quegli aspetti direttamente finalizzati alla riduzione della complessità sociale. Il sottosistema educativo, sostiene Luhmann, diventa realmente autonomo solo quando cessa di assumere finalità e obiettivi da altri sottosistemi quali quello politico ed eticogiuridico e identifica il suo scopo nella autoreplicazione, cioè, ad esempio, nella procedura istruttiva espressa dalla formula “insegnare ad apprendere” (Luhmann e Schorr, 1988). In questo quadro, la centralità del fenomeno dell’orgiasmo è da leggersi come indizio primario di un grandioso processo di disarticolazione del progetto educativo moderno tendente a formare la soggettività; il dionisiaco esprime, infatti, come detto, un bisogno di superamento della soggettività, dell’individuo e della coscienza. Hillman descrive la moderna insorgenza di un “politeismo della psiche”, in cui le diverse patologie dell’individuo assurgono al rango di figurazioni mitopsichiche, ognuna delle quali ha diritto al proprio riconoscimento (Hillmann, 1983); Lasch ha caratterizzato la temperie culturale contemporanea come tendente a livelli di soggettività minimale: anche l’io sovrano” della modernità deve restringersi sino a diventare “io minimo”, residuo di coscienza legato esclusivamente alla banalità quotidiana (Lasch, 1985); sulle orme di Lasch, Guggenberger descrive la caduta del soggetto moderno come progressivo sradicamento dell’io da ogni radice culturale stabile e come rinunzia ad una precisa identità (Guggenberger, 1987); Baudrillard ci offre l’impressionante analisi di una interiorità psichica tutta frazionata in microsoggettività identiche fra loro e all’insieme (Baudrillard, 1987). Insomma, il soggetto, l’io, l’identità, diventano superflui, un “lusso”, per dirla con Lasch, o un dominio mitologico da cui liberarsi, per esprimerci invece con Hillman. Ecco ciò che compie l’orgiasmo: la dissipazione dell’io nel “confusionale societario” è la ripercussione, all’interno della coscienza soggettiva, del meccanismo sociale con cui si riduce ad un ruolo di contingenza l’esistenza progettuale dell’individuo. L’orgia banale diventa lo strumento educativo, uno degli strumenti della soggettività esclusa e lo spazio in cui essa recupera, mediante il fantasma di un tutto organico in cui compiere periodiche immersioni salvifiche, una 35-46 MINICHIELLO.qxp 29-10-2004 9:10 Pagina 45 45 forte carica di significato per la funzione stessa da cui è negata. E così i grandi indici di educazione della soggettività risultano ribaltati: dall’autodisciplina si passa all’eccesso, dal sacrificio al ludico, dall’etica della produzione all’etica della dissipazione, dall’appropriazione allo scambio: il “festivo”, cioè il rovesciamento rituale dell’ordine del reale che mirava a consolidare quell’ordine diventa reale e il reale (il principio di realtà) manifesta il carattere di semplice formazione psicostorica ormai obsoleta. È in questa logica che la società dei sistemi, cioè il macrosoggetto complessivo, sottrae all’individuo i suoi percorsi significativi, creando, con l’orgiasmo e il dionisiaco (con il nostro sacro quotidiano) un sottosistema deputato specificamente alla produzione del senso. Riferimenti bibliografici Acone G. Minichiello G. (1986), L’educazione divisa, Roma, Armando. Acone G. Clarizia L. (1988), La metafora dello sviluppo, Napoli, Morano. Alberoni F. (1989), Genesi, Milano, Garzanti. Barcellona P. 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(1984), L’invenzione del presente, Bologna, Il Mulino. 47-68 VITI.qxp 29-10-2004 9:20 Pagina 47 47 La linea d’ombra: credenze, superstizioni,esorcismi C. Viti, S. Parpajola, U. Dinelli L’istanza metafisica, trascendente, è nata con l’uomo, con il suo domiciliarsi al mondo, il bisogno di decifrare fenomeni e familiarizzare con eventi. Nasce il bisogno del codice, del simbolo, dell’aldilà che aiuti a vivere l’aldiqua. La dimensione spirituale appartiene alla condizione umana e ne è esclusiva, come misura ulteriore rispetto alle dimensioni percettibili dello spaziotempo. Già il primo affacciarsi al mondo dell’uomo e del suo pensiero ha lasciato segnali e tracce di una visione magico-religiosa nei graffiti e nelle pitture rupestri. La pratica di richiamare o scacciare spiriti e demoni è vecchia quanto l’uomo; fin dalla più remota antichità, presso tutti i popoli, le culture e le religioni, sono state messe in atto pratiche magiche o religiose volte a questi scopi. L’uomo nasce con la paura del buio, del tuono, delle fiere, della morte e si costruisce degli antidoti immaginari e interpretativi per sopravvivere. L’esistenza di una realtà “soprasensibile”, per cui non tutto ciò che esiste è visibile, udibile e tangibile, è presente in tutte le etnie e i popoli, attraverso i tempi, spesso con analogie e similitudini di fondo quasi a carattere archetipico e trasversale alle diverse culture. Compenetrata alla realtà sensibile esisterebbe una realtà diversa, costituita da “entità spirituali” buone e cattive: alle prime si ricorre per ottenere un aiuto invocandone l’azione taumaturgica nella dimensione materiale e corporea, dalle seconde occorre difendersi con pratiche capaci di neutralizzarne l’influenza o di espellerle qualora si fossero insediate. Ciò è avvenuto e avviene da oriente ad occidente, dal nord al sud, universalmente, nelle tradizioni più primitive come in quelle più evolute e ricche di storia. Da millenni superstizione e razionalità, magia e storia, esoterico ed essoterico, si fronteggiano. Il risultato di tale tensione è la civiltà moderna, nella quale ancora l’aspetto magico e numinoso opera una destorificazione, con il compito di sot- 47-68 VITI.qxp 29-10-2004 9:20 Pagina 48 48 trarre l’individuo ai pericoli di una realtà “storica” temuta, non controllabile, non gestibile. Poco importa che tale destorificazione, realizzata attraverso una visione magica, pseudo filosofica o pseudo religiosa, possa consistere in una falsificazione. Ciò che unicamente importa è che appaia salvifica allorché, come ben ha spiegato E. Di Martino, la religione tradizionale, con i propri riti oltremondani, ha perduto di autorità, mentre la democrazia laica, con i propri ideali mondani, non riesce a colmare il vuoto lasciato da quella, incapace di sostituirvisi con forme istituzionali di pari efficacia sociale e psicologica, e il timore e la diffidenza per la razionalità e un bisogno rifugiante di conoscenze e soluzioni “altre” rendono comunque necessario il simbolico, il numinoso, il “meraviglioso”. D’altro canto, se una religione per essere tale deve mantenere fermi i propri fondamenti di “irrazionalità”, ovvero di spiritualità, misticismo, tradizione, fedeltà alla scrittura sacra, deve anche largamente e saggiamente attingere alla fonte della razionalità, per non scadere nel fanatismo e nella superstizione e per non perdere, attraverso la replicazione meccanica di simboli e riti, la propria capacità di essere al servizio dell’ uomo e non viceversa. Proprio questa contraddizione interna, però, rischia di essere fatale alle religioni tradizionali, da un lato per il logorarsi della reiterazione di simboli e riti che, in antico pregni di contenuti, valori, efficacia, appaiono ormai cerimonie formali, talora scenografiche, svuotate di un significato che pochi ancora ricordano; dall’altro per il rischio di trasformarsi, senza accorgersene, in un apparato di potere più che in una struttura di servizio, lasciando campo libero ad ogni possibile alternativa disponibile ed appetibile all’umana istanza di spiritualità e trascendenza. In effetti la fede, qualsiasi essa sia, deve sempre, per definizione, essere veicolo e tramite di speranza; speranza di cambiamento, evoluzione, miglioramento individuale e collettivo (in una prospettiva escatologica in cui la “salvezza” deve essere perseguita e può essere raggiunta attraverso la fede, le opere, l’intervento divino). Quando la religione “pagana”, con la sua costellazione di dei e semidei, non è più stata in grado di sostenere una tale speranza e le sue divinità si sono ridotte a “idoli”, è stata soppiantata dal cristianesimo, con la potente efficacia della novità dell’Evangelo, la buona novella, la figura salvifica del Cristo; e quando e dove questo a sua volta non ha più avuto la forza di mantenere viva la promessa e accesa la speranza nelle masse, negli uragani della storia è stato travolto dal comunismo, definito anche prodotto di 47-68 VITI.qxp 29-10-2004 9:20 Pagina 49 49 combustione del cristianesimo. E quando, poi, il comunismo è crollato sotto il peso della follia ideologica ed ha infine esaurito la propria dote di credibilità, non è rimasto che l’individuo, a cercare rifugio non più nel “progetto” e nella proiezione, bensì in sé stesso, lusingato e oscurato nel proprio giudizio dalle ammalianti immagini mediatiche e pubblicitarie che, con insinuanti e martellanti messaggi a tutto campo (solo apparentemente volti a promuovere un determinato “articolo”, ovvero un nuovo bisogno indotto) guidano, dirigono, inquadrano in stili di vita, di pensiero, di “cultura”, di politica, utili o necessari ad una logica di mercato e di profitto, con potentissima capacità di penetrazione nelle coscienze e quindi nel vivere e nel sentire comune.Violentatori d’anime, li potremmo chiamare. Così le grandi Chiese, quando non riescono più a cogliere i segni dei tempi, si avviano inesorabilmente sul viale del tramonto, perdendo per strada il loro prezioso bagaglio, lasciando indietro l’”Arca dell’Alleanza”. Padre Ernesto Balducci spiega che “Il Cristianesimo in quanto religione è in crisi irreversibile. Le espressioni simboliche, le tradizioni etiche, le visioni del mondo incorporate nel Cristianesimo sono proprie di un’isola di storia, l’Occidente, che solo in questi tempi si sta accorgendo di essere tale”. Una cultura che si crede universale si scopre relativa e, in questa scoperta traumatica della sua relatività, tutti i suoi valori entrano in crisi. L’attuale modello di civiltà è mortale e autorizza tutti i surrogati e tutti i sostituti. Il fondamentalismo e l’ integralismo sono atteggiamenti di ripiegamento su di sè, di negazione dell’altro, dettati dalla paura e dall’incapacità di rimettersi in discussione. Ed infatti in questa condizione storica si affaccia un passato a tratti ancora capace di ripresentarsi e di riavventarsi, soprattutto nel tempo traumatico delle grandi crisi epocali e, come nel passato, dottrine folcloriche e credenze sono sempre operanti, sia perché offrono una concezione del mondo e dell’esistente seduttiva, affascinante e consolatoria, sia perché suggeriscono possibilità, spiegazioni e risposte a certe “esigenze” quali prevedere il futuro, indagare le ragioni estreme delle cose, vedere oltre la realtà percepibile, dominare e sottomettere le potenze della natura (non solo, ma, talora, anche la mente e la volontà degli altri). Le credenze Così, sulla crisi se non ancora sulle ceneri delle grandi religioni e sotto la spinta di una maggiore mondanità e più diretta partecipazione, sono sorti 47-68 VITI.qxp 29-10-2004 9:20 Pagina 50 50 circoli, cenacoli, correnti, congreghe, sette e quant’altro, animati da una folla di guru, santoni, rabdomanti, pseudoesorcisti e smalocchiatori, cartomanti e oniromanti, parapsicologi, divinatori, oracolanti, maghi di quartiere e fattucchiere di campagna, tutti ben affondati nel “malmotoso” dell’occulto, un folto arcipelago di isole, isolotti e scogli nel mare magnum dell’ ”esoterismo”, una miriade di movimenti organizzati gerarchicamente, retti con autorità indiscussa, con reclutamento e affiliazione per cooptazione, per lo più avidi di discepoli e di “contribuenti”, e con vigile e sagace attenzione per lo stato patrimoniale del neofita o dell’aspirante. Il reclutamento avviene ovunque se ne presenti l’occasione, ma approfitta soprattutto di circostanze favorevoli quali malattie, difficoltà esistenziali, degenze ospedaliere, eventi che mettono l’individuo in condizione di bisogno di aiuto e/o solidarietà. Così, dopo un aggancio apparentemente casuale (o forse “predestinato” o “provvidenziale”), una vicinanza e una frequentazione apparentemente discrete diventano una relazione vischiosa, avvolgente, indissolubile, lungo una via senza ritorno come le fauci di una balena, che conduce talora ad uno stato di asservimento con pretesa di fedeltà esclusiva ed obbedienza cieca (magari sotto minaccia di castighi), coazioni al proselitismo e alla contrapposizione finanche alla rottura con quanti non aderiscono e non condividono, siano essi amici, genitori, coniugi. Come nelle superstizioni si individua un meccanismo rassicurativo e gratificante destinato a liberare dall’angoscia e dall’incertezza, così la setta presume di incentrarsi sulla verità assoluta, sulla chiesa povera, sull’assistenza e il reciproco soccorso, sul culto semplice, edificativo, eretico e scismatico. Tutto quanto è di ostacolo, persone e famiglie, viene spietatamente ed inesorabilmente travolto. Alterati stati di coscienza, fascinazione, invasamento, trance, possessione, suggestione, persuasibilità, stati onirici e crepuscolari costituiscono il terreno per la semina e la raccolta, condizione psicologica pronta per diventare psicopatologica negli individui arruolati nella setta e ingabbiati in una struttura le cui caratteristiche sono una rigidità inflessibile, l’impenetrabilità alla critica, al confronto leale, all’intelligenza delle cose, la replicazione anancastica ed acritica di giaculatorie e rituali, la posizione esclusivista ed intollerante. Entro una simile struttura, la libertà, traguardo dell’iniziale promessa, finisce in realtà per atrofizzarsi e andare perduta, mentre il dubbio, la resipiscenza, il pentimento, qualora affiorassero, verrebbero subito affogati da 47-68 VITI.qxp 29-10-2004 9:20 Pagina 51 51 una ricattatoria minaccia di perdita (di aiuti e beni materiali e morali) e di castigo (terreno ed ultraterreno). E chi mai se non l’incerto, l’insicuro, lo psicolabile, il timido, ha bisogno di arruolarsi in una struttura inquadrata, stritolante, protettiva e insieme sublimante?! Se l’ingresso ha le caratteristiche della premorbosità personologica, l’uscita può assumere le inequivocabili note della psicopatologia franca fino alla psicosi produttiva, con deliri sensitivi, allucinazioni, depersonalizzazioni, interpretazioni ed intuizioni, manifestazioni somatiche come il fenomeno degli stigmatizzati. (Padre Agostino Gemelli sostenne nel 1924 “ L’unico ad aver avuto le stimmate è stato S. Francesco, mentre tutte le altre non sono che un prodotto di origine isterica.”), chiusure autistiche ed infine vere reazioni depressive in una processualità che, ben nota agli psichiatri, comprende compagini familiari infrante e patrimoni dilapidati. “La caduta delle ideologie otto-novecentesche, ha prodotto la paura del vuoto e dell’incipiente baratro nichilista. Da qui il confuso aggrapparsi a “certezze” che, proprio in quanto inverificabili dal punto di vista galileiano, non temono smentite e surrogano il bisogno umanissimo di punti di riferimento ideali. Il “pensiero debole” col suo necessario “divieto di far domande” (le domande “ultime”, s’intende) può bastare ai pochi intellettuali che su di esso hanno costruito le loro fortune. Gli altri, tutti gli altri, annaspano nel “supermarket del sacro”. Qui ognuno può realmente trovare quel che cerca, tenuto conto del fatto che solo pochissimi cercano la verità: i più cercano solo di acquietare le loro personali angosce. Infatti la verità può anche chiedere, inizialmente, un aggravamento del dolore; essa va seguita per la semplice ragione che è la verità e non ce n’è un'altra”.(Da “Lo psichiatra e le streghe” di R. Cammilleri). Il plagio esiste, anche se in Italia non è più reato. Ma lo è, inequivocabilmente, la circonvenzione d’incapace, che trova complicità e favoreggiamento in quanti ipocritamente sostengono non essere lecito “calpestare la libertà dell’individuo” riferendosi ad una condizione in cui la libertà, quella interiore, è già stata completamente perduta. Così, il dilagare degli oscurantismi si è sempre avvantaggiato di connivenze, silenzi, complicità o solo indifferenza. Gli esempi di certo non mancano; vedi “l’esercito di Scientology”, tratto in giudizio a Milano per “associazione a delinquere, circonvenzione d’incapace, estorsione, violenza privata, esercizio abusivo della professione medica”, le cui vittime si erano rivolte all’organizzazione in cerca di sostegno 47-68 VITI.qxp 29-10-2004 9:20 Pagina 52 52 e guarigione e per dare una casa alla propria mente inquieta e vagabonda, ed “hanno invece incontrato dei mercanti dilettanti della psichiatria, abili in terrorismo psicologico, senza scrupoli di ridurre in stato di moderna schiavitù personalità labili, immature, malate e abbandonate dalla latitanza dello stato in certi settori come la psichiatria e il recupero dei tossicodipendenti” come ha tuonato il PM al processo. Ma nonostante tutto dalla California dilaga una striscia di movimenti spiritual-filosofici raccolti sotto la bandiera della “New Age” (ormai già sorpassata dalla cosiddetta “Next Age”) che si propongono di modificare la mente e il suo funzionamento (e quindi l’intera vita) con una serie di tecniche quali “igiene mentale”, dietetica, meditazione, bioenergetica, autoipnosi, cromoterapia, cristalloterapia e altro. Si sono così affacciati alla ribalta con le loro malferme bancarelle l’auricolomedicina, l’iridologia, l’ipnoanalisi, la sofrologia, il mind-control, la psicosintesi, la parapsicologia, la pranoterapia, i sensitivi, il demonologo, l’astrologo, il cartomante, lo psicoveggente, l’aromaterapia, la dietologia esoterica, i programmi di purificazione, la meditazione trascendentale, l’erborista emergente in affari, l’omeopata criptico, la medicina bioradiante. I più deboli, i fragili, gli sconfitti, i depressi, i disperati sono pronti ad essere accalappiati dai messaggi pubblicitari subdoli ed ingannevoli che promettono sicurezza, successo, autoaffermazione, capacità, concentrazione, prestazione, benessere. Del resto, anche al di fuori di sette e movimenti più o meno organizzati, le credenze sono facilmente adescanti quando pescano nel mare della sofferenza e della disperazione (vedesi l’amara vicenda del siero Bonifacio contro il cancro e tutto lo schieramento delle terapie cosidette alternative), tale è il desiderio di poter sperare ed illudersi al di là di attese realistiche. Il mago, sia o meno rivestito di parvenze di scientificità, è sempre la scorciatoia al soddisfacimento del desiderio; risolve, guarisce, esorcizza sventura e malocchio. E soprattutto dequalifica il livello culturale, ottenebra la coscienza, diffonde il sospetto e la diffidenza e fomenta il malanimo, facendo precipitare il villaggio globale nella notte dei tempi. E se la religione tradizionale poteva offrire un contenimento e una difesa da tali insinuanti attacchi, nella società industriale e post-industriale il “Sacro” sta diventando facoltativo, un optional con ampia gamma di scelte disponibili, e in Italia in particolare, dilaga un “Sacro” da supermercato che si configura in surrogati di Candomblè, Voodoo, Macumba, solo ap- 47-68 VITI.qxp 29-10-2004 9:20 Pagina 53 53 parentemente più evoluti e civilizzati rispetto a quelli di società più primitive, quasi una traccia trasversale tra popoli, culture, stratificazioni sociali. Le superstizioni In effetti non occorre risalire molto addietro nel tempo e nella memoria dei vecchi, ancora depositari di un antica tradizione orale, tramandata attraverso i secoli, per trovare le tracce ancora viventi di arcaiche pratiche rituali rurali e contadine, che sopravvivono per esempio nella pratica delle “segnature”. A Cancelli, frazione di Foligno, sulle montagne umbre, raccontano che i santi Pietro e Paolo, capitati laggiù, per ringraziare il pastore dell’ospitalità gli moltiplicarono il pane che aveva nella madia e lo liberarono di un dolore sciatico che lo affliggeva. Per intercessione dei frati, la famiglia Cancelli, omonima del paese che conosce lo spopolamento più massiccio di tutta l’Umbria, è autorizzata a curare le sciatiche. Seguono non solo la sciatica, ma anche l’artrosi, i reumatismi, i dolori delle ossa. Chi invece soffre dei “segni del fuoco” cioè l’herpes zoster va ad Arezzo perché lì viene curato e segnato. La proprietà di curare le artrosi viene trasmessa il 24 di dicembre, la notte magica e adatta alla trasmissione dei misteri. L’unica condizione è quella di credere in qualcosa di soprannaturale e di imparare a memoria le formule da pronunciare mentre si segna, altrimenti non vale. La formula è fatta di otto parole che vengono recitate come in una cantilena, accompagnate dal segno della croce. E come per incanto il dolore scompare. Con tale virtù si nasce -dicono ad Arezzo- bisogna essere il settimo di sette tutti maschi o tutte femmine, altrimenti non vale. Ecco perché tale trasmissione si va estinguendo. In Romagna si racconta che le donne che partoriscono due gemelli acquisiscono il potere di guarire il mal di schiena, lo “sdrimblè” come lo chiamano in dialetto. Il prodigio consiste nel distendere il malato a terra a pancia in giù e scavalcarlo per tre volte mettendogli i piedi sulla schiena. Occorre essere a digiuno e la segnatura va fatta per tre volte di seguito. Se non si è a digiuno, non vale. A Brisighello i guaritori curano la cosiddetta “Anma caduda”, l’anima caduta, descritta come sfinimento, stanchezza, depressione. Utilizzando la cintura del malato si fa la diagnosi e in seguito si massaggia lo stomaco con la punta delle dita fasciando poi con una benda per bambini. Anche in questo caso occorre pronunciare le formule precise, altrimenti non vale. 47-68 VITI.qxp 29-10-2004 9:20 Pagina 54 54 A Marradi, il paese di Dino Campana, il guaritore locale segna il fuoco di S. Antonio, cioè l’herpes zoster, gli ascessi, gli eczemi e altri disturbi della pelle. Il potere di segnare veniva consegnato con un investitura fatta sul bambino che si intendeva prescegliere: ponendogli in mano un fiore che si riteneva guarisse le patologie degli occhi, un tralcio di vite acceso per le bruciature, un baco da seta per i vermi. La segnatura avviene prendendo la fede nuziale e facendo movimenti come di rotazione per allontanare il male e poi lasciando cadere l’anello perché il male deve scaricarsi a terra. Il malato deve uscire tre volte, a digiuno, altrimenti non vale. Poco lontano si praticano i rituali e le segnature per allontanare il cattivo tempo. Quando si alza il vento e il cielo si rabbuia, si mette in cortile il giogo dei buoi, si forma la croce con un ferro del carro ponendo vicino l’ulivo benedetto e delle braci accese; poi occorre segnare indicando i quattro punti cardinali ma particolarmente quello da cui sta arrivando il fortunale. Anche in Romagna l’istruzione a segnare viene trasmessa la notte di Natale consegnando le parole magiche che devono restare segrete altrimenti perdono d’ efficacia. L’armamentario è contadino, ovviamente: un tralcio di vite per le storte, i fiori per gli occhi, i chicchi d’orzo e di riso per i porri, un filo nero infilato in un ago per l’orzaiolo (giustificato anche con l’insinuazione che si era guardato dove non si doveva). Tali strumenti venivano conservati tra le fasce del battesimo altrimenti l’iniziazione non era efficace. Una volta, quando gli amici morivano, si pensava al malocchio, ora lo si invoca anche se si rompe la macchina da cucire o l’automobile. E’ l’invidia che si mette all’opera. Per togliere il malocchio si prende un piatto, ci si versa un po’ d’acqua e si lasciano cadere tre gocce d’olio. Se l’olio si espande vuol dire che c’è il malocchio e allora bisogna ripetere l’operazione finchè le gocce non si ricompongono. In un’ inchiesta di antropologia condotta dall’Istituto Universitario è emerso che il 37% degli intervistati credono al malocchio, il 25% ne era stato personalmente vittima. In Sardegna “l’acqua medaglia” è una specie di medicina universale. Se il pescatore non fa buona pesca, va a farsi l’ acqua medaglia. Ma anche se il raccolto è insufficiente, se le mucche non danno latte, se gli affari vanno male. Quando il gregge è poco fertile, le stalle sono infette, il frumento non cresce, si ricorre all’acqua medaglia. Il rituale avviene prendendo un bicchiere d’acqua e tre mucchietti di grano, che rappresenta la terra, e di sale, che rappresenta il mare. “Con una 47-68 VITI.qxp 29-10-2004 9:20 Pagina 55 55 medaglia del santo faccio una croce sopra il bicchiere, dico tre Pater noster in sardo e pronuncio il nome della persona interessata. Poi getto il sale nel bicchiere: se cadendo non fa “clic” allora c’è malocchio”. Sempre in Sardegna viene praticata dai guaritori la segnatura per la sciatica che si deve fare tre giorni al mese quando c’è la luna calante. In Emilia sono molto ricordati gli stregoni o maghet. Anche qui sono predestinati i settimini o quelli “nati con la camicia”, cioè con la membrana amniotica ancora addosso. I segni e le parole guariscono gli ossiuri, l’acetone, il solito fuoco di S. Antonio, le bruciature ed il simiot, malattia infantile un tempo diffusa. Anche l’epilessia, volgarmente detta mal caduco e ritenuta determinata da una maledizione, viene curata dai guaritori. La procedura è questa: la vigilia di Natale i parenti del malato procurano alcuni chili di canapa vergine facendone un telo lungo un metro e largo tre. Poi devono cucirlo ai lati lasciando un’ apertura, cioè formare un sacco e mentre lavorano devono pregare per propiziare la guarigione. A mezzanotte in punto il malato nudo deve infilarsi dentro questo sacco e mettersi a letto. Al mattino sarà guarito. La guaritrice aggiunge: “adesso non curo più nessuno, perché la gente non è più capace di lavorare la canapa e la notte di Natale vogliono fare torte e tortellini”. A Carpi per il fuoco di S. Antonio si procede in questo modo: intorno alla lesione si fa un cerchio con la penna biro e lungo il segno si tracciano delle croci che devono essere dispari e non meno di tredici. Mentre vengono tracciate le croci si impone al male di restare circoscritto dentro il cerchio pronunciando parole segrete e segnando. Il “simiot” è una patologia gastrointestinale dovuta a malassorbimento. Il bambino non cresce, ha il viso vecchieggiante, la pelle arida e grigiastra. La cura deve cominciare in un giorno pari (martedì, giovedì, sabato) e dura tre giorni. Comprato un etto di pasta di pane si formano tre palline su cui si incide un cuore con il dorso del coltello. Lasciate lievitare le palline, alla sera se ne sceglie una che viene messa in un bicchiere d’acqua. Bagnate tre strisce di tela nell’acqua dove si è sciolta la pallina si fanno delle spugnature sul corpo del bambino dal basso in alto. Quindi si fanno le segnature e si dicono le parole magiche. Quando è finito si prende l’armamentario e lo si getta verso est dove sorge il sole. L’ esser nati con la camicia, cioè con l’amnios, consentiva di attribuire un significato straordinario all’evento, per cui in Francia nel ‘400 si creò la setta dei Benandanti, stregoni chiamati a svolgere interventi d’aiuto. Li acco- 47-68 VITI.qxp 29-10-2004 9:21 Pagina 56 56 munava la coincidenza di “essere nati con la camicia” cioè avvolti nella membrana amniotica che nell’immaginario femminile protegge i soldati dalle pallottole, allontana i nemici, aiuta persino gli avvocati nelle cause in tribunale. Le maglie negli occhi (cioè i piccoli stravasi che si formano nelle congiuntiviti) si curano ungendole e se sono quattro, per esempio, mettendo su quattro maglie con i ferri da calza. Poi davanti al malato si smontano le maglie e bisognerebbe anche sputare nell’occhio malato, come l’oculista applica il collirio. Ad Ascoli Piceno i sistemi di guarigione sono nutritivi, con uova di gallina immerse in succo di limone e lasciate macerare finchè si disfano i gusci e ne esce uno zabaione che con aggiunta di marsala, zucchero, erbe diventa benefico, alla condizione che sia accompagnato da segnature, preghiere e buone intenzioni. A Viterbo è tutto più spregiudicato: il malato mette la mano destra sopra la croce che era di una monaca di clausura e sotto la croce c’è un ferro calamitato che dà forza. Il guaritore mette la mano destra sopra la testa del malato e stringe con la sinistra un rosario di Padre Pio. Il tutto si conclude con una pubblica confessione dei peccati. In Campania c’è memoria di una segnatura piuttosto crudele raccontata dalla paziente-vittima. “Quando ero bambina soffrivo spesso di mal di testa, nausea, mal di stomaco. Siccome da noi si riteneva che questi disturbi fossero procurati da certe persone che, anche inconsapevolmente, danno il malocchio, mia madre pensava che fossi affatturata e provvedeva ogni volta a portarmi vicino ad un vecchio muro, a recitare la formula e a farmi picchiare la testa contro la parete: in questo modo il male veniva esorcizzato”. A Casatori vi è ancora traccia di trattamenti magici eseguiti per curare “o’giallo” che è l’ epatite e “a’mezeta” che è l’ingrossamento della milza. Le cure vanno sempre fatte alla sera quando tramonta il sole e bisogna guardare intensamente la luna. Il fegato e la milza si ingrossano quando c’è la luna piena e vengono curati fino all’ultimo quarto. Per quindici giorni si cura, gli altri quindici “nun hai da tuccà”. Il residuo culturale del dogma: l’esorcismo Dalla caccia alle streghe, all’esorcismo, alla psichiatria, passando per possessioni, indemoniamenti, invasamenti, demonopatie, il transito è veloce e trafficato. 47-68 VITI.qxp 29-10-2004 9:21 Pagina 57 57 Se ai giorni nostri maghi, astrologi, cartomanti e quant’altro offre il mercato dell’occulto da bancarella, godono di un’ ampia libertà di azione e possiedono un albo professionale in qualità di “operatori dell’occulto” legalmente validati e fiscalmente registrati, in una società aperta, tollerante e garantista, non sempre essi hanno avuto vita così facile e lucrosa. Per citare R. Villari (Mille anni di storia, ed. Laterza), tra il XVI e il XVII secolo si diffuse in Europa una gigantesca ondata repressiva da parte delle istituzioni politiche e religiose, contro ogni forma di deviazione e diversità, anche razziale (v. ebrei e moriscos), che si espresse in varie forme, tra cui la persecuzione degli eretici e la caccia alle streghe, che imperversò per circa tre secoli. E infatti, afferma R. Cammilleri: “Il boom della stregoneria non è affatto, come comunemente si crede, un fenomeno medievale. Al contrario, la stregomania nacque insieme alla modernità. La “caccia” alle streghe “ che insanguinò l’Europa e il Nordamerica cominciò infatti alla fine del XVI secolo, con punte massime nel XVII e un lento declino solo sul finire del XVIII. Essa fu localizzata soprattutto nei paesi protestanti e in quelli in cui i conflitti tra protestanti e cattolici erano più acuti, come in Francia”. Per citare padre G. Amorth, il periodo dal XII al XV secolo è particolarmente triste e travagliato nella storia della Chiesa, caratterizzato dall’affacciarsi delle grandi eresie con le contestazioni anticlericali ed antiecclesiastiche. Ma la storia inizia più lontano: già nel 1252 Innocenzo IV autorizza la tortura contro gli eretici e nel 1326 Giovanni XXII certifica per la prima volta l’inquisizione contro le streghe: le cosidette “bonae feminae” ossia le donne un po’ matte, fino ad allora commiserate, diventano ora streghe, e invece di venire opportunamente e pietosamente accudite cominciano ad andare sul rogo, vittime di una inarrestabile tendenza distruttiva che vedeva il Maligno annidarsi ovunque, senza fare ricorso, paradossalmente, all’esorcismo o alle preghiere di liberazione, per distruggere con il peccato anche il peccatore. Fino a tutto il XVII secolo “gli esorcismi hanno ceduto il passo alle persecuzioni, (……) dove non si fanno esorcismi si ricorre alle persecuzioni, dove non viene combattuto e scacciato il demonio viene demonizzato e ucciso l’uomo, mentre dove continuarono gli esorcismi, i roghi furono ridotti al minimo”, e “viceversa l’uomo si avvantaggia quando viene combattuto il demonio”. Era un modo per sostituire la spada con l’anatema, la guerra con la dichiarazione di guerra. Ma si sa che chi semina violenza verbale raccoglie violenza materiale. E’ il destino dei cattivi maestri. “Paradossalmente, ma non 47-68 VITI.qxp 29-10-2004 9:21 Pagina 58 58 troppo, i paesi cattolici non conobbero la peggiore caccia alle streghe, e proprio grazie all’ombrello fornito dall’Inquisizione. Nei Paesi Bassi i roghi di streghe cessarono con l’occupazione spagnola e l’introduzione dell’Inquisizione. In Italia si ebbe una sola esecuzione (ma perché lo stregone aveva praticato un veneficium e c’era scappato il morto). E’ interessante il caso della Spagna dove operava l’inquisizione più dura. Qui, nelle province basche, nel XVII secolo si verificò un caso di stregomania collettiva, che fu fermato in tempo dall’inquisitore Alonso Salazar y Frias. Questi si recò sui luoghi, sospese tutti i processi in corso, investigò con tecniche del miglior detective moderno. Poi, convintosi di trovarsi di fronte a un fenomeno di auto-illusione, relazionò al Consiglio Generale della Suprema Inquisizione di Madrid, e questo gli diede ragione. Il Salazar ebbe dunque il merito di risparmiare alla Spagna gli orrori della caccia alle streghe, per il semplice motivo che, da buon domenicano, era profondamente impregnato di razionalismo scolastico. Dunque, le streghe andavano rubricate sotto la voce “superstizione”, di competenza del confessionale. Il suo atteggiamento era condiviso da tutta la Chiesa Cattolica, da sempre assolutamente scettica sulle possibilità effettive di nuocere da parte di streghe e stregoni. Il famoso Malleus maleficarum non venne mai applicato da alcun inquisitore; finì che i Papi lo proibirono” (da R. Cammilleri: “Lo psichiatra e le streghe”). “La caccia alle streghe raggiunse il culmine tra il 1560 e il 1630 e poi tutto cessò quasi improvvisamente”. Nel 1631 il gesuita Friedrich Spee pubblicò il libro “Cautio Criminalis” in cui fece una critica spietata contro la tortura e la caccia alle streghe. Fu l’inizio della resipiscenza che poi si estese anche in campo protestante, contemporaneamente all’avanzamento di una concezione che si apre alla possibilità di una spiegazione medica, patologica, cioè psichiatrica, delle manifestazioni “demoniache”. Nel 1484 Papa Innocenzo VIII promulgò una bolla con cui autorizzò la lotta alla stregoneria, particolarmente diffusa in Germania, dove appunto poco dopo (1486) fu pubblicato il Malleus Maleficorum di Sprenger e Kraemer, ma già nel 1462 era uscito il Flagellum Maleficorum di Pietro Mamor, caratterizzato da una forte impronta antifemminista, (nel quale si dice tra l’altro che il “ demonio causa invidia ed è noto che la malinconia nasce da questa”). Quindi, contemporaneamente alla caccia delle streghe, verso la fine del XVI sec., si inizia a parlare di demonopatia. Spunta un termine apparentemen- 47-68 VITI.qxp 29-10-2004 9:21 Pagina 59 59 te medico e psicopatologico che però, all’epoca, identificava quanti e quanto con condotte, comportamenti e convincimenti non erano omologabili ed assimilati all’ordine politico-religioso vigente. Dopo il Flagellum ed il Malleus maleficorum, nel 1580 Andrea Cisalpino pubblica il Daemonium investigatio peripatetica e introduce nella nosologia psichiatrica, come una varietà di malinconia, una patologia che veniva attribuita all’ azione del demonio, la “possessione diabolica” . La teoria della possessione diabolica era sostenuta anche dal medico Giovanni Fernel. Nel 1631 esce il Compendium maleficorum di Francesco Maria Guaccio, in cui si dice che il “demonio crea malinconia ed epilessia smuovendo gli umori e creando immagini patogene”. Nel 1639 esce il De morbis animi di Bartolomeo Dulcis, in cui compaiono per la prima volta nella storia della psichiatria due capitoli sulla mania demonopatica e sulla melanconia demonopatica, che riguardano quindi dei reali disturbi psichici sui quali secondariamente agisce il demonio, e un terzo capitolo su un vero e tipico caso di indemoniamento. Nel 1652 esce poi il Disquisitionum magicarum di Martino Del Rio, in cui si dice che “il demonio gode di vivere nella bile nera” Fra il XVI ed il XVII secolo uscirono quindi ponderosi trattati di demonologia rivolti ad identificare e descrivere i segni costituzionali, cosidette “stimmate“, quelli clinici e soprattutto quelli cosidetti da “possessione demoniaca”, che caratterizzano appunto l’indemoniamento e sono generalmente manifestazioni epilettiche o malinconiche ( i pazienti vengono definiti “energumeni”) Il demonio è un agente patogeno che “si insinua negli umori determinando i sintomi” e l’atra bile è il “pabulum daemoni”. Così, “lo spirito immondo del male” tiranneggia il corpo e l’anima: voce “barbara”, schiuma alla bocca, volto truculento, agitazione indecorosa, stupori, elevazioni del corpo, scurrilità nelle giovani, conoscenza di lingue mai studiate, capacità occulte: in tutti questi casi l’esorcismo può sconfiggere il “cacodemone”. Si trattava di oscurantismi, residui medievali, fondamentalismi confessionali entro i quali veniva stritolato l’individuo, la sua libertà e i suoi diritti soggettivi. Vittime designate erano le donne, aggredite con terrore sessuofobico. Particolarmente enfatizzato è il “furor uterinus” o ninfomania, ampiamente descritto fin verso la metà dell’800, caratterizzato da “immoderata ed insaziabile cupidità sessuale” presente solo nelle donne specie se vergini, con 47-68 VITI.qxp 29-10-2004 9:21 Pagina 60 60 immagini e pensieri “depravati” a causa di “ un eccitamento uterino inestinguibile”, riprendendo la teoria ippocratica di un utero inutilizzato ai fini procreativi e quindi errante, in cerca di umori, nel corpo della donna (emblematico il caso di Verzegnis e la sindrome isterodemonopatica, nel 1878). Demonologia e demonopatia si situano giusto nella “zona d’ombra” tra il mondo del trascendente di pertinenza della religione e il mondo delle conoscenze scientifiche, per quanto attiene alle scienze umane, cioè tra due posizioni non necessariamente antitetiche né mutuamente esclusive, talora terra di nessuno in cui si inseriscono maghi ed occultisti di varia estrazione. E’ lo scontro tra un idealismo metafisico e un positivismo finalmente terrestre. Un lucido contributo su tale vasto argomento proviene da un lavoro di Callieri e Schiavi, in cui viene descritto un caso di diretta osservazione da parte degli autori, preceduto da un excursus sulla letteratura psichiatrica sull’argomento della demonopatia, che appartiene prevalentemente alla scuola francese. Secondo gli autori, i fatti di “possessione” pur diversamente definiti e descritti a seconda del contesto culturale in cui emergono, possono essere intesi ed interpretati alla luce di meccanismi psicologici specifici, comuni a tutti, che, secondo una distinzione comunemente accettata nella letteratura francese classica, danno luogo a tre tipi di possessione: - quella derivante dalle ossessioni di contrasto e dal processo di automatismo. - quella che si manifesta sotto forma di incubi ansiosi che conducono ad un quadro psicotico. - quella “isterica” in rapporto ad immaginazione eccessiva ed a contatti culturali con la teosofia e la vecchia demonologia. Vengono inoltre citate le ben note sindromi di possessione diabolica dei post-encefalitici, quelle dovute alle psicosi melancoliche (specie nella melanconia agitata), le possessioni rituali (Voodoo) riferibili ad aspetti dionisiaci ed orgiastici, (per altro normali nel loro contesto etnoculturale), i fenomeni della grande isteria, per citare infine il lavoro di Davini ( 1952: “Sui deliri demoniaci”) in cui vengono descritti 16 casi di possessione, tutti di origine psicotica, e quello di Lhermitte (Vrais et faux possedés) il quale afferma che : “ Il medico che vuole rimanere un uomo completo non può escludere a priori la possibilità di una eziologia trascendente nella produzione di certe psiconevrosi la cui origine naturale non appare chiara agli 47-68 VITI.qxp 29-10-2004 9:21 Pagina 61 61 studiosi”, distinguendo tra possessione vera e demonopatia, cioè pseudo possessione, psicotica e non. Sempre da Callieri: “le influenze dei fattori personologici e culturali sull’espressione fenomenologica della demonopatia emergono poi con particolare risalto dal lavoro di Yap sulla popolazione di Hong Kong: dei 66 casi esaminati, in 32 casi si sarebbe trattato di forme isteriche, in 16 casi di forme schizofreniche, in 8 casi di uno stato depressivo con note isteriche, in 4 di uno stato maniacale, in 2 di paralisi progressiva, sempre con marcata influenza del fattore reattivo e situazionale”. Viene citato infine il lavoro di Balducci (Gli indemoniati; 1959) che riporta dei casi di possessione diabolica documentati da completi resoconti stenografici delle sedute di esorcismi. L’esistenza di posizioni diverse, oscillanti tra la concezione scientifica psicopatologica come l’unica realistica e la possibilità, limitata ad alcuni casi, di un’ origine trascendente dei quadri di possessione, appartiene alla storia della psichiatria, o meglio, per dirla con gli Autori: “ l’origine di una demonologia moderna è intimamente connessa alla nascita della psichiatria , cioè quando l’uomo ha scoperto che il disturbo psichico poteva essere considerato come l’indizio di un’alterazione non tanto spirituale, quanto soprattutto mentale”, realizzando una presa di distanza dalla precedente concezione spiritualistica da cui aveva tratto origine il Malleus Maleficorum (“in cui la strega e il diavolo costituiscono realtà altrettanto concrete quanto gli oggetti del mondo esterno”), restituendo ai cosiddetti indemoniati il ruolo di attori della rappresentazione personificata del male, più o meno ingenue e folkloriche espressioni del persistere di antiche credenze popolari (Hellpach: “la possessione come una delle espressioni primordiali della psicologia demoniaca dell’uomo”), e riportando il problema dell’esistenza del male nell’alveo che gli appartiene, della filosofia e della teologia. Il fenomeno della possessione viene quindi interpretato come espressione del “realismo demonologico ingenuo dei primitivi“ e appannaggio di strati socioculturali meno evoluti, in contrapposizione a sistemi metafisico-religiosi di livello assai elevato e raffinato come per esempio il Mazdeismo Iranico (in cui il bene –Ormuz- e il male –Arimane- si contrappongono irriducibilmente), il Manicheismo, lo gnosticismo nelle sue diverse correnti (con “gerarchie angeliche accanto a gerarchie demoniache”). Del resto, nell’ambito di ogni sistema culturale e religioso esiste una stratificazione che va dalla superstizione alle più alte costruzioni teoriche e dottrinali, che trovano comunque una base di partenza nel “pensiero mito- 47-68 VITI.qxp 29-10-2004 9:21 Pagina 62 62 poietico, cioè nell’attività produttiva della fantasia umana sul piano magico-psicologico,…., che persiste e si mantiene negli strati più profondi, anche negli stadi più avanzati della civilizzazione europea” (Cassirer). Secondo Callieri e Schiavi ancora: “nel mondo occidentale, permeato di civiltà cristiana, la figura di Satana può essere intesa in duplice senso, metafisico e psicologico, ambedue validi e ambedue presenti nella storia umana. E’indubbio, però, che ”l’emergenza della personificazione del diavolo è difficilmente spiegabile direttamente in termini di fattori ambientali o situativi” (Yap). A noi basta qui ricordare che nella stragrande maggioranza dei casi tale personificazione ha luogo in situazioni sicuramente psicopatologiche, come ad esempio in certe psicosi deliranti allucinatorie, nelle forme melanconiche e negli stati ossessivi ed isterici. La casistica psicotica è quella più facilmente disponibile”. E in seguito “Invero, l’espressione di questo complesso fenomeno (la possessione demoniaca) non può prescindere dal pia-no religioso e da quello etnologico ed esaurirsi tutta nella considerazione psicopatologica”. Così, se da un lato il fatto che il male pervade la realtà è un dato oggettivo innegabile, dall’altro è ancora profondamente radicato nella nostra cultura il concetto del male come espressione ed effetto dell’ azione di entità personali, il demonio o i demoni, immanenti nella storia sia dell’umanità, sia dell’individuo, con l’obiettivo di estendere il più possibile la propria potestà ad ogni livello (“Operatio eorum est hominis eversio” Tertulliano). Così l’idea della possibile presenza del maligno, fino a non molto tempo fa, veniva inculcata precocemente nella forma di racconti e minacce propinati da nonne e zie ai bambini, e di là riaffiora spesso non solo come spiegazione popolare di stati psicopatologici, ma anche laddove si tratti indiscutibilmente di psicopatologia, come spiegazione che il malato stesso elabora delle proprie distorsioni percettive fino a proiettarle su altri che diventano così a volte, vittime di sanguinosi fatti di cronaca. Il confine tra possessione e “demonopatia” è solo apparentemente labile, in realtà solidamente fortificato da entrambi i lati, sia dalla Chiesa che dalla Psichiatria, che si situano in posizioni reciprocamente rispettose ma diverse. Secondo una prospettiva teologica, la malattia psichica può avere una causa somatica, demoniaca o spirituale, e cioè può ricollegarsi alla dimensione materiale-corporea, oppure essere il frutto di un diretto intervento demoniaco, o infine ricondursi a malvagie passioni umane, condizioni che possono coesistere, così come del resto è evidente che l’azione malefica 47-68 VITI.qxp 29-10-2004 9:21 Pagina 63 63 induce necessariamente un disordine e un perturbamento e quindi una malattia o comunque un disturbo, nella psiche della vittima (da P. Cantoni). E del resto potrebbero esistere fenomeni misti in cui patologia e influsso malefico sono strettamente intrecciati. Secondo Padre G. Amorth, tre sono le premesse indispensabili su cui si basa l’esorcista: - che il demonio esiste: secondo la Chiesa il demonio è un’entità reale che “va in giro per il mondo come un leone ruggente, cercando le anime da divorare” e “tutta intera la storia umana è pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta cominciata fin dall’origine del mondo e destinata a durare, come dice il Signore, fino all’ultimo giorno” (Gaudium et spes) “del resto il mondo giace tutto sotto il potere del maligno” (1 Giov. 5,19), “principe di questo mondo” (Giov. 12,13). - che il demonio può prendere possesso di una persona o causare dei mali, che non si possono curare per vie mediche. - che chi crede in Cristo possiede la forza di cacciare il demonio nel Suo nome per mezzo dell’esorcismo o delle preghiere di liberazione. Ma da sempre la Chiesa si è attenuta, se si escludono eccezioni poi censurate, ad un principio di cautela, mettendo in guardia dal sopravvalutare la reale incidenza dei cosiddetti “mali maléfici” ed esortando a non confonderli con i “mali psichici”. Il rituale dell’esorcismo risalente al 1614, e in vigore fino al 1998, si apre con la seguente esortazione rivolta agli esorcisti: “In primis, ne facile credat aliquem a daemonio obsessum esse” mentre con l’avvento del nuovo manuale, nel 1998, viene stabilito “prima di effettuare il rituale dell’esorcismo, se necessario, il ricorso ad altre figure specialistiche, come quella dello psicologo e dello psichiatra, purchè cattolici”. E inoltre “l’esorcista deve usare circospezione e prudenza: non deve credere vessato dal diavolo chi invece soffre di una qualsiasi malattia psichica”. Con il nuovo rituale viene richiesta all’esorcista “la certezza morale di possessione diabolica” prima di praticare l’esorcismo. Il primo passo quindi, di fronte ad un caso sospetto, è fare ricorso ad una accurata valutazione medica e psichiatrica, che nella maggior parte dei casi permette di escludere l’esorcismo in quanto riconosce delle patologie di propria pertinenza. Se il sospetto persiste, l’esorcista può ricorrere, a suo giudizio, ad un breve esorcismo come criterio ex juvantibus a scopo diagnostico, che a sua volta permette di escludere gran parte dei casi sospetti di origine malefica. 47-68 VITI.qxp 29-10-2004 9:21 Pagina 64 64 Si devono quindi valutare, secondo precisi criteri di discernimento, i sintomi specifici, per così dire patognomici della possessione, che secondo il vecchio rituale erano: parlare lingue sconosciute in modo da sostenere una conversazione o un dialogo, cioè correntemente; manifestare fatti o cose nascosti o lontani; sviluppare una forza assolutamente sproporzionata rispetto all’età e alla costituzione fisica del soggetto. Nel nuovo rito uscito nel 1998 (De exsorcismis et supplicationibus quibusdam) si aggiunge l’avversione al sacro che si può manifestare in forme diverse e talora di dubbia interpretazione (es. ripugnanza alla preghiera in persone che hanno sempre pregato, sensibilità all’acqua santa e ad oggetti benedetti, anche se il contatto con questi avviene in maniera inconsapevole, reazioni violente e aggressive se si prega sulla persona “posseduta” o se la si benedice). Altri elementi per così dire accessori sarebbero inoltre, il verificarsi di fatti strani e inspiegabili, visti e uditi da tutti i presenti, nella casa della persona colpita e l’aver frequentato sedute spiritiche, maghi, cartomanti, sette sataniche, ecc… Il sintomo più sicuro rimane per altro il parlare lingue sconosciute, essendo l’unico non suscettibile in alcun modo di una spiegazione naturale. Vengono del resto riportati con attendibilità fatti che realmente hanno dell’incredibile. Dal libro “Esorcisti e Psichiatri” di G. Amorth: “Il caso più grave che sto seguendo è quello di una persona a cui il demonio ha detto che farà vomitare un apparecchio radio; a molte riprese ha già vomitato quasi due chili di materiale. Faccio notare che gli oggetti che si vomitano si materializzano nell’istante in cui escono dalla bocca (………) così si spiega perché la persona non ha mai danni fisici anche quando sputa pezzi di vetro grossi e taglienti.” Quando perciò si deve ricorrere all’esorcista secondo la Chiesa? “Quando non ci sono spiegazioni umane per i mali che affliggono il paziente, quando un cammino di conversione, di preghiera e una serie di preghiere di liberazione non hanno ottenuto l’effetto voluto, ma hanno evidenziato crescenti reazioni non spiegabili naturalmente, quando si notano segni di sospetto(….) o fenomeni strani e inspiegabili” Che cos’è l’esorcismo e chi è l’esorcista per la Chiesa? L’esorcismo è una preghiera in forma rituale (in termine tecnico un “sacramentale”) ovvero un rituale liturgico istituito dalla Chiesa allo scopo di liberare un soggetto, o anche un oggetto o un luogo, dalla presenza (“pos- 47-68 VITI.qxp 29-10-2004 9:21 Pagina 65 65 sessione”) o dall’influenza del demonio. Una forma più semplice e abbreviata di esorcismo viene pronunciata durante il Battesimo (una componente fondamentale della liturgia battesimale è appunto l’esorcismo con cui il battesimando viene sottratto a Satana e consegnato a Cristo e alla Chiesa), ma il cosidetto “grande esorcismo” o esorcismo solenne è riservato solo ad un presbitero autorizzato dal vescovo e viene effettuato secondo un rito molto antico, riveduto in parte di recente (1998), che lascia per altro una certa discrezionalità all’esorcista stesso in alcune modalità di esecuzione (per es. nella durata, nel fare ricorso ad ausili come le presenze di “oranti” o “carismatici”, oggetti rituali o immagini sacre, talora la presenza di persone che impediscono all’esorcizzando di farsi del male, talora anche la presenza di un medico.) Secondo il Rituale Romano: “Il sacerdote che si appresta ad esorcizzare persone tormentate dal demonio deve essere munito di speciale, espressa autorizzazione dell’Ordinario ed essere fornito di pietà, prudenza, integrità di vita; confidando non nel suo potere ma in quello divino; sia distaccato da ogni cupidigia dei beni umani…….di età matura e degno di rispetto non solo per l’incarico ma per la serietà dei costumi. Prima di tutto non creda facilmente che qualcuno sia posseduto dal demonio; a tale scopo sia bene a conoscenza dei sintomi che distinguono un posseduto da coloro che sono affetti da una qualche malattia, soprattutto psichica. I posseduti vengono esorcizzati in Chiesa, se ciò è possibile,o in un altro locale religioso e conveniente, lontano dalle folle. Ma…si può compiere l’esorcismo anche a casa. Si guardi inoltre l’esorcista dal somministrare o consigliare una qualsiasi medicina, ma lasci ai medici questo compito.” Sullo stesso testo: “Solo l’esorcista, per mezzo dell’esorcismo, può capire i casi in cui c’è il dubbio se si tratti di un male malefico o di malattia mentale. L’esorcismo può essere effettuato su chiunque, anche appartenente ad altre religioni o completamente atei, ma è nettamente più efficace su persone che già hanno fede, ed è possibile inoltre solo su persone consenzienti, che accettino di sottoporvisi e in qualche modo collaborino secondo le loro possibilità, poiché il demonio non può mai del tutto soggiogare la volontà di un individuo”. La pratica dell’esorcismo trae le sue origini nell’insegnamento di Cristo, che nel periodo della sua vita pubblica, accanto alla predicazione compiva an- 47-68 VITI.qxp 29-10-2004 9:21 Pagina 66 66 che miracoli di guarigione sugli infermi e di liberazione dal demonio su coloro che ne erano posseduti ( restando sempre ben distinte le due condizioni, cioè la malattia vera e propria e la possessione), dando in seguito anche agli Apostoli e poi anche ai discepoli il mandato e il potere di scacciare i demoni nel suo nome, esteso infine a tutti coloro che hanno fede in Lui. Così è nata la pratica dell’esorcismo. Per citare il Vangelo: “Guarite gli infermi, resciuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni” (Mt 10,8).“Ne costituì dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni” (Mc 3,14). “Egli allora chiamò a se i dodici e diede loro potere e autorità su tutti i demoni e di curare le malattie” (Lc 9,1). “Nel mio nome scacceranno i demoni “ (Mc 16,17). “Questa specie di demoni non si può scacciare in alcun modo se non con la preghiera e il digiuno” (Mt 17: 14,21). Nei primi secoli del Cristianesimo quindi tutti i battezzati potevano esercitare il potere di scacciare i demoni da chiunque lo chiedesse, anche i pagani, mentre, in seguito, esso venne sempre più affidato ai monaci, specie ai Padri del deserto (i quali si ritiravano nel deserto proprio per combattere meglio il demonio, che secondo la tradizione ha nel deserto la sua dimora elettiva), ai quali l’ascesi, il digiuno, la continuità nella preghiera fornivano un più forte potere. Più tardi però l’esorcistato venne regolamentato, individuando gli esorcisti come un ordine minore che venne poi abolito dal Concilio Vaticano II. Nel V° secolo papa Innocenzo I promulgò una normativa secondo cui l’esorcismo poteva essere praticato solo da sacerdoti autorizzati dal vescovo come tutt’ora avviene. Tutt’oggi è presente una richiesta di esorcismi, specie da parte di alcune fasce della popolazione che tendono a farne richiesta in maniera esagerata ed impropria, spesso come primo approccio o come primo tentativo di soluzione di problematiche di altra natura. Al contrario, sec. P. Amorth “da tre secoli nella chiesa cattolica di esorcismi non se ne fanno quasi più; nell’insegnamento accademico, negli ultimi anni del demonio non se ne parla quasi affatto e tanto meno degli esorcismi”. Forse al giorno d’oggi il demonio non si accontenta più ormai di catturare “pesci piccoli” e pensa più in grande, mirando a governare movimenti di masse, “gruppi di operatori del male”, detentori del potere economico, politico, militare, e a diffondere più sottilmente, profondamente ed estensivamente la sua influenza sulle menti e sulle anime per allontanarle defini- 47-68 VITI.qxp 29-10-2004 9:21 Pagina 67 67 tivamente da Dio. Così, la pratica dell’esorcismo fondata su una base dogmatica rimane nell’”armamentario” della Chiesa come risorsa storica disponibile, talora efficace, ma ormai sempre più lasciata nell’archivio, messa in ombra da una visione più serenamente orientata dei rapporti tra l’uomo, la scienza e il trascendente. Negli ultimi due secoli le grandi filosofie occidentali hanno riposizionato la persona al centro dell’attenzione e delle loro analisi indicando il cammino laborioso e a volte aspro verso l’autonomia e la libertà. Bibliografia AMORTH G., Esorcisti e psichiatri, Bologna, Ed. Dehoniane, 2002. BALDUCCI C., Gli indemoniati, Roma, Coletti, 1959. BORSATTI L., Le indemoniate: il caso di Vezzegnis, Ed. del Confine 2002. CALLIERI B., SCHIAVI E., Contributo al problema psicopatologico delle demonopatie, Rassegna studi psichiatrici, 46, 873, 1962. CALLIERI B., TARANTINI A. M., Sul cosiddetto delirio mistico, “Rassegna Studi Psichiatrici”, 43, 857, 1954. 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Massarelli L’incarcerazione sistematica di criminali e delinquenti, nata con la civilizzazione, è divenuta problematica a causa della difficile gestione di vecchie istituzioni la cui concezione è ben poco evoluta nel corso dei secoli. Dopo un lungo periodo di totale autarchia e di pudibondi silenzi, tuttavia, il milieu carcerale riceve oggi l’attenzione dei Media a causa del sovrappopolamento ben conosciuto e dei drammatici problemi che ne conseguono. L’interesse della società civile verso il sistema carcerario, mette in luce le mancanze e le difficoltà incontrate da quest’ultimo nei confronti della sorveglianza dei detenuti e del loro reinserimento post-pena. Si scopre altresì la vera natura della punizione e l’impossibile reinserimento sociale di individui materialmente, fisicamente e psicologicamente diminuiti. La sovrappopolazione, la sovente vetustà architetturale delle istituzioni carcerarie, l’indigenza delle risorse in termini d’attività, di lavoro, di igiene e di educazione e le mancanze in materia di reinserimento illustrano le carenze del sistema penitenziario. Le attività fisiche e sportive (AFS) si sono progressivamente sviluppate in prigione per rispondere ai bisogni di una popolazione carceraria, per forza isolata dalla vita sociale della polis. I diversi studi condotti per misurare il ruolo e l’apporto delle AFS giustificano la loro importanza, al punto tale che oggi le si possono considerare come un reale vettore sociale, educativo, terapeutico e sanitario. La pratica delle AFS in prigione non risponde ad una logica autonoma ma é definita dal regime carcerario e dal milieu sociale particolare che lo caratterizza. Quest’ultimo presenta una sua specificità ed é funzione, in Francia per esempio, del luogo di detenzione (prigione o penitenziario). Gli articoli D 362 e D 363 del codice penale francese prevedono che “sedute d’educazione fisica o sportive hanno luogo in tutti gli stabilimenti penitenziari ove sia possibile organizzarle” (trad. degli AA). Qualsiasi detenuto può dunque pretendere di partecipare a queste sedute. Il direttore della prigione dispone, d’altra parte, del 69-80 CLEMENT.qxp 29-10-2004 9:22 Pagina 70 70 potere discrezionale di rifiutare queste sedute per ragioni d’ordine e di sicurezza. Inoltre la valutazione medica é un prerequisito necessario a qualsiasi attività fisica. L’attività fisica si pone allora nel quadro di un progetto che mira al miglioramento della salute fisica e mentale delle persone detenute. In questo senso, é essenziale stabilire una stretta collaborazione tra il settore medico ed il progetto specifico d’attività fisica in qualità di elemento importante del processo igienico dell’individuo. Verso una patologizzazione delle persone incarcerate. A partire dagli anni 80, il profilo dei detenuti si é sensibilmente modificato. Attualmente tre categorie di prigionieri presentano delle serie difficoltà: i giovani delinquenti tossicomani o dealers, le persone che non godono più dello statuto d’irresponsabilità (in questi ultimi venti anni, il tasso d’irresponsabilità penale é passato in Francia dal 17 al 0.17 %, Péan citato da Le Caisne, 2000) e gli anziani. Diversi rapporti (David, 1993, Gonin, 1999, Vasseur, 2000) mettono in evidenza l’esistenza nella popolazione carceraria di vari problemi nosologici come disturbi della personalità, affabulazioni (Le Caisne, 2000), psicosi (Wulfman, 1982, Chastang et col. 1991, Snézech et al 1990, Bezaury et Feruch 1991) ed alcune patologie legate al narcisismo e risultanti in possibili automutilazioni e in suicidi. Queste patologie non sono soltanto una conseguenza dell’incarcerazione, ma, sovente, la risultante di danni psicologici anteriori. Molti detenuti primo-entranti in uno stabilimento penitenziario dichiarano di fumare più di un pacchetto di sigarette al giorno, di avere un policonsumo e/oppure d’essere sotto trattamento con sostanze psicotrope (ansiolitici o ipnotici) (La santé à l'entrée en prison: un cumul des facteurs de risque, Etudes et résultats, n°4, Gennaio 1999, Ministero Francese dell’Impiego e della Solidarietà, 1999), un fenomeno che può essere il riflesso dela società francese, notoriamente la prima consumatrice mondiale di tali sostanze. Queste patologie sono accentuate tuttavia dall’incarcerazione in uno spazio ristretto ove la promiscuità genera una situazione di costante negoziazione e di tensione. Tensione tra i detenuti, tensione con il personale di sorveglianza e tensione con la famiglia che ha tendenza ad allontanarsi in misura della durata della pena. L’inevitabile conseguenza dell’incarcerazione risulta in una pseudo-letargia, in una sedentarità forzata che conduce ad un sentimento di tempo vuoto in uno spazio esiguo limitato da quattro mura. L’incarcerazione accentua allora la fragilità dell’individualizza- 69-80 CLEMENT.qxp 29-10-2004 9:22 Pagina 71 71 zione del corpo e la sedentarità che ne risulta puo’ provocare dei problemi di condotta alimentare, del sonno e condurre a patologie reattive ed a comportamenti mitomani (Le Caisne, 2000). Un risultato che non può che accentuare i problemi nosologici presenti prima dell’entrata in prigione come, per esempio, un deficit verbale, una impulsività, dei disturbi della personalità…(M. David, 1993). La sofferenza fisica dovuta al sentimento di rigetto sociale viene rafforzata dalla realtà della detenzione, dall’allontanamento dal mondo, dall’eliminazione degli attributi personali, dall’anonimato nascosto dietro un numero a più cifre. Questa esperienza di depersonalizzazione e di derealizzazione puo’, talvolta, aiutare l’individuo ad accettare la micro società carceraria, sopratutto nel corso dei primi mesi d’incarcerazione. L’oggettivazione della pena, rappresentata dal modo di vita del milieu carcerale, nega così la propria realtà narcisistica alla persona che viene incarcerata. Le prigioni obbligano l’individuo ad adattarsi oppure lo forzano alla regressione infantile a causa della funzione “contenitiva” del sistema carcerario e dei suoi “modi” di socializzazione. L’isolamento produce, in questo caso, un’anoressia mentale, risultante in fine in una specie di anoressia sociale. Le attività fisiche e sportive: uno spazio terapeutico? In uno spazio esiguo, codificato da una strutturazione temporale immobile, bisogna costruire un altro spazio che permetta di sopprimere le nozioni proprie di «non spazio» e di «tempo necrotico». La pratica fisica può forzare l’individuo a ridare un senso all’igiene del corpo e permettere di ritrovare un corpo che l’assunzione di farmaci e la costante promiscuità, presente anche durante i momenti i più intimi, hanno fatto dimenticare. Si deve ridare vita ad un corpo “bloccato nei suoi movimenti, nella soddisfazione dei suoi desideri, nella preservazione della sua intimità. (...) L’incarcerazione lascia delle impronte sul corpo, sull’immagine di sè, sul rapporto con il mondo e con gli altri” (Lhuilier D, Lemiszewska A, 2001, trad. degli AA). Di fronte a questa mobilizzazione corporea, la persona detenuta “presenta il suo corpo” e si può assistere, allora, ad una teatralizzazione delle condotte etero- ed auto-aggressive al fine di attirare l’attenzione dell’altro, quando la verbalizzazione non é più sufficiente o quando l’economia psichica del soggetto lo conduce a tali reazioni. I comportamenti di auto-mutilazione rappresentano una auto-aggressività, una volontà di danneggiare l’integrazione personale per proclamare, allo stesso tempo, la propria in- 69-80 CLEMENT.qxp 29-10-2004 9:22 Pagina 72 72 nocenza ma anche per evacuare una certa colpevolezza (David 1993). Seguendo la teoria di C. Dejours, “quando il corpo si scontra con la resistenza del mondo, quando il corpo incontra i limiti stessi della propria resistenza, limiti impenetrabili che s’impongono alla sua volontà, quando cioé resiste alla propria volontà di agire, allora esperimenterà la sofferenza...La conoscenza del mondo é prima di tutto una conoscenza sofferta” (trad. degli AA). Il movimento del corpo promette un cambiamento delle rappresentazioni del detenuto. Il corpo in cui la vita si rivela a se stessa, il corpo dove avviene la soggettività non é il corpo fisiologico, é “il corpo che abito, il corpo che sento..” (trad. degli AA). L’attività fisica interviene a diversi livelli: lotta contro il rallentamento psicomotorio dovuto al milieu carcerale, contro la perdita del sentimento dell’igiene personale, contro le patologie interne dovute alla sedentarità e all’alimentazione poco controllata, ed infine contro le patologie esterne dovute alle aggressioni degli altri detenuti. Il punto sulle ricerche. Un notevole numero di ricerche (recensite per esempio in: Physical Activity and Health : A Report of the Surgeon General, 1996) mostrano l’efficacia della pratica sportiva su uno o più fattori costitutivi della salute (fisica e/o mentale), delle società occidentali in particolare, ed i benefici innegabili apportati dalla AFS nel trattamento ed anche nella prevenzione di certe patologie. Appare dunque necessario comparare tali risultati con delle ricerche svolte nell’ambito delle prigioni vista l’esiguità degli studi effettuati in tale ambiente. I pochi studi pubblicati sono tuttavia incoraggianti poiché sottolineano i benefici sanitari occasionati dallo sport e dalle AFS in detenzione. Amtmann, Evans & Powers (2001) hanno messo in evidenza un miglioramento della salute e del benessere fisico di detenuti anziani, a seguito di un programma di allenamento fisico adattato ai bisogni degli individui in esame. Lo studio ha messo in evidenza un miglioramento della funzione cardiovascolare, una minore frequenza degli interventi sanitari, una perdita della massa grassa a favore della muscolare ed, in generale, un miglioramento del benessere fisico e psicologico di questi detenuti. L’effetto della pratica delle AFS sulle donne recluse é stato studiato da Garnier e Minotti (1993) che hanno osservato il miglioramento della forma, dei comportamenti alimentari e del benessere in generale. Tale miglioramento appare anche nella stima di sè, in una valorizzazione dell’immagine del pro- 69-80 CLEMENT.qxp 29-10-2004 9:22 Pagina 73 73 prio corpo e nella comparsa di una reale preoccupazione nei confronti della salute, dell’alimentazione, del sonno e dell’igiene personale. Diversi studi hanno mostrato l’effetto positivo di programmi di AFS sullo stato mentale di giovani delinquenti (Hilyer, Wilson, Dillon, Caro, Jenkins, Spencer, Meadows & Booker, 1982 ; Munson, 1988 ; Brown, Welsh, Labbé, Vitulli & Kulkarni, 1992). In continuazione con questi studi, Daigle (1998) ha analizzato l’effetto di un programma d’AFS sulla salute mentale, il consumo di psicotropi, la stima di sè ed il potenziale di frustrazione di giovani detenti in un ospedale penitenziario Canadese. I risultati mostrano un netto miglioramento delle capacità fisiche ed, in minor misura, delle componenti psichiche. Altre ricerche mostrano i benefici innegabili apportati dalle AFS sulla stima di sè (Tucker, 1982 ; Sonstroem & Morgan, 1989 ; Bryson, Groves & Lengfelder, 1992 ; Tester, Watkins & Rouse, 1999), sull’agressività (Czajkowska, Golemba & Popieluch, 1967 ; Wagner, McBride & Crouse, 1999), sul comportamento in generale (Williams, 2001 ; 2002), l’identità (Fasting, Johnsen & Hole, 2000), sullo stress e la fiducia in sè (Melnick & Mookerjee, 1991 ; Matchette & Weller, 1991). L’insieme di questi risultati conferma il reale potenziale terapeutico e sanitario delle AFS in detenzione e contribuisce al loro sviluppo in prigione. Altri studi sono tuttavia necessari al fine di riempire le purtroppo abbondanti lacune di dati e di mostrare la loro efficacia sociale, educativa, sanitaria e terapeutica. Conclusioni e prospettive Aspetti psico-sociali. Le sedute d’attività fisica devono evitare la trappola “dell’occupazionismo” (Le Caisne, 2000, 212) e della “catarsi”(Welzer-Lang. Mathieu, Faure, 1996), due aspetti sviluppati invece dalle rappresentazioni dell’istituzione e dei suoi rappresentanti. E’ in questo senso che queste sedute fisiche o sportive devono entrare in un progetto che inquadri, non solo il loro modo d’effettuarsi ma anche il funzionamento del gruppo, che non deve mai eccedere le 14 persone. In un quadro spazio-temporale che rende un senso possibile ad un futuro reinserimento sociale, la persona detenuta si ristruttura. Questa nuova strutturazione passa per l’attività fisica e le rappresentazioni che ne hanno i detenuti, per la competenza dell’inquadramento e per la relazione al gruppo sociale. Attraverso la pratica fisica esiste una proiezione di sè, una ri-conoscenza per il sè e per gli altri in vista di un reinserimento sociale, 69-80 CLEMENT.qxp 29-10-2004 9:22 Pagina 74 74 costruita grazie ad un Progetto d’Esecuzione delle Pene. L’attività fisica, tramite l’atto motorio, permette una soddisfazione pulsionale. Puo’ rivestire diversi aspetti come lo sviluppo di un corpo muscoloso per gli uomini e la ricerca dell’estetica per le donne. Attraverso la scarica pulsionale che lo sport autorizza, i detenuti in difficoltà d’elaborazione mentale, trovano un modo adattato al loro funzionamento psichico. Le diverse “azioni motorie” dei soggetti sono riprese e verbalizzate attraverso le parole dell’accompagnatore che determina il quadro e le regole del gioco. Nel corso della pratica fisica e sportiva e dopo, durante il tempo di parola, il detenuto può così sorpassare, trasformare i problemi sovente somatizzati. Nel corso di questa evoluzione, il ruolo del gruppo é fondamentale nel favorire l’emergere della parola, nel “condividere degli aneddoti di vita” che possono situarsi a tre livelli: simbolico, immaginario e reale. Il fattore sociale, d’altra parte, ci sembra importante come obbligo che esso impone alla persona di tenere da conto l’alterità come uno specchio alla propria costruzione ed in qualità di partner indispensabile per la pratica fisica o sportiva. Partecipa al restauro dell’immagine del sè per il sè e dell’immagine del sè per gli altri, in una relazione marcata dalla performance reale. La pratica fisica favorisce un linguaggio differente da quello sviluppato nel milieu carcerale, parole cariche di vite ricreate in un certo onirismo sociale che rende accettabile l’incarcerazione agli occhi dei detenuti e degli altri. Questo restauro o questa salvaguardia dell’immagine del sè é fondamentale durante la detenzione o durante i mesi che precedono l’uscita. La pratica fisica e sportiva non comporta rischi particolari poiché i detenuti sono in gruppi poco numerosi ed in luoghi scoperti (per esempio le partite di calcio). Inoltre se il detenuto provoca un incidente si condanna da sè stesso visto che é immediatamente rimesso in cella e punito tramite la sospensione dell’attività fisica. Inoltre l’attività risponde all’attesa sociale nei confronti dei valori di De Coubertin veicolati dalla pratica sportiva ed é necessaria per sollevare il peso della prigione, comportandosi in questo senso come una valvola di sicurezza. Nel caso dei giovani, per esempio, lo sport é un vettore estremamente importante. Per certuni permette di uscire dalla cella e di beneficiare di una doccia supplementare, per altri permette di conservare una certa immagine di sè positiva sia da un punto di vista estetico che per la partecipazione ad una competizione. Una remora concerne eventualmente il culturismo (musculation) che rischia di aumentare il ripiegamento 69-80 CLEMENT.qxp 29-10-2004 9:22 Pagina 75 75 narcisistico: il praticante, solo davanti uno specchio, evacua la relazione sociale ed, alle volte, pratica senza alcun contatto sociale con il responsabile. Eppure questi periodi di potenziamento muscolare sono portatori, sovente, d’interrogazioni sulla fisiologia, la biomeccanica, la dietetica e possono infine far risalire in superficie delle somatizzazioni represse. L’investimento dell’individuo nell’attività fisica, la sua accettazione del quadro e delle consegne che derivano dalla pratica sportiva, favoriscono un processo di formazione, l’elaborazione di un progetto di uscita. L’attività fisica rappresenta così uno spazio di mediazione che ristabilisce il legame tra l’identità personale e l’identità sociale senza la quale nessuna costruzione (o ricostruzione) identitaria può esistere. Aspetti psico-fisiologici. Perché attendersi un effetto delle AFS su parametri di ordine fisiologico e psicologico? Esistono solide basi scientifiche che rivelano tali effetti positivi in situazioni di confinamento forzato, per la più parte grazie a risultati ottenuti su modelli animali. Questi, notoriamente, presentano due vantaggi importanti: innanzitutto sono generalmente considerati un buon riflesso delle caratteristiche biologiche di esseri viventi posti in situazioni di reclusione visto che si tratta di mammiferi mantenuti in gabbie; in secondo luogo lasciano adito a studi sui diversi apparati fisiologici, cosa che evidentemente non é possibile nell’uomo visto che solo pochi liquidi biologici possono essere usati per analisi scientifica. Certi autori hanno proposto che i ratti albini, cresciuti ed ospitati in stabulari che rispettano tutte le stesse condizioni vitali, possano soffrire di una certa forma di depressione (vedi per esempio: Willner, P., 1998; Moreau, J. L., 1997; Blanchard, D. C., Sakai, R. R., McEwen, B., Weiss, S. M.. & Blanchard, R. J., 1993). Ciò è stato avanzato sulla base di studi di neurochimica cerebrale e non soltanto su tesi comportamentali. Altri autori hanno notato che un “milieu arricchito” (gabbie contenenti delle ruote, dei giochi...), dando agli animali la possibilità di un esercizio fisico, “migliorava” considerevolmente un metabolismo cerebrale che rifletteva uno stato depressivo preesistente (Augustsson, H., van de Weerd, H. A., Kruitwagen, C. L. & Baumans, V., 2003; Frick, K. M., Stearns, N. A., Pan, J. Y. & Berger-Sweeney, J., 2003 ; Van de Weerd, H. A., Aarsen, E. L., Mulder, A., Kruitwagen, C. L., Hendriksen, C. F. & Baumans, V., 2002 ; Turner, P. V. & Grantham, L. E., 2002 ; Patterson-Kane, E. G., Harper, D. N. & Hunt, M., 2001;. Varty, G. B., Paulus, M. P., Braff, D. L. & Geyer, M. 69-80 CLEMENT.qxp 29-10-2004 9:22 Pagina 76 76 A., 2000 ; Hansen, L. T. & Berthelsen, H., 2000 ; Haemisch, A. & Gartner, K., 1997). Ancora più significativi sono gli studi che mostrano come l’attività fisica stimoli la plasticità cerebrale (cf la rivista di Cotman, C. W. & Berchtold, N. C., 2002), aumenti l’apprendimento (Young, D., Lawlor, P. A., Leone, P., Dragunow, M. & During, M. J., 1999; van Praag, H., Christie, B. R., Sejnowski, T. J. & Gage, F. H., 1999) ed aiuti a mantenere le funzioni cognitive durante l’invecchiamento (Escorihuela, R. M., Tobena, A. & Fernandez-Teruel, A., 1995). Tali studi offrono, anche a coloro che possono mettere in dubbio la presenza di una vera depressione psicologica in specie inferiori di mammiferi, una base scientifica sufficiente per approfondire la ricerca tra detenuti non soltanto da un punto di vista psico-sociale, ma anche da quello fisiologico. Sfortunatamente, per le ragioni già accennate, l’uomo é un pessimo modello sperimentale. Lo sviluppo di metodologie di esplorazione funzionale in vivo del cervello come la Risonanza Magnetica funzionale o la Tomografia ad Emissione di Positroni potrebbero essere di grande aiuto se queste tecnologie non fossero così ingombranti e costose da rendere impossibile il loro uso al di fuori di un ambiente ospedaliero o di ricerca. Più abbordabile è sicuramente l’uso di tecniche quali l’elettroencefalografia e l’elettromiografia che possono essere impiegate con una strumentazione miniaturizzata e portatile. Tali metodologie sono già state impiegate in studi comparativi tra individui normali e sportivi, permettendo di ottenere, in particolare grazie all’uso di microelettrodi, il monitoraggio di alcuni parametri neurovegetativi, come la frequenza cardiaca, la temperatura corporea esterna, la pressione arteriosa e la resistenza cutanea, la cui variazione fornisce una misura in tempo reale dello stato psicologico dell’individuo (emozione, motivazione, stress...) (Collet, C., Guillot, A., Bolliet, O., Delhomme, G. & Dittmar, A., 2003). Per concludere, ci sembra possibile che tali ricerche, metodologicamente facili da realizzare, possano apportare un supporto fisiologico ai tests psicologici alfine di dare un quadro completo sugli eventuali effetti dell’attività fisica in detenzione. Inoltre, anche in assenza di dati statisticamente robusti, la presente revisione della letteratura mostra che é plausibile ritenere che l’esercizio fisico diventi ben più che un palliativo per il benessere delle persone detenute. 69-80 CLEMENT.qxp 29-10-2004 9:22 Pagina 77 77 Bibliografia Amtmann, J., Evans, R. & Powers, J. (2001). Measured and Perceived Effects of a Correctional Wellness Program. Corrections Compendium, 9, 1-6, 20-23 Ancel, M. (dir). (1981). Les systèmes pénitentiaires en Europe occidentale. La Documentation Française, Paris Augustsson, H., van de Weerd, H. A., Kruitwagen, C. L. & Baumans, V. (2003). 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Nelle loro visioni grigie captano sprazzi d’eternità, e tremano, svegliandosi, nello scoprire di essere giunti al limite del grande segreto. In un attimo, apprendono qualcosa del discernimento del bene e qualcosa di più che la pura e semplice conoscenza del male. Penetrano, senza timore nè bussola nel vasto oceano della “ineffabile luce” e ancora, come gli avventurieri del geografo della Nubia, “aggressi sunt mare tenebrarum, quid in eo esset exploraturi”. Diremo quindi che sono pazzo”. Da “Eleonora” Edgar Allan Poe Se normalità significa questo torpore collettivo che impedisce a gran parte degli esseri umani anche solo di intravedere il vero significato della vita; se significa quel miraggio assassino che conduce la maggior parte di loro a vivere la propria esistenza come se fossero esseri eterni; ad idolatrare il loro corpo come fosse immortale; ad uccidere il tempo come fos- 81-86 ANONIMO.qxp 29-10-2004 9:23 Pagina 82 82 se un nemico, ed a costruire sontuose dimore sotto le quali seppelliranno le loro ceneri, allora chiamatemi pazza. Perché la malattia del sonno su di me non ha attecchito, e sono sveglia in mezzo ad un esercito di zombi che fluttuano nel nulla senza uno scopo. Perché io vedo e sento laddove la maggior parte delle persone neanche immaginano. Ma che farmene se poi sono muta perché circondata da un mondo di sordi?! La cura? Eliminarsi, oppure continuare a vagare nella più completa solitudine, oppure entrare a far parte dell’esercito dei dannati. Ma nessuno di noi può scegliere il prosieguo di un destino che sceglie noi, e così ho continuato a vagare sforzandomi di essere “normale”, anche se marchiata a fuoco come un vitello col timbro “diversa”, “strana”, “eccentrica”, “eclettica” e molte altre di quelle stupide parole che cercano di liofilizzare la divina complessità di ogni essere umano in qualche lettera. Perché non continuare a fingere? In fondo la vita è una perenne commedia dove ognuno di noi è solo un burattino che cesserà il suo spettacolo quando meno se lo aspetta. Ma il mio corpo si è fermato. Ad un certo punto si è reso autonomo dalla mia volontà meschina, ed ha cominciato ad esternare tutto il dolore da sempre soffocato. Notti insonni e pasti velenosi hanno preceduto come un’ombra nella notte la bestia nera che già bramava fuori dall’uscio. Si sente il suo fiato affannoso, e quasi la si odora. Ma ora è belva, ora è crepuscolo che cala prima delle vere tenebre. Come un’eclisse di Sole in pieno giorno, quando il cielo diventa metallico, la luce malata ed un freddo vento spazza via il profumo della vita. Ecco il male oscuro. Male perché si soffre tanto, scuro perché l’azzurro miraggio che ci regala il nostro cielo svanisce, inghiottito in una spirale di fredda desolazione. Il cosmo, in una parola, dalle cui profondità proveniamo e ci muoviamo, senza sapere né come né perché. Quando il male oscuro cala la sua cappa, ogni sipario si chiude, ogni recita si interrompe. La scintilla della vita si cristallizza all’istante, e lo spettro della morte sembra l’unica via di fuga ad una tortura talmente vigliacca che non mostra neanche il volto del suo boia. E non te la prendi con altri esseri umani, li commiseri perché non comprendono, come le pecore del “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, di Leopardi, che pascolano ignare e tranquille sotto la luce argentea della Luna. Ti domandi solo se esiste un maledetto Dio col quale pren- 81-86 ANONIMO.qxp 29-10-2004 9:23 Pagina 83 83 dertela, un Dio che ti ha sbattuto su questo mondo senza una minima spiegazione. Chi diavolo siamo? Da dove veniamo? Qual è il nostro destino? Siamo soli in questo maledetto Universo? Che diavolo ci facciamo su uno dei milioni di pianeti delle centinaia di miliardi di stelle, delle centinaia di miliardi di galassie che costellano il vuoto? Perché la nostra mente arriva laddove il nostro corpo neppure può osare? E’ disperazione. Tutti ne parlano ma pochi la conoscono veramente. Disperazione significa sentirsi con le spalle al muro; un muro immenso, che possa tappezzare il mondo intero. Significa non avere nessuna via di fuga, nessuna speranza. Significa aver intuito per qualche istante il dramma più profondo del vivere, e la sua magia più intima. Troppo! Troppo per un piccolo essere umano tutto questo. Ma gli sguardi impotenti, estranei di chi ha assistito alla mia disperazione erano più dolorosi del dolore stesso. Come far capire loro? Come trasporre in un linguaggio più semplice a loro accessibile? L’uomo semplice crede solo in ciò che vede. Così come estremo tentativo di comunicare ho massacrato le mie braccia con una lametta, dando un volto alla mia sofferenza. Ma, ahimè, questo è servito solo a trasformare l’etichetta: da diversa sono diventata folle e pericolosa. Io che non farei male ad una mosca! Che rifuggo la violenza! Che mi commuovo di fronte alla bontà! Per quanto tempo potrà trascorrere, riuscissi anche ad imbrigliare l’eternità, non perdonerò mai a me stessa di essere caduta tanto a fondo da aver mendicato l’aiuto di qualcuno a questo prezzo. E mai perdonerò chi ha assistito impassibile a quelle tragedie, alla cronaca della distruzione di una dignità. A chi ha pestato le mie dita mentre stavano annaspando sull’orlo del baratro. Un paio di anni fa ho realizzato che forse avevo bisogno di aiuto. Il primo giorno che ho incontrato il mio psichiatra l’ho odiato perché minimizzava il mio dolore, e perché non gli era sufficiente solo il mio immenso dramma per concludere la sua missione. Ho aspettato per ore nel suo studio. Ero una delle tante! La mia storia era una delle tante. L’ho odiato perché io sapevo di essere una sana in un mondo malato. Ma un mondo intero è troppo oneroso da curare. Perché dovevo uccidere la mia mente brillante? E chi cavolo era lui per curare me? Curare me? Ma lo sapeva chi ero io? Dove poteva arrivare la mia mente? Con chi stava parlando? 81-86 ANONIMO.qxp 29-10-2004 9:23 Pagina 84 84 Ti ascoltano un’oretta, ti incasellano in una categoria, e poi ti assegnano le droghe. Ah! Una pecora malata in un recinto particolare. Proprio Io? Sopire la mia geniale follia addormentando i miei sensi con delle droghe. La pillola della felicità, insomma. Prima ti addormenti e poi ti risvegli in un mondo nuovo, insieme a tutti gli altri. Tutta una questione di chimica, quindi. Gioia, felicità, tristezza. Tutte reazioni chimiche. Ma per quanto sia stata dura, la mia mente di scienziato stava lentamente accettando l’idea che poteva essere anche così. L’intero miracolo della vita è una storia scritta con l’alfabeto della chimica. Tutto ciò che siamo è l’interazione di molecole che si parlano nel nostro organismo attraverso il linguaggio della chimica. Un Codice, il DNA, scritto anch’esso nel linguaggio della chimica, programma la materia organica inanimata impartendogli le informazioni per costruire un essere umano. Tutto quello che siamo è codificato in quella piccola molecola. E non solo il colore dei nostri occhi o l’odore della nostra pelle. Ma come si spiega la mia diversità rispetto agli altri? Sono soltanto malata? Ovvero il mio cervello soffre per la carenza di una determinata sostanza chimica che gli impedisce di essere felice? Perché allora la sofferenza è il preludio di ogni più profonda comprensione? Perché sono state le menti “malate” a partorire le grandi rivoluzioni del pensiero umano? E che differenza c’è tra la mia depressione e quella di un analfabeta? Io amo e odio il mio male oscuro, perché è vero che mi fa soffrire di una grande solitudine, ma è anche la porta che mi permette di accedere laddove molti neanche osano immaginare. Alcuni pensano che il male oscuro si possa combattere portando a galla, e riaffrontando, episodi del proprio passato, ed aggiustando le cose che non vanno nel presente. Mah!.. Che dire. Certo che la psicoterapia è utilissima. Ma dipende dal tipo di malessere che si ha. Non so se esistono tanti tipi di male oscuro o se ne esiste solo uno che tutti nominano senza averne la benché minima cognizione. E non so neanche se il male oscuro sia malattia o piuttosto il preludio della lucida consapevolezza di ciò che siamo. Come se qualcuno di noi fosse stato lasciato vigile per pilotare faticosamente l’arca dell’umanità. Ma come non impazzire sapendo che dobbiamo morire dall’oggi al do- 81-86 ANONIMO.qxp 29-10-2004 9:23 Pagina 85 85 mani senza neanche sapere lo scopo della nostra vita? Tuttavia so che il male oscuro non va dai “normali” perché essi sono già morti. Esso si reca sempre da persone vive. E quando bussa alla porta penso che il modo migliore per affrontarlo sia quello di aprirgli e farlo accomodare, cercando di capire cosa vuole da noi. Un po’ come ho fatto io, facendo accomodare anche il mio psichiatra come spettatore. Se davvero è solo la morte a dar un senso alla vita, allora la visita della bestia nera forse vuole insegnarci il valore dell’esistenza prima che essa cessi definitivamente. Un depresso guarito è un essere umano migliore di quello che era in precedenza anche se, ahimè, nel frattempo il mondo è rimasto a guardare. 81-86 ANONIMO.qxp 86 29-10-2004 9:23 Pagina 86 87-92 BATTAGLIA.qxp 29-10-2004 9:23 Pagina 87 87 La lettura Psicopatologia e fenomenologia jaspersiane F. Battaglia Il volume “Scritti psicopatologici” appena uscito per i tipi della Guida di Napoli vuole – come possiamo leggere nella Presentazione di Giuseppe Cantillo - “offrire uno sguardo sul laboratorio teorico, psicopatologico e insieme filosofico, del giovane Jaspers” (p. 7). Esso contiene la traduzione dell’Introduzione e della prima parte del terzo capitolo della prima edizione della Psicopatologia generale (1913) che fu poi rielaborata nel 1920, accresciuta e migliorata nel 1923 e completamente rielaborata nel 1946, nonché gli scritti “L’indirizzo fenomenologico in psicopatologia” (1912) e “Le coscienzialità corporee” (1913). L’antologia jaspersiana è resa più completa dalla presenza dei saggi di Anna Donise e Stefania Achella che sono di ausilio prezioso per orientarsi nella comprensione dei testi. La prima parte, a cura di Anna Donise, è programmaticamente intitolata “Psicopatologia e fenomenologia.” L’autrice nel presentare i lavori di Jaspers, sottolinea come l’approccio fenomenologico fornisca, per Jaspers, la possibilità di avvicinarsi all’uomo malato senza una precostituita e spesso preconcetta teoria, ma in maniera da poter “valorizzarne i vissuti” (p. 15). Il modo con cui Jaspers delinea i caratteri del metodo fenomenologico in psicopatologia induce l’autrice a misurare con più precisione il valore del rimando alla fenomenologia husserliana. Insomma – scrive Anna Donise – si tratta effettivamente di fenomenologia, ovvero di quella disciplina inaugurata da Husserl, o non piuttosto di psicologia descrittiva? È un problema avvertito dallo stesso Husserl che ne farà oggetto costante delle sue riflessioni. Per quanto riguarda invece Jaspers, egli espliciterà i suoi rapporti con la fenomenologia husserliana solo in una delle edizioni successive della Psicopatologia generale, dove dirà che egli intende accogliere la fenomenologia secondo il primo significato che le avrebbe consegnato Husserl, quello cioè di psicologia descrittiva; l’evoluzione successiva del significato verso le “intuizioni d’essenza”, invece, non può essere d’ausilio nella psicopatologia. Ma il senso più proprio del ricorso di Ja- 87-92 BATTAGLIA.qxp 29-10-2004 9:23 Pagina 88 88 spers al metodo fenomenologico sta nell’esigenza “di ricondurre anche tutta la sfera soggettiva ad una dimensione rigorosa, che ne faccia un ambito impiegabile nella ricerca e nella pratica psicopatologica” (p. 24). Il pluralismo metodologico perorato da Jaspers ha inoltre il merito di mettere in luce una strana asimmetria: se per un verso – osserva Anna Donise – troviamo prese di posizione contro il “riduzionismo positivistico” che intendeva ricondurre e risolvere la patologia psichica a elementi ultimi oggettivi e fisici, non troviamo dall’altro una eguale riprovazione nei confronti di un altro tipo di riduzionismo, pure questo parziale, secondo il quale “la malattia mentale, ma più in generale lo psichico, debba essere studiata senza alcun riferimento alla dimensione materiale dell’essere umano, dunque il cervello e il corpo nel loro insieme” (p. 25). Il saggio di Jaspers del 1912 si apre con la distinzione tra sintomi oggettivi e sintomi soggettivi. I primi sono tutti quelli sensibilmente percepibili, come i riflessi, i movimenti registrabili ecc.; a questi si aggiungono tutte le prestazioni misurabili, come la capacità lavorativa, l’abilità pratica, le prestazioni della memoria e, infine, anche le idee deliranti. Questi sintomi si differenziano da quelli soggettivi perché possono essere immediatamente additabili, universalmente riconoscibili, laddove quelli soggettivi dipendono per l’appunto, oltre che dalla percezione sensibile e dal pensiero logico, da qualcosa di soggettivo. I primi godono di una migliore considerazione, sono “i soli sicuri” mentre i sintomi soggettivi sono reputati “altamente incerti” (p. 28); tanto che sia in psicologia che in psichiatria v’è la richiesta di costruire la teoria della malattia mentale sui sintomi oggettivi. Solo che, osserva Jaspers, si assiste ad un curioso fenomeno: nel mentre che la psicologia procede all’eliminazione dello psichico assumendo sempre più un carattere fisiologico, allo stesso tempo pretende di continuare ad avere come oggetto proprio la vita psichica stessa. Contro un tale procedere che per Jaspers è caratteristico di una “psicologia senz’anima”, v’è il tentativo di comprendere “geneticamente” lo psichico, di cogliere come “lo psichico ‘sorge’ con evidenza dallo psichico” (p. 47). Il punto di partenza è offerto dall’osservazione che noi tutti facciamo nella vita quotidiana, quando siamo rivolti all’esperienza che compiamo e non ai processi psichici che si sviluppano nell’esperienza stessa vissuta. Lo psichiatra può certamente produrre una comprensione immediata dell’esperienza vissuta, tuttavia egli deve mirare a raggiungere una conoscenza consapevole. Egli deve cioè puntare a mettere in forma concettuale quanto descritto in maniera inconscia, vaga e solo personale, de- 87-92 BATTAGLIA.qxp 29-10-2004 9:23 Pagina 89 89 ve insomma pervenire ad un sapere comunicabile. Jaspers descrive accuratamente tale metodo: “Il primo passo per un cogliere scientifico – ciò deve essere indubitabile – è qui uno scegliere, delimitare, separare e descrivere determinati fenomeni psichici, che in questo modo sono resi chiaramente presenti e sono chiamati regolarmente con una determinata espressione” (p. 33). Fondamentale per questa prima tappa è il poter consapevolmente prescindere dalle teorie tramandate, dalle costruzioni psicologiche e dalle “mitologie materialistiche dei processi cerebrali”. Dobbiamo insomma rivolgerci “a ciò che nella sua reale esistenza possiamo comprendere, cogliere, differenziare, descrivere”. Questa programmatica ricerca di superamento dei ‘pregiudizi’ costituisce notoriamente uno dei capisaldi della dottrina fenomenologica progettata da Edmund Husserl. Il passo successivo è costituito dalla “presentificazione” dei fenomeni psichici. Ci troviamo di fronte ad una situazione peculiare in cui non è possibile porci dinanzi agli occhi il fenomeno psichico come qualcosa di sensibilmente percepibile; ciò che noi possiamo fare è “condurre noi stessi e gli altri procedendo da più lati a presentificare una singola cosa” (p. 33). È questa per Jaspers una condizione imprescindibile del lavoro dello psichiatra: “Questa presentificazione autonoma dei fatti psicologici è, in base a riferimenti sempre esteriori, la sola condizione grazie alla quale può essere compreso in generale un qualsiasi lavoro sullo psichico” (p. 34). Per illustrare il procedere del fenomenologo Jaspers ricorre all’analogia con il compito dell’istologo: “Come l’istologo descrive minuziosamente gli elementi morfologici particolari, ma solo in maniera tale che ognuno possa semplicemente vederli, e come l’istologo, con quelli che davvero lo vogliono comprendere, deve presupporre o causare questa capacità di vedere autonomamente, così anche il fenomenologo può indicare varie caratteristiche, differenze, sostituzioni, per descrivere le datità psichiche qualitativamente particolari” (p. 34). Il presentificarsi del fenomeno si poggia sulla potenzialità del “vedere” che è qualcosa di ulteriore rispetto al pensare, esso possiede, infatti, un’evidenza propria, che non è quella della percezione sensibile ma del comprendere: “Questo vedere non è sensibile, bensì è un elemento comprensibile” (p. 34); esso comunque condivide la particolarità elementare, l’irriducibilità, del dato sensibile: “Sul piano psicologico è l’equivalente della percezione sensibile su quello delle scienze naturali” (p. 35). Il metodo fenomenologico possiede un’intrinseca capacità di raggruppare 87-92 BATTAGLIA.qxp 29-10-2004 9:23 Pagina 90 90 fenomeni affini dando luogo ad una classificazione che adopera solo i lati realmente vissuti dei fenomeni. Rispetto agli ideali che governano le altre discipline, la fenomenologia risponde a princìpi differenti: “Mentre cioè l’ideale della fenomenologia è una infinità compiutamente ordinata di irriducibili qualità psichiche, in opposizione a questo c’è un altro ideale, l’ideale degli elementi ultimi quanto più è possibile ridotti come ad esempio accade per la chimica” (p. 45). Al termine del saggio Jaspers passa in rassegna ancora una volta in una sorta di catalogo alcune riflessioni fondamentali che stanno alla base della fenomenologia fino ad affermare che per raggiungere il suo fine principale, la conoscenza cioè di quanto esperiscono i malati, è necessario rendere conto di ogni fenomeno: “Nell’istologia è richiesto che si debba dar ragione in relazione alla corteccia cerebrale di ogni fibra e di ogni nucleo. La fenomenologia pretende qualcosa di totalmente analogo: si deve rendere conto di ogni fenomeno psichico, di ogni esperienza vissuta che viene alla luce nelle esplorazioni del malato e nelle sue autodescrizioni” (p. 49). Il saggio sulle coscienzialità corporee conclude la parte dedicata ai rapporti tra psicopatologia e fenomenologia; la seconda parte, curata da Stefania Achella, infatti, si volge al problema del “Comprendere e spiegare: il pluralismo metodologico”. Il pluralismo metodologico non è solo una soluzione temporanea, un estrinseco accostamento di approcci molteplici; esso al contrario – come opportunamente precisa Stefania Achella – è il risultato della specificità dei fenomeni legati alle malattie mentali e più in generale alla complessità dell’essere umano; è per questo motivo che bisogna resistere “alla tentazione di porre […] l’essere umano su un unico denominatore” (p. 68). La Psicopatologia generale con il ricorso al metodo fenomenologico, alla psicopatologia oggettiva, alla psicologia comprendente e alla psicopatologia esplicativa, ci offre il migliore esempio di un procedere che non si limita ad una sola via, ma esplora le possibilità intrinseche contenute in prospettive metodologiche differenti. L’idolo polemico di Jaspers è il dominio incontrastato in psichiatria del metodo delle scienze della natura. Stefania Achella ricostruisce con perizia il dibattito che si sviluppa intorno alle scienze dello spirito e della natura, fornendo una serie di punti di riferimento storico-filosofici che rendono chiara e distinta la proposta di Jaspers. Quanto Jaspers si è sforzato di porre all’attenzione di coloro che intraprendono la professione medica è forse oggi diventato ovvio; occorre co- 87-92 BATTAGLIA.qxp 29-10-2004 9:23 Pagina 91 91 munque considerare che diverso era il clima in cui egli si trovò ad operare. In questo senso giustamente conclude Stefania Achella: “La psicopatologia e la psichiatria contemporanee non possono non riconoscere il loro debito intellettuale ed etico nei confronti di Karl Jaspers” (p. 79). Nell’Introduzione della Psicopatologia generale del 1913 Jaspers precisa i rapporti tra psicopatologia e psicologia e tra psicopatologia e neurologia. Rispetto alla psicologia Jaspers osserva che il suo studio è necessario per lo psicopatologo, sebbene poi nella pratica egli debba affrontare molte condizioni di cui lo psicologo non ha ancora elaborato lo stato di normalità, perciò in molti casi la “psicopatologia tratta di molte situazioni rispetto alle quali la psicologia non ha ancora posto mano all’elaborazione di una corrispondente situazione ‘normale’” (p. 86) Anche con la neurologia v’è uno stretto legame e la condivisione di confini comuni tanto che, osserva Jaspers, lo studio della corteccia cerebrale è stato intrapreso dagli psichiatri e non dai neurologi. Nonostante questa affinità e l’innegabile intima unità che lega lo studio delle funzioni corporee, da quelle più elementari a quelle più elevate della corteccia, e lo studio della vita psichica, questi ambiti rimangono irrelati. Jaspers descrive suggestivamente questa situazione: “È come quando un continente sconosciuto viene esplorato da due parti, ma gli esploratori non si incontrano mai, perché tra loro resta sempre un’ampia fascia di territorio impenetrabile” (p. 87). Il confronto con le discipline limitrofe consente a Jaspers di mettere in luce i caratteri principali della psicopatologia che non consistono nell’imitazione della costruzione sistematica elaborata dalle scienze neurologiche, ma nello “sviluppare i punti di vista della ricerca, nello sviluppare le questioni e i problemi, i concetti e le connessioni, a partire dagli stessi fenomeni psicopatologici” (p. 88). In discussione non è l’autonomia della ricerca neurologica e il contributo che essa fornisce alla psicopatologia; quest’ultima deve da parte sua dedicarsi ad “ottenere concetti e distinzioni sufficientemente chiari e comunicabili, che sono il fondamento su cui solo si possono cercare, in generale, le connessioni causali e i sintomi caratteristici di determinati processi psichici” (p. 89). Jaspers passa quindi in rassegna i pregiudizi imperanti in psicopatologia fino a giungere alla formulazione dei concetti fondamentali e dei metodi della psicopatologia; in questo suo tentativo di delineare la forma propria della psicopatologia egli sviluppa una critica a Freud, in cui sostanzialmente rimprovera al padre della psicanalisi di non essersi soffermato abbastanza sulla vita psichica realmente vissuta che è come “la schiuma che 87-92 BATTAGLIA.qxp 29-10-2004 9:23 Pagina 92 92 galleggia sulle profondità di un oceano” (p. 100), ma di essersi fatto sedurre dalle traverse vie teoretiche con cui egli ha tentato di rendere indirettamente accessibili le insondabili profondità dello psichico. Jaspers non mostra esitazioni nel rigettare l’uso delle teorie: “Le teorie nascono in psicologia, senza eccezione, dal bisogno falsamente soddisfatto di dominare l’intero con un unico tipo di spiegazione, con un numero limitato di elementi. Il risultato sono “sistemi” di tipo costruttivo, rozzi concetti classificatori, una composizione dell’intero apparentemente definitiva, che, in realtà, può essere realizzata solo in relazione al caso singolo” (p. 101). Si tratta di un modo di procedere contrario allo spirito del pluralismo metodologico che informa la visione jaspersiana del mondo. Nella fattispecie inoltre egli distinguendo tra processi inconsci e inavvertiti sembra quasi propendere per una soluzione che nega i processi psichici inconsci: “Si è discusso all’infinito se ci siano o meno i processi psichici inconsci. Per questa questione bisogna innanzitutto distinguere accuratamente tra processi psichici inavvertiti, ma effettivamente vissuti dal vivente e quei processi che sono realmente extra-coscienti e non effettivamente vissuti” (p. 103). Rigettate le rappresentazioni teoretiche perché rappresentano una fuga dal vissuto, Jaspers sembra infine privilegiare tra tutti gli strumenti per studiare la vita psichica “l’esplorazione verbale dei malati”, l’“immergersi nel loro atteggiamento” (p. 110) e il prestare ascolto alle loro autodescrizioni, in quanto per Jaspers la psichiatria deve tenere conto dell’intera vita processuale, della personalità nel suo complesso e non può pertanto perdere di vista che “l’uomo non è una mera creatura naturale ma anche un’essenza culturale” (p. 113). L’ultimo saggio, di natura squisitamente metodologica, analizza le possibilità del comprendere e dello spiegare; Jaspers ne illustra le diversità senza tralasciare di esplorare le loro reciproche relazioni; con esso si chiude la raccolta di Scritti psicopatologici sapientemente messa a punto dalle curatrici e che rappresenta un efficace strumento per accostarsi al pensiero di uno degli esponenti principali della corrente fenomenologica in psichiatria. 93-100 GUAZZELLI.qxp 29-10-2004 9:24 Pagina 93 93 Viaggio nel cervello linguistico La lettura M. Guazzelli Il libro di Florida Nicolai, Argomenti di neurolinguistica. Normalità e patologia nel linguaggio, pubblicato dalle Edizioni del Cerro nel 2003, si pone all’incrocio di discipline diverse: la linguistica e le scienze che studiano il cervello. Un’opera di questo tipo si è resa possibile grazie alla rivoluzione cognitivista che, rispetto alla precedente tradizione strutturalista e comportamentale, fornisce lo studio del linguaggio in rapporto con il corpo umano. L’autrice ricostruisce quest’orientamento inserendolo in una complessa vicenda storica i cui punti salienti sono tra gli altri la consapevolezza di Ferdinand de Saussure rispetto ai rapporti tra linguaggio e cervello e la convergenza interdisciplinare stabilita da Roman Jakobson nei suoi studi sull’afasia. La più recente e decisa presa di posizione rispetto a questo orientamento nella linguistica è riconducibile a Noam Chomsky, il quale si professa convinto assertore del modello unitario sui rapporti mente-corpo, del fatto cioè che la mente non è nient’altro che un prodotto del corpo e quindi può affermare senza esitazioni che il «linguaggio è un oggetto biologico». Senza aderire acriticamente alla posizione naturalista di Chomsky, l’autrice accetta il ruolo della plasticità neuronale su cui incide sia il determinismo genetico sia la variabilità individuale e ambientale così da ottenere un modello secondo il quale «l’acquisizione del linguaggio non è pertanto qualcosa che il bambino compie tutto da solo: posto nell’ambiente appropriato, gli capita qualcosa di simile a ciò che accade al suo corpo che cresce e matura in modo predeterminato, a patto che gli vengano forniti l’adeguato nutrimento e gli stimoli ambientali» (p. 14). Posta la questione in questi termini è evidente che le domande cui i ricercatori tenderanno a dare una risposta riguardano il modo in cui i geni determinano lo «stato iniziale» e come in generale i meccanismi cerebrali presiedano alle interazioni con l’esperienza, cioè a separare e valutare accuratamente quanto proviene dal patrimonio genetico e quanto invece dal contesto ambientale. 93-100 GUAZZELLI.qxp 29-10-2004 9:24 Pagina 94 94 Si pongono così a disposizione del neurolinguista strumenti nuovi accanto a quelli consueti: da un lato le recenti tecniche di esplorazione funzionale del cervello in vivo, dall’altro l’enorme patrimonio proposto dall’osservazione clinica. La realtà clinica con la sua inesauribile ricchezza e varietà offre l’evidenza di distinzioni categoriali che sarebbe difficile ipotizzare al di fuori dell’esperienza sul campo, come ad esempio il fatto che scrivere coinvolga meccanismi diversi e distinti dal leggere o che ripetere una parola sia diverso dall’usarla spontaneamente (p. 24). La nuova prospettiva, mettendo in gioco una fruttuosa interdisciplinarietà, ha anche provveduto a rimescolare i confini delle discipline. I tradizionali campi della psicolinguistica, a cui si attribuiva il compito di definire la funzione del sistema linguistico e i cui oggetti sono costituiti dalla memoria, dall’attenzione, dalla percezione, dall’acquisizione e dalla perdita del linguaggio ma soprattutto dalla «verifica sperimentale della realtà psicologica delle strutture linguistiche» (p. 26), sono stati invasi dalla neurolinguistica. Questa evoluzione si può leggere chiaramente nelle riviste e negli atti dei convegni che sono stati testimoni dei mutamenti che parallelamente si verificavano. In generale comunque è evidente nell’opera «la tendenza a strappare il linguaggio dal monopolio della linguistica e farne il cavallo di Troia attraverso cui penetrare nei misteri della mente/cervello, perché il linguaggio ne è la parte più accessibile» (p. 27). Il linguaggio cioè si pone in relazione non solo con la psicologia, la neurologia e la biologia ma anche con l’antropologia, la pediatria e la psichiatria. Al termine del percorso gestazionale della neurolinguistica, in cui i ricercatori si volgono al linguaggio con domande che ne mettono in gioco i più diversi aspetti, l’autrice, con le parole di Antonio e Hanna Damasio, ci suggerisce una duplice chiave di lettura per cui «il linguaggio esiste sia nel mondo esterno come “oggetto” sia nel cervello come “incorporazione”» (p. 27). Quest’indicazione ci aiuta a comprendere la nuova definizione della neurolinguistica, che è una scienza che «si propone dunque di studiare tutte le funzioni encefaliche direttamente o indirettamente relate in modo dinamico alle funzioni del linguaggio in tutte le sue manifestazioni (acquisitive, normali, degenerative) e in tutte le modalità (orali, scritte, segniche): in altre parole, si propone di studiare le funzioni del linguaggio in relazione all’organizzazione del sistema nervoso centrale, in quanto è parte delle scienze del linguaggio» (p. 27). A sostenere l’entusiasmo nei confronti della nuova scienza contribuiscono certo i risultati delle nuove tecniche d’indagine insieme all’affinamento di quelle già esistenti. La PET 93-100 GUAZZELLI.qxp 29-10-2004 9:24 Pagina 95 95 (Tomografia ad Emissione di Positroni), ad esempio, si rivela più duttile rispetto ai precedenti altri strumenti di esplorazione funzionale del cervello, poiché non si limita a fornire informazioni sulle aree coinvolte in un dato fenomeno ma fornisce i livelli di attivazione relativi all’intero cervello consentendo un’interpretazione non preventivamente legata ad un’ipotesi di funzionamento. Questa nuova metodica si rivela particolarmente adatta per studiare il comportamento linguistico normale e offre un contributo rilevante anche per una maggiore consapevolezza sulle insufficienze del solo studio “patologico” per comprendere il funzionamento del cervello e in particolare del ruolo linguistico dell’emisfero destro. L’impatto di queste nuove tecniche sulla teoria è considerevole, se si tiene in mente che il coinvolgimento dell’emisfero destro nei fenomeni linguistici contraddice in parte i dati clinici. La sfida – osserva l’autrice – è di riuscire a rendere conto del funzionamento “integrato” delle parti specializzate del cervello. Per far ciò è necessario valutare correttamente l’interferenza della metodologia con lo specifico processo studiato. In questo nuovo quadro molti sono i compiti che vengono posti alla neurolinguistica, tra cui la possibilità di definire il percorso ontogenetico del cervello umano e di valutare adeguatamente il necessario correlato secondo il quale il rapporto tra linguaggio e cervello si modifica nel tempo. Dopo aver ricostruito la nascita della nuova disciplina, l’autrice si premura di dare un’informata ricognizione sullo stato dell’arte della psicolinguistica a partire dall’esame del primo numero del nuovo millennio della rivista Brain and Language. Accoglie innanzitutto l’appello ad un’interdisciplinarietà effettivamente esercitata in cui i dati anatomici possano essere messi in relazione con le competenze linguistiche. Ma accanto alle aspettative si profila purtroppo la sconfortante considerazione che «poco si è avanzati nella conoscenza delle relazioni linguaggio/cervello» (p. 41). Se si confrontano i risultati di Wernicke, che giunse ad ipotizzare le «immagini sensoriali delle parole» potendo solo fare affidamento su pochi rilievi autoptici, non si può non rimanere costernati di fronte all’evidenza che «nonostante i mezzi disponibili, continuiamo ad ignorare dove e come sono organizzate le parole nel cervello» (p. 42). In realtà la neurolinguistica sembra indecisa sui paradigmi da adottare; consapevole da un lato dell’infruttuosità di corrispondenze biunivoche tra strutture e funzioni non riesce comunque a congedarsi dal continuare a procedere verso una «mappatura isomorfica tra strutture neurali e strutture cognitive/linguistiche» alla luce della chiarezza e della possibilità di verifica sperimentale che 93-100 GUAZZELLI.qxp 29-10-2004 9:24 Pagina 96 96 questo modello possiede. Paradossalmente l’innovazione tecnologica sembra di per sé condurre ad una nuova «frenologia o, come alcuni precisano, ad una nuova organologia ancora più complessa, se si considera la tendenza di molti studi alla ricerca di aree sempre più selettivamente dedicate a compiti linguistici sempre più specifici, con una suddivisione del cervello in pezzetti sempre più piccoli, in una sorta di processo senza fine» (p. 43). Per non seguire ciecamente e pedissequamente questa china, l’autrice sostiene che un proficuo confronto con gli studi sulle basi neuronali può essere fatto solo a partire da un uso consapevole delle conoscenze acquisite dalla linguistica, in modo da impostare più articolatamente e proficuamente le ricerche. A questo percorso non è estranea una consapevolezza metodologica che giunga ad un’accurata valutazione e traduzione dei dati acquisiti con tecniche differenti, e che tenga conto dell’assenza della dimensione temporale dalle mappe spaziali della risonanza magnetica funzionale (RMf) e della PET. Infine il problema urgente è oggi quello di conciliare la visione localistica, quale emerge dagli studi sulle lesioni, con la visione più complessa suggerita dai risultati delle tecniche di esplorazione funzionale del cervello. Nel secondo capitolo, l’autrice conseguentemente alla sua tesi, si dedica all’analisi delle regole del linguaggio a partire innanzitutto dal lessico mentale, il cui patrimonio per ciascuno di noi è costituito da circa 40/50.000 parole, per passare poi ai fenomeni del suo indebolimento e del ruolo svolto dalla memoria e dall’attenzione. Un’attenzione particolare è riservata ai diversi modi di suddividere i lessici, per cui si può parlare di lessico dei colori, dei viventi o dei manufatti. Tutte queste categorie, come anche la suddivisione delle parole in nomi e verbi, sono alla base di esperimenti che tentano di spiegare come la lingua venga acquisita. È interessante vedere in questo capitolo la modalità con cui le conoscenze della psicolinguistica vengono messe a confronto con gli studi di esplorazione funzionale del cervello e con i dati clinici, realizzando quell’auspicata interdisciplinarietà di cui si occupava nel capitolo precedente. Un ultimo paragrafo è dedicato al lapsus definito programmaticamente «la finestra sul… cervello». Per la Nicolai lapsus hanno una struttura varia: essi possono essere metatesi, anticipazioni, perseverazioni sostituzioni e fusioni, ma in questa loro varietà rivelano una regolarità in quanto tutti questi fenomeni di sostituzione avvengono allo stesso livello linguistico: una parola cioè viene sostituita da un’altra parola, una sillaba con un’altra sillaba e così via. Questa caratteristica del lapsus «lascia intatta la struttura pro- 93-100 GUAZZELLI.qxp 29-10-2004 9:24 Pagina 97 97 sodica, sintattica, fonologica della frase» e si rivela uno strumento adatto «per valutare l’organizzazione del linguaggio nel sistema cognitivo del parlante» (p. 73). Lo spostamento dell’attenzione sul cervello ha fatto sì che lo stesso fenomeno linguistico subisse una nuova definizione in cui l’aspetto fonico rappresenta una caratteristica accidentale e non più essenziale all’inquadramento dell’oggetto. Le posizioni di Chomski a questo proposito appaiono significative: «Se negli anni sessanta, espressamente interpellato, aveva affermato che il linguaggio è imprescindibile dal suono, successivamente ha riconosciuto l’importanza per la teoria, accanto ai dati ricavati dall’acquisizione del linguaggio, dai casi di afasia, dagli studi sull’attività cerebrale del linguaggio, anche dei dati ricavati dallo studio delle lingue dei segni» (p. 78). Il quarto e il quinto capitolo, dedicandosi a fenomeni come la lingua dei segni, cioè quella utilizzata dai sordo-muti e il bilinguismo, si affiancano al settimo capitolo in cui vengono trattati altri due fenomeni: la lingua dei bambini ciechi e alcuni disturbi specifici del linguaggio nei bambini. Elemento di interesse comune di questi fenomeni per altri versi disparati è il contributo che ciascuno di essi può fornire per una compiuta teoria del linguaggio. Rilevante è la notazione posta all’inizio del terzo capitolo: già nel 1878 il grande neurofisiologo inglese John Hughlings ebbe l’intuizione che solo gli studi dei nostri giorni hanno potuto confermare e che cioè un danno di alcune parti cerebrali può determinare la perdita del sistema naturale di segni. Il riconoscimento che anche un diverso sistema di segni possa essere equiparato a quello naturale è stato un processo lungo e tormentato. L’inclusione nella linguistica di sistemi di segni diversi da quello naturale avviene nella convinzione che «tale approccio possa permettere di individuare quali aspetti riflettono le proprietà linguistiche indipendenti dalla modalità di trasmissione e, quindi, possa avvicinarci a meglio comprendere la natura della facoltà di linguaggio e la sua (in)dipendenza dalla modalità» (p. 78). A suggellare la perdita delle certezze riguardo all’indissolubilità tra linguaggio e vocalità contribuiscono le osservazioni degli etologi i quali richiamano l’attenzione sul fatto che al raffinato sviluppo dell’apparato vocalico degli uccelli canterini non corrisponde assolutamente la creazione di un linguaggio. Questa non può comunque in nessun caso essere considerata come una prova conclusiva in quanto tra i volatili si osservano sequenze evolutive differenti. Quel che è certo è che l’aver acquisito anche le lingue dei segni ha obbligato la linguistica ad affrancarsi dalla modalità e a volgersi sempre di più alle pro- 93-100 GUAZZELLI.qxp 29-10-2004 9:24 Pagina 98 98 prietà linguistiche in quanto tali: «I gesti, sia eseguiti usando la mano (nelle lingue dei segni) sia usando lingua, velo pendulo, glottide e palato (nelle lingue vocali) sono tra loro equivalenti» (p. 79). Un dato importante riguarda l’omogeneità che vige nelle lingue dei segni a differenza di quanto vale per le lingue vocali. Questo dato non deve essere frainteso perché l’uniformità tipologica delle lingue dei segni può essere il risultato di fattori contingenti. Perciò le lingue dei segni ripropongono la questione già sollevata da Chomsky dell’innatezza della grammatica, ovvero della grammatica universale. Ma più in generale lo studio delle lingue dei segni ha modificato radicalmente il panorama: prima tutto quanto era stato acquisito sulla lingua proveniva esclusivamente dallo studio delle lingue vocali, ed uno degli assunti riguardava il fatto che le proprietà organizzative del linguaggio fossero intrinsecamente connesse con il suono, in altre parole, «la natura parlata e udita del linguaggio determinava di conseguenza i princìpi della grammatica» (p. 83). La necessità per la linguistica di muoversi in un campo in cui si va oltre lo specifico della modalità “scombina” l’assetto delle conoscenze acquisite fino ad oggi perché «la giovane neurolinguistica poteva contare sulla conoscenza, ormai vecchia di un secolo, che l’emisfero sinistro è dominante per il linguaggio e che è specializzato in alcuni compiti di tipo analitico, mentre l’emisfero destro è in qualche modo complementare all’emisfero sinistro, occupandosi della totalità, anziché delle parti costitutive, e, soprattutto, è dominante per compiti di tipo visivo-spaziali. Le lingue dei segni sembrano sconvolgere queste linee di demarcazione, perché hanno una struttura “fonologica”, morfosintattica e lessicale, quindi una complessità strutturale simile a quella delle lingue vocali, ma questa organizzazione linguistica si realizza in una modalità non più fonetico-acustica, bensì visivo-spaziale. È evidente, quindi, che nel momento in cui le lingue dei segni risultano fondamentalmente elaborate dall’emisfero sinistro, come è indicato, oltre che da dati clinici, da diversi studi che, ricorrendo alle tecniche di indagine cerebrale, scrutano le rappresentazioni cerebrali delle lingue dei segni, ciò costituisce un forte supporto all’ipotesi di una predisposizione genetica dell’emisfero sinistro per la faculté du langage indipendente dalla modalità» (p. 84). Il fatto che siano saltate le certezze riguardo all’indissolubilità tra linguaggio e vocalità sposta la ricerca dalla lingua alla facoltà di linguaggio. Ed anche rispetto alle osservazioni amplia l’osservazione dagli ambienti bilingue agli ambienti bimodali per quei bambini, ad esempio, che sono esposti sia ad una lingua vocale sia ad una lingua dei segni. Questi bambini offrono una 93-100 GUAZZELLI.qxp 29-10-2004 9:24 Pagina 99 99 buona esemplificazione del fenomeno del babbling, confermando che questa fase propria dell’apprendimento di una lingua vocale si rintraccia anche nella lingua dei segni; e il fatto che essi non presentano preferenze per l’una o per l’altra modalità sembra suffragare l’«equipotenzialità delle due modalità, vocale e segnica» (p. 86). È indiscutibile l’apporto che le lingue dei segni hanno dato all’assetto della linguistica, tanto che l’autrice parla di “terremoto segnico” (p. 88). Anche lo studio delle lesioni cerebrali nei soggetti segnanti mostra una analogia con i processi di disgregazione delle lingue vocali in modo che le «la prima certezza a crollare è che udito e vocalità siano i precursori necessari della specializzazione cerebrale per il linguaggio, formando una prima, seppur parziale, risposta su quale sia la base dell’asimmetria funzionale dei due emisferi» (p. 88). Con l’espressione “cervello segnante” l’autrice rimanda efficacemente al ruolo che la sordità svolge nella ricerca linguistica: «Sia la sordità che l’uso delle lingue dei segni forniscono pertanto un contributo di conoscenze quale nessuna situazione sperimentale creata ad hoc può uguagliare, nell’eterno dibattito sul ruolo dei fattori biologici e degli input ambientali nello sviluppo neurocognitivo, sul rapporto tra genetica ed ambiente, un topos imprescindibile della neuropsicologia cognitiva evolutiva, da molti considerata la vera sfida del secolo per quanto potrà arrivare a dire di definitivo sulla caratterizzazione dei processi che portano allo sviluppo e alla differenziazione ontogenetici del cervello» (p. 111). In questo panorama anche il cervello dei bilingue offre un terreno interessante per esplorare la natura della facoltà di linguaggio. Anche se l’autrice raccomanda una cautela particolare nei confronti delle nuove tecniche di esplorazione funzionale del cervello, da cui molto ci si attende senza però che possa venir sottovalutato l’arduo compito dell’interpretazione vista la mancanza di coerenza che regna tra i dati delle diverse ricerche (p. 142). Uno degli atteggiamenti tipici della neurolinguistica è quello che con maggiore determinazione si trova espresso nella neurolinguistica “bilingue” e che l’autrice riassume così: «sapere dove si trovano le funzioni del cervello per capire come operano». Il capitolo quinto si occupa di un campo d’indagine relativamente nuovo rappresentato dalla pragmatica: secondo questa prospettiva il linguaggio viene inserito nel contesto più ampio della comunicazione, anche in questo caso il risultato è che «l’identificazione più o meno esplicita tra neurolinguistica e studio dell’emisfero sinistro, per lo meno in modo quasi au- 93-100 GUAZZELLI.qxp 29-10-2004 9:24 Pagina 100 100 tomatico come talora da alcuni è stato fatto, non è attualmente più praticabile, dal momento che gli aspetti pragmatici, oltre – come da tempo riconosciuto – quelli prosodici, sono elaborati dall’emisfero destro: inserita l’elaborazione linguistica nel naturale contesto della comunicazione, si può di fatto parlare di asimmetria funzionale tra i due emisferi, ognuno dominante per alcuni aspetti ma complementari in un processo unitario» (p. 150). Come si vede gli argomenti affrontati nel libro e l’ampia mole di ricerche discusse, di cui non vogliamo fare un catalogo completo, perché andrebbe molto al di là degli obiettivi di una recensione, trovano un filo conduttore nel fare il punto da un lato sulla temperie culturale teorico-metodologica della neurolinguistica e dall’altro nell’illustrare il potenziale innovativo delle nuove tecniche di immagine. L’ultimo capitolo tenta di tracciare un bilancio inserendo il dibattito sulla facoltà di linguaggio nell’ambito della bio-neuro-linguistica senza peraltro dimenticare la lezione di Vygotsky il quale sosteneva che «il linguaggio esercita una funzione regolatrice sull’attività del pensiero e sul suo sviluppo» (p. 266). In questo volume la linguistica teorica classica è il retroterra culturale di base che sostiene l’impianto metodologico della ricerca con cui l’autrice ha realizzato il suo viaggio nel cervello linguistico. I pochi esempi che abbiamo estratto dalla mole dei dati, di cui l’autrice si avvale, sono sufficienti a mostrare la piena padronanza di cui ella è capace nell’analisi e nella sintesi critiche in campi apparentemente distanti del sapere. Non è frequente che un’umanista, come la Nicolai, sappia muoversi anche in campi di frontiera della ricerca di base e clinica nel campo delle neuroscienze.Il suo acume, sorretto da un metodo scientifico pienamente acquisito, le consente di far tesoro delle esperienze cliniche consegnate alla letteratura e di spingersi autorevolmente nei temi della ricerca psicologica. Lo studio del linguaggio diviene strumento per indagare “come parla il cervello”, e l’interesse si sposta sui meccanismi che presiedono alla formazione del pensiero e alla sua traduzione comunicativa nei sistemi di segni, di cui il linguaggio è solo l’espressione più sofisticata. La lettura di questo volume si rivela così un’esperienza proficua non solo per gli studiosi umanistici della linguistica ma anche per tutti coloro, psicologi, neuropsicologi, psichiatri, operatori della riabilitazione, il cui campo di interesse comprende i meccanismi di base della comunicazione interumana e del suo recupero quando è compromessa dalla malattia. 101-102 INDICE AUTORI.qxp 29-10-2004 9:26 Pagina 101 101 Problemi in psichiatria Il fine è l’uomo, il principio la terra Hanno scritto questo numero E. Badino, Dipartimeno di Neuroscienze, Università di Torino F. Battaglia, Dipartimento di Filosofia e Politica, Università di Napoli “L’Orientale” M. Clement, Cris Ea647 Université C. Bernard, Lyon U. Dinelli, Direttore di “Problemi in psichiatria” M. Guazzelli, Dipartimento di Psichiatria Neurobiologia Farmacologia e Biotecnologia, Università di Pisa R. Massarelli, Cris Ea647 Université C. Bernard, Lyon G. Minichiello, Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università di Salerno F. Nicolai, Dipartimento di Linguistica, Università di Pisa S. Parpajola, Psicologa “Villa Napoleon” ASL 9 Treviso P. Pellegrini, Dipartimento di salute mentale, ASL Parma C. Verdot, Cris Ea647 Université C. Bernard, Lyon C. Viti, Medico “Villa Napoleon” ASL 9 Treviso 3404 101-102 INDICE AUTORI.qxp 29-10-2004 9:26 Pagina 102 102 NOTA PER GLI AUTORI I lavori avviati per la pubblicazione su “Problemi in Psichiatria” devono conformarsi a cura dell’Autore ad alcuni requisiti fondamentali. Il testo proposto dovrà essere inviato sia su supporto magnetico, adeguatamente protetto per evitare danni nel corso della spedizione, che su supporto cartaceo. Per il testo composto a mezzo computer i linguaggi da utilizzare saranno MS-DOS per ambiente WINDOWS (l’estensione del documento dovrà essere .RTF) o Macintosh. Il testo potrà essere trasmesso anche tramite le caselle e-mail: [email protected], [email protected] La prima pagina del manoscritto dovrà contenere le informazioni essenziali quali il titolo del lavoro, il nome degli Autori, l’Istituzione di riferimento.