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Vol. 44 • N. 175
Luglio-Settembre 2014
INDICE numero 175 Luglio-Settembre 2014
Reumatologia PEDIATRICA (a cura di Alberto Martini)
Presentazione
Reumatologia pediatrica: le novità degli ultimi anni
Clara Malattia, Alberto Martini.............................................................................................................................................................. 140
La sclerodermia in età pediatrica: aspetti clinici e novità terapeutiche
Francesco Zulian, Roberta Culpo, Giorgia Martini................................................................................................................................. 145
Osteoporosi in età evolutiva: l’importanza di giocare in anticipo
Rolando Cimaz, Stefano Stagi.............................................................................................................................................................. 153
Cardiologia PEDIATRICA (a cura di Bruno Marino)
Presentazione
News and updates in Cardiologia Pediatrica: revisione della letteratura dal 2008 al 2013
Silvia Chiapedi, Savina Mannarino, Gianfranco Butera......................................................................................................................... 162
Le basi genetiche delle cardiopatie congenite
M. Cristina Digilio, Lucia Martina Silvestri, Bruno Dallapiccola, Bruno Marino..................................................................................... 173
Idoneità fisica-sportiva in adolescenti con cardiopatie congenite
Berardo Sarubbi.................................................................................................................................................................................... 187
Frontiere (a cura di Andrea Biondi, Achille Iolascon, Luigi D. Notarangelo, Massimo Zeviani)
Editoriale. La genetica del gusto: uno scenario straordinario ancora da esplorare nel bambino
Luigi Greco............................................................................................................................................................................................ 195
La genetica del gusto
Antonietta Robino, Nicola Pirastu, Paolo Gasparini............................................................................................................................... 197
FOCUS
La farmacovigilanza in età pediatrica
Carmen D’Amore, Francesca Menniti-Ippolito, Giuseppe Traversa ...................................................................................................... 203
Reumatologia pediatrica
La sezione di Reumatologia pediatrica contiene tre articoli di aggiornamento, uno di carattere più generale sulle recenti novità in questa
specialità e gli altri due focalizzati su entità nosologiche ancora poco conosciute dalla comunità pediatrica.
Il primo articolo riassume i progressi più significativi che si sono avuti negli ultimi anni nella diagnosi e nel trattamento delle malattie
reumatiche infantili. Gli studi clinici controllati con farmaci biologici stanno progressivamente cambiando la prognosi dell’artrite idiopatica
giovanile (AIG) nome sotto il quale viene raggruppato l’eterogeneo gruppo di artriti croniche che si osservano in età pediatrica e che hanno
rappresentato fino a pochi anni fa una delle cause principali di disabilità acquisita in età pediatrica. In particolare due recenti studi controllati
hanno dimostrato l’efficacia spettacolare di due farmaci: il canakinumab (anticorpo monoclonale contro l’interleuchina 1) e il tocilizumab
(anticorpo monoclonale contro il recettore di interleuchina 6) nel trattamento dell’AIG sistemica. Nella maggioranza dei pazienti è stato
possibile controllare i sintomi e sospendere la terapia steroidea. Sono risultati che cambieranno radicalmente l’approccio terapeutico e, si
spera, anche la prognosi a lungo termine di questa malattia.
Un altro settore in cui vi sono molte novità è quello delle malattie auto infiammatorie, malattie monogeniche in cui la mutazione genica
causa una risposta infiammatoria incontrollata. L’individuazione di queste malattie e delle anomalie genetiche che le determinano sta anche
cambiando in maniera radicale la nostra comprensione della patogenesi di molte, assai più comuni, malattie infiammatorie croniche. Un
esempio recente è la dimostrazione che la mutazione del gene della adenosina deaminasi 2 causa un quadro clinico sovrapponibile a quello
della panarterite nodosa.
Il secondo articolo riguarda la sclerodermia, un’entità morbosa potenzialmente grave e probabilmente non sufficientemente conosciuta in
età pediatrica. Ne esistono due forme. La forma localizzata, limitata alla cute, si manifesta come lesioni fibrotiche che coinvolgono la cute
e che possono estendersi ai tessuti sottostanti e causare deformità anche importanti. La forma sistemica è invece una malattia generalizzata, caratterizzata da ispessimento e indurimento simmetrico della cute, associato a fibrosi degli organi interni, come polmoni, esofago e
intestino. La prognosi è spesso severa e non esiste ancora una terapia provatamente efficace.
Il terzo articolo riguarda l’osteoporosi, patologia considerata tipica della popolazione adulto-anziana, ma che spesso trova le sue premesse
in un’insufficiente calcificazione dello scheletro nell’età dello sviluppo. Negli anni recenti si è avuta una maggiore consapevolezza del rischio
d’osteoporosi in quei bambini che presentano mutazioni genetiche capaci di alterare le normali fasi del metabolismo osseo (osteoporosi
primitiva) o che sono affetti da patologie croniche o che utilizzano farmaci capaci di interferire con il normale sviluppo osseo (osteoporosi
secondaria). La cronica e progressiva perdita di massa ossea in questi bambini, se non precocemente trattata, impedisce il raggiungimento
del picco di massa ossea al termine della pubertà, con un alto rischio di osteoporosi in età adulta; inoltre nelle forme più severe, già in età
pediatrica si ha un’elevata incidenza di fratture da fragilità a carico del rachide e in misura minore degli altri segmenti scheletrici.
Alberto Martini
Pediatria 2 Reumatologia, Istituto G. Gaslini, Genova
139
Luglio-Settembre 2014 • Vol. 44 • N. 175 • Pp. 140-144
reumatologia pediatrica
Reumatologia pediatrica:
le novità degli ultimi anni
Clara Malattia, Alberto Martini
Dipartimento di Pediatria, Università di Genova e Istituto G. Gaslini, Genova
Riassunto
I progressi più rilevanti degli ultimi anni in reumatologia pediatrica hanno riguardato la scoperta di nuove indicazioni per il trattamento con farmaci biologici e l’identificazione di nuove malattie autoinfiammatorie. In particolare i farmaci diretti contro interleuchina(IL)-6 e IL-1 si sono rivelati molto efficaci
nel trattamento della artrite idiopatica giovanile (AIG) sistemica, mentre l’inibizione di IL-6 si è rivelata anche efficace nell’AIG poliarticolare. Nell’ambito
delle nuove malattie autoinfiammatorie particolarmente interessante è il deficit di adenosin deaminasi, le cui manifestazioni cliniche simulano un quadro
di panarterite nodosa.
Summary
The most relevant progresses in paediatric rheumatology have concerned new indications for biological therapies and the discovery of new autoinflammatory diseases. Interleukin(IL)-6 and IL-1 blockers in particular have been shown to be very effective in the treatment of systemic juvenile idiopathic arthritis
(JIA) while IL-6 inhibition has also shown to be effective in polyarticular JIA. Among the new discovered autoinflammatory diseases particularly interesting
is the deficit of adenosin deaminase 2 which simulates a clinical picture of panarteritis nodosa.
Metodologia della ricerca bibliografica
La ricerca degli articoli rilevanti per preparare questa review è stata
effettuata mediante ricerca bibliografica su Medline utilizzando come
motore di ricerca PubMed e come parole chiave “Juvenile idiopathic
arthritis”, “Autoinflammatory diseases”, “biological therapies”. Sono
state scelte le citazioni più rilevanti alla presente pubblicazione.
Introduzione
I progressi in reumatologia pediatrica negli ultimi anni hanno riguardato due campi principali: la terapia con farmaci biologici e la scoperta di nuove malattie autoinfiammatorie.
Farmaci biologici
La possibilità di inibire selettivamente singole molecole o popolazioni cellulari ha considerevolmente migliorato l’efficacia della terapia
in particolare nell’artrite idiopatica giovanile (AIG). Ha d’altra parte
anche fornito un utile strumento di ricerca translazionale “inversa”
(dal letto del malato al laboratorio), poiché l’osservazione occasionale dell’efficacia dell’inibizione di una molecola in una determinata
malattia fornisce precise indicazioni sul suo ruolo patogenetico e
rimanda al laboratorio per la comprensione dei meccanismi.
Artrite idiopatica giovanile
L’artrite idiopatica giovanile (AIG) non è una malattia, ma una diagnosi di esclusione che comprende tutte le artriti croniche di causa
sconosciuta ad insorgenza in età pediatrica (Prakken et al., 2011).
Negli ultimi anni importanti progressi sono stati ottenuti nella terapia
dell’AIG sistemica e dell’AIG poliarticolare.
Artrite idiopatica giovanile sistemica
140
L’AIG sistemica è malattia ben distinta dalle altre forme di AIG e
caratterizzata da una importante attivazione dell’immunità innata,
per cui viene considerata una malattia con una forte componente
autoinfiammatoria. La sua terapia è stata rivoluzionata negli ultimi
anni. Fino a pochi anni fa il solo farmaco efficace era il prednisone,
ma la necessità di utilizzare spesso dosi alte e per prolungati periodi
di tempo aggiungeva, ai danni della malattia, gli effetti collaterali degli steroidi. Inoltre il methotrexate ed i farmaci anti-tumor necrosis
factor (TNF), molto efficaci nelle altre forme di AIG, si sono rivelati di
impatto terapeutico assai minore nell’AIG sistemica. Negli anni ’90
studi effettuati nella clinica pediatrica dell’Università di Pavia avevano fatto ipotizzare un ruolo maggiore di interleuchina-6 nella patogenesi della malattia (De Benedetti e Martini, 1998). Questa ipotesi
fu confermata dieci anni dopo da uno studio giapponese (Yokota
et al., 2008) con Tocilizumab, un anticorpo monoclonale chimerico
diretto contro il recettore di IL-6, necessario quest’ultimo perché la
citochina esplichi la sua funzione. Più di recente un secondo studio
controllato con Tocilizumab (De Benedetti et al., 2012) su di una
popolazione di pazienti con malattia particolarmente severa ha confermato la grande efficacia di questo trattamento nella vasta maggioranza dei pazienti.
Gli studi di laboratorio non avevano viceversa evidenziato un ruolo
maggiore per interleuchina-1 (IL-1) che fu invece suggerito, aneddoticamente e con un meccanismo di ricerca translazionale inversa,
dall’efficacia di Anakinra (Pascual et al., 2005), una versione ricombinante dell’antagonista recettoriale di IL-1 e quindi un inibitore naturale di IL-1. Il ruolo patogenetico di IL-1 non è in contrasto con
quello di IL-6 poiché la secrezione delle due citochine presenta importanti reciproche connessioni. Fu in seguito osservato (Gattorno et
al., 2008) come il trattamento con inibitori di IL-1 distingua, nell’ambito della AIG sistemica, due differenti gruppi di pazienti: 1) uno che
risponde in maniera spettacolare con normalizzazione completa dei
sintomi e degli indici di flogosi nello spazio di pochi giorni; 2) un
Reumatologia pediatrica: le novità degli ultimi anni
secondo gruppo che non risponde o risponde in maniera parziale.
Il fattore che meglio discrimina queste due popolazioni è il numero
delle articolazioni interessate. Minore è il numero delle articolazioni
affette, maggiore è la probabilità di avere una risposta completa ad
anakinra. In altri termini, minore è la componente autoimmunitaria,
maggiore è la probabilità che l’inibizione di IL-1 sia in grado di indurre una rapida remissione. È verosimile che la forma con totale
risposta ad Anakinra sia una entità distinta ed abbia una patogenesi
puramente auto infiammatoria.
È stato in seguito sviluppato un anticorpo monoclonale interamente
umano diretto contro IL-1 (Canakinumab). Una volta identificata la
dose ottimale (Ruperto et al., 2012), Canakinumab è stato studiato in uno trial controllato in pazienti con AIG sistemica (Ruperto et
al., 2012) confermando gli ottimi risultati ottenuti con Anakinra. Si
è in particolare confermato anche con l’impiego di Canakinumab
l’esistenza di una consistente popolazione di pazienti squisitamente
sensibile all’inibizione di IL-1 e che raggiunge molto rapidamente
una remissione completa dopo una singola iniezione di anticorpo.
L’introduzione in terapia di Tocilizumab e di Canakinumab ha radicalmente cambiato l’approccio terapeutico all’AIG sistemica, malattia per il trattamento della quale entrambi i farmaci sono stati
registrati. Nelle forme di AIG sistemica che appaiono fin dall’inizio
corticodipendenti, in quelle cioè in cui i sintomi ricompaiono quando
si scala o si interrompe il deltacortene, si fa oggi un primo tentativo
con Anakinra, farmaco che non è ancora registrato per l’uso nell’AIG
sistemica ma che, grazie alla sua breve emivita (è necessario somministrarlo giornalmente) è molto maneggevole. Se i pazienti hanno
una risposta spettacolare si prosegue allora con Anakinra o si introduce Canakinumab. Se la malattia si rivela resistente all’inibizione di
IL-1, si passa allora a Tocilizumab. Con questo approccio si riescono
oggi a controllare i sintomi nella maggior parte dei malati e a ridurre
o sospendere gli steroidi, limitandone così grandemente gli effetti
collaterali. La tollerabilità di Tocilizumab e Canakinumab si è rivelata
buona negli studi controllati, ma occorrerà attendere il loro impiego
in una larga popolazione di pazienti prima di potere trarre conclusioni definitive circa la loro sicurezza.
Alcuni autori hanno suggerito che un trattamento iniziale con inibitori di IL-1 possa prevenire il manifestarsi di una artrite resistente
alla terapia nelle fasi successive (Vastert et al., 2014). L’evidenza in
questo senso è tuttavia debole e sarebbe necessario avviare uno
studio controllato per verificare questa ipotesi.
Artrite idiopatica giovanile poliarticolare
Di recente è stato pubblicato uno studio controllato con Tocilizumab
in pazienti con AIG poliarticolare che non avevano risposto in maniera soddisfacente al MTX (Brunner, 2014). I risultati sono stati molto
soddisfacenti ed il farmaco è stato registrato con questa indicazione.
Analogamente a quanto avviene per l’artrite reumatoide dell’adulto,
le opzioni terapeutiche delle forme di AIG poliarticolari con inadeguata risposta al MTX comprendono quindi oggi, oltre ai farmaci
anti-TNF (Etanercept e Adalimumab) e all’Abatacept (un inibitore
dell’attivazione linfocitaria), anche il Tocilizumab
Altre malattie
Negli ultimi anni risultati positivi con l’impiego di farmaci biologici
sono stati ottenuti anche in alcune altre malattie reumatiche.
Lupus eritematoso sistemico
Nella patogenesi del lupus eritematoso sistemico (LES), prototipo delle
malattie autoimmuni sistemiche, si ritiene che i linfociti B giochino un
ruolo centrale. Belimumab è stato il primo biologico sviluppato per il
trattamento del LES ad essere stato approvato dalle autorità regolatorie. È un anticorpo monoclonale interamente umano diretto contro
BLyS (B-lymphocyte simulator), una citochina capace di promuovere
la proliferazione delle cellule B e la produzione di immunoglobuline.
La sua efficacia è stata dimostrata in uno studio su 867 pazienti adulti
con un LES di moderata gravità (Navarra et al., 2011). Resta ancora da
stabilire quanto sia efficace nel trattamento delle forme più severe di
LES (nefrite, interessamento del sistema nervoso centrale). Uno studio
controllato in pazienti pediatrici è in fase iniziale.
Vasculiti necrotizzanti
Alcune severe vasculiti necrotizzanti, di rara osservazione in età pediatrica, sono associate alla presenza di anticorpi diretti contro il
citoplasma dei neutrofili (ANCA). Comprendono la granulomatosi con
poliangite (granulomatosi di Wegener), la poliangite microscopica e
la malattia di Churg-Strauss. La loro terapia si basa sull’associazione di steroidi e ciclofosfamide.
Il Rituximab è un anticorpo monoclonale chimerico diretto contro la
molecola CD20, espressa sulla superficie dei linfociti B. Nel 2010
due studi randomizzati (Jones et al., 2010, Stone et al., 2010) in
pazienti con vasculiti associate alla presenza di ANCA dimostrarono
come a 6 e a 12 mesi il Rituximab fosse equivalente, in termini di
efficacia e di sicurezza, alla ciclofosfamide. Non esistono studi in
età pediatrica. Il trattamento con Rituximab deve comunque essere
seriamente considerato nei pazienti in ricaduta che abbiano già effettuato un trattamento con ciclofosfamide.
Pericarditi ricorrenti
Pericarditi ricorrenti si possono osservare in varie malattie reumatiche, nella febbre familiare mediterranea, in corso di infezioni. Tuttavia
più spesso l’eziologia sia del primo attacco che di quelli successivi
rimane sconosciuta. In uno studio non controllato (Picco et al., 2009)
la somministrazione diAnakinra ha indotto una risposta terapeutica
prontissima e persistente (in presenza di una continua somministrazione del farmaco). La spettacolarità della risposta terapeutica all’inibizione di IL-1 suggerisce che le pericarditi ricorrenti rappresentino
delle malattie autoinfiammatorie. Il farmaco è indicato nelle forme
corticodipendenti e resistenti alla colchicina (Finetti et al., 2014).
Malattie autoinfiammatorie
Le malattie autoinfiammatorie costituiscono un nuovo, affascinante
capitolo della medicina. Si tratta di malattie monogeniche in cui il
difetto genetico altera i meccanismi di controllo della risposta infiammatoria, interferendo con la normale regolazione dell’immunità
innata. Un numero crescente di malattie auto infiammatorie è stato
identificato negli ultimi venti anni (Tab. I) e la scoperta del difetto
genetico sottostante ha permesso di identificare nuovi meccanismi
del controllo della risposta della immunità innata (Gattorno e Martini
2013). Alcune malattie di recente identificazione e di particolare rilievo sono discusse qui di seguito.
Deficit dell’antagonista recettoriale di IL-1 (DIRA)
La produzione dell’antagonista recettoriale di IL-1 (IL-1Ra) è uno
dei normali meccanismi di controllo dell’attività di IL-1. Agisce
occupando il recettore cellulare di IL-1 (senza però trasmettere
il segnale) rendendolo così indisponibile per l’interazione sia con
IL-1_ e il 1_. La sua versione ricombinante (Anakinra) è un farmaco biologico usato per l’appunto per inibire IL-1. L’importanza
di IL-1Ra nel controllo dell’attività di IL-1 è assai ben dimostrata
141
C. Malattia, A. Martini
Tabella I.
Principali malattie auto infiammatorie
Malattia
Trasmissione
Gene
Proteina
Principali manifestazioni cliniche
Febbre Familiare Mediterranea
AR
MEFV
Pirina
Breve durata degli episodi febbrili: 24-48 ore.
Dolore addominale e toracico. Rash similerisipela. Alta incidenza di amiloidosi renale.
Buona risposta alla Colchicina.
Deficit di Mevalonato Chinasi
AR
MVK
MVK
Durata degli episodi febbrili: 4-5 giorni.
Esordio nei primi anni di vita. Rash cutaneo,
dolore addominale, vomito, diarrea e
splenomegalia. Bassa incidenza di amiloidosi.
Buona risposta agli steroidi.
Sindrome associata al recettore
del TNF
AD
TNFRSF1A
TNFR1
Lunga durata degli episodi febbrili: 1-3
settimane. Edema periorbitale, mialgie, dolore
scrotale, fascite monocitaria. Incidenza di
amiloidosi renale 15-25%. Buona risposta
all’inibizione di IL-1.
FCAS (Familiar Cold
Autoinflammatory Syndrome)
AD
NLRP3
Criopirina
FCAS: Orticaria e febbre scatenate
dall’esposizione al freddo, artrite,
congiuntivite.
MWS: Orticaria cronica, sordità
neurosensoriale, amiloidosi.
CINCA: Orticaria cronica, displasie ossee,
ritardo intellettivo, meningite cronica, sordità
neurosensoriale
Tutte ottima risposta al blocco di IL-1.
FCAS2 (Familiar Cold
Autoinflammatory Syndrome
type 2)
AD
NLRP12
NLPR12
Lesioni orticarioidi, artro-mialgie e febbre
scatenati dal freddo. Possibile sordità
neurosensoriale.
Malattie
Granulomatose
Sindrome di Blau
AD
CARD15/
NOD2
CARD15
Esordio precoce (<5 anni).
Poliartrite granulomatosa, uveite, rash
cutaneo. Buona risposta al blocco di TNF.
Deficit del
proteasoma
Sindrome autoinfiammazione,
lipodistrofia e dermatosi
AD
PSMB8
PSMB8
Esordio nella prima decade. Episodi febbrili,
panniculite, artralgia/artriti. Nella seconda
decade: atrofia lipomuscolare e contratture
articolari.
Disordini
piogenici
PAPA (Pyogenic sterile Arthritis,
Pyoderma gangrenosum and
Acne)
AD
PSTPIP1
PSTPIP1
Artrite asettica piogenica, pioderma
gangrenoso ed acne cistica. Aneddotica
risposta al blocco del IL-1 e TNF.
Sindrome di Majeed
AR
LPIN2
LPIN2
Osteomielite multifocale, anemia congenita
diseritropoietica e dermatosi neutrofilica.
DIRA (Deficiency of IL-1 Receptor
Antagonist)
AR
IL1RN
IL1Ra
Osteomielite multifocale a esordio neonatale,
periostite e pustolosi asettica. Incremento
degli indici di flogosi. Risposta ottima
all’Anakinra.
DITRA (Deficiency of IL-36
Receptor Antagonist)
AD
IL36RN
IL36Ra
Ripetuti episodi di febbre, rash generalizzato
eritematoso e pustolare e malessere
generale.
Deficit di adenosin deaminasi 2
(DADA2)
AR
CECR1
ADA2
Esordio precoce, febbre ricorrente con livedo
reticularis, strokes cerebrali, Quadro clinico e
istologico compatibile con poliarterite nodosa.
Febbri
periodiche
Sindromi
associate a
NLRP
Sindrome di Muckle-Wells
CINCA (Chronic Infantile
Neurological Cutaneous and
Articular syndrome)
Deficit di
adenosina
deaminasi2
dal fatto che la mancanza di IL-1Ra, secondaria a mutazioni del
gene, causa una malattia molto grave e potenzialmente mortale
(Aksentijevich et al., 2009, Reddy et al., 2009). L’esordio è neonatale e caratterizzato principalmente, oltre che da una marcata
elevazione degli indici di flogosi, da pustolosi asettica, periostite e
osteomielite asettica multifocale. La malattia risponde in maniera
spettacolare alla somministrazione di Anakinra che rappresenta in
questo caso un vero farmaco salvavita.
142
Deficit dell’antagonista recettoriale di IL-36 (DITRA)
Si tratta di una malattia a patogenesi simile alla precedente e che
sottolinea anch’essa l’importanza dell’integrità dei meccanismi di
controllo dell’immunità innata. Tre citochine pro infiammatorie (IL36α, IL-36β and IL-36γ), appartenenti alla famiglia di IL-1 ed espresse con maggiore abbondanza a livello cutaneo, esercitano la loro
azione attraverso un comune recettore. Anche per questo recettore,
come per quello di IL-1, esiste un antagonista recettoriale (IL-36Ra)
Reumatologia pediatrica: le novità degli ultimi anni
naturale. Mutazioni che causano una carenza di IL-36Ra causano
una grave malattia ad espressione prevalentemente cutanea e conosciuta come psoriasi pustolosa generalizzata (Marrakchi et al., 2011).
In fase di acuzie la malattia si caratterizza per una eruzione cutanea
eritematosa e pustolosa associate a febbre elevata e importante aumento degli indici di flogosi. Nella maggioranza dei pazienti la malattia esordisce in età pediatrica anche se ampie variazioni nell’età
d’esordio sono state osservate. Non esiste al momento una terapia
efficace.
Sindrome autoinfiammazione, lipodistrofia
e dermatosi (ALDD)
Questa malattia è stata descritta con vari eponimi “joint contractures, muscle atrophy, microcytic anaemia and panniculitis-induced
childhood-onset lipodystrophy (JMP), Nakajo-Nishimura syndrome,
chronic atypical neutrophilic dermatosis with lipodystrophy and elevated temperature (CANDLE disease)”. Esordisce in genere nella prima
decade di vita ed è caratterizzata da febbre elevata, artrite, dattilite,
panniculite, progressivo sviluppo di lipoatrofia e contratture articolari,
ritardato sviluppo somatico e mentale. L’aspettativa di vita è considerevolmente ridotta. La mutazione responsabile della malattia riguarda
una componente dell’immunoproteasoma, una proteina denominata
PSMB8 (proteasome subunit beta type 8) (Agarwal et al., 2010). L’immunoproteasoma è una proteasi composta di varie subunità che collabora con il sistema dell’ubiquitina nella degradazione delle proteine
non-lisosomiali dopo attivazione con stimoli pro-infiammatori come
l’interferone. La mutazione causa un difetto di attività che porta ad un
accumulo di proteine ubiquitinate che a loro volta stimolano vari meccanismi pro-infiammatori. Non esiste a tutt’oggi una terapia efficace.
Questa malattia è un esempio di come l’identificazione dei geni
responsabili delle malattie autoinfiammatorie possa portare alla
scoperta di nuovi, importanti meccanismi del controllo del processo
infiammatorio.
Deficit di adenosin deaminasi 2 (DADA2)
La poliarterite nodosa (PAN), malattia severa caratterizzata da infiammazione dei vasi di medio calibro con necrosi fibrinoide, è una
grave vasculite per cui è stata ipotizzata una patogenesi immunomediata. Di grande rilievo è stata perciò l’osservazione (Zhou et al.,
2014, Navon Elkan et al., 2014) che un quadro del tutto simile alla
PAN è indotto da mutazioni del gene dell’adenosin deaminasi 2. Il
quadro clinico più comune è quello di una febbre ricorrente con
livedo reticularis e ricorrenti emorragie cerebrali (strokes lacunari).
I reperti bioptici mostrano spesso un quadro classico di PAN. La
mutazione è particolarmente frequente negli ebrei di origine georgiana dove è stata osservata un’ampia variazione nell’età di esordio
e nella severità della sintomatologia che varia da casi rapidamente
fatali con stroke multipli ad insorgenza nel primo anno di vita a
manifestazioni cutanee limitate in età adulta matura. È quindi possibile che la cosiddetta sindrome di Sneddon, descritta soprattutto
negli adulti e caratterizzata da livedo reticularis, stroke e, in alcuni
pazienti, anticorpi anti-fosfolipidi, possa essere anch’essa dovuta a
mutazioni di ADA2. è noto come il deficit di ADA1 sia responsabile
di una severa immunodeficienza dovuta all’accumulo intracellulare
di nucleotidi. ADA2 ha somiglianze strutturali con ADA1 ma un’affinità per l’adenosina cento volte inferiore e non causa accumulo
di adenosina o desossiadenosina. In alcuni pazienti con DADA2 è
stata descritta una modesta immunodeficienza a carico principalmente dei linfociti B. La mutazione si accompagna a livelli bassi di
ADA2 o alla perdita dell’attività enzimatica. ADA2 è responsabile
della degradazione extracellulare di adenosina e sembra rappresentare un fattore di crescita per lo sviluppo e la differenziazione di
leucociti ed endotelio e svolgere un ruolo nel mantenere l’integrità
delle cellule endoteliali (anche se non è espressa a livello endoteliale). Un aspetto molto rilevante, vista la gravità della malattia, che
viene riferito in un lavoro (Navon Elkan et al., 2014) ed è corroborato dalla nostra personale esperienza su 4 pazienti, è la spettacolare
efficacia del trattamento con farmaci anti-TNF, che induce non solo
una rapida remissione della febbre e della livedo con normalizzazione dei parametri di flogosi ma anche previene l’insorgenza di
stroke cerebrali.
Conclusioni
L’impiego dei farmaci biologici e la scoperta di nuove malattie auto-infiammatorie hanno continuato a costituire anche negli ultimi
anni le novità più rilevanti in ambito reumatologico. Ormai anche
nell’AIG, compresa più di recente l’AIG sistemica, si dispone di una
vasta gamma di biologici molto efficaci e che verosimilmente cambieranno in maniera radicale la prognosi a lungo termine di questa
condizione. D’altra parte l’identificazione di nuove malattie autoinfiammatorie ha permesso anche di scoprire nuovi meccanismi
importanti di controllo della risposta infiammatoria. È verosimile, e il
deficit di ADA2 ne è esempio tangibile, che queste scoperte cambieranno nei prossimi anni in maniera radicale la nostra interpretazione
della patogenesi di molte malattie infiammatorie croniche.
Box di orientamento
Cosa sapevamo prima
Sapevamo che i farmaci biologici possono avere un ruolo maggiore nel trattamento dell’artrite idiopatica giovanile e che la scoperta dei geni responsabili di malattie auto infiammatorie può aprire nuove prospettive nell’interpretazione dei processi infiammatori.
Cosa sappiamo adesso
Oggi sappiamo che l’inibizione di IL-1 e IL-6 è molto efficace nel trattamento dell’artrite idiopatica giovanile sistemica e che malattie autoinfiammatorie
possono simulare quadri di vasculite, come quello di una panarterite nodosa.
Quali ricadute sulla pratica clinica
Il trattamento dell’artrite idiopatica giovanile sistemica è stato rivoluzionato dalle nuove terapie, mentre la scoperta di nuove malattie autoinfiammatorie, al
di là della definizione di nuove entità, ha anche aperto nuove prospettive nell’interpretazione della patogenesi di malattie infiammatorie croniche più comuni.
143
C. Malattia, A. Martini
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Corrispondenza
Alberto Martini, Pediatria 2 Reumatologia, Istituto G. Gaslini 16147 Genova. E-mail: [email protected]
144
Luglio-Settembre 2014 • Vol. 44 • N. 175 • Pp. 145-152
reumatologia pediatrica
La sclerodermia in età pediatrica: aspetti clinici
e novità terapeutiche
Francesco Zulian, Roberta Culpo, Giorgia Martini
Dipartimento di Pediatria, Università di Padova
Riassunto
La Sclerodermia Giovanile comprende un gruppo di condizioni che determinano abnorme fibrosi, sono per lo più croniche e su base autoimmune e colpiscono principalmente la cute, ma anche articolazioni, vasi sanguigni e organi interni.
Ne esistono due forme: la Sclerosi Sistemica (SS), che colpisce cute e organi interni, e la Sclerodermia Localizzata (SL), conosciuta anche con il termine
“morfea”, che è limitata alla cute.
In età pediatrica la Sclerodermia Localizzata è più frequente rispetto alla forma sistemica e si manifesta come lesioni costituite da tessuto fibrotico che
coinvolgono la cute e, estendendosi al tessuto sottocutaneo, arrivano a quadri più gravi che possono causare deformità con conseguenze funzionali ed
estetiche. La classificazione attualmente più accreditata suddivide la SL in cinque sottotipi: morfea circoscritta o a placche, nelle sue varianti superficiale e
profonda, sclerodermia lineare, morfea generalizzata, morfea pansclerotica e forme miste. Il trattamento con metotrexate a basse dosi rappresenta la scelta
terapeutica più efficace per la maggior parte di queste forme.
La Sclerosi Sistemica è una malattia sistemica cronica del tessuto connettivo. È caratterizzata da ispessimento e indurimento della cute, associato a fibrosi
di organi interni come esofago, intestino, cuore, polmoni e reni, e ad artrite e miosite. L’esordio in età pediatrica è molto raro e consiste nel fenomeno di
Raynaud e nell’indurimento cutaneo. Non esiste al momento attuale una terapia sicuramente efficace per questa forma che tuttavia, rispetto alle forme
dell’età adulta, presenta una prognosi più favorevole.
Summary
Juvenile Scleroderma includes a group of chronic conditions that cause abnormal fibrosis and involve not only the skin but also the joints and internal organs.
They essentially include two varieties, Juvenile Localized Scleroderma (JLS) and Juvenile Systemic Sclerosis (JSS).
Juvenile localized scleroderma, also known as morphea, is the more frequent subtype of scleroderma in childhood. It comprises a group of distinct conditions which involve the skin and subcutaneous tissues. They range from very small plaques of fibrosis involving only the skin, to diseases which may cause
significant functional and cosmetic deformity. According to the more recent classification we recognize five main subtypes: circumscrobed morphea, linear
scleroderma, generalized morphea, pansclerotic morphea and the mixed variety. Methotrexate represents the treatment of choice for the more aggressive
subtypes.
Juvenile systemic sclerosis is quite rare and involves both skin and internal organs. Up to now, no treatment showed a proven efficacy. Unlike adults, children with JSS show a significantly less frequent involvement of the internal organs and a slightly better outcome as far as mortality and morbidity.
Metodologia della ricerca bibliografica
La ricerca degli articoli rilevanti degli ultimi 5 anni è stata effettuata
sul motore di ricerca PubMed, utilizzando le parole chiave: “neonate OR children OR adolescent AND scleroderma, scleroderma AND
morphea AND therapy, scleroderma AND morphea AND outcome”.
Sono stati inclusi solo gli articoli in lingua inglese.
molteplici condizioni che coinvolgono variamente la pelle e il tessuto
sottocutaneo. Sebbene i processi patogenetici conducano allo stesso tipo di danno tessutale e vi siano similitudini o sovrapposizioni in
alcune caratteristiche cliniche, è molto probabile che all’interno di
questo sottogruppo l’eziologia di alcune forme sia differente. Infatti,
alcuni tipi di SL sono relativamente miti e autolimitanti, altri sono
estesi, severi e difficili da controllare.
Introduzione
Epidemiologia
Con il termine Sclerodermia Giovanile si comprendono condizioni
cliniche diverse, il cui elemento comune è la presenza di un indurimento cutaneo. La Sclerodermia, sia in età pediatrica che in
età adulta, si suddivide in due forme: la Sclerodermia Localizzata (SL) e la Sclerosi Sistemica (SS). La forma localizzata, in cui
il processo patologico è prevalentemente limitato alla cute e ai
tessuti sottostanti, è la più frequente in età pediatrica, mentre
la forma sistemica, caratterizzata da interessamento di organi
interni, è più rara.
Sebbene la SL sia una malattia rara, in età pediatrica è molto più
comune della SS, con un rapporto di almeno 10:1. È stata riportata
un’incidenza di 1 caso su 100.000 soggetti di età <18 anni ed una
prevalenza di circa 50 casi/100.000 soggetti < 18 anni (Peterson LS,
et al. 1997) Un pediatra ha quindi la possibilità di vedere, nel corso
della sua carriera, almeno 1-2 casi di SL.
Come in molte altre malattie del tessuto connettivo, la SL è nettamente prevalente nel sesso femminile con un rapporto F:M pari a
2-3:1. Per quanto riguarda la frequenza dei singoli sottotipi, la forma lineare risulta di gran lunga la più frequente, interessando circa
il 65% dei pazienti, seguita dalla morfea circoscritta (o a placche)
(26%), dalla morfea generalizzata (7%) e dalla morfea profonda (2%)
(Zulian F, et al. 2006).
Sclerodermia localizzata
La SL, è la forma più frequente in età pediatrica. Essa comprende
145
F. Zulian, R. Culpo, G. Martini
Tabella I.
Classificazione della sclerodermia localizzata giovanile (International Consensus Conference, Padova 2004) (da Laxer et al., 2006).
TIPO PRINCIPALE
Morfea circoscritta
SOTTOTIPO
DESCRIZIONE
a. superficiale
Aree circoscritte ovali o rotondeggianti di indurimento limitate all’epidermide e al derma, spesso con alterata
pigmentazione ed alone eritematoso violaceo (lilac ring). Possono essere singole o multiple.
b. profonda
Aree circoscritte ovali o rotondeggianti di indurimento cutaneo profondo che interessa il tessuto sottocutaneo fino alla fascia e può coinvolgere il muscolo sottostante. Possono essere singole o multiple.
a. tronco/arti
Indurimento lineare che interessa il derma, il tessuto sottocutaneo e, a volte, il tessuto muscolare e l’osso
sottostante a livello del tronco e/o degli arti.
b. capo
Variante En coup de sabre (ECDS). Indurimento lineare che coinvolge la parte superiore del volto e/o il
cuoio capelluto e a volte anche il tessuto muscolare e l’osso sottostante.
Variante Parry Romberg o Atrofia Emifacciale Progressiva. Perdita di tessuto che interessa un emivolto, può
coinvolgere il derma, il tessuto sottocutaneo, il tessuto muscolare e l’osso. La cute sovrastante è mobile.
Morfea generalizzata
Indurimento cutaneo che inizia in placche singole (4 o più e di diametro maggiore di 3 cm) che diventano
confluenti e interessano almeno 2 di sette siti anatomici (testa-collo, estremità superiore destra, estremità
superiore sinistra, estremità inferiore destra, estremità inferiore sinistra, tronco anteriore, tronco posteriore).
Morfea pansclerotica
Interessamento circonferenziale di uno a più arti che coinvolge la cute, il tessuto sottocutaneo, il tessuto
muscolare e l’osso. Le lesioni possono interessare altre aree, senza coinvolgimento degli organi interni.
Morfea mista
Combinazione di due o più dei precedenti sottotipi. L’ordine dei sottotipi concomitanti, specificato tra
parentesi, segue la predominanza di rappresentazione nel singolo paziente [es. Mista (lineare-circoscritta)]
Sclerodermia lineare
Patogenesi
L’eziologia e la patogenesi della SL non sono ben note. Studi anatomo-patologici, condotti su cute e sottocute di pazienti con SL, hanno
dimostrato che nelle fasi iniziali sono presenti edema e ipervascolarizzazione, successivamente compaiono un abnorme deposito di
collagene, perdita degli annessi cutanei e atrofia cutanea. Alcune
evidenze clinico-laboratoristiche, quali l’alta prevalenza di anticorpi
antinucleo e la presenza di infiltrato linfocitario alla biopsia, suggeriscono una genesi autoimmune.
Tra le varie ipotesi trovano spazio inoltre alcuni agenti infettivi, quali
il virus di Epstein-Barr o la Borrelia Burgdorferi, spirocheta responsabile della malattia di Lyme, o traumi accidentali. Una storia positiva per traumi recenti è stata infatti riportata in circa il 13% dei
pazienti con SL (Zulian et al. 2006) ma il meccanismo con cui il trauma contribuisca a sviluppare la Sclerodermia non è ancora chiaro.
Classificazione e manifestazioni cliniche
Figura 1.
Morfea circoscritta superficiale periombelicale.
Nel tempo, varie classificazioni della SL sono state proposte. La
più recente e probabilmente più utilizzata, introdotta da un gruppo
internazionale di lavoro comprendente pediatri, dermatologi e reumatologi ed in fase di validazione, suddivide la SL in cinque sottotipi: morfea circoscritta, nelle sue varianti superficiale e profonda,
sclerodermia lineare, morfea generalizzata, morfea pansclerotica e
forme miste (Tab. I) (Laxer e Zulian, 2006).
La morfea circoscritta superficiale (Fig. 1) si manifesta come chiazze
di ispessimento ovali o tonde di diametro di almeno 1 centimetro
che coinvolgono la cute e il tessuto sottocutaneo e sono più comunemente localizzate sul tronco. Generalmente le lesioni appaiono
inizialmente come aree di indurimento della cute e del sottostante
tessuto sottocutaneo con bordi eritematosi (lilac ring). Segue un progressivo processo di ipo- iperpigmentazione secondaria. In alcuni
casi, con il passare del tempo, si osserva una spontanea riduzione
dell’ispessimento cutaneo a livello delle lesioni.
Nella morfea circoscritta profonda sono coinvolti in maniera predominante gli strati più profondi del derma; a volte la lesione interessa
primariamente il tessuto sottocutaneo, risparmiando invece la cute.
La sclerodermia lineare (Fig. 2) si manifesta come strie di ispessi-
mento cutaneo che generalmente interessano in parte o tutto un
arto, ma che possono manifestarsi anche sul tronco o sul volto.
Queste lesioni solitamente iniziano con un aspetto infiammatorio di
iperemia localizzata: la cute diventa in seguito sclerotica e si manifestano cambiamenti del suo aspetto superficiale con retrazioni o
ipotrofia. Con il tempo la sclerosi interessa anche il derma sottostante e la lesione può assumere un aspetto perlaceo, a cui si associano
perdita di annessi piliferi e ipoidrosi. Alterazioni della pigmentazione
possono variare ampiamente con ipo e/o iperpigmentazione. Le lesioni lineari possono estendersi in modo variabile e, quando interessano strutture articolari, comportano un grave impatto funzionale.
Il coinvolgimento del muscolo e delle ossa sottostanti nel processo
sclerotico può condurre a un rallentamento o addirittura al blocco di
crescita dell’arto colpito.
La lesione lineare al volto è comunemente definita “en coup de sabre” (ECDS) (Fig. 3), per la sua somiglianza alla cicatrice che rimane
dopo una ferita da colpo di sciabola sulla fronte e sul cuoio capelluto. Tale coinvolgimento che interessa la parte superiore del volto
146
Sclerodermia in età pediatrica
Figura 2.
Sclerodermia lineare dell’arto inferiore.
Figura 3.
Sclerodermia lineare del volto.
può variare in modo considerevole da un lieve rientramento a una
severa atrofia con avvallamento della teca cranica. Spesso si associano alopecia e perdita degli annessi oculari (ciglia, sopracciglia),
o alterazioni dell’apparato stomatognatico. Nel 5-8% di questi casi
si ha il coinvolgimento del sistema nervoso centrale con epilessia
o calcificazioni intracraniche (Zulian et al., 2005). Sono stati inoltre
documentati casi di uveite sia isolata che associata al coinvolgimento del SNC, con importanti sequele sulla funzione visiva (Zannin et
al., 2007, Blaszczyk e Jablonska, 1999).
In alcuni casi, la diffusa disseminazione delle lesioni sclerodermiche
inizialmente circoscritte può essere così estesa da portare al quadro descritto come morfea generalizzata, definita dalla presenza di
quattro o più lesioni > di 3 cm di diametro in più parti del corpo, che
diventano confluenti e coinvolgono almeno due diverse aree corporee (Laxer et al., 2006) (Fig. 4).
La morfea pansclerotica si presenta come un indurimento cutaneo
diffuso non delimitato da contorno iperemico con coinvolgimento di
ampie aree del corpo ed estensione in profondità di fasce e muscoli.
Si tratta di una forma rara ma grave in quanto è rapidamente progressiva e invalidante con gravi contratture articolari, ulcere cutanee
e occasionalmente fenomeni di autoamputazione (Diaz-Perez JL et
al., 1980).
Infine, nelle forme miste di SL due o più dei sottotipi precedenti coesistono nello stesso individuo; queste forme sono probabilmente più
comuni di quanto si pensi.
La SL e la SS sono da molti considerate due espressioni diverse di
una stessa malattia. A favore di questa teoria è il fatto che circa un
quarto di pazienti con SL può presentare, durante il decorso della
malattia, uno o più manifestazioni extracutanee.
In uno studio multicentrico internazionale, che ha interessato 750
bambini con SL, sono state riportate manifestazioni extra-cutanee
nel 22% dei bambini e il 4% ne presentava più di una (Zulian et al.,
2005). Il coinvolgimento articolare è la più frequente complicanza
descritta, soprattutto in pazienti con lesione lineare. L’artrite rappresenta la complicanza più frequente (19%), seguita da manifestazioni
neurologiche (4%), malattie autoimmuni e fenomeno di Raynaud
(3%), malattie vascolari, interessamento oculare, gastrointestinale
(2%) e respiratorio (1%). L’artrite può localizzarsi sia a livello di articolazioni coinvolte dalla lesione cutanea sia, occasionalmente, in
articolazioni distanti dalla sede della lesione cutanea. Nel 19% dei
casi con ECDS è stata documentata la presenza di un significativo
coinvolgimento neurologico: episodi di epilessia, cefalea, cambiamenti di comportamento e difficoltà di apprendimento. Sono state
anche riportate alterazioni del parenchima cerebrale come calcificazioni, alterazioni della sostanza bianca, malformazioni vascolari
o vasculiti.
Diagnosi e monitoraggio clinico
La diagnosi di SL è essenzialmente clinica, tuttavia possono essere
utili alcune indagini di supporto. Gli indici di flogosi possono a volte
essere modicamente elevati; in particolare, la VES è elevata all’esordio della malattia in circa il 20% dei pazienti, mentre la proteina C
reattiva può essere lievemente elevata solo in alcuni casi, soprattutto
nei pazienti con morfea profonda (Zulian F, et al. 2006). La presenza
di eosinofilia è stata riscontrata in circa il 15% dei casi in generale.
Per quanto riguarda il profilo autoanticorpale, gli anticorpi antinucleo
(ANA) sono presenti in circa il 40% dei pazienti e sono più frequenti
nelle forme lineari di SL; la positività del fattore reumatoide, a basso
titolo, si riscontra nel 20% dei pazienti (Zulian et al., 2006).
La biopsia cutanea non è mandatoria per la diagnosi di tutte le forme,
tuttavia può risultare utile per una conferma diagnostica nei casi dubbi.
Recentemente, nel monitoraggio dei pazienti con SL, è stato introdotto l’uso della termografia a raggi infrarossi (Li et al., 2007), una
tecnica non invasiva che rileva le alterazioni della temperatura cu-
147
F. Zulian, R. Culpo, G. Martini
Terapia
Negli anni sono stati utilizzati molti trattamenti per la SL, sia topici
che per via sistemica. Le terapie topiche sono utilizzate nelle forme
isolate di morfea circoscritta. Ad oggi i preparati più utilizzati sono
quelli a base di corticosteroidi, tacrolimus e derivati della vitamina D
(Laxer e Zulian, 2006).
Nelle forme di SL in cui esiste un rischio significativo di estensione
della malattia e di conseguenti deformità, è necessario intraprendere un trattamento sistemico. Le terapie finora utilizzate includono
cortisonici, D-penicillamina, ciclosporina, fototerapia con UVA, analoghi della vitamina D e metotrexate (MTX) (Zulian F, et al. 2006,
Laxer e Zulian, 2006).
Recentemente, un trial randomizzato controllato in doppio cieco ha
testato l’efficacia dell’associazione prednisone-metotrexate a basse
dosi, rispetto al solo prednisone (Zulian et al., 2011). I risultati hanno
dimostrato che il metotrexate è efficace in oltre due terzi dei pazienti
trattati. Lo schema più diffuso di trattamento prevede l’utilizzo di
MTX alla dose di 10-15 mg/m2/settimana, associato a prednisone
per os (1 mg/kg/die per 3 mesi poi scalato fino alla sospensione)
o a metilprednisolone endovena in boli (IVMP 20-30 mg/Kg/die per
3 giorni al mese per 3 mesi). Molti pazienti mostrano una risposta
entro 2-4 mesi dall’inizio della terapia e gli effetti collaterali (nausea,
irritabilità, dispepsia) sono di solito di modesta entità e presenti solo
nelle fasi iniziali del trattamento. Nei pazienti che non rispondono a
tale trattamento, un’alternativa promettente sembra essere costituita dal micofenolato mofetil (Martini et al., 2009).
Figura 4.
Morfea generalizzata.
tanea correlate all’attività di malattia e al rischio di ulteriore danno
tessutale. Questa tecnica ha mostrato un’alta sensibilità per lesioni clinicamente attive e un’alta riproducibilità tra diversi operatori
(Martini, et al., 2002, Howell et al., 2000).
Lo Skin Score Computerizzato (CSS) è un altro utile strumento di monitoraggio clinico della malattia (Zulian et al., 2007). Consiste nell’ottenere un’immagine della lesione, attraverso l’applicazione di un film
adesivo trasparente sulla cute del paziente e il successivo rilievo dei
bordi con un pennarello indelebile. Di tale immagine, successivamente digitalizzata, è possibile calcolare con esattezza l’area della lesione, che può essere rapportata all’area di superficie corporea (BSA)
del paziente. Il rapporto tra l’area della lesione e la BSA (Skin Score
Computerizzato Ponderato) ripetuto nei controlli successivi permette
di valutare l’estensione o meno delle lesioni in modo indipendente
dall’incremento della superficie corporea che avviene durante lo sviluppo fisico del paziente pediatrico (Zulian et al., 2007).
Altri approcci per la diagnosi e il monitoraggio clinico si avvalgono
delle moderne tecniche di imaging. L’ecografia ad alta frequenza
sembra rappresentare una tecnica molto valida nel monitoraggio di
questi pazienti soprattutto se associata al color Doppler che permette di apprezzare, oltre alle variazioni di spessore e di ecogenicità del
derma correlate con i vari stadi della lesione, anche le variazioni di
flusso sanguigno espressione di infiammazione (Li et al., 2007). La
RMN è un utile supporto nella gestione clinica in particolare quando
si sospetti un coinvolgimento del SNC e dell’occhio, ma è in grado
anche di dimostrare l’effettiva profondità delle lesioni cutanee, dato
estremamente utile nel sospetto di coinvolgimento osseo (Schanz
et al., 2011).
148
Sclerosi sistemica
La SS giovanile è una condizione cronica che interessa il tessuto
connettivo; è caratterizzata da ispessimento e indurimento simmetrico della cute variabilmente accompagnati da sclerodattilia, ulcere
digitali, fibrosi degli organi interni (specialmente tratto intestinale,
cuore, polmone e rene), artrite e miosite. L’esordio in età pediatrica è
molto raro, costituendo circa il 10% di tutte le forme di sclerodermia
“giovanili”.
La SS si può suddividere in tre sottotipi: la forma diffusa, la forma limitata e le forme overlap. La prima è caratterizzata da una
sclerosi cutanea diffusa, che coinvolge gli arti sia prossimalmente che distalmente ed è associata ad un interessamento precoce
e severo degli organi interni; la seconda, denominata in passato
con il termine CREST (Calcinosi, Raynaud, Esofago, Sclerodattilia e
Teleangiectasie) ha invece un decorso più favorevole, interessando
principalmente la cute della parte distale degli arti e tardivamente
e in maniera incostante gli organi interni; le forme overlap o da sovrapposizione sono invece caratterizzate dalla coesistenza di segni
e sintomi tipici di altre connettiviti qulai la dermatomiosite e il lupus
eritematoso sistemico.
Caratteristiche cliniche
La SS presenta un andamento cronico e l’esordio della malattia è
frequentemente insidioso, con un intervallo medio tra la comparsa
del primo segno clinico e la diagnosi di circa 2 anni (Scalapino et al.,
2006, Martini et al., 2006).
Le casistiche pediatriche risultano scarse, per cui non è facile stabilire l’esatta prevalenza riguardo a manifestazioni cliniche, decorso e
prognosi (Schanz et al., 2011; Seely et al., 1998). Le manifestazioni
cliniche più frequenti sono senza dubbio il fenomeno di Raynaud,
che si presenta come primo segno di malattia nel 70% dei casi, e
l’indurimento della cute, presente nel 40% dei casi. Durante il de-
Sclerodermia in età pediatrica
corso della malattia la sclerosi cutanea ed il fenomeno di Raynaud
sono i sintomi più frequenti (84%), seguiti dal coinvolgimento respiratorio con fibrosi ed ipertensione polmonare, dalle manifestazioni gastrointestinali (malassorbimento e reflusso gastroesofageo),
dall’artrite e dall’interessamento cardiaco (aritmie, insufficienza
cardiaca) (Martini et al., 2006). Più raro è invece il coinvolgimento
renale.
Il fenomeno di Raynaud è l’espressione di un vasospasmo che interessa generalmente le estremità (dita delle mani e dei piedi), specie
in seguito ad esposizione a basse temperature o a stimoli emozionali. Clinicamente è caratterizzato dalla successione di una fase ischemica, seguita da una fase di stasi venosa e successivamente da
una fase di iperemia reattiva; queste alterazioni del microcircolo si
manifestano con la classica successione di pallore, cianosi ed iperemia delle dita, accompagnate generalmente da formicolio e dolore.
Nel 10% dei casi, il fenomeno di Raynaud si accompagna ad ulcere
digitali. È importante differenziare il fenomeno di Raynaud dall’acrocianosi, una condizione comune soprattutto nelle adolescenti. Si
tratta di un fenomeno di vasospasmo, non dolente, che si manifesta
con estremità fredde e bluastre. Occasionalmente si può associare
ipersudorazione ed edema e può essere associato ad esposizione
al freddo. Contrariamente al fenomeno di Raynaud, nell’acrocianosi
non c’è un cambiamento trifasico del colore e le dita ritornano raramente al loro colorito normale.
Le alterazioni cutanee inizialmente si presentano con edema, segno
di infiammazione, e si caratterizzano poi per la sclerosi e l’aderenza
alle strutture sottocutanee, soprattutto a livello di dita e volto (Fig. 5).
Il coinvolgimento degli organi interni è associato a significativa morbidità; più frequentemente sono interessati il polmone ed il tratto
gastrointestinale.
La malattia polmonare è spesso asintomatica e deve essere ricercata con attenzione. È presente in circa il 40% dei pazienti ed è caratterizzata da alterate prove di funzionalità respiratoria (ridotta FEV1,
FVC, e DLCO), alterazioni radiologiche (immagini a vetro smerigliato,
a nido d’ape, opacità lineari o micronoduli subpleurici) (Seely JM et
al., 1998). Quando sintomatico, il coinvolgimento polmonare si presenta con tosse o dispnea da sforzo (Martini et al., 2006).
L’interessamento gastrointestinale è costituito essenzialmente dalla
malattia da reflusso gastroesofageo, presente in un terzo dei casi
Figura 5.
Sclerodattilia con ulcerazioni digitali in una paziente con Sclerosi Sistemica Giovanile.
già all’esordio (Martini et al., 2006); meno frequentemente sono riportati stipsi, diarrea o dolore addominale.
Il coinvolgimento cardiaco è presente in circa un quinto dei pazienti
e rappresenta una delle cause principali di morbidità tra i pazienti
con sclerosi sistemica giovanile. Circa il 10% dei pazienti presenta
inoltre coinvolgimento renale, sottoforma di proteinuria o, più raramente, di insufficienza renale.
Approccio diagnostico
Recentemente sono stati definiti i criteri classificativi per la SS Giovanile (Zulian et al., 2007). Sulla base di questa proposta, un paziente
di età inferiore a 16 anni può essere definito affetto da SS Giovanile
in presenza di un criterio maggiore (sclerosi/indurimento della cute
in regione prossimale alle articolazioni metacarpo-falangee) più almeno due criteri minori raggruppati in 9 categorie (Tab. II).
Un attento esame del letto ungueale risulta utile per porre il sospetto
diagnostico di SS: la dilatazione dei capillari periungueali, le aree avascolari ed il sovvertimento dell’architettura dei capillari rappresentano
anomalie tipiche in questa malattia (Spencer-Green et al., 1983).
Per quanto riguarda il coinvolgimento polmonare, l’approccio diagnostico prevede l’impiego di test di funzionalità polmonare (spirometria con test di diffusione del CO) e di metodiche di imaging
quali la TAC ad alta risoluzione. Il coinvolgimento gastrointestinale
è progressivo. In genere inizia a livello esofageo per poi proseguire
distalmente. Le indagini diagnostiche prevedono, in successione,
scintigrafia esofagea, pH metria, contrastografia mediante pasto baritato e, ove possibile, nei soggetti più grandi, la manometria.
Prognosi
In generale, la prognosi delle forme giovanili di Sclerosi Sistemica è
più favorevole rispetto alle forme ad esordio in età adulta; la sopravvivenza a 5, 10, 15 e 20 anni dalla diagnosi risulta infatti dell’89%,
dell’80-87%, del 74-87% e del 69-82,5%, rispettivamente, quindi
significativamente migliore rispetto alle forme dell’adulto (Martini et
al., 2009, Foeldvari et al., 2000). Ciononostante, la SS Giovanile è
una condizione piuttosto severa, con elevata morbilità legata per lo
più all’interessamento polmonare e cardiaco.
Anche se l’indurimento della cute e le limitazioni articolari possono
comportare grave disabilità, la prognosi del bambino con SS è principalmente legata al grado di coinvolgimento degli organi interni.
In età pediatrica la malattia sembra avere due pattern possibili di
decorso: può presentare un’evoluzione rapida, con sviluppo di insufficienza degli organi interni, disabilità severa o decesso precoce,
mentre, più spesso, l’evoluzione è più lenta ed insidiosa e la mortalità ridotta. L’esito fatale è correlato principalmente al coinvolgimento
cardiaco, renale e polmonare. La cardiomiopatia è una complicanza
rara, solitamente associata alla forma cutanea diffusa ed alle forme
overlap con polimiosite, ed è una delle cause principali di decesso
precoce (Martini et al., 2009, Foeldvari et al., 2000). La fibrosi miocardica comporta dapprima solo aritmie cardiache, successivamente un quadro di insufficienza cardiaca congestizia. Un trattamento
immunosoppressivo aggressivo si è dimostrato efficace sul coinvolgimento muscolare, cutaneo e polmonare, ma non sempre è in
grado di rallentare la progressione del danno miocardico.
La crisi renale o l’encefalopatia ipertensiva acuta possono essere
raramente causa di esito fatale, ed in genere si verificano nei primi
mesi dall’esordio della malattia (Martini et al., 2009).
Terapia
L’approccio farmacologico al paziente pediatrico con Sclerosi Sistemica non è standardizzato: non esiste infatti ad oggi un trattamento
149
F. Zulian, R. Culpo, G. Martini
Tabella II.
Criteri preliminari di classificazione per la Sclerosi Sistemica Giovanile (da Zulian F et al. 2007).
Criterio maggiore
Indurimento cutaneo in sede prossimale alle articolazioni metacarpo-falangee
Criteri minori
- Cute
sclerodattilia
- Vascolare
fenomeno di Raynaud
anormalità alla capillaroscopia
ulcere digitali
- Gastrointestinale
disfagia
reflusso gastroesofageo
- Renale
crisi renale
Ipertensione arteriosa di recente riscontro
- Cardiaco
aritmie
insufficienza cardiaca
- Respiratorio
fibrosi polmonare (alla TAC o Rx)
ridotta DLCO
ipertensione polmonare
- Muscoloscheletrico
sfregamenti tendinei
artrite
miosite
- Neurologico
neuropatia
sindrome del tunnel carpale
- Autoanticorpi
anticorpi anti-nucleo
autoanticorpi specifici della SSG: (anticentromero, anti-topoisomerasi I,
antifibrillarina, anti-PM-Scl, anti-fibrillina o anti-RNA polimerasi I o III)
La Sclerosi Sistemica Giovanile può essere definita in presenza di un criterio maggiore (sclerosi/indurimento della cute in regione prossimale alle articolazioni metacarpofalangee) più almeno due tra i 20 criteri minori raggruppati in 9 categorie.
ufficialmente riconosciuto e sicuramente efficace in tutti i pazienti.
Nel 2009 sono state proposte alcune raccomandazioni per il trattamento della SS (Kowal-Bielecka et al., 2009).
Per il trattamento del fenomeno di Raynaud e delle sue complicanze,
i farmaci di prima scelta sono i calcio-antagonisti come la nifedipina
o la nicardipina. I prostanoidi a somministrazione endovenosa, come
l’iloprost, vanno riservati alle forme con ischemia severa o associate
ad ulcere digitali (Kowal-Bielecka et al., 2009, Zulian et al., 2004).
Per le forme con coinvolgimento polmonare è indicato un trattamento con ciclofosfamide per via endovenosa in boli mensili di 0,5-1 g/
m2 per un periodo di almeno 6 mesi.
Per il coinvolgimento dell’apparato muscolo-scheletrico un’opzione
valida è rappresentata dai glucocorticoidi (prednisone ad un dosaggio di 0,3-0,5 mg/kg/die). Non si deve dimenticare, tuttavia, che
l’utilizzo di questi farmaci nel paziente con SS è associato ad un
aumentato rischio di crisi renale, per cui è raccomandato un monitoraggio frequente della funzionalità renale e della pressione arteriosa.
In presenza di manifestazioni cutanee severe, il metotrexate, alle
dosi di 10-15 mg/m2/settimana, si è dimostrato efficace e sicuro.
ACE-inibitori, come captopril o losartan, sono indicati per il controllo
a lungo termine della pressione arteriosa e nella stabilizzazione della
funzionalità renale in corso di crisi renale.
150
Infine, i trattamenti sintomatici per le manifestazioni gastrointestinali
includono gli inibitori di pompa protonica per la prevenzione o il trattamento del reflusso gastroesofageo e delle ulcerazioni esofagee, i
procinetici per la gestione dei disturbi della motilità gastrointestinale
e l’antibioticoterapia per il trattamento del malassorbimento dovuto
alla contaminazione batterica intestinale.
Per adeguare questi diversi trattamenti alla variabile severità della
malattia, è stato recentemente proposto alla comunità scientifica
internazionale uno score di severità, denominato Juvenile Systemic Sclerosis Severity Score (J4S) (La Torre et al., 2012). Il J4S
consente di valutare lo stato di malattia sulla base sia di parametri
generali, quali per esempio il body mass index o il valore dell’emoglobina, sia di parametri clinico-strumentali riferiti a 8 apparati:
vascolare, cutaneo, osteoarticolare, muscolare, gastrointestinale,
respiratorio, cardiaco e renale (Tab. III). Oltre alla semplicità di
questo score per la pratica clinica quotidiana, la sua peculiarità
è rappresentata dall’inserimento di coefficienti in grado di valutare in modo ponderato l’importanza del coinvolgimento dei singoli
organi interessati. È intuitivo, infatti, che un peggioramento della
funzione respiratoria o cardiaca abbiano un peso maggiore nella
decisione terapeutica rispetto a quello della funzione articolare o
muscolare.
Sclerodermia in età pediatrica
Tabella III.
Juvenile Systemic Sclerosis Severity Score (J4S) (tratto da La Torre et al., 2012).
PARAMETRI GENERALI*
Apparato
VASCOLARE
CUTE
0
(normale)
1
(lieve)
2
(moderato)
3
(grave)
4
(molto grave)
Punteggio
massimo
BMI ≥ al basale
BMI ridotto di 1
percentile rispetto
al basale
BMI ridotto di 2
percentilI rispetto
al basale
BMI ridotto di 3
percentilI rispetto al
basale
BMI ridotto di
4 percentilI rispetto
al basale
4
Hb ≥11,5 g/dl
Hb 10-11,4 g/dl
Hb 9-9,9 g/dl
Hb 7-8,9 g/dl
Hb <7 g/dl
FR assente
FR che necessita
di terapia con
vasodilatatori
Cicatrici puntiformi
ai polpastrelli
Ulcerazioni ai
polpastrelli
Gangrena alle dita
4
mRSS 0
mRSS 1-14
mRSS 15-29
mRSS 30-39
mRSS >40
4
Artrite e/o
sfregamenti tendinei
2
cMAS 13-25
cMAS 0-12
2
Malassorbimento
Iperalimentazione
4
Ossigenodipendenza
8
8
Apparato
OSTEOARTICOLARE
Nessun
coinvolgimento
articolare
MUSCOLO
Forza muscolare
nella norma
Apparato
GASTRO-INTESTINALE*
Indagini del tratto
GI prossimale
nella norma
Limitazione della
mobilità articolare
cMAS 39-51
cMAS 26-38
Presenza di sintomi
Ipomotilità
GI
dell’esofago medio
e/o prossimale
Ipomotilità
dell’esofago distale
Reflusso
gastro-esofageo
Apparato
RESPIRATORIO*°
Alterazioni
CARDIACHE*°
Funzionalità
RENALE^
DLCO >80%
DLCO 70-79%
DLCO 50-69%
DLCO <50%
FCV >80%
FCV 70-79%
FCV 50-69%
FCV <50%
HRTC nella norma
Opacità a vetro
smerigliato e/o altri
segni di alveolite
all’HRTC
Aspetti a favo
d’api e/o altri
segni di fibrosi all’
HRTC
Fibrosi polmonare
visibile all’Rx
sPAP <30
mmHg
sPAP 31-45
mmHg
sPAP 46-75
mmHg
sPAP >75
mmHg
ECG
nelle norma
Difetti
di conduzione
Aritmie
Scompenso
cardiaco
LVEF >50%
LVEF 45-49%
LVEF 40-44%
Aritmie che
richiedono
trattamento
LVEF 30-39%
VFG
>90 ml/min
VFG
75-89 ml/min
VFG
50-74 ml/min
VFG
10-49 ml/min
Insufficienza
renale terminale
LVEF <30%
4
BMI=indice di massa corporea, Hb= emoglobina, FR= fenomeno di Raynaud, mRSS= modified Rodnan skin score, cMAS= childhood muscle activity score, GI= gastrointestinale, DLCO= capacità di diffusione del monossido di carbonio, FCV= capacità vitale forzata, HRTC= tomografia computerizzata ad alta risoluzione, sPAP= pressione
sistolica in arteria polmonare stimata all’ecodoppler, ECG= elettrocardiogramma, LVEF= frazione di eiezione del ventricolo sinistro, VFG= velocità di filtrazione glomerulare.
*almeno uno dei seguenti parametri è sufficiente a definire il punteggio
°ogni punteggio per questo apparato deve essere moltiplicato per 2 (punteggio massimo: 8)
§
ogni punteggio per questo apparato deve essere moltiplicato per 0,5 (punteggio massimo: 2)
^ Calcolo della VFG:
- maschi 0-12 anni = 0,55*altezza (cm) /creatininemia (mg/dl)
- maschi 12-18 anni = 0,7*altezza (cm) /creatininemia (mg/dl)
- femmine 0-18 anni = 0,55*altezza (cm) /creatininemia (mg/dl)
- maschi > 18 anni = (peso in kg*140) - età(in anni)/72*creatininemia (mg/dl)
- femmine > 18 anni = [(peso in kg*140) - età(in anni)/72*creatininemia (mg/dl)]*0,85
151
F. Zulian, R. Culpo, G. Martini
Box di orientamento
Che cosa sapevamo prima
La Sclerodermia Giovanile comprende un gruppo di condizioni che determinano abnorme fibrosi, sono per lo più croniche e su base autoimmune e
colpiscono principalmente la cute. Ne esistono due forme: la Sclerosi Sistemica, che colpisce cute e organi interni, e la Sclerodermia Localizzata, conosciuta anche con il termine “morfea”.
Che cosa sappiamo adesso
La Sclerodermia Localizzata non colpisce solo la cute ma può interessare anche organi interni come il sistema nervoso centrale o l’apparato osteoarticolare.
Abbiamo ora a disposizione strumenti idonei per il monitoraggio quali la termografia o lo skin score computerizzato. Il metotrexate a basse dosi rappresenta il
trattamento di scelta per le forme più aggressive e va intrapreso nelle fasi più precoci della malattia. La Sclerosi Sistemica è una condizione altamente invalidante e potenzialmente mortale. Abbiamo ora a disposizione una nuova classificazione che consente di uniformare la diagnosi e standardizzare il trattamento.
Nonostante siano stati fatti notevoli progressi nel monitoraggio di questa condizione, siamo ancora distanti dall’individuazione di un trattamento efficace e sicuro.
Per la pratica clinica
In questi ultimi anni, sono aumentate le conoscenze riguardanti la sclerodermia in età pediatrica e la disseminazione di queste in ambito pediatrico e
dermatologico. Questo consente una diagnosi precoce e un trattamento tempestivo specie delle forme più evolutive. L’invio del paziente in Centri di
Reumatologia Pediatrica o di riferimento per Malattie Rare e l’approccio multidisciplinare rappresentano elementi essenziali per un tempestivo inquadramento clinico e per il miglioramento della prognosi a distanza.
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**Primo studio randomizzato in doppio-cieco per valutare la sicurezza e l’efficacia del
metotrexate nel trattamento della Sclerodermia Localizzata giovanile.
Corrispondenza
Francesco Zulian, Centro Regionale e Unità di Reumatologia Pediatrica, Dipartimento per la Salute della Donna e del Bambino, Università degli Studi,
Azienda Ospedaliera di Padova, via Giustiniani 3, 35128 Padova. Tel. +39 049 8213583, Fax +39 049 8218088. E-mail: [email protected]
152
Luglio-Settembre 2014 • Vol. 44 • N. 175 • Pp. 153-160
reumatologia pediatrica
Osteoporosi in età evolutiva:
l’importanza di giocare in anticipo
Rolando Cimaz, Stefano Stagi*
Dipartimento NEUROFARBA, Università degli Studi di Firenze, e SOD di Reumatologia, Azienda Ospedaliero-Universitaria Anna Meyer; *Dipartimento di Scienze della Salute, Università degli Studi di Firenze, e SOD di Auxo-Endocrinologia, Azienda Ospedaliero-Universitaria Anna Meyer, Firenze
Riassunto
L’Osteoporosi è stata considerata una patologia tipica quasi esclusivamente della popolazione adulto-anziana e la sua prevalenza in età pediatrica è stata
ampiamente sottostimata. Da parte dei medici, ed in particolare da parte dei pediatri, solo recentemente si è assistito ad una maggiore consapevolezza del
rischio d’osteoporosi in quei bambini che presentino mutazioni genetiche capaci di alterare le normali fasi del metabolismo osseo (osteoporosi primitiva)
o che siano affetti da patologie croniche o utilizzino farmaci capaci di interferire con il normale sviluppo osseo (osteoporosi secondaria). La cronica e progressiva perdita di massa ossea in questi bambini, se non diagnosticata precocemente e trattata di conseguenza, impedisce il raggiungimento del picco di
massa ossea al termine della pubertà con un alto rischio di osteoporosi in età adulta. Le patologie associate ad osteoporosi primitiva sono nel complesso
rare (principalmente Osteogenesi Imperfetta), molto più frequenti nella pratica clinica sono le forme di osteoporosi secondarie a patologie croniche o farmaci. Una popolazione ad alto rischio di sviluppare osteoporosi è rappresentata dai pazienti con patologie infiammatorie croniche; in questi bambini la ridotta
densità ossea, unita ad una minore qualità dell’osso depositato, è conseguenza sia del processo infiammatorio per sé (citochine) sia della terapia cronica
con corticosteroidi sistemici. La terapia dell’Osteoporosi in età pediatrica si basa sull’eliminazione dei fattori di rischio (ridotto esercizio fisico, obesità,
deficit nutrizionali e di Vitamina D) e, nei casi severi, sull’utilizzo di Bifosfonati.
Summary
Osteoporosis has been traditionally considered as a geriatric disease, and its prevalence in the pediatric age has been widely underestimated. Only recently
pediatricians have acknowledged its importance, since some patients have genetic mutations able to affect bone metabolism and others are affected by
chronic conditions which can impact bone health. If not diagnosed and treated early enough, bone loss can proceed and impact beak bone mass, with a
relevant effect on further fracture risk. Primary osteoporosis is rare, mainly represented by osteogenesis imperfecta, while the conditions linked to low bone
mass because of chronic disorders and drug administration are more frequent. Chronic inflammatory diseases have an impact on bone both for the effect
of inflammatory cytokines and for glucocorticoid treatment. Treatment of low bone mass in the pediatric age is mainly based on risk factor avoidance, and
only in severe cases on bisphosphonate therapy.
Legenda delle abbreviazioni con traduzione
aBMD = areal Bone Mineral Density (densità minerale ossea rispetto a un’area)
AD-SOS (Amplitude Dependent Speed of Sound): tecnica a trasmissione, che misura la velocità dell’onda ultrasonora calcolata nel momento in cui il segnale supera una soglia di ampiezza prestabilita
ALP = Alkaline phosphatase (fosfatasi alcalina sierica)
BMC = Bone Mineral Content (contenuto minerale osseo)
BMD = Bone Mineral Density (densità minerale ossea)
BTT = Bone Trasmission Time (intervallo di tempo tra il primo segnale che supera la soglia e il momento in cui il segnale stesso raggiunge la velocità di
1700 m al secondo)
BUA = Broadband Ultrasound Attenuation (attenuazione del raggio ultrasonoro)
CTX = Collagen type 1 cross-linked C-telopeptide (telopeptidi C-terminali del collagene maturo tipo I)
DPD = Urinary Deoxypyridinoline (deossipiridinoline urinarie)
DXA = Double X-ray Absorptiometry (assorbimetria a doppio raggio X)
ICTP = Cross-linked carboxyterminal telopeptide of type I collagen (cross-link terminale telopeptide C del collagene di tipo I)
NTX = Collagen-type I N-telopeptides (telopeptidi N-terminali del collagene maturo tipo I)
OC = Osteocalcin (osteocalcina sierica)
PICP = Procollagen I C-Terminal Propeptide (peptide carbossi-terminale del procollagene di tipo I)
pQCT = Pheripheral Quantitative Computerized Tomography: (tomografia computerizzata quantitativa periferica)
PYD = Urinary Pyridinoline (piridinoline urinarie)
QUS = Quantitative Ultrasound (ultrasonografia quantitativa)
SOS = Speed of Sound (Velocità di propagazione dell’onda ultrasonora)
UBPI = Ultrasound Bone Profile Index (parametro che utilizza un algoritmo aggiornato per la valutazione della traccia grafica.) È una sintesi matematica
di tre parametri che descrivono le caratteristiche della traccia grafica: fast wave amplitude (FWA, mV), dynamic of ultrasound signal (SDy, mV/μs2) e bone
trasmission time (BTT, μs)
Z-score = unità di misura rappresentata dalla differenza, espressa in deviazione standard, tra valore osservato di BMD e valore medio di BMD dei soggetti
di pari età e sesso
153
R. Cimaz, S. Stagi
Metodologia della ricerca bibliografica
Gli articoli studiati per preparare questa review sono stati selezionati
mediante ricerca bibliografica su Medline usando come motore di
ricerca PubMed. È stata utilizzata la parola chiave “Osteoporosis” e
il filtro di ricerca < 18 anni. Sono state scelte le citazioni più rilevanti
alla presente pubblicazione.
Introduzione
L’osso è un tessuto connettivo “dinamico” e altamente specializzato,
le cui funzioni consistono nel fornire supporto al tessuto muscolare
e protezione agli organi interni. Inoltre, esso rappresenta anche un
deposito di sostanze minerali e partecipa al mantenimento dell’omeostasi minerale (Zemel, 2012; Stagi et al., 2013).
Il dinamismo osseo si mantiene durante tutte le fasi della vita, ma varia qualitativamente e quantitativamente nelle diverse età. Infatti, l’osso subisce un costante processo di modellamento (prevalente nell’età
evolutiva) e di rimodellamento (tipico nell’età adulta), che dalla nascita
fino all’età adulta, porta la massa ossea a presentare un progressivo aumento fino a raggiungere un valore massimo definito picco di
massa ossea (Peak Bone Mass o PBM) (Bachrach, 2005). Il raggiungimento della PBM, generalmente durante la terza decade della vita,
sembra essere condizionato da fattori genetici, nutrizionali, endocrini
e meccanici (Kelly et al., 1990; Bachrach, 2005). Tali fattori, infatti,
vanno a influenzare il tasso di turnover, l’architettura, il grado di mineralizzazione, oltre alle proprietà del collagene e della matrice ossea.
In età evolutiva sia il rimodellamento del tessuto osseo già mineralizzato che la formazione di nuovo tessuto osseo sono i principali
processi di cambiamento del tessuto osseo; per quanto siano due
processi diversi, entrambi comunque prevedono la formazione di
nuovo tessuto osseo (Ma & Gordon, 2012). Tale processo di guadagno di massa ossea presenta un equilibrio molto delicato; pertanto,
se vi è una prevalenza del riassorbimento osseo o un difetto qualitativo o quantitativo che coinvolge i processi di neosintesi, si può
giungere ad una condizione di ridotto guadagno o addirittura perdita
di massa ossea con conseguente alterata massa e/o qualità ossea
fino alla osteoporosi (Ott, 1990).
Concetto di picco di massa ossea
L’infanzia e l’adolescenza sono tipicamente caratterizzate da una crescita staturale nonché da cambiamenti nelle dimensioni e nella forma
dello scheletro. Infatti, dalla prima infanzia fino alla tarda adolescenza
l’attività di formazione ossea predomina sul riassorbimento osseo, con
un costante accumulo di massa scheletrica, che aumenta dai circa
70-95 g alla nascita ai 2,400-3,300 grammi in giovani donne e uomini, rispettivamente (Stagi et al., 2013). L’età esatta in cui i valori di
massa ossea raggiungono il loro picco nei vari siti scheletrici varia dai
16-18 anni circa (per colonna vertebrale e collo del femore), fino ad
arrivare anche a 35 anni (per il cranio) (Ott, 1990) (Fig. 1).
Unitamente all’impatto sulla crescita nel suo complesso, è soprattutto la pubertà che ha un ruolo fondamentale nell’acquisizione della massa ossea (Kelly et al., 1990; Bachrach, 2005). In effetti, tra
l’inizio della pubertà e l’età adulta la massa scheletrica raddoppia
(Fig. 1). Tuttavia, questo “accumulo” avviene a velocità diverse a
seconda del segmento scheletrico considerato. Ad esempio, il guadagno dello scheletro appendicolare è predominante prima della pubertà, dopo di che si assiste, sotto l’influenza degli steroidi sessuali,
a un incremento di crescita della colonna vertebrale (Recker et al.,
1992). Quindi, il completamento della normale crescita scheletrica
154
richiede un’adeguata produzione di ormoni tiroidei, ormone della
crescita, fattori di crescita e steroidi sessuali. Prima della pubertà, la
crescita delle ossa dipende in gran parte dall’ormone della crescita,
ma gli steroidi sessuali sono essenziali per il completamento della
maturazione delle epifisi e dell’apposizione minerale ossea durante
la pubertà e l’adolescenza (Kelly et al., 1990; Bachrach, 2005).
Su tutti questi processi, influenzati da questa complessa sequenza
di cambiamenti ormonali, interagiscono inoltre fattori nutrizionali ed
ambientali, in grado di modificare il potenziale genetico dell’individuo
(Turner et al., 1992; Matkovic et al., 1990; Matkovic et al., 1990). Fino
all’80% della BMD sarebbe geneticamente determinata, mentre il
maggior periodo di rapido sviluppo scheletrico, che avviene nell’infanzia e nell’adolescenza, renderebbe conto del 30-40% dell’aumento totale della massa ossea. Fattori ambientali come un costante esercizio
fisico, l’intake dietetico di calcio ed una corretta azione della vitamina
D, potrebbero influenzare fino al 20% della BMD (Bachrach, 2005).
Calcio e vitamina D sono due nutrienti essenziali a lungo conosciuti per
il loro ruolo nella salute ossea (Demay et al., 2007; Ward et al., 2010;
Welten et al., 1995; Winzenberg et al., 2011; Winzenberg et al., 2010).
Molti dati confermano che un adeguato apporto alimentare di calcio
è importante per raggiungere una corretta PBM, evidenziando come
la supplementazione di calcio possa aumentare l’acquisizione di
massa ossea durante l’adolescenza e l’età giovane-adulta (Bonjour
et al., 1997; Johnston et al., 1992). Quando tale supplementazione
di calcio cessa, l’effetto benefico sull’osso scomparirebbe. La sintesi
cutanea della vitamina D per azione della luce solare è insufficiente a
soddisfare il fabbisogno nei paesi europei, soprattutto durante i mesi
invernali, quando l’esposizione al sole è ridotta (Prentice, 2008).
Quindi, appare necessario un adeguato apporto di vitamina D durante l’infanzia e l’adolescenza per garantirne un livello sufficiente ad
assicurare una normale mineralizzazione ossea (Holick et al., 2011).
La vitamina D, infatti, attraverso la sua azione di ottimizzazione
dell’assorbimento intestinale di calcio, appare essenziale per garantire la normale calcificazione della cartilagine di accrescimento e la
mineralizzazione della matrice osteoide a livello dell’osso trabecolare e corticale (Lamberg-Allardt, 2012). Inoltre, un adeguato livello
di vitamina D è necessario per un efficace assorbimento di calcio e
per il mantenimento di normali livelli ematici di calcio e fosfato, che
a loro volta sono necessari per la normale mineralizzazione delle
ossa (Bouillon et al., 2008). Il livello sierico di 25(OH)D, o calcidiolo,
è generalmente ritenuto un buon indicatore dello stato nutrizionale
della vitamina D (Ross et al., 2011).
Ad oggi non è tuttavia emersa alcuna chiara indicazione di una specifica relazione dose-risposta tra assunzione di calcio o livello della
vitamina D e BMC o BMD, anche se alcuni studi osservazionali sembrano evidenziare una associazione tra il livello sierico di 25(OH)D,
la BMD e/o il BMC nei bambini e negli adolescenti, come pure un
effetto sulla BMD e sul BMC dell’integrazione combinata di una dieta
abituale con calcio e vitamina D (Stagi et al., 2013).
Oltre all’intake di calcio e vitamina D, bisogna considerare che l’osso
è un tessuto vivente che ha la capacità di rispondere a stimoli meccanici come l’attività o l’esercizio fisico. La presenza di stimoli continui
da parte di un carico meccanico, quindi, è essenziale per mantenere
una normale massa ossea. Al contrario, l’inattività porta ad una rapida
perdita di massa ossea, come si osserva nei pazienti allettati (Frost,
1987). La deformazione meccanica prodotta sull’osso, infatti, sarebbe
rilevata dagli osteociti tramite le loro giunzioni cellulari, producendo una serie di modificazioni in grado di portare al rimodellamento
dell’osso. L’attività fisica rappresenta un fattore modificabile che può
quindi aumentare l’accrezione ossea se effettuata con regolarità.
Nell’infanzia e l’adolescenza, l’attività fisica determina degli indubbi
Osteoporosi in età evolutiva
♀
♂
♀
♂
♂
♀
Figura 1.
In alto: Confronto e differenze tra la velocità di crescita staturale (a) e la velocità di crescita ponderale (b) tra individui di sesso maschile (♂) e
femminile (♀). In basso: crescita della massa ossea in relazione alla velocità di crescita staturale e differenza nel picco di massa ossea tra individui
di sesso maschile (♂) e femminile (♀).
effetti positivi sulla massa ossea, sia a breve termine che a lungo termine. L’incremento potrebbe essere maggiore qualora l’attività fisica
venga iniziata precocemente e/o in età prepuberale. Comunque, ciò è
anche importante nell’adolescenza, periodo in cui il guadagno osseo è
più significativo fisiologicamente (Gunter et al., 2012).
Metabolismo osseo
I marker biochimici del turnover osseo ci possono permettere di
comprendere i meccanismi di fomazione e riassorbimento; pur non
essendo specifici, possono fornire indicazioni sulla patogenesi di
eventuali disordini del metabolismo e/o della qualità ossea (Stagi et
al., 2013; Basit, 2013; Michigami, 2014). Tutti i marcatori biochimici
del turnover osseo possono essere misurati in campioni di sangue
e/o di urine. Nei bambini, i marker biochimici correlano con la velocità di crescita; quindi, essi saranno più alti nei periodi di maggiore
crescita, come nel primo anno di vita, e durante lo scatto di crescita
puberale (Stagi et al., 2013; Naylor & Eastell, 2012).
I marcatori della formazione ossea più frequentemente utilizzati
sono:
• Fosfatasi alcalina sierica (ALP). Si tratta di un enzima prodotto
dall’osso, ma anche da altri tessuti, tra cui il fegato, l’intestino ed i
reni. Nell’osso, la ALP è espressa sulla superficie degli osteoblasti
e l’enzima può essere clivato dalla membrana e rilasciato nella
circolazione; perciò, l’attività enzimatica può essere determinata
in campioni sierici. Anche se la ALP totale è ampiamente utilizzata
come marker del metabolismo osseo, consistendo in diverse isoforme la misurazione dell’isoenzima osseo specifico della ALP è
preferibile (Stagi et al., 2013; Naylor & Eastell, 2012).
• Osteocalcina sierica (OC). L’OC è una piccola proteina sintetizzata principalmente dagli osteoblasti, ma anche dagli odontoblasti
e dai condrociti. Mentre l’OC è principalmente depositata nella
155
R. Cimaz, S. Stagi
matrice extracellulare dell’osso, una piccola quantità entra nella
circolazione, dove è rapidamente degradata. L’OC ha un ritmo
circadiano con elevati valori notturni rispetto ai valori diurni (Stagi et al., 2013; Naylor & Eastell, 2012).
• Peptide carbossi-terminale del procollagene di tipo I (PICP) sierico. Il collagene tipo I rappresenta più del 90% della matrice
ossea organica. Esso viene continuamente sia sintetizzato che
degradato; da questi processi originano continuamente piccoli
frammenti molecolari, indice sia dei processi di formazione che
di quelli di riassorbimento osseo. I primi, scissi dalle molecole di
collagene di nuova costituzione, sono indicati col termine di PICP
e PINP a seconda dell’origine C- o N-terminale. Come l’osteocalcina, PICP mostra un ritmo circadiano (Naylor & Eastell, 2012).
I marcatori del riassorbimento osseo più frequentemente utilizzati
invece sono:
• Piridinoline (PYD) e deossipiridinoline (DPD) urinarie. Si tratta di
molecole rilasciate nella circolazione durante il riassorbimento
osseo ed escrete nelle urine. Quindi, le quantità di PYD e DPD
nel siero e nelle urine derivano principalmente dall’osso che presenta un turnover maggiore rispetto agli altri tessuti contenenti
collagene. Il DPD è considerato più osso-specifico e quindi rappresenta un utile marker del riassorbimento osseo (Stagi et al.,
2013; Naylor & Eastell, 2012).
• Idrossiprolina urinaria. Si tratta di un aminoacido che si trova
nelle proteine ​​del collagene. Solo il 10% della idrossiprolina è
escreta con le urine. Inoltre, un altro svantaggio è che vi possono essere anche fonti dietetiche di idrossiprolina. Le influenze
della dieta possono essere minimizzate misurando il rapporto
idrossiprolina/creatinina su urine del mattino a digiuno. Sarebbe
perciò da preferire il dosaggio delle DPD urinarie (Naylor & Eastell, 2012).
• Telopeptidi N- (NTX) o C-terminali (CTX) del collagene maturo
tipo I. Tali marker possono essere misurati sia nel sangue che
nelle urine (Stagi et al., 2013).
• Calcio urinario. L’escrezione di calcio totale giornaliera dipende
dall’assunzione di calcio. Come l’idrossiprolina, l’influenza della
dieta può essere minimizzata attraverso la misurazione del rapporto calcio/creatinina nelle urine della prima mattina (Stagi et
al., 2013; Naylor & Eastell, 2012).
• Cross-link terminale telopeptide C del collagene di tipo I (lCTP).
L’ICTP viene rilasciato durante il riassorbimento osseo di collagene. L’ICTP mostra un ritmo circadiano, come l’osteocalcina ed
il PICP (Naylor & Eastell, 2012).
In età pediatrica, il parametro da prendere in considerazione per un
esame densitometrico è rappresentato dallo Z-score. Il T-score, è
bene ricordarlo, è invece un parametro da utilizzare solo in soggetti
adulti (Lewiecki et al., 2008). Lo Z-score rappresenta il numero di
deviazioni standard (DS) al di sopra o al di sotto del valore atteso, in
base all’età, alla razza e al sesso del paziente.
Z-score = BMD del soggetto – media dei soggetti di stessa età e sesso/
DS dei soggetti di stessa età e sesso
È da notare che, fino ad alcuni anni fa, per la valutazione della DXA in
età pediatrica si utilizzava lo Z-score con gli stessi limiti di riferimento utilizzati per il T-score. Nel soggetto in età evolutiva, comunque,
non è mai stata definita con certezza una correlazione tra riduzione
della massa ossea e l’entità del rischio di frattura. Per tale motivo nel 2004, l’International Society for Clinical Densitometry (ISCD)
ha stabilito che la diagnosi di osteoporosi in età pediatrica non può
essere fatta esclusivamente su criteri densitometrici, utilizzando la
definizione di riduzione della densità ossea in base all’età cronologica quando lo Z-score risulti inferiore a -2,0. Il database pediatrico di
riferimento per l’interpretazione dello Z score deve essere citato nel
referto (Baim et al., 2004).
Tecniche densitometriche
Esistono numerose tecniche densitometriche per la misurazione non
invasiva della massa ossea (Tab. I). Le tecniche più diffuse utilizzano
l’attenuazione dei raggi X nell’attraversare il distretto scheletrico da
esaminare. Tali tecniche sono basate sull’assorbimento e l’interazione con il tessuto osseo di fotoni incidenti (Blake & Fogelman, 2009;
Bogunovic et al., 2009).
Radiologia tradizionale
Tra queste vi è lo studio radiologico tradizionale, che consente l’osservazione della morfologia ossea e l’analisi della porzione corticale
e spongiosa. Con questa tecnica è possibile individuare zone di aumento della trasparenza per riduzione della componente trabecolare
e di riduzione dello spessore della corticale che sono segni di osteopenia, oltre a zone di importante alterazione come fratture, esiti di
fratture, o deformazioni della normale morfologia ossea. Sedi abituali per tali valutazioni sono lo studio della mano e lo studio morfometrico del rachide (Bogunovic et al., 2009). Un’esempio di frattura
vertebrale è indicato in Figura 2. L’interpretazione dei dati è, tuttavia,
molto operatore-dipendente e correlata alla qualità dell’immagine
Definizione di osteoporosi
Nell’adulto, l’osteoporosi è una malattia scheletrica caratterizzata da
una bassa massa ossea ed un deterioramento micro-architetturale
del tessuto osseo, con conseguente aumento della fragilità ossea
e suscettibilità alle fratture. Si tratta, inoltre, di una delle principali
cause di morbilità e mortalità tra gli anziani. Solo negli ultimi anni
tale definizione è stata adattata all’età evolutiva, quando si può parlare di osteoporosi solo se alla riduzione della massa ossea si accompagna una storia di fratture. Nel bambino e nell’adolescente una
riduzione dei valori di densità minerale ossea di oltre 2 DS rispetto
alla media per l’età ed il sesso dovrebbe essere considerata patologica, analogamente a come viene normalmente fatto nella pratica
clinica per i vari parametri auxologici (Lewiecki et al., 2008). Tuttavia, oltre all’età, altre variabili come la razza, la statura, il peso e
lo stadio puberale, potrebbero interferire sensibilmente sui valori di
riferimento (Cimaz & Stagi 2013).
156
Tabella I.
Principali tecniche densitometriche per la misurazione non-invasiva
della massa e/o qualità osssea.
Radiografia
morfometria qualitativa
tecniche morfometriche quantitative
Assorbimetria a raggi X a doppia energia
(Dual-energy X-ray absorptiometry o DXA)
Tomografia computerizzata quantitativa periferica
(Peripheral quantitative computed tomography o pQCT)
Ultrasonografia ossea quantitativa
(Bone Quantitative Ultrasonometry o QUS)
Risonanza magnetica quantitativa
(Quantitative Magnetic Resonance o QRM)
Osteoporosi in età evolutiva
per esempio di un ritardo puberale. Pur con questi limiti, la DXA è
tuttora considerata il gold standard per la misurazione della massa
ossea (van Kuijk, 2010).
Tomografia Computerizzata Quantitativa
Una nuova tecnica, anch’essa però basata sull’uso di radiazioni
ionizzanti, è la Tomografia Computerizzata Quantitativa, che a differenza delle due tecniche precedentemente descritte, non è una
tecnica proiettiva, ma permette una valutazione volumetrica senza
sovrapposizione di altri tessuti e permette di ottenere valutazioni
tridimensionali superando alcuni dei limiti della DXA. I distretti esaminati sono di solito il rachide lombare e il collo del femore. Tra
le QCT, la pQCT o tomografia computerizzata quantitativa periferica
rappresenta una delle tecniche più interessanti e promettenti. La
pQCT viene effettuata a livello di ulna e radio oppure tibia e perone
del lato non dominante. Con questa tecnica è possibile valutare in
vivo la superficie della componente spongiosa, il numero delle trabecole per singola sezione, il numero di “nodi” (incroci tra le trabecole) e di end point (inizio e fine delle trabecole) e la resistenza del
tessuto osseo alla torsione. La relazione tra i parametri di pQCT nei
soggetti normali e le variazioni osservate con il progredire dell’età
é stata oggetto di diverse pubblicazioni, le quali hanno dimostrato
una correlazione tra variazioni della massa ossea a livello periferico
ed età del soggetto. Purtroppo l’utilizzo di questa tecnica è ancora
limitato dalla scarsità di strumenti disponibili e di informazioni relative all’interpretazione dei dati, non essendo attualmente disponibili
limiti di riferimento specie in età evolutiva (Engelke et al., 2009; Zemel, 2011).
Figura 2.
Radiogramma che evidenzia fratture vetebrali in paziente con connettivite in teapia corticosteroidea cronica.
ottenuta, inoltre non è possibile individuare segni di riduzione della
densità ossea nelle fasi iniziali, ma solo quando la patologia è in fase
molto avanzata (circa il 30-40% di perdita ossea). L’indagine morfometrica, al contrario, supera i limiti legati alla valutazione dell’operatore e permette, in maniera affidabile, di misurare le altezze dei
corpi vertebrali e di riconoscere pertanto le fratture vertebrali legate
a una alterata densità o qualità ossea.
Densitometria a raggi X a doppia energia
Un’altra tecnica basata sui raggi X è la densitometria a raggi X a
doppia energia (DXA), che permette di raccogliere dati relativi
al contenuto osseo minerale (BMC) e alla densità ossea minerale
(BMD) del distretto esaminato. I valori ottenuti vengono riportati dallo
strumento su una curva di riferimento e messi in rapporto all’età e
al sesso del paziente. In età evolutiva questa tecnica ha però diversi
limiti, in quanto i parametri auxologici possono influire sulla valutazione del risultato, potendo dare valori di densità falsamenti ridotti a
causa del volume osseo che nel bambino è ridotto rispetto all’adulto,
e nel caso di variazioni parafisiologiche o patologiche delle tappe
di sviluppo puberale. Infatti, parametri auxologici, come statura o
peso, possono influire sulla valutazione della aBMD, i cui risultati
vengono espressi in rapporto a una superficie e non a un volume.
Quindi, un osso più piccolo può avere una densità (gr/cm2) falsamente ridotta, visto che, essendo una metodica non volumetrica, è
impossibile calcolare direttamente lo spessore. Inoltre, lo sviluppo
puberale condiziona il picco di massa ossea. Per questo motivo, una
riduzione della BMD dovrebbe essere valutata con cautela in corso
Risonanza Magnetica Quantitativa
Una nuova tecnica non invasiva che non si avvale di raggi X è la
Risonanza Magnetica Quantitativa, che permette lo studio della
microarchitettura trabecolare, dello spazio intertrabecolare e della
distribuzione spaziale delle trabecole, ed evidenzia l’eventuale presenza di microfratture patologiche. Le sedi più studiate con questa
tecnica sono il calcagno, le falangi e il radio distale. Questa tecnica
al momento è utilizzata a livello sperimentale, ma sembra essere
molto promettente per la qualità delle informazioni che fornisce e
per la non invasività.
Ultrasonografia Ossea Quantitativa
Infine, l’ultrasonografia ossea quantitativa è una tecnica che utilizza
gli ultrasuoni e ha molti vantaggi essendo priva di effetti collaterali,
non invasiva, poco costosa, di facile esecuzione e fornendo dati affidabili che si prestano ad una rapida interpretazione. I distretti ossei
studiati con questa tecnica sono il calcagno, la porzione mediale della
tibia, le falangi distali (tranne quella del primo dito) della mano non
dominante o il metacarpo nei bambini di età inferiore ai 3 anni. Le
tecniche ad ultrasuoni si basano sulla misura del grado di attenuazione (BUA) o della velocità degli ultrasuoni (SOS; AD-SoS; BTT) durante
l’attraversamento in senso trasversale del segmento osseo in esame
(es. falangi della mano, calcagno) oppure sulla misura della velocità dell’onda ultrasonica dopo trasmissione lungo l’asse longitudinale
dell’osso esaminato (es. porzione mediale della tibia). Questa tecnica
fornisce dati non solo quantitativi, ma anche qualitativi sul tessuto
osseo del paziente. Si presta allo studio del tessuto osseo in età pediatrica per le caratteristiche precedentemente elencate ed essendo
disponibili valori di riferimento per soggetti in età evolutiva corretti per
età, sesso e stadio puberale. Questa tecnica non si può sostituire alla
DXA, ma si integra ad essa e può essere utilizzata per eseguire followup più ravvicinati (Lum et al., 1992; Simonini et al., 2005).
157
R. Cimaz, S. Stagi
Figura 3.
Diagramma che schematizza la patogenesi dell’osteoporosi da corticosteroidi.
Cause principali di alterata massa e/o qualità ossea
Vi sono numerose evidenze scientifiche che documentano come
un’alterata densità e/o qualità ossea possano interessare non solo
l’età adulta ma anche l’infanzia e l’adolescenza. Lo studio di quelle
condizioni che possono essere associate ad un’alterata densità e/o
qualità ossea, perciò, riveste particolare importanza dal momento che
le malattie metaboliche dell’osso possono essere particolarmente
invalidanti (Stagi et al., 2013; Stark et al., 2014; Cimaz, 2002). Tra
gli esempi di osteoporosi più frequenti sono quelle iatrogene, in particolare legate all’uso dei corticosteroidi. L’azione dei corticosteroidi
sull’osso si esplica mediante mutipli meccanismi, che sono esemplificati nella Figura 3. Quindi, compito del Curante o e/o dello Specialista è quello di porre diagnosi il più precocemente possibile, affinché
possano essere instaurati per tempo gli opportuni provvedimenti per
la terapia e/o la profilassi delle complicanze. La diagnosi, oltre che su
criteri clinici e/o laboratoristici, deve però sempre basarsi su un’accurata valutazione della densità minerale ossea mediante metodiche
densitometriche che, al contrario del comune esame radiografico,
permettono di individuare riduzioni del contenuto minerale osseo e/o
qualità ossea, anche di lieve entità, intorno al 3-4%. In generale, una
valutazione densitometrica, oltre che approfondimento ad un quesito
clinico o laboratoristico, dovrebbe essere effettuata in soggetti che
presentino importanti fattori di rischio (Tab. II).
158
Per le caratteristiche del turnover osseo, inoltre, l’esame densitometrico andrebbe effettuato all’inizio e ripetuto nel tempo per
valutare l’evoluzione; le variazioni del contenuto minerale osseo,
infatti, si realizzano piuttosto lentamente. Un ciclo di rimodellamento osseo richiede un periodo di 4-6 mesi, dal suo inizio al
suo completamento; per tale motivo la valutazione della densità
ossea ad intervalli inferiori ai 6 mesi ha scarso significato clinico
(Stagi et al., 2013; Stark et al., 2014; Cimaz, 2002). In generale,
per il follow-up di una condizione che si associa a riduzione della
densità ossea, è sufficiente una valutazione ogni 12 mesi, mentre una valutazione ogni sei mesi dovrebbe essere indicata nelle
forme rapidamente ingravescenti, come quelle derivanti dall’uso
di corticosteroidi o chemioterapici ad alte dosi, nei malassorbimenti intestinali o in situazioni di grave malnutrizione; oppure per
valutare l’effetto a breve termine sulla mineralizzazione ossea di
trattamenti farmacologici (bifosfonati, ormoni gonadici) (Stagi et
al., 2013; Stark et al., 2014; Cimaz, 2002).
Conclusioni
Una ridotta densità o qualità ossea può essere frequentemente diagnosticata in bambini ed adolescenti. Ciò può essere legato o aggravato da un insufficiente intake di calcio, ridotti livelli di vitamina D,
ed un ridotto tasso di attività fisica. Tale alterazione patologica della
Osteoporosi in età evolutiva
Tabella II.
Principali condizioni che possono causare un’alterata densità e/o qualità ossea in età evolutiva.
Malattie endocrine
Ipogonadismo
Sindrome da insensibilità agli estrogeni
Panipopituitarismo; deficit di GH
Ipertiroidismo
Sindrome di Cushing
Iperparatiroidismo primitivo
Sindrome di McCune Albright
Iatrogene
Corticosteroidi
Anticonvulsivanti
Analoghi del GnRH
L-tiroxina (dosi elevate)
Antiretrovirali
Anticoagulanti
Chemioterapici
Malattie genetico-metaboliche
Osteogenesi imperfetta
Omocistinuria
Sindrome di Marfan; Sindrome di Ehlers-Danlos
Sindrome di Menkes
Intolleranza alle proteine con lisinuria
Fenilchetonuria
Malattia di Gaucher
Fibrosi cistica
Cromosomopatie
Sindrome di Turner
Sindrome di Klinefelter
Sindromi da delezione cromosoma 22
Neoplasie maligne
Leucemia
Linfoma
Tumori solidi
Alterazioni nutrizionali
Anoressia nervosa
Intolleranza al latte
Carenza di calcio, rame, etc
Diete vegetariane
Malnutrizione
Carenza di vitamina C, K
Nutrizione parenterale totale
Sovrappeso/obesità
Altro
Immobilizzazione/scarso uso
Intensa attività fisica
Post-trapianto
Morbo di Paget giovanile
Malattie osteolitiche
Malattia di Rett
Osteoporosi idiopatica giovanile
Prematurità
Malattie infiammatorie croniche
Reumatiche (artrite giovanile idiopatica, lupus eritematoso sistemico,
dermatomiosite)
Renali (insufficienza renale cronica, acidosi tubulare renale, ipercalciuria
idiopatica)
Gastroenterologiche (MICI, epatopatie colestatiche)
Cardiache (insufficienza cardiaca congestizia)
Ematologiche (talassemia, emocromatosi ereditaria, emofilia A, anemia a
cellule falciformi)
Immunologiche (mastocitosi sistemica, sindr. da iper-IgE)
Box di orientamento
Cosa sapevamo prima
L’osteoporosi è stata a lungo considerata una malattia principalmente geriatrica. L’impatto di tale condizione è rilevante dal punto di vista sociale ed
economico, soprattutto in relazione alle fratture che ne conseguono.
Cosa sappiamo oggi
La prevenzione dell’osteoporosi riguarda anche e soprattutto l’età pediatrica, in quanto lo scheletro accumula sostanza ossea nelle prime due o tre
decadi di vita, quando viene raggiunto il picco di massa ossea.
Per la pratica clinica
Numerose condizioni patologiche hanno un impatto importante sulla salute ossea; ruolo del pediatra è anche quello di conoscere tali condizioni e seguire in maniera sistematica i soggetti a rischio con metodiche densitometriche adeguate e standardizzate. Una prevenzione e una terapia farmacologica
possono essere fondamentali nei casi che hanno sviluppato osteopenia o in coloro che sono a maggior rischio.
densità e della qualità ossea può essere primaria oppure rappresentare una complicanza di malattie croniche o dei trattamenti farmacologici effettuati. In ogni caso, poichè la maggior parte della massa
ossea viene raggiunta al termine della crescita longitudinale di un
individuo, la crescita dello scheletro durante l’infanzia e l’adolescenza è un fattore determinante della vita per il rischio di osteoporosi e
fratture in età adulta.
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Ruolo della tomografia computerizzata nella diagnostica e follow-up
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Corrispondenza
Rolando Cimaz, AOU Meyer, viale Pieraccini 24, 50139 Firenze. Tel. +39 055 5662924.
Email: [email protected]
160
Cardiologia Pediatrica
Torna in questo numero di Prospettive in Pediatria, dopo alcuni anni, la sezione dedicata alla Cardiologia Pediatrica.
Gli straordinari risultati ottenuti negli ultimi 30 anni nella diagnosi e nella terapia delle cardiopatie congenite hanno contribuito a ridurre drasticamente la mortalità neonatale e pediatrica di queste malformazioni, che nei centri altamente specializzati è attualmente inferiore al 5%.
In questo campo sono certamente da attendersi ulteriori nuovi progressi nelle strumentazioni diagnostiche, nelle tecniche e nei materiali
cardiochirurgici e interventistici finalizzati ad un ulteriore miglioramento dei risultati, ma è piuttosto evidente che al momento i contribuiti
più originali provengono dai settori che precedono e che seguono la fase diagnostica e curativa. In accordo a ciò, la sezione si apre con
una revisione completa della recente letteratura scientifica, seguita da un’articolo sulle cause genetiche delle cardiopatie e da una messa
a punto sul follow-up in età evolutiva e l’idoneità fisico-sportiva degli adolescenti con cardiopatia congenita.
Con il primo articolo Gianfranco Butera e i suoi collaboratori ci mettono a disposizione un’accurata ed esauriente revisione critica dei più
rilevanti contributi scientifici apparsi in letteratura negli ultimi 5 anni. Vengono riportate le novità riguardo la cardiologia fetale, la genetica, le
malattie pediatriche con coinvolgimento cardiaco, i bio-markers, l’imaging, l’emodinamica interventistica, la cardiochirurgia e le cardiopatie
congenite nell’adulto. Interessante, inoltre, l’ultimo paragrafo che riporta le recenti prospettive di terapie non convenzionali e innovative.
Nel secondo articolo Cristina Digilio presenta un’ampia e dettagliata revisione sulle cause genetiche a oggi conosciute delle cardiopatie
congenite. Si analizzano le cardiopatie in associazione a tutte le sindromi genetiche, sia quelle dovute a difetti cromosomici, incluse le microanomalie, che quelle dovute a mutazioni geniche. Vengono inoltre illustrate le anomalie genetiche rilevate anche nel sottogruppo numericamente significativo delle cardiopatie congenite sporadiche non sindromiche. Nel capitolo le varie cardiopatie sono inquadrate seguendo
la classificazione morfogenetica di Ed Clark, assai utile per inquadrare in termini di patogenesi i difetti congeniti cardiaci. Le implicazioni
cliniche delle recenti scoperte scientifiche nel campo della genetica sono quelle che più interessano il medico specialista e vengono in
questo articolo sottolineate in termini di classificazione, di diagnosi, di approccio multidisciplinare e di prognosi chirurgica.
Nel terzo articolo Berardo Sarubbi chiarisce quali sono le tendenze attuali della letteratura e delle società scientifiche al fine di facilitare
l’attività fisica ed eventualmente lo sport agonistico nei pazienti portatori di cardiopatia congenita in storia naturale o nel post-operatorio.
Visto che, come dicevamo, gli attuali risultati cardiochirurgici garantiscono, nei centri di alto livello una sopravvivenza nella grandissima
maggioranza dei pazienti con cardiopatie congenite, è importante ora concentrarsi anche sulla loro sopravvivenza a distanza, sulla loro
qualità di vita e sul loro inserimento sociale. L’attività fisica e sportiva è una componente fondamentale per il benessere fisico e psicologico
di tutta la popolazione, ma anche di questi pazienti cardiopatici, sia in età pediatrica evolutiva sia in età adolescenziale. Un accurato studio cardio-respiratorio è prerequisito essenziale per valutare le condizioni cardiache e la risposta allo sforzo e per rilasciare un’eventuale
idoneità alla attività ludico-addestrativa o alla attività sportivo-agonistica. Alcune linee guida basate sul tipo di cardiopatia e sull’intervento
eseguito sono al riguardo utilissime, ma, come Sarubbi ricorda nel suo articolo, solo una valutazione individuale del singolo soggetto potrà
portare a un’indicazione responsabile riguardo all’attività fisica e/o sportiva.
In conclusione questa sezione di Prospettive in Pediatria dedicata alla Cardiologia evidenzia problematiche importanti del settore e risulterà
utile per la conoscenza e per l’aggiornamento dei nostri lettori.
Bruno Marino
Dipartimento di Pediatria, La Sapienza, Roma
161
Luglio-Settembre 2014 • Vol. 44 • N. 175 • Pp. 162-172
CARDIOlogia pediatrica
News and updates in Cardiologia Pediatrica:
revisione della letteratura dal 2008 al 2013
Silvia Chiapedi, Savina Mannarino, Gianfranco Butera*
Cardiologia Pediatrica, Fondazione IRCCS Policlinio S. Matteo, Pavia; * Cardiologia pediatrica e cardiopatie congenite
dell’adulto, Policlinico San Donato IRCCS, San Donato Milanese
Sommario
I progressi scientifici hanno portato negli ultimi anni a considerare nuove prospettive diagnostiche e terapeutiche nell’ambito della Cardiologia Pediatrica
dall’epoca perinatale all’età adulta:
1 In epoca fetale è possibile uno screening cardiologico precoce già a partire dalla 12°-14° settimana. Le tecniche di interventistica fetale eseguite sotto
guida ecografica nel secondo trimestre di gravidanza hanno dato il via a tentativi di terapia in utero di alcune cardiopatie congenite.
2 I meccanismi genetici, epigenetici ed ambientali responsabili delle cardiopatie congenite sono ancora oggi poco conosciuti. Nuove avanzate tecniche
applicate allo studio della genetica hanno accelerato la scoperta di geni candidati e meccanismi patogenetici alla base di alcune cardiopatie congenite
sporadiche e delle più comuni modalità di presentazione.
3 La patologia cardiaca acquisita nella popolazione pediatrica si esplica con vecchi problemi e nuove emergenze: alla “vecchia” malattia reumatica non
ancora sconfitta si affiancano patologie croniche coronariche e secondarie a tossicità terapeutica nel paziente oncologico.
4 Le nuove tecniche di imaging non invasivo consentono uno studio più accurato del ventricolo destro grazie all’integrazione dei dati ottenuti da più metodiche.
5 Sono disponibili, i risultati di interessanti studi di follow-up in pazienti sottoposti ad interventi cardiochirurgici o a tecniche di cardiologia interventistica
nelle principali cardiopatie congenite.
6 Lo sviluppo della tecnologia ha portato all’applicazione in età pediatrica di nuovi device per l’assistenza ventricolare. Sono nate procedure ibride che
associano contemporaneamente tecniche cardiochirurgiche e interventistiche.
Summary
Scientific progress led in the last years to consider new diagnostic and therapeutic approaches in the field of pediatric cardiology from the perinatal age
to adulthood:
1 Thanks to the technological advancement of the ultrasound imaging systems, today it is possible to have early fetal cardiovascular imaging starting at
14 weeks. Through the development of minimally invasive techniques image-guided foetal interventional therapy may improve the outcome of some
congenital heart disease (CHD).
2 The precise genetic, epigenetic or environmental basis for CHD in humans remains poorly understood. The advent of contemporary genomic technologies
are accelerating the discovery of genetic causes of CHD. Importantly, these approaches enable study of sporadic cases, the most common presentation
of CHD.
3 The acquired heart disease in the pediatric population shows old problems and new emergencies: the not yet defeated “old” rheumatic disease alongside
with the acquired coronary disease and cardiovascular disease due to cardiotoxicity after childhood cancer.
4 Important progress in the fields of non-invasive imaging techniques allows a more careful study of the right ventricle.
5 Improvements of cardiac surgery and interventional catheterization results in the correction of complex cardiac defects: we present the results of interesting follow up studies.
6 Technical research brought to the development of a pediatric specific ventricular assist device. New hybrid procedures combine surgical and interventional techniques.
Introduzione
Lo scopo di questo articolo è dare ai lettori una overview ragionata
dei principali lavori della letteratura nel campo della cardiologia pediatrica nel periodo 2009-2014.
In particolare verranno affrontate le seguenti tematiche: cardiologia fetale, genetica, problematiche pediatriche con coinvolgimento
cardiologico, biomarkers, imaging non invasivo, emodinamica interventistica, cardiochirurgia, terapie ibride, cardiopatie congenite
dell’adulto, news.
Nel sottocapitolo “problematiche pediatriche con coinvolgimento
cardiologico” verranno riportati i lavori che riguardano il coinvolgimento cardiologico di patologie sistemiche quali Kawasaki e malattia reumatica, e quello secondario a trattamenti anti-tumorali.
162
Infine nel sottocapitolo “news” cercheremo di riportare i lavori più
innovativi che a nostro avviso aprono nuove possibili evoluzioni
nell’ambito della nostra specialità.
Metodologia della ricerca bibliografica
La ricerca bibliografica è stata effettuata tramite il sito internet
Pubmed (http://www.ncbi.nim.nih.gov/entrez) indicando parole
chiave riguardanti la cardiologia pediatrica: prenatal diagnosis of
CHD, fetal cardiac intervention, genetics of CHD, acquired heart disease in children, acquired coronary disease in children, biomarkers, echocardiography, cardiovascular imaging, cardiac surgery of
CHD, catheterization, hybrid procedures, pediatric ventricular assist
device.
Novità in cardiologia e cardiochirurgia pediatrica
Il periodo preso in considerazione è stato quello che va dall’1/1/2009
al 15/03/2014. La scelta degli articoli, pur essendo soggettiva, è stata guidata dall’importanza delle casistiche presentate.
Cardiologia Fetale
L’identificazione delle cardiopatie congenite nella vita fetale offre
molti vantaggi, tra cui un adeguato counseling familiare e la pianificazione del luogo della nascita in centri di terzo livello dove il neonato
può essere adeguatamente stabilizzato. I dati sui potenziali benefici
di una diagnosi prenatale in termini di mortalità e morbilità a distanza sono ancora controversi. Lo studio di Oster del 2014 dimostra
che sebbene non sia ancora possibile evidenziare chiaramente una
riduzione della mortalità postnatale, i neonati con diagnosi prenatale
ottengono una migliore stabilizzazione preoperatoria e una riduzione
di morbilità in termini di ipossiemia, acidosi metabolica e necessità
di supporto ventilatorio invasivo.
Un campo di interesse negli ultimi anni è rappresentato dai progressi tecnologici che hanno permesso di sviluppare nuove metodiche ecocardiografiche come l’imaging 3D e 4D. I vantaggi sono
principalmente rappresentati dalla possibilità di visualizzare l’immagine su più piani ortogonali, di ottenere piani non tradizionali su
scelta specifica dell’operatore e di trasmettere le immagini tramite
telemedicina da centri periferici a centri ad alta specializzazione. Il
valore aggiunto di questa metodica in termini di accuratezza diagnostica per alcuni difetti cardiaci mal visualizzabili all’esame 2D
sembra tuttavia ancora basso e quantificato intorno al 6%. Ulteriori
miglioramenti tecnologici permetteranno in futuro di aumentarne la
sensibilità diagnostica (Rogers et al., 2013).
Un’altra novità è rappresentata dalla possibilità di uno screening
cardiologico precoce, a partire dalla 12°-14° settimana di età gestazionale per via trans addominale. Tale metodologia d’esame è
attualmente applicata nelle donne ad alto rischio e in quelle con
storia di precedenti figli affetti da cardiopatie congenite. È stato dimostrato che un’ecografia precoce identifica la maggior parte delle
cardiopatie congenite complesse con un’alta specificità (96-98%) e
una buona sensibilità (70%). Esiste tuttavia la possibilità che alcune
cardiopatie sfuggano alla diagnosi precoce sia per la loro evolutività
sia per le loro caratteristiche (difetti interventricolari anche ampi,
anomalie dell’arco aortico e coartazione aortica, tetralogia di Fallot,
stenosi della polmonare, canali atrioventricolari parziali e ritorno venoso anomalo totale). Per tale motivo l’esame deve essere comunque ripetuto tra la 18° e la 22° settimana (ecografia convenzionale).
In futuro l’aumentata richiesta di effettuare uno screening precoce,
potenzialmente estendibile a tutta la popolazione, renderà necessario il miglioramento della capacità diagnostica dei singoli operatori
nonché lo sviluppo e la diffusione di apparecchi ecografici con tecnologia adeguata.
Lo studio più accurato dell’evoluzione delle cardiopatie congenite ha
dato da tempo l’avvio a nuove procedure terapeutiche in utero. Alcuni recenti articoli descrivono lo stato dell’arte sull’utilizzo di tecniche
di interventistica fetale. Esse vengono eseguite sotto guida ecografica per via percutanea nel secondo trimestre di gravidanza, con puntura dell’addome e dell’utero materno e accesso diretto al ventricolo
sinistro o destro del feto per via transtoracica. Come ben illustrato
dagli articoli del gruppo di Boston (McElhinney et al 2010) e del
gruppo di Parigi (VanAerschot et al., 2011) l’intento è mirato a prevenire cambiamenti irreversibili strutturali secondari al ridotto flusso
nelle cardiopatie a prognosi molto severa. Le tre indicazioni attualmente accettate includono la valvuloplastica aortica con palloncino
per la prevenzione dello sviluppo del cuore sinistro ipoplasico, la
valvuloplastica dell’arteria polmonare per la prevenzione del cuore
destro ipoplasico e l’atriosettostomia con palloncino per migliorare
l’outcome nei pazienti con cuore sinistro ipoplasico e setto interatriale intatto o altamente restrittivo. Il rischio di morte fetale legato
alla procedura, stimato tra il 5,5 e il 6,5%, sebbene non sia trascurabile è eticamente accettato poichè comunque inferiore al rischio
di morte naturale pre- e post-natale. Altre complicanze sono una
combinazione di bradicardia e disfunzione ventricolare di severità
variabile, l’emopericardio e il parto prematuro. A questo proposito un
promettente approccio interventistico sembra essere il cateterismo
cardiaco anterogrado per via transepatica che permette di accedere
alla porzione sottodiaframmatica dei vasi fetali evitando la puntura
ventricolare. Attualmente applicato nei feti di pecora, ha mostrato un
ridotto rischio di complicanze (Boudjemline et al., 2010). La procedura prenatale infine non può essere considerata risolutiva, poiché
tutti i neonati dopo la nascita necessiteranno di altre procedure e/o
interventi di correzione. McElhinney nel 2010 sottolinea l’importanza di definire precisi criteri ecocardiografici in grado di identificare
i feti che più probabilmente otterranno un beneficio postnatale da
queste metodiche. Un esempio è rappresentato dalla valvuloplastica
aortica poichè, nonostante il successo della procedura, è talora difficile prevedere se dopo la nascita il neonato andrà incontro a una
correzione di tipo bi ventricolare o univentricolare. Ad ogni modo, gli
sviluppi futuri della terapia interventistica fetale potranno portare ad
una riduzione della mortalità e morbilità di neonati considerati fino a
poco tempo fa incurabili.
Genetica delle cardiopatie congenite
Le cardiopatie congenite rappresentano l’anomalia congenita più
comune nei neonati. Nonostante siano state studiate attraverso modelli sperimentali animali e studi di embriologia sulla differenziazione e la morfogenesi cardiaca, restano ancora poco conosciuti i
meccanismi genetici, epigenetici o su base ambientale responsabili
di tali malformazioni. Per lo studio dei geni candidati, nei decenni
precedenti le ricerche si sono concentrate sulle rare famiglie in cui
era evidente una trasmissione mendeliana. Mutazioni familiari possono essere trasmesse in forma autosomica dominante, recessiva
o X-linked ma esprimersi con un’ elevata variabilità sia clinica che
di penetranza. Questo documenta l’elevata eterogeneità genetica
delle cardiopatie congenite. Due sono i concetti principali: mutazioni in geni diversi possono causare un’identica malformazione,
poiché esiste una grande interdipendenza delle molecole coinvolte nello sviluppo cardiaco; un’identica mutazione genetica può per
contro generare malformazioni cardiache diverse, poiché influenze
dell’ambiente materno-fetale, della biomeccanica cardiaca o di altri
fattori possono modificarne l’espressione. Questa interessante review di Fahed et al., 2013 descrive nel dettaglio lo stato dell’arte
e sottolinea come l’avvento di nuove tecnologie di genomica quali
‘SNP arrays’, ‘next-generation sequencing’ e ‘CNV platforms’ sia in
grado di ampliare le nostre conoscenze sulla complessa architettura
genetica delle cardiopatie anche quando si manifestano in forma
sporadica.
La tetralogia di Fallot (TOF) è la più comune malformazione congenita severa del cuore. Nel 70% dei casi si presenta sporadicamente,
non associata ad altre anomalie e senza una causa apparente. Nel
15% e nel 7% dei casi invece si associa rispettivamente a microdelezione del cromosoma 22q11.2 (sindrome di DiGeorge) e a trisomia
21 (sindrome di Down). In tali casi la cardiopatia è frequentemente
associata ad altre multiple anomalie non cardiache. Una percentuale di TOF può presentarsi inoltre nel contesto di infezioni prenatali,
163
S. Chiapedi, S. Mannarino, G. Butera
esposizione a teratogeni, malattie materne quali il diabete. Possono
essere responsabili di tale cardiopatia anche mutazioni, trasmesse con modalità dominante, che alterano il dosaggio di un gene:
l’aploinsufficienza di geni che codificano per fattori di trascrizione
cardiaci (NKX2.5, TBX1, TBX5, GATA4 ZFMP2/FOG2 FOXH1) o di geni
coinvolti nei segnali di trasduzione (NOTCH1, JAG1) CFC1, TDGF1,
GDF1 e NODAL1 possono causare TOF. Tuttavia, più comunemente,
mutazioni in questi geni producono anche altre malformazioni cardiache.
Un interessante studio di Greenway et al. pubblicato nel 2009, partendo dall’ipotesi che mutazioni de novo in grado di alterare il dosaggio di geni coinvolti nello sviluppo cardiaco, possano spiegare
forme isolate non sindromi che di TOF, ha analizzato attraverso un
“genome-wide survey” 114 soggetti con TOF non sindromica e i
loro genitori sani. Tale metodica ha permesso di scoprire 11 “de
novo copy number variants (CNVs)” assenti o estremamente rare
(< 0,1%) in 2.265 controlli. Questa metodica evidenzia microdelezioni e microduplicazioni non rilevabili con le metodiche standard.
Nell’1% (p = 0,0002, OR = 22,3) dei casi sporadici non sindromici
di TOF sono stati identificati CNVs a livello del cromosoma 1q21.1.
Altri cromosomi in cui ricorrevano CNVs erano: 3p25.1, 7p21.3 e
22q11.2. In un singolo caso di TOF CNVs erano presenti contemporaneamente in sei loci, due dei quali codificavano geni noti per tale
malattia (NOTCH1, JAG1). In sintesi il lavoro ha rivelato microalterazioni genetiche in circa il 10% dei casi di TOF sporadica non sindromica e ha definito sette nuovi loci che aumentano notevolmente il
rischio per TOF sporadica, non sindromica (odds ratio ≥ 8,9). Alcuni
di tali loci sono grandi (> 100 kb) e tre loci hanno penetranza incompleta. Infine questo studio ha aperto la strada alla scoperta di
mutazioni in alcuni geni responsabili di casi sporadici di TOF. De
Luca et al. nel 2011 ha individuato una nuova mutazione nel gene
ZFPM2/FOG2 sia in casi di TOF che di doppia uscita da ventricolo destro e una mutazione missenso (Arg25Cys) nel gene NKX2.5.
Valentina Guida et al. nel 2011 ha dimostrato il coinvolgimento del
gene JAG1 e nel 2013 ha identificato un altro gene candidato: il
gene GJA5 che codifica una proteina cardiaca a livello delle gap junction (connessina 40) localizzato sul cromosoma 1q21.1 Tutti questi
studi confermano ancora una volta la grande eterogeneità genetica
di questa grave malformazione cardiaca.
Un altro interessante studio di Versacci et al., 2011 riguarda la trasposizione dei grossi vasi (TGA), cardiopatia caratterizzata da discordanza ventricolo arteriosa (l’aorta origina dal ventricolo destro e
la polmonare dal ventricolo sinistro). In tale cardiopatia i due vasi di
efflusso decorrono paralleli senza segni di spiralizzazione. Normalmente la TGA veniva classificata come un difetto troncoconale ma
studi recenti suggeriscono di includerla nelle anomalie della lateralizzazione. Nel cuore la morfologia normale è frutto di complessi fenomeni di rotazioni e spiralizzazioni dei segmenti cardiaci e dei relativi campi cardiaci. Questi fenomeni sono regolati da numerosi geni,
solo in parte noti. La simmetria sinistro-destra degli organi interni
è una caratteristica fondamentale non solo dell’uomo, ma anche di
molti animali inclusi i vertebrati. Nell’uomo alterazioni di queste simmetrie determinano cardiopatie congenite molto severe e associate
ad altri difetti extracardiaci, come le eterotassie con asplenia (isomerismo destro) o con polisplenia (isomerismo sinistro). Partendo
dall’osservazione dei casi di eterotassia, gli Autori hanno notato similitudini fenotipiche tra il pattern spirale normale del cuore umano,
destro-ruotato (D-loop embriologico) e quello della maggior parte
delle conchiglie che presentano un guscio al pari destro-ruotato.
Pazienti con situs inversus mostrano un pattern sinistro-ruotato dei
grossi vasi come in una minoranza di queste conchiglie. Le analogie
164
tra il cuore umano e il guscio delle conchiglie hanno suggerito un
meccanismo genetico comune ad entrambi, che coinvolge “Nodal”,
gene architetto che sovrintende la spiralizzazione. Tale gene è un
“transcription growth factor” della famiglia del TGF-ß. Negli uomini
sono state identificate mutazioni del gene Nodal non solo in bambini
con eterotassia, ma anche in quelli con forme sporadiche e familiari
di TGA. Questi autori hanno mostrato che l’inibizione farmacologica
del pathway Nodal produce nelle conchiglie gusci non spiralizzati
che ricordano il fenotipo non spirale delle grosse arterie nella TGA.
Questo supporterebbe l’ipotesi di inserire questa cardiopatia nei difetti di lateralizzazione.
Problematiche pediatriche con coinvolgimento
cardiologico
La patologia cardiaca acquisita nella popolazione pediatrica si esplica con vecchi problemi e nuove emergenze. Alla “vecchia” malattia
reumatica, non ancora sconfitta ma sempre in auge per la variabilità
di presentazione, si affiancano le patologie da lesioni coronariche
acquisite o da cardiotossicità nel paziente pediatrico oncologico sopravvissuto.
La malattia reumatica resta una delle principali patologie prevenibili
nel mondo e a tutt’oggi una delle maggiori cause di morte nei paesi in via di sviluppo e sporadicamente nei paesi industrializzati. La
cardite reumatica è target di programmi di screening storicamente
affidati al riscontro di soffio cardiaco. Nell’ultimo decennio si è reso
evidente che l’utilizzo della sola auscultazione sottostima la prevalenza di malattia ed è nato il concetto di cardite reumatica subclinica, caratterizzata dalla presenza di anomalie ecocardiografiche
strutturali o funzionali in assenza di soffio cardiaco patologico. Grazie allo sviluppo e alla diffusione negli ultimi 5 anni di ecocardiografi
portatili, gli sforzi attuali sono volti a identificare tramite protocolli
“fast” le forme subcliniche delineando nuovi criteri standardizzati diagnostici e di screening. (Roberts et al., 2012; Remenjii et al.,
2013; Marijon et al., 2012). La World Heart Federation ha pubblicato
nel 2012 precisi criteri diagnostici ecocardiografici da valutare in
associazione ai dati clinico-anamnestici del singolo paziente ed ai
dati epidemiologici. Il ruolo prognostico delle lesioni valvolari silenti
resta tuttavia un problema aperto poiché sono necessari studi che
dimostrino che tali lesioni evolveranno in patologia conclamata in
assenza di profilassi secondaria. (Reményi B et al., 2012)
La patologia coronarica acquisita, tipica dell’età adulta, ha un impatto sempre crescente anche all’interno della popolazione pediatrica.
La malattia di Kawasaki rappresenta la prima causa di lesione acquisita coronarica con un’incidenza nei pazienti affetti attualmente
intorno al 2-4%: questa popolazione è ad alto rischio di patologia
ischemica e richiede follow-up per tutta la vita. (Eleftheriou D et al.,
2013). Nuove tecniche ecocardiografiche (strain, speckle tracking),
da affiancare alla più tradizionale ecocardiografia del tratto prossimale delle coronarie, hanno migliorato l’approccio allo studio della
funzione miocardica. La necessità di follow-up è evidente nei pazienti con aneurismi giganti ad alto rischio di stenosi e occlusione,
mentre meno chiaro è il protocollo per seguire l’outcome di tutti
gli altri pazienti (aneurismi di piccole/medie dimensioni, aneurismi
che vanno incontro a regressione e pazienti senza coinvolgimento
coronarico in acuto) poiché infiammazione subclinica, ispessimento
dell’intima e altri fattori quali l’alterazione del profilo lipidico possono aumentare il rischio di patologia cardiovascolare ed aterosclerosi
in età adulta. (Manhliot et al., 2013) Interessante il dato riportato
da Daniels nel 2012: tra i giovani adulti sotto i 40 anni sottoposti
Novità in cardiologia e cardiochirurgia pediatrica
a coronarografia per sospetto infarto miocardico: una percentuale del 5% presentava aneurismi correlati a malattia di Kawasaki.
Nell’ambito delle cardiopatie congenite lo studio delle coronarie è
particolarmente utile in pazienti sottoposti ad intervento di correzione di trasposizione dei grossi vasi con switch arterioso che prevede
il reimpianto delle arterie coronarie. Sebbene le complicanze coronariche siano più frequenti entro il primo anno dalla procedura, nel
3-10% dei casi possono comparire lesioni tardive, causa anche di
morte improvvisa. Un potenziale rischio di compressione coronarica
è inoltre presente in pazienti che necessitano procedure interventistiche sul tratto di efflusso del ventricolo destro (come ad es. la
sostituzione percutanea della valvola polmonare). La vasculopatia
coronarica post-trapianto, caratterizzata da una proliferazione concentrica dell’intima che ostruisce diffusamente il lume del vaso, è
la causa più comune di rigetto nei bambini sottoposti a trapianto
cardiaco. La diagnosi di questa complicanza è molto difficile poiché
la denervazione simpatica impedisce l’espressione dei classici sintomi anginosi. Il suo precoce riconoscimento è fondamentale per un
adeguato regime immunospressivo.
Tradizionalmente lo studio della patologia coronarica si avvaleva della sola angiografia. Di estrema attualità la ricerca e il potenziamento
di metodiche di imaging non invasive: un interessante lavoro (Ou et
al., 2013), discute il ruolo complementare di Topografia Computerizzata (TC) e Risonanza Magnetica Nucleare (RMN). Tali metodiche
permettono di studiare con maggior accuratezza il decorso dei vasi
in relazione alle strutture adiacenti e grazie alle ricostruzioni tridimensionali forniscono dati aggiuntivi sul potenziale meccanismo di
compromissione coronarica. La TC ha inoltre elevato valore predittivo negativo e fornisce un’ottima valutazione del lume coronarico. La
RMN ha il vantaggio di non esporre il bambino a radiazioni e fornisce
dati funzionali complementari a quelli anatomici che possono indirizzare le decisioni terapeutiche. La scarsa compliance in bambini
di età < 5-7 anni, che a volte necessitano di terapia betabloccante
per ridurre l’elevata frequenza cardiaca, costituisce ancora oggi un
limite alla piena applicazione di tale imaging.
Tra i problemi emergenti nell’ambito della patologia cardiaca acquisita ha sempre maggior rilievo quella oncologica pediatrica, poiché il miglioramento delle cure ha aumentato la sopravvivenza ma
ha svelato gli effetti a lungo termine delle terapie cardiotossiche.
L’incidenza di patologia cardiaca acquisita in questa popolazione è
significativamente maggiore rispetto alla popolazione generale. Nei
30 anni successivi alla diagnosi più del 7% di loro svilupperà uno
scompenso cardiocircolatorio. (Harake D et al., 2012).
I meccanismi patogenetici legati allo sviluppo di cardiomiopatia
dilatativa da tossicità da antracicline non sono ancora oggi completamente chiariti. Oltre al dimostrato effetto cumulativo dose
dipendente sono emersi altri fattori predittivi negativi: minore età
all’inizio del trattamento, durata dello stesso, sesso femminile, comparsa di scompenso o rialzo dei valori di Troponina T o proNTBNP
in corso di terapia. Al contrario il pretrattamento con dexrazoxano,
agente chelante il ferro, il cui impiego è approvato nella popolazione
adulta, sembra avere un effetto protettivo. L’utilizzo di biomarkers
e di markers ecocardiografici può aiutare nel monitoraggio clinico
e nella diagnosi precoce di disfunzione cardiaca e permettere un
trattamento farmacologico in fase preclinica. I farmaci attualmente
in uso sono i betabloccanti e gli ACE-inibitori. Il carvedilolo, antagonista beta-adrenergico con effetto vasodilatatore è un potente antiossidante, Captopril ed Enalapril sono utilizzati come coadiuvanti
per ridurre lo stress ossidativo da chemioterapia e la produzione
di radicali liberi e per bloccare l’attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone. (Lipshultz e Adams, 2014). Negli ultimi anni
si è chiarito il ruolo di altri agenti cardiotossici: lo studio di Tukenova ha dimostrato che anche dosi radianti inferiori a 35-40 Gy a
livello mediastinico (es. linfoma di Hodgking) sono associate ad un
aumento della mortalità. La terapia radiante induce più frequentemente una cardiomiopatia di tipo restrittivo, tipicamente associata a
disfunzione diastolica piuttosto che sistolica del ventricolo sinistro.
È segnalata anche una maggiore incidenza di interessamento coronarico. Farmaci antitumorali come gli inibitori delle tirosin chinasi,
sempre più in uso in età pediatrica, esercitano un effetto cardiotossico potenzialmente reversibile con meccanismo differente rispetto
alle antracicline. Reversibile è anche la cardiotossicità indotta dalla
carenza di vitamina D o deficit di ormoni tiroidei, sessuali e della
crescita. Esiste una risposta individuale verosimilmente genetica/
epigenetica allo sviluppo di cardiotossicità. Nelle forme progressive
il trapianto cardiaco, unica opzione terapeutica, mostra un outcome
simile a quello dei pazienti senza storia di patologia tumorale ma a
tutt’oggi non esistono ancora linee guida per la selezione dei pazienti. In questa popolazione pediatrica in crescita, esiste infine un
rischio aggiuntivo cardiovascolare legato all’inattività fisica e allo
sviluppo di sindrome metabolica con accelerazione dei fenomeni di
aterosclerosi, dislipidemia (es. ipertrigliceridemia durante terapia
con Asparaginasi), disfunzione endoteliale (iperomocistinemia associata a terapia con metotrexate), insulino-resistenza, ipertensione.
Biomarkers
Nell’adulto il dosaggio di biomarkers quali BNP e proNT-BNP (frammento N-terminale del pro-ormone) è affiancato routinariamente alla
valutazione clinica per la diagnosi, la prognosi e la terapia delle malattie cardiologiche. Più esigui sono i dati relativi a popolazioni pediatriche. Un recente lavoro di Cantinotti pubblicato nel 2014 descrive il
ruolo di questi biomarkers nel bambino con cardiopatia congenita o
acquisita. In età pediatrica i valori normali variano con l’età: sono infatti molto alti nei primi 4 giorni di vita, diminuiscono progressivamente
nel primo mese e restano stabili fino a 12 anni; dopo i 14 anni esistono differenze legate al sesso probabilmente per effetto degli ormoni
steroidei. Anche condizioni non esclusivamente cardiologiche possono
determinare dosaggi più elevati: in epoca neonatale gemellarità, diabete gestazionale, IUGR e prematurità; nelle età successive disordini
endocrino-metabolici, patologie renali, epatiche ed infezioni. Tuttavia
è dimostrato che in ambito cardiologico pediatrico, il loro dosaggio è
utile come fattore predittivo di severità in diverse condizioni patologiche e per il monitoraggio della risposta terapeutica. Nelle cardiopatie
con sovraccarico di volume i valori correlano positivamente con l’entità dello shunt sinistro-destro, (utili ad esempio nell’indicazione alla
chiusura del Dotto di Botallo specie nei prematuri) e con il volume
tele-diastolico del ventricolo sinistro. I biomarkers sono inoltre influenzati dall’aumento della pressione in arteria polmonare e/o delle resistenze vascolari polmonari. BNP e proBNP sono più elevati in caso di
cardiopatie congenite complesse rispetto ai difetti semplici, in quelle
con impegno ventricolare sinistro (sovraccarico di volume o pressione)
rispetto all’impegno ventricolare destro e nei pazienti operati di Fontan
classica rispetto a quelli con connessione cavo-polmonare totale. Più
incerto il significato nel cuore univentricolare se morfologicamente
destro o sinistro. Nei pazienti operati di tetralogia di Fallot fornisce
un’informazione aggiuntiva per la correzione dell’ insufficienza della
valvola polmonare in presenza di dilatazione del ventricolo destro. Anche nei pazienti cardiopatici congeniti adulti i livelli di BNP e proBNP a
seconda del tipo di difetto, correlano con i parametri ecocardiografici
e la capacità all’esercizio fisico. (Jannet et al., 2012) Il dosaggio dei
biomarkers è molto utile nelle cardiomiopatie; esiste infatti una forte
165
S. Chiapedi, S. Mannarino, G. Butera
correlazione con la riduzione della frazione di eiezione, la dilatazione
del ventricolo sinistro e l’alterata funzione diastolica. Raggiungono valori molto elevati nelle forme dilatative e risultano un indice predittivo
di severità nelle forme ipertrofiche indipendentemente dai parametri
ecocardiografici. Ormai è riconosciuto il loro ruolo nel monitoraggio
della tossicità da doxorubicina nel paziente oncologico e in quello
talassemico con patologia da sovraccarico marziale. Studi recenti
suggeriscono infine un ruolo prognostico del BNP nel paziente sottoposto a intervento cardochirurgico: esso correla con la durata della
ventilazione meccanica, la degenza in terapia intensiva, la necessità
di supporto con inotropi (Aĝirbaşli e Undar, 2012).
Imaging non-invasivo
Lo studio del ventricolo destro è spesso difficoltoso data la particolare
anatomia tridimensionale di tale camera cardiaca. Durante gli ultimi
anni, la struttura e la funzione ventricolare destra si sono dimostrate
essere un’ importante determinante degli outcomes in diverse malattie
cardiovascolari e polmonari. Inoltre la fisiologia restrittiva del ventricolo destro rappresenta un dato frequente nei soggetti con tetralogia di
Fallot. Le caratteristiche del riempimemto ventricolare destro possono
influenzare il riempimento ventricolare sinistro. Ahmad e coll (Ahmad
et al., 2012) hanno dimostrato questo dato mediante analisi ecocardiografica di 112 pazienti con tetralogia di Fallot. In un ampio lavoro di
review Valsangiacomo e Mertens (2012) riportano come attualmente
l’integrazione dei dati ottenute con varie techniche ecocardiografiche,
con la tomografia computerizzata multistrato e la risonanza magnetica cardiaca permettono di ottenere molte utili informazioni per la
valutazione del ventricolo destro.
La disfunzione ventricolare sinistra rappresenta un fattore di rischio
importante associato con evoluzione clinica sfavorevole nei pazienti
con tetralogia di Fallot. La torsione e lo strain del ventricolo sinistro rappresentano due metodiche ecocardiografiche per studiare in
modo più approfondito la funzione ventricolare sinistra. Un gruppo di
29 pazienti con tetralogia di Fallot (Takayasu et al., 2011) presentava
significative anomalie della torsion e dello strain, segni di una precoce anomalia della funzione ventricolare sinistra anche in pazienti
senza segni di insufficienza cardiaca. Kirkpatrick (Kirkpatrick 2014)
ha invece riportato una interessantissima review sull’utilità dell’ecocardiografia nell’ipertensione arteriosa in età pediatrica. In particolare l’autore discute le diverse tecniche disponibili, i vantaggi ed
i limiti della metodica. Infine, Taylor et al. (2014) hanno confrontato
l’accuratezza della risonanza magnetica post-mortem con l’autopsia
convenzionale in 400 feti e bambini morti. La sensibilità e specificità per le patologie cardiovascolare erano rispettivamente 72,7%
(95% CI 58,2-83,7) e 96,2% (95% CI 93,5-97,8). Allo scopo di individuare anomalie cardiologiche tale metodica rappresenta una valida
alternativa all’autopsia convenzionale in feti e bambini. Altri studi
riguardanti in particolare la RMN ed il follow-up di varie cardiopatie
congenite sono riportati in altri capitoli.
Cardiologia interventistica
Negli ultimi anni l’emodinamica interventistica ha guadagnato uno
spazio sempre maggiore nel trattamento di particolari difetti congeniti, quali l’impianto transcatetere della valvola polmonare, la coartazione aortica e i difetti interatriali. Numerose sono le pubblicazioni
sui risultati a medio e lungo termine di tali procedure. Compaiono
inoltre nuove indicazioni all’utilizzo di stent nei bambini più piccoli
con cardiopatie congenite complesse.
166
Impianto trans catetere di valvola polmonare: l’insufficienza polmonare residua è una complicanza relativamente frequente nelle
correzioni di cardiopatie con ostacolo/atresia del tratto di efflusso
del ventricolo destro (es. tetralogia di Fallot, atresia polmonare con
DIV, truncus arteriosus) e comporta negli anni lo sviluppo di una
disfunzione ventricolare destra. È pertanto possibile che si renda
necessario in età postpuberale un secondo intervento di correzione.
L’impianto trans catetere di valvola polmonare rappresenta una tecnica di recente introduzione nella pratica clinica.
I risultati del primo studio multicentrico prospettico che ha coinvolto
5 centri americani vengono presentati nel lavoro di Mc Elhinney et al.
Dal gennaio 2007 all’agosto 2009, 124 pazienti di età media 19 anni
sono stati sottoposti a cateterismo per impianto di valvola polmonare
Melody. A un follow up medio di circa un anno i risultati mostravano
che più del 90% dei pazienti aveva una valvola ben funzionante senza
necessità di reintervento; il rigurgito polmonare era assente o al massimo residuava di grado lieve. Fattori di rischio per re-intervento erano
rappresentati da un più alto gradiente residuo post-procedurale, da
mancanza di pre-stenting e da una minore età del paziente al momento della procedura. Dati simili sono stati inoltre riportati anche in una
recente casistica italiana (Butera et al., 2013). Le problematiche principali ancora aperte sono rappresentate dal rischio di compressione
coronarica dovuta allo stent, dalla frattura dello stent nel follow-up e
dall’endocardite batterica. Le prime due complicanze sono quasi sempre prevenibili con una corretta tecnica di valutazione pre-impianto e
con la preparazione dell’area in cui deve essere impiantata la valvola
polmonare mediante pre-stenting. Il rischio di sviluppo di endocardite batterica dopo impianto di Melody è stato valutato da uno studio
prospettico multicentrico che ha coinvolto 311 pazienti in 3 maggiori
trials americani (McElhinney et al., 2013). L’endocardite batterica era
diagnosticata come forma ad esordio subacuto da 50 giorni a 4,7 anni
dall’impianto (mediana 1.3 anni). La frequenza di un primo episodio
di endocardite si attestava al 2,4% per anno per paziente ed era più
probabilmente correlato all’impianto solo nello 0,88% dei casi. Di tutti
i pazienti trattati con antibioticoterapia per via endovenosa 4 avevano necessitato dell’espianto valvolare, 2 erano stati sottoposti a un
secondo reimpianto, 2 avevano sviluppato endocarditi ricorrenti e 2
pazienti erano deceduti.
La coartazione aortica costituisce circa il 7% di tutte le cardiopatie congenite conosciute e lo 0,04 % di tutti i nati vivi: presenta
un’ampia variabilità clinica ed anatomica (lesione discreta fino a
severa ipoplasia dell’arco). Nelle forme complesse e nei primi anni
di vita la correzione è chirurgica mentre nelle forme native dall’età preadolescenziale e nelle ricoartazioni si utilizza l’angioplastica
con palloncino, associata eventualmente a posizionamento di stent
o covered-stent. Il rischio di ricoartazione postchirugica (5-20% dei
casi) ha portato nell’ultimo ventennio all’utilizzo dell’angioplastica
con palloncino come terapia di prima scelta nelle ricoartazioni e
nelle coartazioni native nella preadolescenza. Nonostante i buoni
risultati a breve termine di questa metodica, recentemente si sono
utilizzati stent che supportano la parete del vaso dopo la dilatazione
e riducono il rischio di restenosi e lacerazione dell’intima. Quando
possibile (adeguato diametro dei segmenti prestenotici) si utilizzano
covered stent che evitano la formazione di aneurismi a distanza.
Un recente lavoro di Ringel et al. (2013) riporta i risultati a breve
termine (dalla dimissione a un mese dalla procedura) dello studio
multicentrico COAST sull’utilizzo degli stent Cheatam-Platinum. Nei
105 pazienti (con peso non inferiore a 35 Kg) sottoposti a posizionamento di stent, non si sono verificati eventi fatali o complicanze
serie. Solo nel 6% dei casi si è sviluppata ipertensione paradossa. In
passato l’applicazione di covered-stent era limitata ai casi di aneu-
Novità in cardiologia e cardiochirurgia pediatrica
rismi aortici, di lunghi segmenti stenotici, di malattie infiammatorie
e in caso di rottura di stent non ricoperti. Una recente review di
Butera et al. (2012) estende il loro utilizzo anche ai pazienti a partire
dai 20 Kg. Nell’ esperienza di questo Centro complicanze quali occlusioni dell’ostio della succlavia sinistra (vaso molto vicino all’area
di coartazione) si sono verificate raramente (solo 2 casi su 200),
senza conseguenze cliniche. Non ci sono stati casi di migrazione
dello stent. Infine in letteratura è stato segnalato un solo caso di
neoproliferazione intimale dello stent ricoperto. Analoghi dati sono
stati riportati da Qureshi et al. (Sadiq et al., 2013). In questo lavoro
i dati di follow up (medio 45,9 ± 3,9 mesi) hanno mostrato nei 57
pazienti trattati in età adolescenziale un significativo miglioramento
della tolleranza all’esercizio, l’assenza di formazione di aneurismi
e/o fratture dello stent e/o dissecazioni dell’aorta e una stabile riduzione della pressione arteriosa. Solo in 6 pazienti si è verificata una
lieve ricoartazione senza indicazione al reintervento. Tutti questi dati
supportano l’utilizzo dei covered stent spesso come prima scelta nel
trattamento interventistico della coartazione aortica.
Il difetto interatriale ostium secundum rappresenta la più frequente
cardiopatia congenita, rappresentandone circa il 10%. La chiusura
transcatetere dei difetti interatriali ostium secundum è una tecnica
ormai entrata nella pratica clinica quotidiana, poiché circa il 90% di
questi difetti può essere chiuso per via percutanea. Il device più utilizzato e per il quale esiste la maggiore esperienza è rappresentato
dall’occlusore di Amplatzer. Di recente è stato segnalato un rischio di
erosione delle pareti cardiache causata da questo device, (1 caso su
circa 1-2000 impianti) con comparsa di versamento pericardico fino
al possibile tamponamento cardiaco. Tale evenienza sembrerebbe
legata all’utilizzo di device di misura superiore rispetto a quella stimata con lo stop-flow e a difetti caratterizzati dall’assenza del bordo
aortico (Amin Z, 2014). La chiusura chirurgica dei difetti interatriali,
alternativa all’impianto dei device, non è comunque scevra da rischi.
Una recente meta-analisi e review sistematica (Butera et al., 2011)
ha analizzato gli studi di confronto tra le due tecniche. Tredici studi
sono stati inclusi per un totale di 3082 pazienti. Nel gruppo chirurgico è stato riportato un caso di decesso (0,08%; 95% C.I. 0-0,23%) e
una maggiore incidenza di complicanze maggiori (adjusted OR: 5,4
(95% CI 2,96-9,84; p < 0,0001) e totali (adjusted OR: 3,81 (95% CI
2,7-5,36; p = 0,006).
Altre applicazioni di cardiologia interventistica: le tecniche di emodinamica interventistica rappresentano sempre più una valida opzione
terapeutica per la cura delle cardiopatie congenite anche nei bambini più piccoli. L’utilizzo dello stent del tratto di efflusso del ventricolo
destro riguarda le cardiopatie congenite caratterizzate da normale
emergenza dei vasi arteriosi, difetto interventricolare e severo restringimento del tratto di efflusso tale da determinare o una significativa
desaturazione o una dotto-dipendenza del circolo polmonare. Inizialmente applicato a neonati di peso molto basso (shunt chirurgico ad
alto rischio) o a pazienti cardiopatici con severe comorbidità, il suo
utilizzo si è ampliato. Il gruppo di Birmingham (Stumper et al., 2013)
ha pubblicato recentemente i dati di 52 pazienti raccolti dal 2005 al
2012 sottoposti a stenting del tratto di efflusso del ventricolo destro.
I pazienti hanno mostrato un incremento medio della saturazione di
ossigeno dal 71 al 92% al termine della procedura, non sono stati segnalati casi di aritmie ventricolari, blocco atrio-ventricolare, rigurgito
aortico, ischemia miocardica da interessamento coronarico. La mortalità precoce è stata dell’1,9% (perforazione dell’arteria polmonare)
e nel 5,7% dei casi è stato necessario ricorrere a chirurgia palliativa
precoce (shunt di Blalock-Taussig). In 29/52 pazienti si è potuto ritardare la chirurgia riparativa,che in 26 casi è stata una completa riparazione. Questa metodica è stata utilizzata anche in neonati di peso infe-
riore a 3 Kg e i risultati incoraggianti sono uno stimolo per lo sviluppo
di nuovi kit interventistici disegnati su misura per neonati e prematuri
Cardiochirurgia
Riportiamo in questa sezione i più recenti articoli di metanalisi e
follow up sulle principali cardiopatie congenite.
Cuore sinistro ipoplasico: le cardiopatie caratterizzate da un ventricolo unico e ostruzione all’efflusso sinistro come il cuore sinistro
ipoplasico sono ancora gravate da un’elevata mortalità. Un importante studio multicentrico americano pubblicato nel 2010 da Ohye
et al. confronta in più di 500 neonati, i due interventi chirurgici utilizzati per garantire il flusso polmonare nel primo stadio di palliazione.
La tecnica di shunt sistemico-polmonare di Blalock-Taussig (MBT)
rispetto a quella che utilizza un condotto ventricolo destro-arteria
polmonare (RVPA): quest’ultima ha il vantaggio di migliorare il flusso
coronarico ma comporta una ventricolotomia. L’outcome primario
era rappresentato dalla morte o dal trapianto a 12 mesi dalla randomizzazione. Sebbene la sopravvivenza libera da trapianto fosse
maggiore nei pazienti sottoposti a RVPA (74% vs 64%), questa differenza non era più statisticamente significativa dopo 12 mesi; inoltre questo gruppo presentava un maggior numero di complicanze,
anche chirurgiche, nel periodo di osservazione. L’analisi di questo
trial ha fornito ulteriori dati relativi alla mortalità a breve termine e
ai correlati fattori di rischio (Tabbutt et al., 2012). La mortalità complessiva durante l’ospedalizzazione e a 30 giorni dall’intervento era
rispettivamente del 16% e del 11.5%. Fattori di rischio indipendenti
erano il basso peso alla nascita, la presenza di anomalie genetiche,
una più lunga durata dell’arresto di circolo in ipotermia profonda,
l’utilizzo dell’ECMO (extracorporeal-membrane oxygenation) e il numero di giorni a sterno aperto dopo la procedura. Sebbene alcuni di
questi fattori di rischio siano innati, altri sono potenzialmente modificabili e potrebbero migliorare in futuro l’outcome di questi pazienti.
La coartazione aortica è una cardiopatia congenita frequente. La terapia chirurgica è sostanzialmente semplice e considerata risolutiva
nelle forme standard; in realtà nonostante una correzione adeguata
durante il follow-up può comparire ipertensione arteriosa. Il lavoro
del gruppo di Rochester (Brown et al., 2013) ha valutato l’outcome a
lungo termine (17,4 ± 13,9 anni fino a un massimo di 59,3 anni) di
819 pazienti con età media 17,2 ± 13,6 anni, operati di coartazione
nativa dal 1946 al 2005. La frequenza attuariale di sopravvivenza
era 93,3%, 86,4% e 73,5% rispettivamente a 10, 20 e 30 anni e la
frequenza libera da reintervento era rispettivamente 96,7%, 92,2%
e 89,4%. La sopravvivenza a lungo termine era negativamente influenzata da una maggiore età all’intervento (> 20 anni) e dalla presenza di ipertensione preoperatoria. Era comunque ridotta in tutti i
pazienti operati se paragonati per sesso ed età al resto della popolazione. Lo sviluppo a 5-10 anni di distanza di ipertensione arteriosa
era significativamente inferiore se i pazienti venivano operati a un’
età inferiore a 9 anni. La minore età all’intervento e la tecnica di
anastomosi termino-terminale era indipendentemente associata a
una più bassa frequenza di reintervento.
Tetralogia di Fallot: i pazienti operati di tetralogia di Fallot che sviluppano un’insufficienza polmonare significativa possono essere sottoposti al reimpianto chirurgico della valvola polmonare.
Una recente metanalisi pubblicata da Cavalcanti et al. nel 2013 analizza i possibili benefici legati a questo intervento chirurgico in 48 studi
coinvolgenti 3118 pazienti. I risultati dimostrano un miglioramento dei
sintomi soggettivi, della funzione e dei volumi del ventricolo destro, ma
anche del ventricolo sinistro e una diminuzione della durata del QRS.
È emerso che la geometria preoperatoria del ventricolo destro modula
167
S. Chiapedi, S. Mannarino, G. Butera
l’efficacia della sostituzione valvolare. Migliori risultati postoperatori si
osservano quanto più ampio è il volume telediastolico preoperatorio del
ventricolo destro, anche se esso non correla con il miglioramento dei
sintomi soggettivi. La mortalità a breve termine (30 giorni) e a 5 anni
è molto bassa, ma sono troppo scarsi i dati di mortalità a 10 anni per
consigliare un atteggiamento più aggressivo (sostituzione precoce) in
questa patologia. Poiché comunque nei soggetti con tetralogia di Fallot
esiste un rischio più elevato di mortalità e morbidità postoperatoria, un
recente studio di Valente et al. (2014) ha cercato di individuare i fattori
di rischio per morte e tachicardia ventricolare in un’ampia coorte di
pazienti. Sono stati valutati a circa 24 anni di vita, 873 pazienti trattati
chirurgicamente in età pediatrica. I fattori di rischio individuati erano
l’ipertrofia del ventricolo destro, la disfunzione ventricolare e le aritmie
sopraventricolari. Lo studio conclude che i soggetti con tali caratteristiche devono essere sottoposti a rivalutazione clinica ed emodinamica
ed eventualmente a procedure interventistiche e/o chirurgiche.
La trasposizione delle grandi arterie prevede un intervento correttivo
alla nascita (switch arterioso) che, oltre a riposizionare i vasi di efflusso sui rispettivi ventricoli, comporta il reimpianto delle coronarie
con rischio di distorsione o stenosi delle stesse e conseguenti complicanze, tra cui la morte improvvisa, a distanza di anni. Un interessante studio di follow up (medio di 10 anni fino a un massimo di 26
anni) del gruppo di Melbourne (Fricke TA et al., 2012) ha analizzato
l’outcome di 618 pazienti operati di switch arterioso in un unico
centro che utilizza una tecnica di reimpianto coronarico con flap rettangolare chiamata “Melbourne trapdoor technique”. La mortalità
complessiva era del 2,8%; i fattori di rischio per mortalità precoce
erano rappresentati dalla presenza di un basso peso alla nascita
(< 2,5 Kg), dalla necessità di ricostruire l’arco aortico o di eseguire
una resezione del tratto di efflusso di sinistra e l’utilizzo di supporto
ECMO nella fase postoperatoria. La mortalità tardiva era dello 0,9%;
a 15 anni di follow up la frequenza di reintervento era più alta nei
pazienti con difetto interventricolare (25,2%) ed ostruzione dell’arco (23,4%) rispetto a quelli senza questi difetti associati (5,9%). Il
98,7% dei pazienti a 20 anni non presentava un’ insufficienza significativa della neoaorta, che era presente in forma lieve nel 25,6%
dei pazienti. Nessun paziente a questo lungo follow up ha presentato
aritmie o scompenso cardiaco. I risultati di questo studio dimostrano
l’ottimo outcome a distanza dei pazienti con trasposizione dei grossi
vasi operati di switch arterioso. La neoaorta risulta funzionalmente
normale nella maggior parte dei pazienti e la necessità di sostituire
questa valvola è estremamente rara. In questo studio non si sono
verificati neanche seri eventi aritmici.
Tuttavia in uno studio italiano di Angeli et al. del 2010 il rischio di
ostruzione coronarica indipendentemente dal tipo di reimpianto
(bottone coronarico on punch vs trap-door technique) resta comunque alto ed aumentato soprattutto nei pazienti con anatomia nativa
coronarica complessa (62% vs 22%) per cui attualmente è sempre
raccomandata l’esecuzione di una coronarografia in epoca prescolare (Angeli E et al., 2012).
Trapianto cardiaco: il trapianto cardiaco è tuttora considerato l’unica terapia nei bambini e nei giovani adulti con scompenso cardiaco end-stage. Un esempio è rappresentato dai pazienti sottoposti
a intervento di Fontan che diventa malfunzionante. Questi pazienti
possono essere divisi in due categorie: quelli con disfunzione ventricolare e quelli con funzione ventricolare conservata, ma presenza
di enteropatia proteino-disperdente e/o bronchiti plastiche. Nello
studio di Griffiths et al. 2009, dall’analisi di 39 pazienti, il secondo
gruppo rappresenta quello a più alto rischio di morte e deve essere
indirizzato al trapianto più precocemente.
Seppure il trapianto rappresenti l’unica opzione terapeutica per de-
168
terminate patologie, resta ancora molto alta la mortalità nel periodo
compreso tra inserimento in lista e trapianto stesso.
I sistemi di assistenza ventricolare (VAD) in uso nell’adulto sono utilizzati come bridge al trapianto e, data la scarsità di dispositivi pediatrici, vengono a volte utilizzati come supporto anche nei bambini
e negli adolescenti. Tuttavia l’elevato rischio tromboembolico rende
questi dispositivi ancora poco utilizzabili nei neonati, lattanti e piccoli bambini. In questa popolazione si opta per l’ECMO (extracorporeal
membrane oxygenation) che tuttavia, quando utilizzato oltre le due
settimane, comporta ancora un alto rischio di morbilità e mortalità.
Nei piccoli bambini è stato sviluppato in Germania dal Berlin Heart
un dispositivo VAD specifico pediatrico (EXCOR) che può supportare
uno o entrambi i ventricoli ed è disponibile in varie dimensioni utilizzabili già a partire dai 3 kg di peso. È stato pubblicato recentemente
il primo studio multicentrico (17 Centri del Nord America per un totale di 73 pazienti) che utilizza l’EXCOR come bridge al trapianto in
ogni fascia d’età pediatrica. I dati di questo studio hanno mostrato
che il dispositivo è stato efficace nel 77% dei casi contro un 39-64%
di successo riportato in letteratura con l’uso dell’ECMO. Nel 7% dei
casi inoltre l’EXCOR aveva permesso un recupero completo della
funzione ventricolare. Sebbene la mortalità complessiva (23%) si sia
verificata in un tempo medio dall’impianto di 1,8 mesi, il 67% dei
pazienti aveva ricevuto un trapianto nei 6 mesi successivi e il 4%
continuava il supporto oltre questo periodo. Questo è un tempo considerevole tenuto conto che il 50 % di questi bambini era in shock
cardiogeno (aspettativa di vita < 24 h) e il 48% era in una condizione di declino progressivo della funzione cardiaca nonostante l’uso
di terapia inotropa e ventilazione assistita. L’analisi multivariata ha
evidenziato che l’età più giovane e l’uso di supporto biventricolare
(BiVAD) costituivano i fattori di rischio più significativi di mortalità. In
considerazione della limitata disponibilità di donatori in età pediatrica lo sviluppo e la diffusione di questi supporti diventa obbligatoria.
Procedure ibride
Negli ultimi anni la collaborazione tra cardiologi interventisti e cardiochirurghi ha portato allo sviluppo di nuove strategie terapeutiche,
denominate “procedure ibride”.
In presenza di cardiopatie congenite complesse è possibile durante
l’intervento combinare una tecnica chirurgica con una interventistica. Esempi sono la correzione al primo stadio del cuore sinistro ipoplasico, in casi selezionati considerati ad alto rischio per la correzione esclusivamente chirurgica, in cui si associa lo stent del Dotto al
bendaggio dei rami delle arterie polmonari. Un’altra indicazione è il
trattamento di cardiopatie congenite con anatomia atipica associata
a una difficoltosa soluzione chirurgica, come ad esempio la chiusura
di difetti interventricolari multipli e la dilatazione intraoperatoria delle stenosi dei rami periferici polmonari.
È stato pubblicato da Holzer et al. nel 2010 uno studio che mostra i dati di un registro multicentrico che ha coinvolto sette centri
americani. Da febbraio 2007 a dicembre 2008 sono state eseguite
128 procedure ibride su 7019 cateterismi. Il peso medio dei pazienti
era di 3,7 Kg, il 47% aveva un’età inferiore a un mese e nel 60%
dei casi la procedura era eseguita in cardiopatie con circolazione
univentricolare. Nel 12 % dei casi si sono osservati eventi avversi.
Le aritmie erano la complicanza più frequente, seguite da eventi
ipossici, ipotensione e/o complicanze procedurali (perforazione a
carico dei vasi o del cuore). In presenza di malposizione dello stent
inoltre si osservavano all’elettrocardiogramma anomalie del tratto
ST-T, una maggior incidenza di sanguinamenti locali per il riposizionamento dello stent e comparsa di convulsioni. In soli 2 casi si
Novità in cardiologia e cardiochirurgia pediatrica
sono osservati eventi maggiori (neurologico e aritmico) che hanno
condotto a morte. La chiusura ibrida dei difetti interventricolari si è
dimostrata la procedura meno rischiosa. L’incidenza di complicanze
potenzialmente prevenibili era del 44%: questo dato suggerisce la
necessità di apportare modifiche procedurali per migliorare i risultati. In caso di stent del Dotto l’esposizione chirurgica diretta sembra
offrire meno rischi rispetto al posizionamento per via percutanea. Altri interessanti lavori hanno confrontato l’outcome a distanza dei pazienti con cuore sinistro ipoplasico sottoposti a palliazione classica
rispetto a quelli sottoposti a stent del Dotto. Quest’ultima procedura
permette di evitare il by-pass cardiopolmonare in epoca neonatale e
posticipa all’età di 4-6 mesi l’intervento più complesso di ricostruzione dell’arco. Allo stadio attuale non ci sono evidenze significative
a favore di un approccio rispetto all’altro. Nel lavoro di Baba et al.,
del 2012 la sopravvivenza dopo il secondo stadio di palliazione era
equivalente nei due gruppi, ma il gruppo sottoposto a procedura
ibrida mostrava una frequenza maggiore di reintervento sull’arteria polmonare e una minore dimensione del diametro della stessa.
Entrambe le strategie tuttavia conducevano a un’adeguata fisiologia
per l’intervento di Fontan. La procedura ibrida è risultata invece una
buona opzione nei pazienti con ventricolo sinistro borderline come
bridge all’intervento definitivo (Davis et al., 2011). La possibilità di
posticipare a una maggiore età del paziente la correzione offre in
questi casi maggiori elementi per decidere se optare verso una correzione univentricolare o biventricolare.
Cardiopatie congenite dell’adulto
La problematica delle cardiopatie congenite dell’adulto è aumentata
in modo esponenziale negli ultimi anni. Parte degli studi su questa
problematica sono riportati nel capitolo sulla cardiochirurgia.
Riportiamo qui alcuni altri studi rilevanti. Budts et al., come rappresentanti del Working group ESC of Grown Up Congenital Heart Disease and the Section of Sports Cardiology of EAPCR, hanno pubblicato un position article sull’attività fisica negli adolescenti ed adulti con
cardiopatie congenite. In particolare, gli autori hanno sottolineato il
ruolo positivo dell’attività fisica e la necessità di individualizzare la
prescrizione dell’esercizio. In particolare, la novità dell’approccio
consiste nel formulare raccomandazioni pratiche basate su parametri emodinamici ed elettrofisiologici piuttosto che dare indicazioni
basate sui difetti specifici.
La dilatazione dell’aorta ascendente è comune negli adulti con patologie tronco-conali, ma non esistono dati sui rischi associati alla
dilatazione progressiva dell’aorta ascendente. Stulak et al. (2010)
hanno studiato 81 soggetti adulti con patologie tronco-conali sottoposti a chirurgia della radice aortica, dell’aorta ascendente o della
valvola. In questo gruppo di soggetti, in nessun caso l’indicazione al
trattamento è stato dovuto a dissezione aortica, nonostante diametri
dell’aorta ascendente fino ad 80 mm.
Le aritmie rappresentano un fenomeno molto frequente nel followup dei soggetti adulti con cardiopatie congenite. Yap et al. (2011)
hanno studiato i fattori di rischio associati a mortalità nei pazienti
adulti con cardiopatie congenite ed aritmie atriali. In particolare fattori di rischio indipendenti associati a mortalità erano una fisiologia
univentricolare, l’ipertensione polmonare, la patologia valvolare ed
una capacità funzionale compromessa. Gli autori hanno inoltre costruito uno score allo scopo di predire il rischio di mortalità in questo
gruppo di pazienti.
L’intervento di Mustard è una procedura chirurgica oramai molto rara
nella pratica clinica attuale. Fino agli anni 80 ha rappresentato, insieme all’intervento di Senning, l’opzione chirurgica per la trasposizione
delle grandi arterie. Per questo motivo, sono ancora molti i soggetti
con questa patologia seguiti quotidianamente negli ambulatori.
Cuypers et al. hanno riportato il follow-up a lungo termine (fino a 40
anni) di una coorte di 91 pazienti trattati con intervento di Mustard.
La sopravvivenza cumulativa e la libertà da eventi a 39 anni erano
pari al 68% e al 19%, rispettivamente.
Aritmie sopraventricolari e ventricolari si verificavano nel 28 e nel
6% dei casi. Impianto di pace-maker o ICD nel 39% dei pazienti.
Aritmie nel periodo post-operatorio precoce erano predittrici di aritmie nel follow-up e di scompenso cardiaco.
News e possibili nuove strade
Riportiamo da ultimo gli spunti più significativi forniti dalla letteratura che aprono nuovi orizzonti terapeutici in cardiologia pediatrica.
Applicazione chirurgica della Melody valve: la sostituzione chirurgica della valvola mitrale in età pediatrica, come opzione terapeutica nelle forme irreparabili, presenta numerose limitazioni legate al
diametro fisso delle valvole meccaniche, che non si adeguano alla
crescita e alla necessità di un trattamento anticoagulante. Una nuova applicazione è rappresentata dagli stent valvolati. Questi stent,
utilizzati in emodinamica interventistica, hanno il vantaggio di non
richiedere la terapia anticoagulante e offrono la possibilità di incrementare il diametro mediante dilatazione con palloncino. Il gruppo
di Boston (Quinonez et al., 2013) ha utilizzato in 11 pazienti di età
compresa tra 2 e 28 mesi la Melody valve in posizione mitralica
per correggere le forme irreparabili. In tre pazienti è stato possibile
espandere le valvole in modo da adeguare il diametro alla crescita.
L’utilizzo delle modellizzazioni matematiche della fluidodinamica
computazionale rappresenta un nuovo approccio per la valutazione
dei risultati delle procedure interventistiche rispetto a quelle chirurgiche nel trattamento di alcune cardiopatie congenite. Tale metodica è
stata utilizzata da Coogan et al. (2011) per valutare l’impatto sulla rigidità della parete aortica determinato dall’impianto di stent nella coartazione. Lo studio della fluidodinamica computazionale sulle immagini
di risonanza magnetica in una paziente di 15 anni ha dimostrato che lo
stenting incrementa il carico di lavoro cardiaco dello 0,4% e non modifica la pressione arteriosa media. Tale studio pilota suggerisce che
l’impianto di stent non influenza in modo significativo l’emodinamica
e la risposta pressoria nei pazienti con coartazione.
Nuovi ambiti di approccio interventistico: la cardiologia interventistica
cerca di riprodurre per via trans catetere ciò che i chirurghi effettuano
per via sternotomica. Sabi et al. (2010) hanno sviluppato un modello
animale che dimostra la possibilità di creare uno shunt aorto-polmonare per via trans catetere: le procedure sono state efficaci in tutti i
maiali trattati. Questa sperimentazione apre una futura nuova applicazione nell’emodinamica interventistica. (Sabi et al., 2010).
Staminali: la cardiomiopatia dilatativa è una patologia rara nella popolazione pediatrica ma associata ad importante morbilità e mortalità e costituisce una delle principali indicazione al trapianto cardiaco
nel bambino. L’utilizzo di cellule staminali è diventata un’opzione
terapeutica promettente nell’ infarto miocardico e scompenso cardiaco dell’adulto, ma sono pochissimi i dati relativi all’età pediatrica.
Nel 2009 è stato descritto il primo caso di trapianto intramiocardico
di cellule staminali in una piccola paziente di 4 mesi: a un follow up
di 4 mesi veniva segnalato un incremento della frazione di eiezione
dal 20% al 41%. (Lacis et al., 2011) La capacità rigenerativa nel
bambino potrebbe essere anche maggiore all’adulto, ma studi multicentrici sono necessari per verificare la sicurezza e l’efficacia di
questa potenziale nuova terapia.
169
S. Chiapedi, S. Mannarino, G. Butera
Box riassuntivo
Cardiologia fetale
I progressi tecnologici hanno permesso di sviluppare nuove metodiche ecocardiografiche come l’ imaging 3D e 4D che offrono il vantaggio di visualizzare le immagini su più piani ortogonali e trasmettere le immagini tramite telemedicina. Lo screening cardiologico precoce tra la 12° e la 14° settimana è attualmente applicato nelle donne ad alto rischio o con storia familiare di cardiopatie congenite con buona sensibilità e specificità. Si stanno
sviluppando tecniche di interventistica fetale per via percutanea nel II trimestre di gravidanza sotto guida ecografica, con l’intento di prevenire in alcune
cardiopatie congenite cambiamenti irreversibili strutturali secondari al ridotto flusso.
Genetica delle cardiopatie congenite
I meccanismi responsabili dello sviluppo delle cardiopatie congenite sono complessi ed eterogenei. Lo sviluppo di nuove metodiche applicate alla
genetica apre nuove strade alla scoperta di geni candidati nelle forme sporadiche
Problematiche pediatriche con coinvolgimento cardiologico
La patologia cardiaca acquisita nella popolazione pediatrica è un problema emergente. È stato definito il concetto di “cardite silente” e sono in studio
strategie per individuare ecograficamente tale condizione. Una patologia emergente è rappresentata dalle lesioni coronariche acquisite secondarie a
malattia di Kawasaki o a interventi di reimpianto delle coronarie. Nuovi ambiti di studio sono rappresentati dall’individuazione precoce della cardiotossicità nel paziente pediatrico oncologico sopravvissuto.
Biomarkers
Anche in ambito cardiologico pediatrico, il dosaggio dei biomarkers è utile come fattore predittivo di severità in diverse condizioni patologiche e per il
monitoraggio della risposta terapeutica.
Cardiologia Interventistica
Numerose sono le pubblicazioni sui risultati a medio e lungo termine dell’utilizzo dell’emodinamica interventistica in particolari difetti congeniti quali
impianto transcatetere della valvola polmonare, la coartazione aortica e i difetti interatriali. Compaiono inoltre nuove indicazioni all’utilizzo di stent nei
bambini più piccoli con cardiopatie congenite complesse.
Cardiochirurgia
Il cuore sinistro ipoplasico è ancora gravato da un’elevata mortalità, tuttavia sono stati individuati alcuni importanti fattori di rischio indipendenti che in
alcuni casi potrebbero essere potenzialmente modificabili.
I dati di follow up nella coartazione aortica mostrano elevata percentuale di sopravvivenza a medio e lungo termine. Essa è negativamente influenzata
da una maggiore età all’intervento (>20 anni) e dalla presenza di ipertensione preoperatoria. La minore età all’intervento e la tecnica di anastomosi
termino-terminale è indipendentemente associata a una più bassa frequenza di re-intervento.
I pazienti operati di tetralogia di Fallot che sviluppano un’insufficienza polmonare significativa possono essere sottoposti al reimpianto chirurgico della
valvola polmonare il cui successo dipende da numerosi fattori.
L’outcome a distanza dei pazienti con trasposizione dei grossi vasi sottoposti ad intervento di switch arterioso mostra una bassa mortalità complessiva.
Sono stati individuati alcuni fattori di rischio per la mortalità precoce e tardiva e il rischio di ostruzione coronarica resta comunque alto soprattutto nei
pazienti con anatomia coronarica complessa.
Nei piccoli bambini è stato sviluppato in Germania dal Berlin Heart un dispositivo VAD specifico pediatrico (EXCOR) che può supportare uno o entrambi
i ventricoli ed è disponibile in varie dimensioni utilizzabili già a partire dai 3 kg di peso.
Adulti con cardiopatie congenite
La problematica delle cardiopatie congenite dell’adulto è aumentata in modo esponenziale negli ultimi anni.
Procedure ibride
Negli ultimi anni la collaborazione tra cardiologi interventisti e cardiochirurghi ha portato allo sviluppo di nuove strategie terapeutiche denominate
“procedure ibride”.
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** La riduzione di mortalità nel bambino oncologico si è associata ad un aumento
di effetti collaterali a distanza, la maggior parte dei quali coinvolgenti il sistema
cardiovascolare. L’articolo elenca i principali fattori di rischio legati non solo ai
farmaci già noti per la cardiotossicità come le antracicline e descrive le principali
modalità di monitoraggio di questi pazienti.
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** Applicato inizialmente nel 2000, il Berlin Heart è diventato dal 2004 il primo
VAD applicato nel Nord America in bambini di ogni fascia d’età. Questo articolo
mostra dati preliminari di un’ampia coorte di pazienti mostrando un’efficacia
nel 77% dei casi e un recupero completo della funzione ventricolare nel 7%
dei casi. In conclusione il Berlin Heart EXCOR può essere un valido ausilio come
bridge al trapianto.
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** L’articolo riassume le principali cause di malattia coronarica acquisita in età
pediatrica e discute il ruolo delle varie tecniche di imaging necessarie per la
diagnosi e il management di tali patologie.
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** Per chi si occupa di ecocardiografia suggeriamo la lettura di questo articolo
dove vengono riportati dettagliatamente i criteri ecocardiografici che consentono la diagnosi di valvulopatia di tipo reumatico.
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Corrispondenza
Gianfranco Butera, Consultant Cardiologia pediatrica e cardiopatie congenite dell’adulto, Policlinico San Donato IRCCS, via Morandi 30, 20097 San
Donato Milanese. Tel. +39 02 52774328, Fax +39 02 52774459.
E-mail: [email protected]
172
Luglio-Settembre 2014 • Vol. 44 • N. 175 • Pp. 173-186
CARDIOlogia pediatrica
Le basi genetiche delle cardiopatie congenite
Maria Cristina Digilio, Lucia Martina Silvestri*, Bruno Dallapiccola, Bruno Marino*
Genetica Medica, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, IRCCS, Roma
*
Dipartimento di Pediatria, Università La Sapienza, Roma
Riassunto
I fattori genetici sono sicuramente importanti nell’eziologia delle cardiopatie congenite (CC). La maggior parte delle CC (il 70% circa) si manifesta come
malformazione isolata, mentre il 30% dei soggetti affetti ha anomalie extracardiache associate. Le sindromi con CC possono essere legate ad anomalie
cromosomiche, a microanomalie cromosomiche (sindromi genomiche) e a mutazioni geniche. L’eziologia delle CC è complessa e eterogenea. Una stessa
malformazione cardiaca può essere causata da fattori genetici diversi, così come singole anomalie cromosomiche o geniche possono essere associate a
malformazioni cardiache diverse. Esiste però un collegamento tra specifici fenotipi anatomici delle CC e alcune sindromi genetiche o mutazioni di geni. Di
conseguenza, la diagnosi di un preciso difetto anatomico del cuore può orientare il clinico verso il sospetto di una particolare sindrome o per una specifica
indagine genetica. D’altra parte, la diagnosi di una particolare sindrome in un bambino può guidare il cardiologo alla ricerca di una specifica CC potenzialmente associata. Sono state identificate differenze nella prognosi cardiochirurgica in sindromi differenti e in bambini non-sindromici. La conoscenza
di fattori di rischio cardiologici e extracardiologici specifici per sindrome diagnosticata consente di predisporre protocolli di monitoraggio multisciplinari.
Il progredire delle tecniche molecolari negli ultimi anni ha portato all’identificazione delle basi molecolari di un gran numero di sindromi con CC, mentre è
ancora poco nota l’eziologia delle CC non-sindromiche, in quanto è stato possibile caratterizzare molecolarmente soprattutto casi per i quali la CC segregava in famiglia in più soggetti, mentre per la maggior parte dei casi sporadici la causa e le basi genetiche sono ancora sconosciute. Nel prossimo futuro
potranno essere utilizzate le nuove tecniche molecolari di Next Generation Sequencing per migliore comprensione diagnostica e associazioni di patologie.
Summary
Genetic factors are important in the etiology of congenital heart defects (CHDs). The majority of CHDs (70%) present as an isolated malformation, while
30% have also associated extracardiac malformations. Syndromes with CHD can be due to chromosomal anomalies, microchromosomal rearrangements
(genomic disorders) and monogenic mutations. The etiology of CHDs is complex and heterogeneous. The same malformation can be due to different genetic
causes, as single chromosomal or monogenic syndromes can be associated with different CHDs. Nevertheless, a link can be identified between specific
anatomic types of CHD and some genetic syndromes or genes. For this reason, the diagnosis of a specific anatomic defect of the heart can lead the clinician
to suspect a particular syndrome or can suggest a specific genetic testing. On the other hand, the diagnosis of a specific syndrome in a patient can guide
the cardiologist to the detection of the CHD which is more often associated. Different surgical prognoses have been found in patients with CHD and some
genetic syndromes, as in patients with non-syndromic CHDs. Multidisciplinary protocols and guidelines can be developed accordingly to the knowledge of
cardiac and extracardiac risk factors for specific syndromes. The advances in molecular testing in the last years have led to the identification of molecular
basis of a great number of syndromes with CHD, while the etiology of the majority of non-syndromic CHDs remain still less known. In fact, up to now it
was easier to characterize genes responsible for familial CHDs segregating in several relatives, while the underlying genetic mechanism of the majority of
sporadic cases of CHDs is at present unknown: In the near future, the new molecular techniques of Next Generation Sequencing will be useful to elucidate
genetic causes of an increasing number of CHDs.
Abbreviazioni:
CC: cardiopatia congenita
CHD: congenital heart defect
CNV: copy number variant
Metodologia della ricerca bibliografica
La ricerca degli articoli rilevanti negli ultimi 10 anni è stata effettuata
tramite la banca bibliografica PubMed, utlizzando come parole chiave: “Congenital heart defect AND genetics, Congenital heart defect
AND syndrome, Congenital heart defect AND recurrence, Congenital
heart defect AND gene, congenital heart defect AND copy number
variation”. Sono state considerate anche altre pubblicazioni rilevanti
degli anni precedenti conosciute dagli autori.
Introduzione
Le cardiopatie congenite (CC) costituiscono difetti congeniti frequenti nell’uomo, con una prevalenza stimata tra 5-10/1.000 nati
vivi (0,8%), e sono incluse tra le cause più importanti di mortalità
infantile. Studi epidemiologici, clinici e molecolari hanno dimostrato
che i fattori genetici sono sicuramente importanti nella patogenesi
delle CC. L’eziologia delle CC è complessa e eterogenea, in quanto
una stessa malformazione cardiaca può essere causata da fattori
genetici diversi, così come singole anomalie cromosomiche o geniche possono essere associate a malformazioni cardiache diverse.
La maggior parte delle CC (il 70% circa) si manifesta come malformazione isolata, mentre il 30% dei soggetti con CC ha anomalie extracardiache associate (Ferencz et al., 1993). Le sindromi con CC possono
essere legate ad anomalie cromosomiche o mutazioni geniche.
Il miglioramento delle conoscenze cliniche e l’aumento di disponibilità di tecniche molecolari hanno contribuito al progresso scientifico sulle basi genetiche delle CC. La possibilità di diagnosticare
anomalie e microanomalie cromosomiche ha ampliato lo spettro di
regioni cromosomiche associate a CC sindromica e quelle nelle quali
173
M.C. Digilio et al.
Tabella I.
Prevalenza di anomalie extracardiache nei diversi tipi anatomici di
cardiopatia congenita.
Cardiopatia congenita
%
Canale atrioventricolare
70-80
Interruzione arco aortico
40-50
Truncus arterioso
40-45
Ventricolo destro a doppia uscita
35-40
Difetto interatriale
30-40
Tetralogia di Fallot
30-35
Coartazione aortica
23-25
Ritorno venoso polmonare anomalo
20-23
Difetto interventricolare
18-25
Anomalia Ebstein
18-23
Stenosi polmonare
15-25
Stenosi aortica
15-20
Cuore sinistro ipoplasico
15-20
Atresia tricuspide
12-18
Trasposizione grandi arterie
10-12
Atresia polmonare a setto integro
8-12
mappano geni candidati per malformazioni cardiache (Erdogan et
al., 2008; Breckpot et al., 2010; Lalani e Belmont, 2014). Più difficile e lenta l’evoluzione delle conoscenze delle basi biologiche delle
CC non-sindromiche a causa della enorme eterogeneità genetica e
della multifattorialità (Wessels e Willems, 2010). La difficoltà è prevalente nei casi di CC non-sindromica sporadica, mentre risulta più
alta la possibilità di identificare il gene causante nelle famiglie con
segregazione della CC in più soggetti.
Alcuni tipi anatomici di CC si associano più frequentemente a anomalie extracardiache, altre sono più spesso isolate (Ferencz et al.,
2003; Pradat et al., 2003) (Tab. I). Pazienti con sindromi genetiche
specifiche hanno spesso CC correlabili tra loro attraverso le basi
patogenetiche. La classificazione morfogenetica proposta in passato
da Edward Clark (1986, 1996), che suddivide i difetti cardiaci in 6
gruppi, appare particolarmente utile in questo senso, creando un
collegamento tra causa, meccanismo patogenetico e malformazione
(Marino e Digilio, 2000) (Tab. II).
Sindromi associate a cardiopatie congenite
Sindromi cromosomiche
Il 10-15% dei pazienti affetti da CC ha una sindrome cromosomica
diagnosticabile con tecnica citogenetica tradizionale, cioè ad una
risoluzione uguale o superiore alle 10 Mb (Pierpont et al., 2007).
Le sindromi diagnosticate più frequentemente sono la sindrome di
Down (trisomia 21), la sindrome di Edwards (trisomia 18), la sindrome di Patau (trisomia 13), la sindrome di Turner (monosomia X), la
delezione della regione telomerica del braccio corto del cromosoma
8 (del 8p23), la sindrome cat-eye (tetrasomia 22), la delezione del
braccio corto del cromosoma 5 (del 5p14-15 o sindrome “cri-duchat”), la delezione del braccio corto del cromosoma 4 (del 4p16.3
o sindrome di Wolf) (Pierpont et al., 2007). I tipi anatomici di CC
associati alle diverse sindromi cromosomiche sono riassunti nella
174
Tabella III. Sono note associazioni preferenziali tra malformazioni
cardiache e alcune sindromi cromosomiche. Ad esempio il canale
atrioventricolare è la CC riscontrata più spesso nella sindrome di
Down (De Biase et al., 1986; Marino et al., 1990,1996) e nella delezione telomerica 8p23 (Digilio et al., 1998a), oppure l’associazione tra difetti cardiaci ostruttivi sinistri (coartazione aortica, stenosi
aortica, cuore sinistro ipoplasico, aorta bicuspide) e la sindrome di
Turner (Mazzanti e Cacciari, 1998).
Sindromi da microanomalia cromosomica
Le sindromi da microanomalia cromosomica sono quelle identificabili con tecniche citogenetico-molecolari per riarrangiamenti cromosomici di estensione inferiore alle 10 Mb. La caratterizzazione di
queste sindromi sta aumentando negli ultimi anni grazie all’evoluzione delle tecniche molecolari, per cui i dati di prevalenza dovranno
essere riaggiornati nel tempo. Sono in corso studi che analizzano la
prevalenza e i tipi di microanomalie cromosomiche e CC (Thienpont
et al., 2007; Erdogan et al., 2008; Richards et al., 2008; Greenway et
al., 2009; Rauch et al., 2010; Tomita-Mitchell et al., 2012) e si stima
che microriarrangiamenti patogenetici siano riscontrabili in circa il
20% dei pazienti con CC sindromica (Breckpot et al., 2010, 2011).
Storicamente, le prime sindromi da microanomalia cromosomica
identificate sono state quelle diagnosticate con tecnica FISH (Fluorescent in situ hybridization) nei primi anni ‘90, quali la sindrome da
delezione cromosomica 22q11.2 (sindrome DiGeorge/velo-cardiofacciale) e la sindrome di Williams (microdelezione 7q11.23, lucus
ELN-elastina). Molto più recentemente le tecniche MLPA (multiplex
ligation-dependent probe amplification) e l’array-CGH (ibridazione
comparativa genomica basata sugli array) hanno significativamente elevato il livello della risoluzione, consentendo di riconoscere
riarrangiamenti anche dell’ordine delle 100 kb o meno. Si stanno
caratterizzando quindi una serie di “nuove” sindromi definite “genomiche”.
Tra le sindromi genomiche più frequentemente associate a CC si
possono ricordare la delezione 22q11.2 distale alla regione DG/VCF
(Ben-Shachar et al., 2008), la duplicazione della regione DG/VCF
(dup 22q11.2) (Ensenauer et al., 2003), la delezione e la duplicazione 1q21.2 (Soemedi et al., 2012), la delezione 1p36 (Battaglia et
al., 2008). Queste sindromi si associano spesso a specifiche CC, in
quanto la regione cromosomica “critica” contiene geni la cui delezione/duplicazione è implicata nell’eziologia della CC. È noto, infatti,
che mutazioni di questi geni possono causare lo stesso tipo di CC in
soggetti non-sindromici. Si possono citare gli esempi del gene TBX1
che mappa in 22q11.2 per le cardiopatie troncoconali (Griffin et al.,
2010), del gene elastina (ELN) che mappa in 7q11.23 per stenosi
aortica sopravalvolare e stenosi periferiche delle arterie polmonari
(Micale et al., 2010), del gene GATA4 che mappa in 8p23 (Garg et
al., 2003; Sarkozy et al., 2003) per canale atrioventricolare e stenosi
polmonare (Garg et al., 2003), del gene GJA5 che mappa in 1q21.2
(Gu et al., 2003) per difetti settali e tetralogia di Fallot, e del gene
MIB1 che mappa in 1p36.33 per la cardiomiopatia da persistenza
del miocardio fetale (Luxan et al., 2013). La Tabella III riassume le
sindromi cromosomiche e genomiche più frequentmente asociate a
CC, con la descrizione dei tipi anatomici di malformazione cardiaca
più caratteristici.
Studi epidemiologici mirati alle macro e micro anomalie cromosomiche (copy number variants - CNVs di entità superiore a 100 kb)
hanno rilevato che i tipi anatomici di CC che si diagnosticano più
frequentemente sono: canale atrioventricolare (isolato o associato
con tetralogia di Fallot), stenosi aortica valvolare, tetralogia di Fallot
e truncus arterioso (Tomita-Mitchell et al., 2012).
Le basi genetiche delle cardiopatie congenite
Tabella II.
Classificazione morfogenetica proposta da Edward Clark (1986, 1996)
Gruppo morfogenetico
Meccanismo patogenetico
Cardiopatie congenite
Anomalie della migrazione del
tessuto ectomesenchimale
Migrazione anomala della componente anteriore del “secondo
campo cardiaco”, che fornisce il tessuto per la formazione del
segmento troncoconale e del ventricolo destro
Difetto interventricolare sottoaortico, tipo I
(infundibolare)
Ventricolo destro a doppia uscita
Tetralogia di Fallot
Atresia polmonare con difetto interventricolare
Finestra aorto-polmonare
Tronco arterioso comune
Interruzione dell’arco aortico tipo B
Doppio arco aortico
Arco aortico destro
Anomalie del flusso ematico
intracardiaco
Modificazione del volume e/o del flusso ematico embrionale
e fetale con anomalia del modellamento del cuore durante
lo sviluppo come causa di difetti del setto o malformazioni
ostruttive del cuore destro o sinistro.
Difetto interventricolare perimembranoso
Difetti del cuore sinistro (valvola aortica
bicuspide, stenosi aortica valvolare, coartazione
aortica, interruzione arco aortico tipo A, sindrome
del cuore sinistro ipoplasico, atresia aortica,
atresia mitralica)
Difetti del cuore destro (valvola polmonare
bicuspide, difetto interatriale ostium secundum,
stenosi polmonare valvolare, atresia polmonare
con setto interventricolare intatto)
Anomalie della morte cellulare
Alterazione del processo di apoptosi che contribuisce a
determinare il compattamento e il rimodellamento del setto
interventricolare muscolare e l’escavazione delle cavità
ventricolari
Difetto interventricolare muscolare
Anomalia di Ebstein della valvola tricuspide
Anomalie della matrice
extracellulare
Anomalie della matrice extracellulare che si accumula nei
cuscinetti atrioventricolari e compartecipa alla fusione settale e
alla formazione delle valvole atrioventricolari.
Difetto interatriale ostium primum
Difetto interventricolare, tipo III (posteriore
tipo”canale atrioventricolare”)
Canale atrioventricolare
Valvola aortica o polmonare displasica
Anomalie della crescita
“direzionata”
Alterazione dell’interazione selettiva chemiotattica che regola il
processo di incorporazione del seno venoso polmonare nell’atrio
sinistro.
Ritorno venoso polmonare anomalo parziale
Ritorno venoso polmonare anomalo totale
Cor triatriatum
Difetto interatriale tipo seno venoso
Anomalie del situs e dell’ansa
Anomalie del processo della assegnazione della lateralizzazione
asimmetrica destra-sinistra e della direzione dell’ansa cardiaca
che determina la posizione destra-sinistra dei ventricoli.
Eterotassia
L-loop
Sindromi monogeniche
Le sindromi monogeniche sono causate dalla mutazione di un singolo gene e vengono diagnosticate nel 15-20% dei pazienti con CC
(Tab. IV).
Tra le più frequenti le RASopatie, che comprendono la sindrome di Noonan e le sindromi correlate (LEOPARD, Cardio-FacioCutanea, Costello), che si associano alle CC nel 50% dei casi.
Le CC caratteristicamente associate a queste condizioni sono
la stenosi polmonare valvolare (con lembi valvolari displasici),
la cardiomiopatia ipertrofica (interessante prevalentemente il
ventricolo sinistro), il canale atrioventricolare (parziale, associato a volte a lesioni ostruttive sinistre) e il difetto interatriale tipo ostium secundum (Digilio et al., 2009; Tartaglia et al.
2010).
La sindrome Kabuki si associa a difetti settali e, prevalentemente nel
soggetti di sesso maschile, a coartazione aortica e altre ostruzioni
sinistre (Digilio et al.,2001).
La sindrome CHARGE è una patologia plurimalformativa con CC
troncoconali e/o canale atrioventricolare e pervietà del dotto arterioso (Wyse et al., 1993; Corsten-Janssen et al., 2013).
La sindrome di Alagille è una patologia epatica-cardiaca, caratteristicamente associata alle stenosi periferiche delle arterie polmonari
o alla tetralogia di Fallot (Emerick et al., 1999).
Infine, le sindromi cardio-scheletriche includono quadri clinici che associano sindromi con polidattilia delle mani e dei piedi (sindromi OroFacio-Digitali, Ellis-van Creveld, Bardet-Biedl e Smith-Lemli-Opitz) e
le sindromi con difetti in riduzione degli arti superiori (sindrome di
Holt-Oram e altre sindromi cuore-mano). Nelle sindromi con polidattilia la cardiopatia è simile a quella dell’eterotassia, in quanto consiste
spesso in un canale atrioventricolare parziale con atrio unico, a volte
con persistenza della vena cava superiore sinistra (Digilio et al., 1997,
1999, 2003, 2006). È da notare che l’eterotassia e le sindromi con
polidattilia hanno basi patogenetiche comuni, in quanto i geni-malattia
sono implicati nella funzione ciliare (le cui mutazioni causano le cosiddette “ciliopatie”) (Supp et al., 1997; Ansley et al., 2003; Ferrante et
al., 2006; Ruiz Perez et al., 2007, 2009; D’Asdia et al., 2013).
175
M.C. Digilio et al.
Tabella III.
Sindromi cromosomiche e genomiche con cardiopatia congenita.
Sindrome
Down
Difetto
genetico
Trisomia 21
Cardiopatie
congenite
Sottotipo
cardiaco
Geni candidati
per cardiopatia
Canale atrioventricolare
completo
DSCAM
Difetto interventricolare
posteriore
collagen type VI
con cleft mitralico
DSCR1
Tetralogia di Fallot con canale
atrioventricolare
Edwards
Trisomia 18
Difetto interventricolare
-
Difetto interatriale
Tetralogia di Fallot
Anomalie polivalvolari
Patau
Trisomia 13
Difetto interventricolare
-
Difetto interatriale
Tetralogia di Fallot
Ostruzioni sinistre
DiGeorge/ Velo-CardioFacciale
Delezione 22q11.2
Tetralogia di Fallot classica
con arco aortico destro
TBX1
con arco aortico cervicale
CRKL
ipoplasia setto infundibolare
assenza valvola polmonare
discontinuità arterie polmonari
Atresia polmonare con difetto
interventricolare
collaterali aorto-polmonari
Interruzione arco aortico
tipo B
Truncus arterioso
tipo A3
discontinuità arterie polmonari
con anomalie arco aortico
con displasia valvola truncale
Difetto interventricolare
sottoaortico
con arco aortico destro
con arco aortico cervicale
con arteria succlavia aberrante
Turner
Monosomia X
Coartazione aortica
-
Stenosi aortica
Aorta bicuspide
Cuore sinistro ipoplasico
Williams
Delezione 7q11.23
Stenosi aortica sopravalvolare
ELN
(regione gene elastina) Stenosi periferiche arterie polmonari
Delezione 8p23
Delezione 8p23
Canale atrioventricolare
completo con stenosi polmonare
GATA4
Stenosi polmonare
Tetralogia Fallot
Cat-eye
Tetrasomia 22
Tetralogia di Fallot
-
Ritorno venoso polmonare anomalo
Cri du chat
Delezione 5p14-15
Difetto interventricolare
Dotto arterioso pervio
Wolf
Delezione 4p16.3
Jacobsen
Delezione 11q
Difetto interatriale
con stenosi polmonare
-
Difetto interventricolare
Ta
176
Cuore sinistro ipoplasico
JAM-3
ETS-1
Le basi genetiche delle cardiopatie congenite
Tabella III. (continua)
Sindromi cromosomiche e genomiche con cardiopatia congenita.
Sindrome
Microdelezione 1q21.2
Difetto
genetico
Cardiopatie
congenite
Sottotipo
cardiaco
Ostruzioni sinistre
Geni candidati
per cardiopatia
GJA5
Truncus arterioso
Difetto interventricolare
Difetto interatriale
Microduplicazione
1q21.2
Tetralogia di Fallot
GJA5
Microduplicazione
22q11.2
Difetto interventricolare
Microdelezione
22q11.2 distale
Difetto interventricolare
MAPK1
Difetto interatriale
CRKL
Stenosi polmonare
TBX1
Tetralogia di Fallot
Tetralogia di Fallot
Truncus arterioso
Persistenza miocardio fetale
Associazioni malformative
Le associazioni definiscono alcune malformazioni che si presentano
insieme con maggiore frequenza rispetto a quello che sarebbe previsto casualmente. In questi casi, però, non è identificable una spiegazione che accomuni la concomitanza delle patologie, come avviene per le sequenze o le sindromi. Tra le associazioni malformative
con CC si possono citare l’Associazione VACTERL (Vertebral defects,
Anal atresia, Cardiac defect, Tracheo-Esophageal fistula/esophageal
atresia, Renal anomalies, Limb malformations) e lo spettro OculoAuricolo-Vertebrale (microtia, microsomia emifacciale con ipoplasia
mandibolare, dermoide bulbare, malformazioni cervicali). La probabile eterogeneità genetica di queste associazioni spiega probabilmente il fatto che le CC sono di vario tipo (troncoconali, difetti settali
e ritorno venoso polmonare anomalo) (Kumar et al., 1993; Botto et
al., 1997; Digilio et al., 2008) (Tabella IV).
Tipi anatomici di cardiopatie congenite e sindromi
associate
Anomalie della migrazione del tessuto ectomesenchimale
Le CC troncoconali incluse in questo gruppo, quali tetralogia di Fallot,
interruzione dell’arco aortico tipo B, truncus arterioso e difetto interventricolare sottoaortico, si associano a varie patologie cromosomiche e sindromi monogeniche (Tab. V). L’associazione con la sindrome
da microdelezione cromosomica 22q11.2 è particolarmente nota e i
difetti anatomici cardiaci in questa sindrome manifestano delle peculiarità. Infatti, la tetralogia di Fallot (con e senza atresia polmonare)
presenta spesso difetti cardiaci aggiuntivi, quali arco aortico destro o
cervicale, arteria succlavia sinistra aberrante, ipoplasia o assenza del
setto infundibolare, assenza della valvola polmonare, discontinuità o
ipoplasia delle arterie polmonari (Momma et al., 1995; Johnson et al.,
1995; Marino et al., 1996 e 2001, Chessa et al., 1998).
Le stesse anomalie cardiache aggiuntive sono descritte frequentemente anche in associazione con l’interruzione dell’arco aortico tipo
B dei soggetti con delezione 22q11.2 (Lewin et al., 1997; Rauch et
al., 1998; Marino et al., 1999a).
Per quanto riguarda il truncus arteriosus, i tipi anatomici A1 e A2 di
con dilatazione aortica
Van Praagh sono prevalenti in questi pazienti, mentre il tipo A3, il più
raro tra i tre, con discontinuità delle arterie polmonari e anomalie
dell’arco aortico, è il più specifico per la sindrome. Displasia e stenosi della valvola truncale sono segni clinici caratteristici aggiuntivi
(Momma et al., 1997; Marino et al., 1998).
La tetralogia di Fallot nella sindrome CHARGE si può associare a
canale atrioventricolare (Vergara et al., 2006; Corsten-Janssen et
al., 2013).
Anomalie del flusso ematico intracardiaco
Difetto interventricolare (perimembranoso)
I difetti interventricolari perimembranosi si associano ad anomalie
extracardiache nel 20% dei casi (Ferencz et al., 1993). L’ampiezza
del difetto sembra essere direttamente proporzionata alla percentuale di associazione con sindrome, in quanto i difetti di ampiezza
moderata o ampia sono più spesso sindromici (Lewis et al., 1996).
Sono numerose le sindromi cromosomiche e monogeniche diagnosticabili in pazienti con questa cardiopatia (Tab. VI).
Difetti ostruttivi del cuore sinistro (valvola aortica bicuspide,
stenosi aortica valvolare, coartazione aortica, interruzione
arco aortico tipo A, sindrome del cuore sinistro ipoplasico,
atresia aortica, atresia mitralica)
La sindrome di Turner (monosomia X) è la patologia cromosomica
nota per essere associata alle CC incluse nello spettro dei difetti
ostruttivi sinistri (Gotzsche et al., 1994; Mazzanti e Cacciari, 1998).
È nota anche l’associazione tra cuore sinistro ipoplasico e delezione
cromosomica distale 11q (sindrome di Jacobsen) (Grossfeld et al.,
2004; Phillips et al., 2002). JAM3, che mappa in 11q23-25 ed è
espresso in corso di cardiogenesi, è stato il primo gene candidato
per la CC (Phillips et al., 2002), anche se studi sperimentali successivi hanno posto in dubbio il coinvolgimento di JAM3 ed hanno
ipotizzato altri geni nella regione (Ye et al., 2009).
Tra le sindromi monogeniche, la sindrome di Noonan puo’ presentarsi
con coartazione aortica (Digilio et al., 1998b), mentre vari difetti ostruttivi
del cuore sinistro sono descritti nella sindrome Kabuki, specialmente
in pazienti di sesso maschile e con quella manifestazione cardiologica
177
M.C. Digilio et al.
Tabella IV.
Sindromi monogeniche e associazioni malformative con cardiopatia congenita.
Sindrome
Gene causante
Cardiopatia congenita
• Sindrome di Noonan
PTPN11, RAF1,SOS1,
SHOC2, NRAS, CBL
Stenosi polmonare valvolare
Cardiomiopatia ipertrofica
Canale atrioventricolare
Difetto interatriale
• Sindrome LEOPARD
PTPN11, RAF1, BRAF
Cardiomiopatia ipertrofica
• Sindrome
Cardio- Facio-Cutanea
BRAF, MEK1, MEK2
Aritmia
Stenosi polmonare valvolare
Sottotipo cardiaco
RASopatie
Difetto interatriale
Cardiomiopatia ipertrofica
• Sindrome di Costello
HRAS
Sindrome Kabuki
MLL2, KDM6A
Sindrome CHARGE
Sindrome di Alagille
CHD7
JAG1, Notch2
Stenosi polmonare valvolare
Cardiomiopatia ipertrofica
Aritmie
Difetto interatriale
Difetto interventricolare
Coartazione aortica
Cuore sinistro ipoplastico
Tetralogia Fallot
Tetralogia di Fallot
Canale atrioventricolare
Pervietà dotto arterioso
Stenosi periferiche arterie polmonari
Tetralogia Fallot
con displasia valvolare
del ventricolo sinistro
anomalie valvola mitralica
parziale, con ostruzioni sinistre, stenosi
polmonare o cardiomiopatia ipertrofica
con stenosi polmonare
del ventricolo sinistro
anomalie valvola mitralica
con displasia valvolare
del ventricolo sinistro
anomalie valvola mitralica
con displasia valvolare
del ventricolo sinistro
anomalie valvola mitralica
con ipoplasia mitralica (Shone)
con tetralogia di Fallot
con stenosi periferiche arterie polmonari
Sindromi con polidattilia
• Sindrome di Ellis-van Creveld
EVC, EVC2
Canale atrioventricolare
• Sindromi Oro-Facio- Digitali
OFD1
Altri geni sconosciuti
BBS1-14
Canale atrioventricolare
Eterotassia
Canale atrioventricolare
Destrocardia
Canale atrioventricolare
• Sindrome di Bardet-Biedl
• Sindrome di Smith- Lemli-Opitz DHCR7
Sindrome di Holt-Oram
TBX5
Associazione VACTERL
non noti
Sindrome di Goldenhar
non noti
178
Difetti settali
Difetto interventricolare
Difetto interatriale
Canale atrioventricolare
Tetralogia Fallot
Ventricolo destro a doppia uscita
Eterotassia
Canale atrioventricolare
Tetralogia di Fallot
Difetto interventricolare
Difetto interatriale
Ritorno venoso polmonare anomalo
parziale
con atrio comune
con persistenza vena cava superiore sinistra
parziale, con atrio comune
con atrio comune
parziale
parziale
con ritorno venoso
polmonare anomalo
muscolare
parziale
parziale
sottoaortico
Le basi genetiche delle cardiopatie congenite
Tabella V.
Sindromi genetiche associate a cardiopatie troncoconali da anomalia della migrazione del tessuto ectomesenchimale (Gruppo I di Clark).
Cardiopatia congenita
Difetto interventricolare sottoaortico
Sindromi associate
Trisomia 18
Sindrome di DiGeorge/velo-cardio-facciale
Sindrome Kabuki
Ventricolo destro a doppia uscita
Trisomia 18
Sindrome di DiGeorge/velo-cardio-facciale
Associazione VACTERL
Tetralogia di Fallot
Sindrome di Down
Trisomia 18
Trisomia 13
Delezione 8p23
Sindrome di DiGeorge/velo-cardio-facciale
Microdelezione 1q21.1
Sindrome CHARGE
Sindrome di Alagille
Associazione VACTERL
Spettro Oculo-Auricolo-Vertebrale (Goldenhar)
Atresia polmonare con difetto interventricolare
Sindrome di DiGeorge/velo-cardio-facciale
Sindrome CHARGE
Finestra aorto-polmonare
Associazione VACTERL
Sindrome CHARGE
Truncus arterioso
Sindrome di DiGeorge/velo-cardio-facciale
Duplicazione 8q interstiziale
Delezione 22q11.2 distale
Sindrome CHARGE
Tabella VI.
Sindromi genetiche associate ad anomalie del flusso ematico intracardiaco (Gruppo II di Clark).
Cardiopatia congenita
Difetto interventricolare perimembranoso
Sindromi associate
Trisomia 13
Trisomia 18
Difetti del cuore sinistro
(valvola aortica bicuspide, stenosi aortica valvolare,
coartazione aortica, interruzione arco aortico tipo A,
sindrome del cuore sinistro ipoplasico,
atresia aortica, atresia mitralica)
Sindrome di Turner
Delezione 11q (sindrome di Jacobsen)
Sindrome Williams
Sindrome di Noonan/RASopatie
Sindrome Kabuki
Difetti del cuore destro
Difetto interatriale ostium secundum
Sindrome di Down
Trisomia 18
Trisomia 13
Delezione 4p (Sindrome di Wolf Hirschhorn)
Sindrome di Holt-Oram
Sindrome di Noonan/RASopatie
Sindrome Kabuki
Stenosi polmonare valvolare
Delezione 4p (Sindrome di Wolf- Hirschhorn)
Sindrome di Noonan/RASopatie
Sindrome di Williams
179
M.C. Digilio et al.
caratterizzata da ostruzioni sinistre multiple e denominata dai cardiologi
“sindrome di Shone” (Digilio et al., 2001 e 2010) (Tab. VI).
Difetto interatriale (ostium secundum)
Il difetto interatriale presenta anomalie extracardiache associate nel
25% dei casi (Ferencz et al., 1993). Oltre alle numerose patologie
cromosomiche sono da sottolineare alcune sindromi monogeniche,
quali la sindrome Holt-Oram da mutazione del gene TBX5 (Basson et
al., 1997; Bruneau et al., 1999) e la sindrome Noonan da mutazione
dei geni PTPN11 e SOS1 (Sarkozy et al., 2003; Tartaglia et al., 2007;
Digilio et al., 2009, Lepri et al., 2011) (Tab. VI).
Stenosi polmonare valvolare
Questa CC si associa a sindromi genetiche nel 9% dei casi (Ferencz et al., 1993). La delezione terminale 4p (sindrome di WolfHirschhorn) (Battaglia et al., 1999) e la delezione terminale 18q (van
Trier et al., 2013) sono le patologie cromosomiche diagnosticate
più frequentemente. In ambito di sindromi monogeniche, invece, la
stenosi polmonare valvolare costituisce la CC caratteristicamente riscontrata nei pazienti con sindrome di Noonan e altre RASopatie (Van
der Hauwaert et al., 1978; Burch et al., 1993; Marino et al., 1999b;
Sarkozy et al., 2003; Digilio et al., 2009) (Tab. VI). Nelle RASopatie
la stenosi polmonare presenta caratteristiche anatomiche peculiari,
in quanto la valvola è generalmente displastica con ispessimento
fibrotico dell’anulus e dei lembi, spesso con restringimento anche
sopravalvolare. A causa della particolarità anatomica della valvola,
in questi soggetti il trattamento con valvuloplastica mediante cateterismo interventistico spesso non risulta risolutivo ed è necessario
intervenire chirurgicamente.
Anomalie della morte cellulare
Difetto interventricolare muscolare
Questa cardiopatia è diagnosticata in patologie cromosomiche, quali
trisomia 18 e trisomia 13 (Ferencz et al., 1993), e nella sindrome di HoltOram, a volte con blocco atrioventricolare (Kumar et al., 1994) (Tab. VII).
Anomalia di Ebstein della valvola tricuspide
Numerose sindromi cromosomiche e monogeniche sono diagnosticate nel 20% dei casi. Le sindromi riscontrate più caratteristicamente sono la sindrome genomica da microdelezione 1p36 (Battaglia et
al., 2008; Digilio et al., 2011) e la delezione terminale 8p23.1 (Digilio
et al., 2011; Paez et al., 2008) (Tabella VII).
Anomalie della matrice extracellulare
Anomalie extracardiache sono presenti nei 2/3 dei pazienti con canale
atrioventricolare. Nel 45% dei casi si tratta della sindrome di Down,
nel 15% di eterotassia e nel 15% di altre sindromi genetiche (Digilio
et al., 1999). L’associazione con la sindrome di Down è quella più conosciuta. Le caratteristiche anatomiche del canale atrioventricolare in
questa sindrome sono peculiari, in quanto il canale è prevalentemente
di tipo completo ed è raro riscontrare difetti ostruttivi sinistri, a differenza di quanto si evidenzia in pazienti senza la sindrome di Down (De
Biase et al., 1986; Marino et al., 1990,1996, 2000).
Le altre anomalie cromosomiche diagnosticate più spesso nei pazienti con canale atrioventricolare coinvolgono regioni cromosomiche nelle quali mappano geni che, quando mutati, possono essere
patogeneticamente correlati con canale atrioventricolare non-sindromico. Costituiscono un esempio la delezione terminale 8p23
(Digilio et al., 1998a) con canale atrioventricolare completo, a volte
associato a stenosi polmonare valvolare, e la delezione 3p25 (Green
et al., 2000). I geni candidati sono GATA4 nella regione 8p23.1 (Devriendt et al., 1999; Giglio et al., 2000) and CRELD1 in 3p25 (Rupp et
al., 2002; Robinson et al., 2003).
Tra le sindromi monogeniche con canale atrioventricolare possiamo
citare la sindrome di Noonan e altre RASopatie, prevalentemente
in associazione con mutazioni nei geni PTPN11 e RAF1 (Marino et
al., 1999b; Digilio et al., 2013), la sindrome CHARGE con mutazioni nel gene CHD7 (Vergara et al., 2006; Corsten-Janssen et al.,
2013) e le sindromi con polidattilia (Ellis-van Creveld, Bardet-Biedl,
Smith-Lemli Opitz, Oro-Facio-Digitali) con mutazioni in geni correlati
a ciliopatie (Digilio et al., 1999, 1997, 2003, 2006; Ruiz-Perez et
al., 2003; Ansley et al., 2003; Ferrante et al., 2006) (Tab. VIII). Nelle
sindromi con polidattilia il canale atrioventricolare è generalmente
parziale con atrio comune, persistenza della vena cava superiore
sinistra e “unroofed coronary sinus”. Le caratteristiche anatomiche
cardiache di questi pazienti sono simili a quelle della sindrome eterotassica con isomerismo sinistro (Digilio et al., 1999).
Anomalie della crescita “direzionata”
Ritorno venoso polmonare anomalo
Le patologie cromosomiche associate a ritorno venoso polmonare
anomalo sono la tetrasomia 22 (cat-eye syndrome), la trisomia 22
e la sindrome di Turner (Ferencz et al., 1993; Van Wassenaer et al.,
1988; Belien et al., 2008). Le sindromi monogeniche, invece, sono
costituite dalle sindromi di Holt-Oram, Townes-Brocks, lo spettro
Oculo-Auricolo-Vertebrale (sindrome di Goldenhar) e l’associazione
VACTERL (Ferencz et al., 1993; Digilio et al., 2001) (Tab. IX).
Anomalie del situs e della loop cardiaca
Le anomalie del situs costituiscono un gruppo complesso di malformazioni cardiache ed extracardiache in ambito di difetti della
lateralità, quali la sindrome polisplenica (o isomerismo sinistro) e
la sindrome asplenica (o isomerismo destro). Le CC associate consistono in anomalie delle vene sistemiche e polmonari, della setta-
Tabella VII.
Sindromi genetiche associate ad anomalie della morte cellulare (Gruppo III di Clark).
Cardiopatia congenita
Difetto interventricolare muscolare
Sindromi associate
Sindrome di Holt-Oram
Trisomia 18
Trisomia 13
Anomalia di Ebstein della valvola tricuspide
Microdelezione 1p36
Delezione 8p23
Delezione terminale 18q
180
Le basi genetiche delle cardiopatie congenite
Tabella VIII.
Sindromi genetiche associate ad anomalie della matrice extracellulare della morte cellulare (Gruppo IV di Clark).
Cardiopatia congenita
Sindromi associate
Difetto interatriale ostium primum
Sindrome di Down
Difetto interventricolare, tipo III
(posteriore tipo”canale atrioventricolare”)
Delezione 8p23
Canale atrioventricolare
Sindrome di Noonan
Valvola aortica o polmonare displasica
Sindrome di Ellis-van Creveld
Delezione 3p25
Sindromi Oro-Facio-Digitali
Sindrome di Smith-Lemli-Opitz
Sindrome CHARGE
Tabella IX.
Sindromi genetiche associate ad anomalie della crescita “direzionata” (Gruppo V di Clark).
Cardiopatia congenita
Sindromi associate
Ritorno venoso polmonare anomalo parziale
Tetrasomia 22 (cat-eye syndrome)
Ritorno venoso polmonare anomalo totale
Trisomia 22
Cor triatriatum
Sindrome di Turner
Difetto interatriale tipo seno venoso
Sindrome di Holt-Oram
Sindrome di Townes-Brocks
Spettro Oculo-Auricolo-Vertebrale (Goldenhar)
Associazione VACTERL
zione atriale o ventricolare, canale atrioventricolare e difetti della
regione troncoconale. A livello addominale questi pazienti possono
presentare un fegato mediano o posizionato a sinistra, polisplenia o
asplenia, difetti della lateralità intestinale.
Nei modelli animali sono stati identificati un centinaio di geni associati a difetti di lateralità e alcuni di questi possono essere responsabili di anomalie del situs e dell’ansa anche nell’uomo (Levin, 2005).
Tra questi ultimi citiamo mutazioni nei geni ZIC3 (Gebbia et al.,
1997), ACVR2B (Kosaki et al., 1999a), LEFTYA (Kosaki et al., 1999b),
CFC1 (Bamford et al., 2000), GDF1 (Karkera et al., 2007) e NODAL
(Mohapatra et al., 2009). È noto che tutti questi geni sono correlati
funzionalmente con la via patogenetica di NODAL.
Approccio diagnostico alle cardiopatie congenite
sindromiche
La valutazione diagnostica dei pazienti con CC prevede il tentativo
di inquadramento della malformazione all’interno di una sindrome
specifica o, in alternativa, la caratterizzazione come difetto isolato.
Si inizia con una accurata anamnesi familiare e con la ricostruzione
dell’albero genealogico, con la raccolta delle informazioni relative
alle malattie nei consanguinei di primo e secondo grado, l’esame
della documentazione clinica del paziente, delle indagini strumentali, degli esami di laboratorio, compresi quelli genetici. Successivamente, si effettua un accurato esame obiettivo del paziente, si ricercano eventuali dismorfismi e anomalie fenotipiche, anche minori. In
questa fase può essere necessario richiedere specifici accertamenti
clinici, strumentali e di laboratorio (genetici e non) integrativi (Hennekam, 2007).
Approccio di monitoraggio multidisciplinare alle
cardiopatie congenite sindromiche
Il miglioramento della conoscenza delle diverse e variabili problematiche cliniche correlate alle sindromi con CC, che necessitano spesso del coinvolgimento di numerosi specialisti in branche mediche diverse, ha portato alla definizione di protocolli clinici di monitoraggio
specifici per patologia e per età del paziente. Inizialmente il cardiologo pediatra e il cardiochirurgo forniscono informazioni ai genitori
di un bambino affetto da CC riguardo alle caratteristiche cliniche
della patologia, al programma diagnostico e terapeutico, agli interventi necessari e all’eventuale follow-up post-operatorio. Un team
multidisciplinare di specialisti interviene per affrontare le problematiche cliniche extracardiache caratteristiche delle varie sindromi.
Per molte delle sindromi genetiche con CC si può fare riferimento
a linee guida e protocolli di follow-up condivisi, quali quelli per la
sindrome di Down (American Academy of Pediatrics, 2001a), la microdelezione 22q11.2 (Bassett et al., 2011), la sindrome di Noonan
(Sarkozy et al., 2006; Romano et al., 2010; Roberts et al., 2013), la
sindrome di Williams (American Academy of Pediatrics, 2001b) e la
sindrome Kabuki (Kabuki Syndrome Guideline Development Group,
www.dyscerne.org).
Prognosi chirurgica
Lo studio di fattori di rischio cardiologici specifici per patologia consente di predisporre protocolli diagnostici e perioperatori mirati alla
riduzione della mortalità e della morbilità delle malformazioni.
Per la sindrome di Down è accertato che i risultati chirurgici per
la correzione del canale atrioventricolare completo e parziale non
mostrano un rischio aumentato di mortalità chirurgica e postopera-
181
M.C. Digilio et al.
toria, se si eccettua il rischio maggiore per ipertensione polmonare
(Formigari et al., 2004, 2009).
Anche la microdelezione 22q11.2 non costituisce un fattore di rischio
aggiuntivo nei pazienti affetti da CC. Infatti la sopravvivenza a lungo
termine dei pazienti con cardiopatia troncoconale e delezione 22 è
simile a quella dei pazienti non-sindromici con lo stesso tipo di cardiopatia (Michielon et al., 2006, 2009; Formigari et al., 2009). Una
mortalità chirurgica più elevata è stata segnalata solo per pazienti con
atresia polmonare e difetto interventricolare, probabilmente legata alla
complessità anatomica delle arterie polmonari (Michielon et al., 2009).
Un decorso postoperatorio più complicato è descritto inoltre per i pazienti con truncus arterioso e interruzione dell’arco aortico (O’Byrne et
al., 2014). Altre sindromi malformative complesse possono avere un
forte impatto negativo sulla prognosi chirurgica delle CC, e tra queste
l’Associazione VACTERL (Michielon et al., 2009).
Cardiopatie congenite non-sindromiche
Le CC non-sindromiche sono considerate secondarie a meccanismi
multifattoriali. Sono causate cioè dalla concomitanza di fattori genetici di suscettibilità, che agiscono con un meccanismo additivo, e
di fattori ambientali. Ancora oggi il calcolo del rischio riproduttivo in
consulenza genetica si basa su dati empirici, in considerazione del
tipo anatomico del difetto e dei relativi dati epidemiologici.
Nelle famiglie nelle quali è presente una persona con CC il rischio
di ricorrenza del difetto è più elevato e varia in rapporto al numero
delle persone affette nella famiglia e al grado di consanguineità tra
probando e le altre persone affette. Il rischio empirico di ricorrenza
per le CC, calcolato per una coppia di genitori che ha avuto un figlio affetto, è circa 3%, per ogni concepimento, indipendentemente
dal sesso del nascituro (Burn et al., 1998; Peyvandi et al., 2014). In
una minoranza di nuclei familiari la CC segrega in più soggetti e la
trasmissione è compatibile con un meccanismo autosomico dominante o autosomico recessivo. Dagli studi di trasmissione verticale
emerge che le madri affette sembrano avere un rischio più elevato
di trasmettere alcuni tipi di CC, rispetto ai padri affetti.
La consulenza genetica può essere richiesta anche nel corso della
vita fetale, per una coppia di genitori ai quali, mediante ecografia o
ecocardiografia prenatale, è stata effettuata una diagnosi di CC per
la gravidanza in corso. In questi casi è indicato un counseling genetico che coinvolga anche il cardiologo e il cardiochirurgo pediatra
per illustrare alla coppia le possibilità offerte dalla cardiochirurgia
post-natale e consentire una scelta riproduttiva consapevole.
Lo studio di ampie casistiche e in particolare di casi familiari di CC ha
permesso di identificare una serie di mutazioni, in singoli geni, in associazione con alcuni tipi di difetto, come la tetralogia di Fallot (Eldadah
et al., 2001; Goldmuntz et al., 2001; Pizzuti et al., 2003; McElhinney et
al., 2003; Sperling Dunkel et al., 2005; Roessler et al., 2008; Griffin et
al., 2010; Rauch et al., 2010; Bauer et al., 2010; De Luca et al., 2011;
Guida et al., 2011,2013; Soemedi et al., 2012), il canale atrioventricolare
(Wilson et al., 1993; Sheffield et al., 1997; Robinson et al., 2003; Garg et
al., 2003; Zatika et al., 2005; Weismann et al., 2005; Al Turki et al. 2014),
il difetto interatriale (Schott et al., 1998; Sarkozy et al., 2005; Ching et
al., 2005), il cuore sinistro ipoplasico e altre anomalie ostruttive sinistre
(Dasgupta et al., 2001; Elliott et al. 2003; Ware et al., 2004; Garg et al.,
2005; McElhinney et al., 2005; Stevens et al., 2010; Iascone et al., 2012;
Lalani et al., 2013; Freylikhman et al., 2014) (Tab. X).
Tabella X.
Principali mutazioni patogenetiche nelle cardiopatie congenite non-sindromiche.
Cardiopatia congenita
Tetralogia di Fallot
Canale atrioventricolare
Ostruzioni sinistre
Trasposizione grandi arterie
Difetto interatriale
182
Gene
% positività
NKX2.5
JAG1
FOG2
CITED2
Nodal
FOXA2
GJA5
FOXC1
HAND2
CRELD1
GATA4
PTPN11
NOTCH1
NKX2.5
GJA1
ZIC3
ISL1
MCTP2
ZIC3
CFC1
Prosit 240
NKX2.5
GATA4
MHC6
1-4 %
3%
1-4 %
6%
12 %
4%
1%
1%
1%
casi singoli
casi singoli
caso singolo
casi singoli
2%
casi singoli
casi singoli
casi singoli
0.7%
singole famiglie
2%
3%
casi familiari
casi familiari
casi familiari
Sottotipo cardiaco
parziale
completo con stenosi polmonare
completo
con blocco atrioventricolare
con stenosi polmonare
Le basi genetiche delle cardiopatie congenite
È da considerare, però, che ognuno dei geni implicati risulta
mutato solo in una piccola percentuale dei casi. In più, in alcune famiglie sono state riscontrate mutazioni in geni-malattia
anche in familiari con cuore sano. Questo implica la possibilità di
coinvolgimento di un difetto di penetranza o comunque l’effetto
additivo di altri fattori di rischio, in accordo con quanto atteso nel
modello multifattoriale.
Recentemente stanno emergendo dati riguardo alla frequenza di
Copy Number Variations nelle CC non-sindromiche. La frequenza è
inferiore rispetto alle CC sindromiche (3.6% versus 19%) (Erdogan
et al., 2008), ma in alcuni studi la percentuale ha raggiunto addirittura il 10% (Greenway et al., 2009).
Conclusioni
Studi epidemiologici, clinici e molecolari hanno progressivamente
consentito di migliorare le conoscenze sulle basi genetiche delle CC.
Studi di correlazione genotipo-fenotipo continuano a evidenziare l’esistenza di un collegamento tra specifici fenotipi anatomici delle CC e
alcune sindromi genetiche. Tali dati sono di ausilio diagnostico e per il
follow-up dei pazienti. È ancora poco nota l’eziologia delle CC non-sindromiche, in quanto è stato possibile caratterizzare molecolarmente
soprattutto casi per i quali la CC segregava in famiglia in più soggetti,
mentre per la maggior parte dei casi sporadici la causa e le basi genetiche sono ancora sconosciute. Nel prossimo futuro potranno essere
utilizzate le nuove tecniche molecolari di Next Generation Sequencing
per migliore comprensione diagnostica e associazioni di patologie.
Box di orientamento
Che cosa sapevamo prima
Da tempo studi epidemiologici e clinici avevano rilevato che fattori genetici sono importanti nell’eziologia delle CC. I meccanismi alla base delle CC
sono però complessi e eterogenei. Una stessa malformazione cardiaca può essere causata da fattori genetici diversi, così come singole anomalie cromosomiche o geniche possono essere associate a malformazioni cardiache diverse. Patologie cromosomiche e mutazioni geniche sono alla base di CC
sindromiche, mentre meccanismi multifattoriali causano le CC non-sindromiche.
Che cosa sappiamo adesso
Esiste un collegamento tra specifici fenotipi anatomici delle CC e alcune sindromi genetiche o mutazioni di geni. La diagnosi di un preciso difetto anatomico del cuore può orientare il clinico verso il sospetto di una particolare sindrome o per una specifica indagine genetica. La diagnosi di una particolare
sindrome in un bambino può guidare il cardiologo alla ricerca di una specifica CC potenzialmente associata. Sono state identificate differenze nella
prognosi cardiochirurgica in sindromi differenti e in bambini non-sindromici. La conoscenza di fattori di rischio cardiologici e extracardiologici specifici
per sindrome diagnosticata consente di predisporre protocolli di monitoraggio multisciplinari. Il progredire delle tecniche molecolari negli ultimi anni ha
portato all’identificazione delle basi molecolari di un gran numero di sindromi con CC, e sta iniziando a caratterizzare molecolarmente anche il gruppo
molto eterogeneo delle CC non-sindromiche.
Per la pratica clinica
La migliore definizione delle caratteristiche cliniche e molecolari e la possibilità di utilizzare marcatori fenotipici diagnostici e nuove tecniche molecolari
consentono una diagnosi precoce delle sindromi genetiche associate a CC con i relativi fattori di rischio. Il monitoraggio delle problematiche cardiologiche ed extracardiache è effettuato attraverso linee guida e protocolli di follow-up condivisi. Attraverso le nuove conoscenze è possibile fornire alla
famiglia una consulenza genetica più precisa.
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Corrispondenza
Maria Cristina Digilio, Genetica Medica, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù IRCCS, Roma, Italy.
E-mail: [email protected]
186
Luglio-Settembre 2014 • Vol. 44 • N. 175 • Pp. 187-194
CARDIOlogia pediatrica
Idoneità fisica-sportiva
in adolescenti con cardiopatie congenite
Berardo Sarubbi
Unità Operativa Dipartimentale Cardiopatie Congenite dell’Adulto (GUCH Unit),
A.O.R.N dei Colli, Ospedale Monaldi, Napoli
Riassunto
Nonostante i cardiopatici congeniti, nella maggior parte dei casi, presentino una normale capacità fisica e intellettiva, essi soffrono, a tutt’oggi, di eccessive
restrizioni nella regolare pratica di un’attività fisica, condizione particolarmente limitante nell’età evolutiva ed adolescenziale, quando lo sport assume
anche un ruolo formativo ed educativo.
Andando ad indagare tra le cause ritenute limitanti l’attività fisica, solo in circa un terzo dei casi sono responsabili i sintomi cardiaci, mentre prevalgono
limitazioni dovute a mancanza di motivazione, e parere negativo dei genitori, insegnanti e soprattutto medici curanti. Complessivamente, è stato dimostrato
che solo il 20% dei medici consiglia un’attività fisica quotidiana ad adolescenti affetti da cardiopatie congenite. L’inesattezza di tale approccio è ampiamente dimostrato. L’attività sportiva è considerata nei cardiopatici congeniti uno stimolo importante per la crescita e la completa maturazione psico-fisica
del bambino e dell’adolescente, e viene consigliata per prevenire la sedentarietà, condizione che predispone allo sviluppo di obesità, diabete, dislipidemie
ed ipertensione arteriosa.
In questo contesto, perciò, appaiono giustificate le istanze rivolte a consentire l’attività sportiva anche a bambini ed adolescenti con cardiopatie, in cui
tra l’altro un regolare allenamento fisico ha dimostrato un netto miglioramento funzionale cardiaco; richieste divenute sempre più pressanti da quando i
progressi diagnostici e terapeutici, soprattutto cardiochirurgici e di emodinamica interventistica, hanno consentito il recupero alla vita attiva di un numero
non trascurabile di piccoli pazienti, precedentemente destinati all’inattività fisica.
Summary
Even if congenital heart disease patients, in a large percentage of cases, show a normal physical and intellectual capacity, they suffer for excessive restrictions in regular physical practice in the evolutive and adolescential age, when sport has an educational role.
Among the causes related to physical inactivity, cardiac symptoms are responsible for it only in a third of cases, while limitations related to lack of motivation or negative advices from relatives, teachers and doctors are prevalent.
It has been shown that only 20% of doctors suggest a daily physical activity to adolescents with congenital heart disease. This is completely wrong. Sport
activity is considered in congenital heart disease really important for growth and complete psycho-physical maturity in children and adolescents and has
been suggested to prevent sedentary behaviour, obesity, diabetes, dyslipidaemia, and arterial hypertension.
For these reasons, it is important to permit sport activity even to children and adolescents with congenital heart disease, in whom a regular physical activity
has showed a significant improvement in heart function.
Introduzione
Negli ultimi anni si è posta un’attenzione sempre maggiore, oltre
che ai problemi medici dei cardiopatici congeniti, ai loro bisogni esistenziali, che riguardano la possibilità di studiare, avere un lavoro,
sposarsi e generare dei figli, svolgere un’attività ricreativa e/o sportiva, condizioni essenziale per sentirsi del tutto simili ai loro coetanei
(Wren e O’Sullivan, 2001; Perloff e Child, 1998; Viner, 1999; Warnes,
1998; Siu et al., 1997).
Nonostante i cardiopatici congeniti adulti, nella maggior parte dei casi,
presentino una normale capacità fisica e intellettiva, essi soffrono, a
tutt’oggi, di eccessive restrizioni nella regolare pratica di un’attività
sportiva. Studi recenti, provenienti dalla maggioranza dei paesi europei hanno, infatti, evidenziato, negli ultimi venti anni, un progressivo
incremento del peso corporeo in tali pazienti, legato ad uno stile di vita
eccessivamente sedentario ed ad un regime alimentare non adeguato
(Fredriksen et al., 2000; Thaulow e Fredriksen, 2004).
In un sondaggio condotto nel Regno Unito nell’anno 2000 tra cardiopatici congeniti adulti con un’età media di 25,6 anni, solamente il
44% considerava possibile e salutare la pratica di un’attività sportiva
regolare. Andando ad indagare tra le cause ritenute limitanti l’attività
fisica, solo nel 30% dei casi erano responsabili i sintomi cardiaci, mentre nel 24% era evidente una mancanza di motivazione, nel
16% la paura di complicanze cardiache, e nel 10% era determinante
il parere sfavorevole del medico curante. Complessivamente, solo
il 20% dei medici consigliavano un’attività fisica quotidiana ai loro
pazienti affetti da cardiopatie congenite (Swan e Hillis, 2000).
Questi dati sono in netta controtendenza con quelli disponibili sulla
popolazione giovanile generale.
I dati ISTAT 2005 e CONI 2004 testimoniano come circa il 40% dei
giovani italiani pratichi un’attività sportiva saltuaria o continuativa,
confermando quanto sia cambiato negli ultimi 40 anni l’atteggiamento del medico sportivo, riguardo alla propensione dell’atleta
sano ad intraprendere un’attività sportiva in età pre-pubere.
Negli anni ’60, infatti, un’attività sportiva intensa era ritenuta dannosa per un bambino, perché si riteneva che in età pediatrica non
si sarebbero verificati gli adattamenti morfo-funzionali sufficienti a
tollerare i carichi di lavoro richiesti.
Oggi l’inesattezza di tali teorie è stata ampiamente dimostrata. L’attività sportiva è considerata uno stimolo importante per la crescita e
la completa maturazione psico-fisica del bambino e dell’adolescente, e viene consigliata per prevenire la sedentarietà, condizione che
187
B. Sarubbi
predispone allo sviluppo di obesità, diabete, dislipidemie ed ipertensione arteriosa.
La pratica sportiva comporta, inoltre, benefici fisiologici in ogni età
della vita: aumenta la capacità fisica e la forza muscolare, aiuta a
mantenere sotto controllo il peso corporeo, rende gli apparati osteoarticolare e muscolare più flessibili ed efficienti.
Una componente non trascurabile di questi benefici è data dal miglioramento delle condizioni psicologiche, ossia della “qualità” di
vita stessa. Nel paziente giovane, l’impatto sociale dello sport, spesso, si riflette sulla propria capacità di autostima, e, pertanto, imporre
una vita eccessivamente sedentaria ad un ragazzo, anche quando
non sia strettamente necessario per le sue condizioni, può influenzarne negativamente l’integrazione sociale ad ogni livello.
Alcuni studi hanno evidenziato che gli adolescenti operati di cardiopatie congenite presentano, a oltre 10 anni dall’intervento, maggiori
problemi emozionali e di comportamento rispetto ai loro coetanei
sani (Horner et al., 2000; Kamphuis et al., 2002; Scarso et al., 2003;
Chantepie 2004; Daliento et al., 2005). Essi tendono, infatti, a presentare un sentimento di fragilità derivante dalla preoccupazione
per la propria salute, che li porta ad avere una scarsa fiducia in
se stessi e nelle proprie possibilità. Questa situazione psicologica è
fonte di insicurezza e di ansia.
Questi aspetti rivestono un’importanza maggiore nell’età evolutiva,
quando lo sport assume anche un ruolo formativo ed educativo.
In questo contesto, perciò, appaiono giustificate le istanze rivolte
a consentire l’attività sportiva anche a bambini ed adolescenti con
cardiopatie, richieste divenute sempre più pressanti da quando i
progressi diagnostici e terapeutici, soprattutto cardiochirurgici e di
emodinamica interventistica, hanno consentito il recupero alla vita
attiva di un numero non trascurabile di piccoli pazienti (in Italia in
numero superiore alle centomila unità) precedentemente destinati
all’inattività fisica (Sandberg et al., 2014; Kroonstrom et al., 2014).
Valutazione della capacità di esercizio in
adolescenti ed adulti con cardiopatie congenite
Prima di stabilire l’idoneità fisica all’attività sportiva nei cardiopatici
congeniti, è assolutamente fondamentale valutarne la capacità di
esercizio.
Pazienti con una cardiopatia congenita possono essere meno attenti
alla progressione della limitazione della capacità funzionale, perché
si sviluppa in un tempo più lungo, in confronto ai pazienti con cardiopatia acquisita, in cui la comparsa dei sintomi è più improvvisa.
Il paradosso di una ridotta capacità funzionale, in assenza di sintomi
conclamati, porta alla necessità di una valutazione oggettiva, mediante misurazione del consumo di ossigeno nel corso dell’esercizio
fisico.
Il test cardiopolmonare è uno strumento efficace per la valutazione
obiettiva del sistema cardiovascolare, respiratorio e muscolare, ed
è divenuto parte della valutazione clinica routinaria dei cardiopatici
congeniti adulti (Wasserman et al., 1999). Sono utilizzati protocolli
incrementali, per ottenere, durante attività fisica, indici funzionali e
prognostici quali (Cooper e Storer, 2001):
• il consumo massimo di ossigeno (VO2 di picco),
• il rapporto tra ventilazione e produzione massima di CO2 (rapporto VE/VCO2),
• la soglia anaerobica,
• la risposta cronotropa e pressoria.
Il consumo massimo di ossigeno (VO2 di picco) esprime approssimativamente il massimo potere aerobio di ogni individuo. Solitamente
188
è espresso in ml/kg/min e costituisce una stima della condizione
funzionale del sistema polmonare, cardiovascolare e muscolare. È
il miglior parametro di esercizio segnalato, perché è semplice da
interpretare, ed ha un elevato significato prognostico sia nello scompenso cardiaco acquisito che nei pazienti con cardiopatie congenite
(Wasserman et al., 1999; Cooper e Storer, 2001). In tali pazienti,
infatti, il VO2 di picco è un predittore indipendente di morte o di
ospedalizzazione: ad un follow-up medio annuale i pazienti con un
VO2 di picco < 15,5 ml/kg/min presentano un rischio tre volte maggiore (Diller et al., 2005).
Il VO2 di picco è correlato alla frequenza ed alla durata dell’ospedalizzazione, indipendentemente dalla classe NYHA, dall’età, dall’epoca dell’intervento cardiochirurgico e dal sesso.
Un limite nell’utilizzo del consumo di ossigeno di picco è che il suo
valore risulta attendibile solo dopo una prova da sforzo massimale,
condizione non sempre raggiunta dai cardiopatici congeniti. Il suo
utilizzo è, pertanto, limitato dalla capacità e dalla determinazione dei
pazienti ad effettuare un esercizio massimale (Task Force Italian WG
on Cardiac Rehabilitation Prevention 2006).
Di routine, alla VO2 di picco viene associato il calcolo del rapporto
VE/VCO2.
Il rapporto VE/VCO2 è un parametro di esercizio indipendente dallo
sforzo massimale. È una semplificazione del rapporto complesso fra
ventilazione e VCO2 ed è calcolato utilizzando i dati prodotti durante
l’intera (o gran parte) del periodo di esercizio. È facile da calcolare,
altamente riproducibile, ed è un indicatore di intolleranza all’esercizio strettamente correlato al VO2 di picco. (Dimopoulos et al., 2006).
Non è completamente noto il meccanismo che sottintende l’anomala risposta ventilatoria agli incrementi della produzione della CO2
osservata in cardiopatie congenite o acquisite.
Alcuni dei potenziali meccanismi ipotizzati sono (Francis et al.,
2000):
• l’ipoperfusione o la vasocostrizione polmonare,
• l’aumento dello spazio morto fisiologico,
• il mismatch ventilazione/perfusione,
• la stimolazione dei centri respiratori tramite meccanismi di trigger diversi dall’anidride carbonica,
• l’aumento della sensibilità ventilatoria riflessa.
Un altro tipo di test usato per valutare la capacità di esercizio in pazienti adulti con cardiopatie congenite è il test dei sei minuti. È una
prova cronometrata submassimale di distanza che è facile da effettuare e riflette le attività quotidiane ordinarie. La variabile principale
di risposta, in questo tipo di prova, è la distanza che gli individui
possono coprire con il proprio passo in 6 minuti. Un soggetto sano di
40 anni di età copre circa 600 m; il percorso effettuato diminuisce di
circa 50 m con l’aumentare dell’età di una decade (Cooper e Storer
2001). Può anche essere registrata la saturazione di ossigeno con
un saturimetro portatile e possono essere segnalati i sintomi soggettivi percepiti.
È una prova submassimale, in individui in buona salute, ed in pazienti lievemente compromessi dal punto di vista funzionale, ma può
essere una prova massimale in pazienti molto compromessi. Infatti,
la distanza percorsa nei sei minuti si correla bene con il VO2 di picco
in pazienti altamente sintomatici (Niedeggen et al., 2005).
Adattamenti cardiovascolari all’esercizio fisico nei
cardiopatici congeniti
L’attività fisica in un cardiopatico congenito adolescente o adulto
può essere limitata da una serie di fattori:
Idoneità fisica-sportiva in adolescenti con cardiopatie congenite
• sequele emodinamiche (anomalie residue – shunts – insufficienza ventricolare),
• sequele aritmiche (aritmie ipercinetiche sopraventricolari / ventricolari e/o aritmie ipocinetiche),
• problemi polmonari (sequele post-operatorie – infezioni polmonari recidivanti - ipertensione polmonare),
• problemi locomotori (paresi – scoliosi),
• mancanza di allenamento (paura – scarsa motivazione).
A ciò vanno aggiunte le particolari condizioni ambientali in cui vengono effettuate le attività fisico-sportive, sia in termini climatici che
in termini di altitudine.
È necessaria, pertanto, da parte del medico che segue questi soggetti, una profonda conoscenza dei quadri anatomo-funzionali, non
solo della patologia nativa, ma anche di quelli prodotti dalla correzione chirurgica od interventistica, per poter attribuire un giusto
significato prognostico ai dati clinici e strumentali rilevati durante il
follow-up (James et al., 1982; Connelly et al., 1996; Calzolari et al.,
2001; McNamara et al., 1985; Giada et al., 2007; Cava et al., 2004;
Colonna et al., 2006).
Esiste, infatti, una discrepanza tra quello che la maggior parte dei
pazienti riferisce riguardo alla capacità di esercizio e quello che, poi,
si registra obiettivamente. Molti pazienti, infatti, non lamentano riduzione della capacità fisica. Tuttavia, questa auto-valutazione, spesso, non trova riscontro oggettivo, così come succede in altre forme
di scompenso cardiaco cronico.
In tale ottica diviene fondamentale, per una valutazione oggettiva
efficace della limitazione funzionale, l’esame del consumo di ossigeno. Una riduzione nel picco del consumo di ossigeno in tutte le
cardiopatie congenite è unanimemente dimostrata, anche se i valori
riscontrati sono diversi nelle varie cardiopatie: i più alti valori di VO2
max si ritrovano nei pazienti operati di coartazione aortica e quelli
più bassi nella trasposizione corretta dei grandi vasi, nelle forme con
anatomia complessa e nella reazione di Eisenmenger.
Per certi versi, i cardiopatici congeniti sono assimilabili ai pazienti
con scompenso cronico della corrispondente classe NYHA, e con
questi condividono, praticamente in maniera assoluta, i valori di VO2
di picco.
La particolare preoccupazione dei medici dello sport e dei cardiologi al rilascio dell’idoneità fisica allo sport in cardiopatici congeniti
dipende dal fatto che si esaminano le patologie congenite che più
frequentemente si accompagnano ad eventi infausti prematuri, quali la stenosi aortica severa, la sindrome di Eisenmenger, l’origine
anomala di una coronaria, le cardiopatie congenite operate, sottoposte ad ampia ventricolotomia (correzione della tetralogia di Fallot,
ventricolo destro a doppia uscita) o a diffuse cicatrici delle superfici
atriali (correzione della trasposizione dei grossi vasi secondo Mustard o Senning, correzione monoventricolare secondo Fontan), la
miocardiopatia ipertrofica, le patologia della parete dell’aorta, esse,
pur presentando meccanismi differenti, riconducibili ad un’azione
meccanica, elettrica o meccano-elettrica, sono spesso correlate con
lo sforzo fisico, favorite da un alterato stato emotivo e precipitate
da condizioni ambientali sfavorevoli come il freddo o l’associazione
di un traumatismo o di un soccorso non immediato, che tendono a
chiudere in un circolo vizioso instabilità elettrica, emodinamica ed
emato-chimica.
I cardiopatici congeniti con un quadro fisiopatologico di iperafflusso
e normali pressioni e resistenze vascolari polmonari, possono presentare una ridotta tolleranza allo sforzo e se adulti, soprattutto in
presenza di una shunt pre-tricuspidale, possono andare incontro a
crisi di tachicardia sopraventricolare o fibrillazione atriale durante lo
sforzo (Fredriksen et al., 2000).
Tuttavia, se il difetto è stato corretto nell’infanzia e non residuano alterazioni elettrocardiografiche o emodinamiche, i pazienti, se
adeguatamente allenati, possono svolgere attività sportive, anche a
livello agonistico.
Le dimensioni delle cavità ventricolari possono rimanere al di sopra
della norma soprattutto nei soggetti operati più tardivamente o con
residua ipertensione polmonare: questi soggetti possono lamentare
una ridotta tolleranza allo sforzo ed avere una più difficile fase di
acclimatizzazione, se l’attività fisica-sportiva è svolta ad alta quota
(sci alpino e di fondo, trekking), in quanto l’ipossia provoca vasocostrizione delle arteriole preacinose polmonari, determinando severe
crisi ipertensive polmonari (Thaulow e Fredriksen 2004).
Indubbiamente, la situazione è molto più limitante nei soggetti la
cui cardiopatia congenita è di per sé stessa causa di desaturazione
arteriosa periferica e che, oltre ad una riduzione significativa del
VO2 max, si accompagna ad eritrocitosi (Dimopoulos et al., 2006).
Esiste, infatti, una relazione lineare tra concentrazione di emoglobina, desaturazione arteriosa e massima capacità di utilizzo dell’emoglobina nei tessuti.
In presenza di cianosi ingravescente, il livello di emoglobina aumenta in maniera compensatoria per un’attività indotta dall’eritropoietina. Tuttavia, questo vantaggio viene perso per valori di emoglobina
superiori a 18-19 g/dl, quando all’eritrocitosi si accompagnano i sintomi da iperviscosità ematica. Questi pazienti, anche in assenza di
ipertensione polmonare, ma in presenza di uno shunt destro-sinistro
secondario ad una severa stenosi dell’efflusso polmonare (come si
può avere in alcune forme di trasposizione dei grossi vasi con difetto
interventricolare e stenosi polmonare, o cuore univentricolare con
stenosi polmonare o nella stessa malattia di Ebstein con difetto del
setto interatriale), effettuando attività fisico-sportive ad alte e medie
quote, possono aggravare il loro stato clinico, trasformando un’eritrocitosi compensata in una eritrocitosi scompensata, in particolar
modo se le loro riserve di ferro sono decisamente ridotte, per esempio per uno sconsiderato uso di salassi (Dimopoulos et al., 2006).
Se lo shunt destro-sinistro si accompagna ad una reazione di Eisenmenger, la capacità funzionale è ulteriormente ridotta, ed una
modesta attività può determinare un ulteriore incremento delle
resistenze vascolari polmonari, che si tradurranno in severe crisi
ipossiche, piuttosto che in edema polmonare, considerate le intense
alterazioni produttive presenti a livello dei vasi preacinosi polmonari
(Dimopoulos et al., 2006).
I pazienti con stenosi aortica congenita possono rimanere asintomatici anche con forme severe e mantenere a lungo una buona capacità funzionale, tuttavia sono a rischio di sincopi durante o subito dopo
uno sforzo (Cava et al., 2004). In questo caso, la sincope è neuromediata e sembra conseguire alla vasodilatazione ed ad un’inadeguata capacità di ripristino della portata cardiaca, in conseguenza
della presenza di un ostacolo fisso all’efflusso sinistro.
I pazienti operati di correzione radicale di tetralogia di Fallot o di
ventricolo destro a doppia uscita presentano un’instabilità elettrica ventricolare, secondaria alla presenza di un’estesa ventricolotomia, substrato ideale per l’attivazione di un circuito di rientro, o
alla dilatazione del ventricolo secondaria all’insufficienza residua
della valvola polmonare, ed a modifiche qualitative e quantitative
dell’innervazione neurovegetativa del cuore, con una prevalenza del
simpatico a livello del nodo del seno ed una più ricca e disomogenea
distribuzione delle fibre adrenergiche del miocardio parietale. Questi
fattori vengono potenziati dallo sforzo, attraverso l’attivazione di una
relazione meccano-elettrica, favorendo l’innesco ed il perpetuarsi di
aritmie ipercinetiche ventricolari (Frieriksen et al., 2002).
Nell’anastomosi atrio-polmonare o cavo-polmonare totale (inter-
189
B. Sarubbi
vento secondo Fontan e simili) il cuore ha una ridotta capacità di
aumentare la portata cardiaca con l’attività fisica, inoltre, mancando
una cavità ventricolare pompante, piccole variazioni delle resistenze
vascolari polmonari si ripercuotono sul flusso polmonare con stasi a
livello delle strutture venose. Una distensione acuta dell’atrio destro
può causare aritmie ipercinetiche sopraventricolari, particolarmente
fibrillo-flutter, che comportano severe ripercussioni emodinamiche
(Cava et al., 2004). Questo particolare modello circolatorio è, pertanto, poco favorevole ad attività fisica-sportiva in generale, ed in
particolare a situazioni ambientali in cui la riduzione della pressione
parziale di ossigeno si traduce in un certo grado di vasocostrizione
arteriolare polmonare, ed in cui piccole variazioni del gradiente di
pressione tra vene cave ed arteria polmonare comportano significative modificazioni qualitative e quantitative del flusso venoso sistemico (Colonna et al., 2006).
In studi in cui i pazienti operati di Fontan, per differenti patologie a
fisiologia univentricolare, erano sottoposti a test da sforzo in una
camera ipobarica, in un ambiente cioè che simula un soggiorno ad
alta quota, è stato dimostrato che, mentre la saturazione di ossigeno
a livello del mare era normale in condizioni di riposo e variava di
poco al massimo dello sforzo, in condizioni che simulavano i 3000
metri di quota, già in condizioni di riposo, la saturazione era sotto il
90% per scendere al di sotto dell’80% al massimo sforzo. Inoltre,
in quota, questi pazienti, al contrario di quanto avviene a livello del
mare, sono incapaci di aumentare la portata cardiaca, che invece si
riduce per un significativo decremento dello stroke volume (Colonna
et al., 2006).
La conoscenza delle condizioni ambientali, della fisiopatologia delle
cardiopatie congenite e la loro interazione permette una corretta definizione delle possibilità e dei limiti di questi pazienti, evitando inutili limitazioni, o peggio superficiali permissivismi (Fredriksen et al., 2000).
Concessione dell’Idoneità Sportiva
Negli ultimi anni, la Bethesda Conference (con le sue “Recommendations” sull’idoneità all’attività sportiva in pazienti con cardiopatie),
la Società Italiana di Cardiologia Pediatrica con la Società Italiana di
Cardiologia, l’Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri,
l’Associazione Nazionale Cardiologi Extraospedalieri, la Federazione
Medici Sportivi Italiani e la Società Italiana di Cardiologia dello Sport
(con i Protocolli Cardiologici per il Giudizio di Idoneità allo Sport Agonistico – “COCIS” - e le linee guida per la “Prescrizione dell’esercizio fisico in ambito cardiologico”), la Società Europea di Cardiologia
hanno rivolto una crescente attenzione agli effetti dell’attività fisicasportiva, conferendo un decisivo impulso ad una regolare attività
fisica di tipo agonistico e non agonistico, in pazienti con cardiopatia
congenita (James et al., 1982; Connelly et al., 1996; Calzolari et
al., 2001; McNamara et al., 1985; Giada et al., 2007; Consensus
Document by SIC sport, ANCE, ANMCO, FMSI 2005, 36th Bethesda
Conference, 2005).
Poiché il numero di studi disponibili in letteratura sull’argomento è,
a tutt’oggi, piuttosto limitato, le raccomandazioni degli organismi sopra citati sono basate essenzialmente sul giudizio e l’esperienza di
gruppi di cardiologi specialisti in tale settore.
Alcuni protocolli di sperimentazione, condotti su un numero limitato
di pazienti in centri di alta qualifica professionale, hanno dimostrato
come un programma di allenamento fisico graduale e regolare in
pazienti con cardiopatie congenite sia realizzabile con sicurezza, e
come i pazienti stessi siano entusiasti di parteciparvi (Kaplan e Perloff, 1991; Sarubbi et al., 2000, Deant JM 2003, Deanfield J et al.,
2003; Fredrik MA 2004).
190
Nel nostro Paese, la legislazione prevede l’obbligo della visita preventiva per la certificazione dell’idoneità sportiva agonistica e non agonistica (Picchio et al., 2001). Essa comporta responsabilità specifiche
da parte del medico che la attua e si traduce nella necessità, specie
in presenza di reliquati o sequele, di espletare tutte le indagini cliniche
e strumentali indispensabili per stabilire la gravità della malattia, la
capacità funzionale del soggetto e, in ultima analisi, la compatibilità
della cardiopatia con quella determinata attività sportiva.
Il problema, tuttavia, non è semplice: la popolazione dei cardiopatici
congeniti è variegata, non solo per quanto riguarda la natura della
malformazione ma perché, in una stessa cardiopatia, è possibile incontrare sia soggetti in “storia naturale” che operati e, tra quest’ultimi,
soggetti trattati con tecniche diverse con risultati clinici differenti.
Tali premesse giustificano, quindi, la necessità di una stretta collaborazione tra il medico dello sport e lo specialista che si occupa di
cardiopatie congenite, soprattutto nella gestione dei problemi più
difficili e delicati.
Al fine di incoraggiare tali pazienti all’attività fisica, dovrebbero essere pianificati lunghi periodi di allenamento a basso carico lavorativo, in modo da migliorare gradualmente la capacità di esercizio ed il
senso di fatica. È stato, infatti, dimostrato che una migliore capacità
di esercizio, in pazienti opportunamente selezionati, è in grado di
ridurre l’incidenza a lungo termine di complicanze cardiache, oltre
che migliorare la propria autostima (Norner et al., 2000; Kamphuis
et al., 2002; Dent et al., 2003; Deanfield et al., 2003; Fredriksen et
al., 2002; Therien et al., 2003).
Basandosi su questa stratificazione sarà possibile consigliare le attività sportive più adatte ad una particolare cardiopatia congenita in
storia naturale o post-operatoria, tenendo presente che, in generale,
gli sport che prevedono sforzi isotonici aerobici sono sempre preferibili agli sport con sforzi isometrici anaerobici, e che, in alcune
cardiopatie che coinvolgono l’aorta, come la coartazione o la bicuspidia aortica con dilatazione dell’aorta ascendente, ed, in generale,
in presenza di materiale protesico intracardiaco o vascolare, sono da
evitare gli sport che implicano un brusco contatto fisico.
È opportuno, inoltre, distinguere tra attività ludico-addestrativa ed
attività sportiva agonistica. In tale ottica è assolutamente centrale il
ruolo del pediatra nella conoscenza del quadro clinico del paziente e
nell’interazione con il cardiologo ed il medico sportivo.
Idoneità all’attività ludico-addestrativa
Per idoneità alla pratica sportiva ludico-addestrativa si intende la
possibilità di partecipare ad attività fisico-sportive che non hanno
carattere agonistico ufficiale, e richiedono, pertanto, un certificato di
idoneità generica, abitualmente rilasciato dal pediatra o dal medico
di medicina generale.
La Società Italiana di Cardiologia Pediatrica ha proposto nel 2001
delle Linee Guida su tale argomento (Picchio et al., 2001), raggruppando le attività fisico-sportive di tipo ludico-addestrativo in due categorie, a seconda dell’impegno cardiovascolare ad esse connesso.
Nel gruppo A sono incluse quelle attività la cui intensità di esercizio
non è regolabile da parte del soggetto, ma dipende dall’andamento
del gioco e dalle molteplici variabili ad esso connesse. Tali attività, di
cui è possibile controllare solo la durata e la frequenza settimanale,
vanno riservate ai soggetti con condizione cardiovascolare definita
come “ottimale” o “buona” e che non richiedono sorveglianza durante
l’esercizio (es. calcio, calcio a 5, tennis, pallacanestro, pallavolo, etc).
Nel gruppo B sono incluse, invece, quelle attività in cui è possibile
il controllo dell’intensità dell’esercizio, oltre che della durata e della
frequenza, ed in cui si raccomanda la supervisione. Tali attività (at-
Idoneità fisica-sportiva in adolescenti con cardiopatie congenite
tività in palestra con piccoli attrezzi, ippoterapia, attività fisica scolastica, nuoto in ambiente confortevole, etc) possono essere svolte
anche da pazienti con una condizione cardiovascolare relativamente
più compromessa.
Per la valutazione dello stato clinico nelle varie cardiopatie, accanto
alla classe funzionale NYHA, viene utilizzato anche un indice di abilità (ability index), utile a stimare, nel cardiopatico congenito, operato
o meno, la capacità o abilità a compiere una determinata attività e
svolgere le funzioni personali e sociali della vita quotidiana.
La Società Italiana di Cardiologia Pediatrica ha inoltre identificato
quattro diverse condizioni clinico-funzionali, utilizzando criteri che
tengono conto del tipo di cardiopatia e/o del tipo di intervento seguito (condizioni ottimali, buone, mediocri, scadenti Tab. I-IV).
Per quanto riguarda le cardiopatie congenite complesse operate e
non, come i pazienti con fisiopatologia univentricolare sottoposti ad
interventi tipo Fontan, o quelli con Malattia di Ebstein cianogena, una
condizione “ottimale” nel senso proprio della parola non è oggettivamente realizzabile, considerate le peculiarità anatomiche e chirurgiche del difetto. Più realisticamente, tali pazienti possono presentare,
al più, condizioni buone-discrete.
Tabella I.
Linee Guida SICP 2001. Condizione ottimale.
• Classe NYHA I- Ability Index 1
• Funzione Ventricolare Normale
• Assenza Sequele emodinamiche e/o aritmiche
• Tolleranza allo sforzo e/o capacità funzionale >80% standard riferimento
• Test cardio-polmonare (VO2 max >30 ml/kg/min)
Le indicazioni relative al giudizio di idoneità o non idoneità nelle diverse patologie cardiache rappresentano necessariamente indicazioni di
massima. Nella pratica clinica tali indicazioni dovranno essere calate
nello specifico di ogni singola patologia, in ogni singolo paziente.
Idoneità all’attività sportiva agonistica
Per idoneità all’attività sportiva agonistica si intende la possibilità
di partecipare ad attività agonistiche ufficiali organizzate da Enti
ed Istituzioni sportive, che richiedono al partecipante l’obbligo del
certificato di idoneità all’attività agonistica specifica, rilasciato dallo
specialista in Medicina dello Sport.
Le indicazioni alla pratica sportiva rappresentano la ricerca di un
giusto equilibrio tra i benefici immediati della pratica sportiva stessa,
ed il rischio a lungo termine di un accelerato deterioramento del
quadro clinico o di morte prematura.
Nella riedizione dei Protocolli Cardiologici per il Giudizio di Idoneità
allo Sport Agonistico (“Protocolli COCIS”) è stata mantenuta le classificazione delle attività sportive in relazione all’impegno cardiocircolatorio, basata sull’analisi del comportamento di alcuni parametri
di facile rilievo, quali frequenza e gettata cardiaca, pressione arteriosa, resistenze periferiche e grado di stimolazione adrenergica, legata ad influenze emozionali. Le attività sono state quindi classificate
in (Tab. V-IX):
Tabella V.
Gruppo A attività sportive con impegno cardiocircolatorio di tipo “neurogeno”, caratterizzate da incrementi principalmente della frequenza
cardiaca da minimi a moderati (e non della gettata) dovuti, soprattutto
in competizione, alla componente emotiva.
Tabella II.
Linee Guida SICP 2001. Condizione buona.
Bocce (raffa e petanque), Bowling, Curling, Birilli
• Classe NYHA (I-II)
• Ability Index >1
• Funzione Ventricolare Normale
• Assenza Sequele emodinamiche e/o aritmiche
• Test cardio-polmonare (VO2 max 25-30 ml/kg/min)
• Tolleranza allo sforzo e/o capacità funzionale 70-80% standard riferimento
Pesca sportiva (attività marittime ed acque interne)
Tabella III.
Linee Guida SICP 2001. Condizione mediocre.
• Classe NYHA >2
• Ability Index >2
• Riduzione Funzione Ventricolare
• Presenza Aritmie e/o sequele emodinamiche
• Test cardio-polmonare (VO2 max 20-25 ml/kg/min)
• Tolleranza allo sforzo e/o capacità funzionale 60-70% standard riferimento
Golf
Sport di tiro (tiro a segno, a volo, con l’arco, ecc.)
Caccia sportiva
Biliardo sportivo
Bridge, Dama, Scacchi
Tabella VI.
Gruppo B: attività sportive con impegno cardiocircolatorio di tipo
“neurogeno”, caratterizzate da incrementi principalmente della frequenza cardiaca da medi ad elevati (e lievi della gittata cardiaca e
delle resistenze periferiche).
Automobilismo
(velocità, rally, autocross, regolarità, slalom nazionale, karting)
Aviazione sportiva
Equitazione
Tabella IV.
Linee Guida SICP 2001. Condizione scadente.
Motociclismo (velocità)
• Classe NYHA >3
• Ability Index >3
• Riduzione Marcata Funzione Ventricolare
• Presenza Aritmie Severe
• Test cardio-polmonare (VO2 max <20 ml/kg/min)
• Tolleranza allo sforzo e/o capacità funzionale <60 standard riferimento
Paracadutismo
Motonautica
Pesca sportiva, Immersioni Apnea-ARA, Pesca subacquea, Foto sub,
Video sub, Tiro subacqueo
Tuffi
Vela
191
B. Sarubbi
Tabella VII.
Gruppo C: attività sportive con impegno cardiocircolatorio di potenza,
caratterizzate da frequenza cardiaca da elevata a massimale, resistenze periferiche da medie ad elevate, gittata cardiaca non massimale.
Tabella IX.
Gruppo D2: attività sportive con impegno cardiocircolatorio “medioelevato” caratterizzate da regolari incrementi submassimali o massimali della frequenza e della gittata cardiaca e da ridotte resistenza
periferiche.
Alpinismo
Arrampicata sportiva
Atletica leggera (mezzofondo, fondo, marcia, maratona, ultramaratona,
corsa in montagna, corsa campestre)
Atletica leggera (velocità, lanci, salti, eptathlon, decathlon)
Biathlon
Bob, Slittino, Skeleton
Canottaggio, Canoa olimpica, Canoa fluviale,
Cultura fisica
Ciclismo (velocità, keirin, mountain bike downhill, BMX)
Ciclismo
(inseguimento individuale e a squadre, corsa a punti, americana, linea,
cronometro individuale, mountain bike cross country, ciclocross)
Ginnastica artistica
Combinata nordica
Motociclismo (motocross, enduro, trial)
Danza sportiva
Nuoto sincronizzato
Nuoto
Pesistica
Nuoto pinnato
Sci nautico
Orientamento
Sci slalom, Sci gigante, Super G, Discesa libera, Sci alpinismo, Sci di
velocità, Sci carving, Sci d’erba, Snowboard, Salto
Pattinaggio sul ghiaccio, Pattinaggio a rotelle, Pattinaggio artistico ed
altre specialità di figure
Surfing
Pentathlon Moderno
Tiro alla fune
Sci di fondo
Triathlon
Tabella VIII.
Gruppo D1: attività sportive con impegno cardiocircolatorio “medioelevato” caratterizzate da variabilità dell’andamento della FC, delle
resistenze periferiche e della gittata cardiaca.
Wind surf
Polo
Pugilato, Kick boxing
Rugby, Rugby subacqueo
Badminton
Scherma
Baseball
Softball
Bocce (volo)
Tennis
Calcio, Calcio a cinque
Tennis tavolo
Canoa polo
Football americano
Ginnastica ritmica, Twirling
Hockey su ghiaccio, su pista, su prato, subacqueo
Lotta, Judo, Karate, Taekwondo, Kendo, Wushu kung fu
Pallacanestro
Pallamano
Pallanuoto
Pallapugno
Pallavolo, Beach volley
Polo
Pugilato, Kick boxing
Rugby, Rugby subacqueo
Scherma
Softball
Tennis
Tennis tavolo
• tipo A: non competitive con impegno cardio-circolatorio minimomoderato (attività di pompa a ritmo costante, frequenze cardiache sottomassimali e caduta delle resistenze periferiche) (es:
canoa, nuoto, sci di fondo, ciclismo in pianura, etc);
192
• tipo B: attività sportive con impegno cardiocircolatorio “neurogeno” (incrementi medi/elevati - B1) o minimo/moderati (B2)
della frequenza cardiaca e non della gettata, dovuti, soprattutto
in competizione, ad importante impatto emotivo) (es. automobilismo, equitazione, attività subaquea, bocce, bowling, etc);
• tipo C: attività sportive con impegno cardiocircolatorio di “pressione” (gettata cardiaca non massimale, frequenza cardiaca da
elevata a massimale, resistenze periferiche da medie ad elevate)
(es: body building, sollevamento pesi, nuoto 50 m, sci, etc);
• tipo D: attività sportive con impegno cardiocircolatorio “medioelevato” (numerosi e rapidi incrementi, anche massimali, della
frequenza e della gettata cardiaca) (es. calcio, pallacanestro,
karate, pallanuoto, etc);
Sebbene non possano essere stilate linee di comportamento generali valide in tutti i casi, vi sono patologie che, secondo i protocolli
COCIS, per gravità e/o complessità, controindicano di per sé la pratica sportiva agonistica.
A questo gruppo appartengono:
• Anomalia di Ebstein
• Atresia della tricuspide
• Atresia della polmonare, a setto integro o con difetto interventricolare (quando non è stato possibile il recupero completo del
ventricolo destro)
• Reazione di Eisenmenger
• Ipertensione polmonare primitiva
Idoneità fisica-sportiva in adolescenti con cardiopatie congenite
• Trasposizione congenitamente corretta delle grandi arterie con
disfunzione ventricolare
• Trasposizione delle grandi arterie corretta secondo Mustard o
Senning (switch atriale) o switch arterioso in sospetta presenza
di danno ischemico miocardico.
• Difetti associati dell’efflusso ventricolare sinistro
• Origine anomala delle arterie coronarie
• Cuore univentricolare
• Sindrome di Marfan
• Sindrome di Ehlers-Danlos
In tale lista debbono essere, inoltre, comprese la maggior parte delle
cardiopatie la cui correzione chirurgica ha comportato l’utilizzo di
condotti protesici e/o protesi valvolari.
Attualmente è in corso una revisione dei protocolli COCIS che, alla
luce delle più recenti acquisizioni, tenga conto della possibilità, in par-
ticolari condizioni, di concedere l’idoneità fisica-sportiva, seppur per
impegni a basso carico lavorativo, anche per patologie considerate
“complesse”, in cui alla luce di recenti acquisizioni l’attività fisica ha
dimostrato migliorare la capacità funzionale (Duppen et al., 2013;
Cordina et al., 2013; Becker-Grunig et al., 2013; Westhoff-Bleck et
al., 2013) e valuti la capacità funzione del soggetto anche in rapporto
al consumo massimo di ossigeno in corso di test cardio-polmonare.
Una volta concessa l’idoneità allo sport agonistico utilizzando i criteri COCIS, è importante comunque programmare controlli periodici
con visita, ECG, ecocardiogramma, prova da sforzo, ECG dinamico,
integrati, eventualmente, anche con esami più complessi, come risonanza magnetica nucleare (RMN), scintigrafia miocardica o polmonare, eco transesofageo, studio elettrofisiologico, per valutare la
stabilità della condizione cardiovascolare nel tempo ed escludere
situazioni di rischio aumentato.
Box di orientamento
Che cosa si sapeva prima
L’attività fisica sportiva era fortemente sconsigliata nel passato nei pazienti con cardiopatie congenite, in storia naturale o dopo correzione chirurgica
in quanto considerata responsabile di instabilizzazione funzionale ed elettrica e potenzialmente responsabile di morte improvvisa oltre che di precoce
deterioramento della capacità funzionale.
Cosa sappiamo adesso
L’attività sportiva nei cardiopatici congeniti adulti è di fondamentale importanza in quanto rappresenta un’importante stimolo per la crescita e la
completa maturazione psico-fisica del bambino e dell’adolescente ed è utile per prevenire la sedentarietà condizione che predispone allo sviluppo di
obesità, diabete, dislipidemie e ipertensione arteriosa.
Ricaduta clinica
Un regolare allenamento fisico, avendo effettuato opportuni controlli clinici e strumentali e avendo selezionato i tipi di attività in misura controllata,
determina nel tempo nei cardiopatici congeniti adulti un miglioramento della capacità funzionale cardiaca.
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Corrispondenza
Berardo Sarubbi, UOSD Cardiopatie Congenite dell’Adulto, Ospedale Monaldi, via Leonardo Bianchi, 80131 Napoli. Tel. +39 081 7065288. Fax: + 39
081 7062815. E-mail: [email protected]; www.berardosarubbi.it
194
Luglio-Settembre 2014 • Vol. 44 • N. 175 • Pp. 195-196
Frontiere
Editoriale
La genetica del gusto: uno scenario straordinario
ancora da esplorare nel bambino
Luigi Greco
Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali, Università Federico II, Napoli
Robino, Pirastu e Gasparini (2014), dopo aver attraversato la via della seta alla scoperta dei geni del gusto, propongono una eccellente
e sintetica revisione dello scenario aperto molto recentemente dai
progressi nella conoscenza del genoma umano.
Ora sappiamo che i gusti, così diversi tra noi, non sono una attitudine (quasi ‘uno sfizio’) ma sono condizionati dal profilo genetico
del complesso sistema recettoriale che identifica ciascuna molecola
che ingeriamo. Considerando solo il gusto per l’amaro, siamo distinti
in super-percettori, medio percettori e scarsi percettori: con tutte
le conseguenze che ciò comporta. Ma il gusto per l’amaro, regolato dall’aplotipo del gene Taster R.38, è stato sviluppato certamente
per difenderci dai veleni (spesso amari), ma anche per apprezzare i
‘farmaci’, molecole protettive, presenti negli alimenti vegetali. Il propiltiouracile (PROP), con il quale si valuta il fenotipo della sensibilità
all’amaro, è uno dei glucosidi principali delle brassicacee: a esso è
dunque legata la scelta di mangiare i broccoli, e specie i broccoli
‘amari’. Nel napoletano si apprezzano moltissimo i friarelli, broccoletti coltivati con tecniche antiche molto efficaci: si piantano diversi
filari ad agosto con semi che germinano dopo 40, 60, 90 e 120
giorni, in modo da avere l’intero inverno fornito di questo prezioso
vegetale, che accompagna le carni e i salumi ed è la tradizionale
merenda mattutina dei manovali. Questi broccoletti, spesso rifiutati
dai bambini, sono certamente molto salutari, abbassano la densità
calorica del cibo, richiedono calorie ‘negative’ per la loro digestione,
forniscono una serie di ‘farmaci’ alimentari antiossidanti e flavonoidi.
Nella scarsità alimentare della tradizione abbiamo selezionato (senza ancora la genetica), alimenti ‘poveri’ con buone capacità salutari.
Ma la relazione genotipo-fenotipo per la percezione gustativa è,
come atteso, abbastanza complessa, in quanto il profilo genomico
spiega non più dei 2/3 della varianza del genotipo (ed è già moltissimo!). Dopo aver studiato varie centinaia di coppie madre-figlio,
abbiamo dovuto fare i conti con gli altri fattori che condizionano il
gusto: sul profilo genomico di ciascun individuo intervengono le abitudini familiari, la tradizione, la cultura sociale. Un bimbo svedese
mangia l’aringa affumicata con il latte: nessuno lo proporrebbe a
un piccolo italiano! E abbiamo gli stessi geni! Ma c’è anche una
complessa interazione tra molteplici ‘sensori’ molecolari, come precisano gli autori, ci sono ‘famiglie’ di geni percettori dell’amaro, per
esempio. Recentemente è stato scoperto da un gruppo italiano (Di
Salle et al., 2013) che la percezione del dolce (dello zucchero) mediata dal T1R2-3, è limitata dalla presenza di carbonato (bollicine),
per cui il bambino ingurgita grandi volumi di bevande gassate molto
zuccherate, ma non le beve se la CO2 è evaporata.
Non c’è dubbio che la funzione gustativa mostra grandi modifiche
con il crescere dell’età del bambino: solo in adolescenza le differenze all’interno della coppia madre-figlio tendono a ridursi, pur ri-
mando elevate. Ma la facilità di proporre nuovi alimenti al bambino,
e di svezzarlo, è anche legata alla condivisione del profilo genetico
di madre e figlio. Se entrambi sono ‘scarsi percettori’ potranno condividere alcune scelte alimentari con semplicità, ma se la madre è
super-percettrice (TASR38 PAV-PAV) e il figlio non lo è (es. TASR38
PAV-AVI) più facilmente sorgeranno contrasti, e la madre definirà il
figlio piccioso (espressione napoletana per “capriccioso”) e difficile
da alimentare. Inoltre nel terzo semestre di vita, dopo l’apprendimento alimentare dello svezzamento nel secondo semestre di vita,
il bimbo può sviluppare la neofobia (anch’essa con una componente
genetica), che tende a fargli rifiutare gli alimenti che la madre non gli
ha proposto durante la fase dello svezzamento. Il bimbetto che usciva dalla caverna a 14-16 mesi di vita e incontrava una attraente, ma
mortale, pallina colorata di lupino o digitale è stato protetto dal rifiuto
di alimenti che la madre non gli aveva proposto dentro la caverna.
La relazione tra percezione gustativa, scelte alimentari ed effetti
sulla salute è complessa da analizzare nel singolo individuo, ma ha
certamente una influenza determinante sullo stato di salute di una
popolazione. Basta prendere un esempio dalla tradizione: mangiamo
con piacere una insalata di pomodori, ma, specie al sud, nessuno si
sognerebbe di mangiare una insalata di pomodori senza basilico,
origano e spesso aglio. E che valore hanno questi non-nutrienti? Migliorano il gusto! Nel contempo ci forniscono potere antiaggregante
(un ciuffo di basilico equivale all’aspirinetta), antiossidanti, flavonoidi. Mangiamo insalata di pomodori e aggiungiamo farmaci preziosi:
la tradizione ha anticipato molte scoperte della biologia molecolare!
Il complesso problema dell’obesità, e di quella infantile in specie, è
anche condizionato dalle scelte alimentari correlate al profilo genomico dell’individuo. Ma la vicenda è ovviamente più complessa di
una relazione genotipo-fenotipo. Abbiamo osservato, in 110 bimbi
obesi, che questi ‘vogliono tutto’ e, nel nostro milieu culturale, apprezzano anche i friarielli più dei loro compagni non obesi, indipendentemente dal loro profilo genomico. Mangiano più di tutto, anche
se preferiscono cibi ad elevata densità calorica. L’età e la familiarità
sono le variabili più correlate alle scelte alimentari degli obesi.
Ma i recettori del gusto non stanno solo sulla lingua: gli autori ci ricordano che in ogni villo intestinale vi sono le cellule enteroendocrine,
sulla cui superficie sono espressi i recettori del gusto che, mandano
un secondo segnale con la Gustina: si tratta dello Sweet Tooth of the
Stomach: percepiamo con l’intero intestino. La capsaicina ci pizzica
la lingua quando la ingeriamo, ma, se ne mangiamo tanta, dopo 2-3
giorni brucia anche al termine dell’intestino! I recettori informano il
pancreas della presenza di glucidi, controllano la motilità, attivano
capacità digestive: sono grandi ‘informatori’ del contenuto del lume
intestinale. Molte delle sensibilità individuali a singoli alimenti, che
non hanno nulla a che fare con le allergie, sono mediate dai Transient
195
L. Greco
Receptor Potential Vanilloid receptors (TRPV) che identificano singole
molecole e danno un segnale di tipo neuro-transmitter, calcio mediato, capace di causare, con la stimolazione del vago, un’antiperistalsi
(“mi rivolta lo stomaco”). Tutte le funzioni gastrointestinali dovranno
essere ristudiate alla luce di questi nuovi elementi.
Ma la scoperta più eclatante è stato trovare il Taste Receptor nel
tratto respiratorio: assaporiamo i lattoni dei batteri gram negativi,
con lo stesso sistema di percezione del dolce! Super-percettori si
difendono meglio dallo Pseudomonas Aeruginosa producendo NO
(ossido nitrico), muco e motilità ciliare: stupefacente!
Ma anche per questo la storia è più complessa ed i nostri tentativi di
replicazione si sono rivelati più difficili.
In conclusione un mondo nuovo, sospettato da tempo, dominio della
prescrizione apodittica di consigli alimentari, e ora spesso della erboristeria filosofica e salutistica, comincia finalmente a ricevere la
luce della biologia molecolare e della genetica, che certamente apporterà conoscenze capaci di indurre profonde modifiche alla nostra
concezione del rapporto uomo-nutrienti.
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Corrispondenza
Luigi Greco, Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali, Università degli Studi di Napoli Federico II, via S. Pansini 5, 80131 Napoli. E-mail:
[email protected]
196
Luglio-Settembre 2014 • Vol. 44 • N. 175 • Pp. 197-202
Frontiere
La Genetica del Gusto
Antonietta Robino1, Nicola Pirastu1-2, Paolo Gasparini1-2
1
2
IRCCS Materno Infantile Burlo Garofolo, Trieste
Università degli Studi di Trieste, Trieste
Riassunto
Il gusto è il senso che permette l’identificazione di sostanze nutritive o tossiche e guida le scelte alimentari. È oggi noto che variazioni genetiche nei geni
che codificano per i recettori del gusto sono responsabili di differenze individuali nella percezione del gusto dolce, umami e amaro, mentre meno conosciuta
è la genetica del gusto acido e salato.
Differenze nella percezione gustativa, incidendo sulla scelta del cibo e sul comportamento alimentare, hanno anche mostrato importanti implicazioni a
lungo termine per la salute, specialmente per malattie relate alla dieta come l’obesità e il diabete.
Finora, molti studi si sono focalizzati sulla funzione dei recettori del gusto, ma ulteriori indagini sono necessarie per comprendere meglio i fattori genetici e
ambientali che possono influenzare la percezione gustativa e di conseguenza le preferenze alimentari e il possibile legame con lo stato di salute.
Summary
The sense of taste allows the identification of nutrients and toxins and guides food choices. It is well known that genetic variation in taste receptor genes
are responsible for individual differences in perception of sweet, umami and bitter tastes, whereas less is known about the genetics of sour and salty taste.
Differences in taste perception, influencing food selection and dietary behavior, have also shown important long-term health implications, especially for
food-related diseases such as obesity and diabetes.
To date, a lot of studies are focused on taste receptor function, but further investigations are needed to better understand genetic and environmental factors
that can influence taste perception and thus food preferences and the possible link with health status.
Metologia della ricerca bibliografica effettuata
La ricerca degli articoli rilevanti sulla genetica del gusto è stata
effettuata tramite la banca bibliografica PubMed, utlizzando come
parole chiave: “genetic variation in taste”, “taste perception”, “food
choices”, “eating behaviour”, “taste genes and diseases”. Sono stati
inclusi solo gli articoli in lingua inglese.
Introduzione
Perchè alcune cucine sono particolarmente “dolci” come in Africa
occidentale e altre meno, oppure sono marcatamente speziate come
in India? È solo tradizione (cultura, metodi di conservazione, etc.) o
c’è una componente biologica in grado di spiegare almeno in parte
la diversa capacità di percepire i vari sapori? E che dire delle coltivazioni che millenni di storia agricola hanno selezionato? Abbiamo scelto ciò che meglio cresceva nelle nostre terre e ci siamo di
conseguenza adeguati a mangiarlo o abbiamo selezionato ciò che
eravamo predisposti ad apprezzare?
La capacità di rilevare sostanze chimiche nell’ambiente esterno ha
da sempre avuto un’importanza fondamentale per garantire la sopravvivenza e l’adattamento degli individui e delle specie. Tra i vari
sensi, il gusto è quello che permette di riconoscere e selezionare il
cibo e di evitare l’ingestione di sostanze tossiche. Inoltre, il gusto
influenza in modo determinante l’appetibilità dei cibi, condizionando
le abitudini nutrizionali di ciascun individuo.
Sebbene si possa percepire un vasto numero di sostanze chimiche,
sono al momento distinguibili 5 diverse qualità gustative: amaro,
dolce, acido, salato ed umami. L’amaro protegge dall’ingestione di
potenziali sostanze tossiche. L’acido permette di evitare l’ingestione
di alimenti avariati. Il dolce consente l’identificazione dei nutrienti
energetici. Il salato guida l’assunzione di sodio e altri ioni necessari
per il mantenimento dell’equilibrio idrosalino. Infine, l’umami permette di riconoscere gli aminoacidi e indica il sapore del glutammato monosodico, un aminoacido particolarmente presente negli alimenti ricchi di proteine come carni e formaggi stagionati (Chaudhari
& Roper, 2010).
Di recente è emerso che all’interno dei bottoni gustativi sono presenti anche recettori specifici capaci di percepire le molecole di
grasso (Stewart et al., 2010).
Dal punto di vista evolutivo, la capacità di percepire il gusto dolce si
è sviluppata per riconoscere gli zuccheri, principale fonte d’energia
del corpo. Invece, la sensibilità al gusto amaro ha permesso di discriminare ciò che era potenzialmente dannoso, come per esempio
l’ingestione di molti composti tossici principalmente d’origine vegetale. Oggi il gusto ha in gran parte perso questa funzione e non risulta più legato ad esigenze di sopravvivenza. Ciononostante rimane
uno dei più importanti fattori nel determinare la selezione e il grado
di accettazione del cibo.
La percezione dei diversi gusti avviene grazie a recettori presenti
sulla superficie di cellule epiteliali specializzate (dette TRCs o taste
receptor cells) che si trovano all’interno dei bottoni gustativi, localizzati principalmente sulla lingua. Ciascuna qualità gustativa viene
rilevata attraverso un meccanismo molecolare di trasduzione differente. In particolare, il salato e l’acido agiscono direttamente sui canali ionici di membrana, mente il dolce, l’umami e l’amaro utilizzano
meccanismi di trasduzione mediati da recettori gustativi associati
a proteine G (Purves et al., 2001) (Zhang et al., 2003). La Tabella I
riassume i recettori a oggi conosciuti per ogni qualità gustativa e il
meccanismo di trasduzione del segnale corrispondente.
Numerosi sono i geni che codificano per i recettori del gusto amaro. In
particolare nell’uomo sono stati identificati una famiglia di 25 geni, detti
T2Rs o TAS2Rs, localizzati sui cromosomi 12, 7 e 5 (Adler et al., 2000).
197
A. Robino, N. Pirastu, P. Gasparini
Tabella I.
Recettori gustativi e meccanismo di trasduzione del segnale.
Gusto
Recettore
Trasduzione del segnale
Amaro
T2Rs
Recettore accoppiato a proteine G
Dolce
T1R2/T1R3
Recettore accoppiato a proteine G
Umami
T1R1/T1R3
Recettore accoppiato a proteine G
Salato
ENaC-TRPV1
Canali ionici
Acido
PKD2L1- PKD1L3
Canali ionici
Grasso
CD36
Trasportatore di acidi grassi
I gusti dolce e umami sono guidati da recettori appartenenti alla
famiglia T1R o TAS1R. In particolare il recettore per il gusto dolce
è costituito dal dimero formato da T1R2 e T1R3 (Li et al., 2002)
(Nelson et al., 2001), mentre il T1R3 combinato con il T1R2 forma
il dimero responsabile della percezione del gusto umami (Nelson et
al., 2002; Zhao et al., 2003).
Il recettore principale per il gusto salato è un canale epiteliale per
il Na+ sensibile all’amiloride, denominato EnaC (Schiffman et al.,
1983). Inoltre, esiste un altro possibile recettore per il salato, il canale TRPV1 appartenente alla famiglia dei canali ionici TRP (transient
receptor potential) (Lyall et al., 2004).
Per quanto riguarda l’acido, due membri della famiglia dei canali ionici TRP, ovvero PKD1L3 e PKD2L1, sono stati indicati come possibili
recettori per la percezione di questa qualità gustativa (Huang et al.,
2006) (Ishimaru et al., 2006).
Infine, il gene CD36 è stato identificato come responsabile della
sensibilità ai cibi grassi (Fukuwatari et al., 1997; Laugerette et al.,
2005).
Variazioni genetiche nei recettori del gusto
La percezione gustativa può variare tra gli individui in funzione
di variazioni genetiche nei geni che codificano per i recettori del
gusto. Variazioni genetiche associate a differenze individuali nella
percezione gustativa sono ben note per quanto riguarda i gusti
amaro, dolce e umami, mentre meno conosciuta è la variabilità
genetica associata alla percezione del gusto salato e acido (Kim
& Drayna, 2005; Mainland & Matsunami, 2009; Shigemura et al.,
2009).
Le variazioni genetiche associate a differenze individuali nella percezione del gusto amaro sono state le più studiate. In particolare,
tra questi le più conosciute sono le variazioni a carico del gene
TAS2R38, associate a differenze nella capacità di percepire composti che contengono il gruppo tiocianato (N-C = S) responsabile del
loro gusto amaro, come feniltiocarbamide (o PTC) e 6-n-propiltiouracile (o PROP). Questo gruppo chimico è anche presente nei glucosinati e nelle goitrine, sostanze comunemente trovate nelle crucifere
ed in altre piante appartenenti alla famiglia delle Brassicacee, come
broccoli, cavoli e cavolfiori (Bufe et al., 2005).
In base alla capacità di percepire questi composti nella popolazione
si possono distinguere: coloro che non percepiscono il PTC e sostanze analoghe o “non-taster”, coloro che sono capaci di percepire il
PTC o “medium-taster” e coloro che sono estremamente sensibili a
questi composti o “super-taster” (Guo & Reed, 2001). Circa il 75%
della popolazione Caucasica è sensibile e capace di percepire il PTC
e il PROP, mentre circa il 25% sono non-tasters (Bartoshuk et al.,
1994).
198
Oggi sappiamo che esistono due diverse forme del TAS2R38, la forma PAV e la forma AVI, che differiscono per tre polimorfismi a singolo
nucleotide (SNPs). Queste due forme conferiscono una diversa sensibilità al PTC e il PROP. In particolare, mentre la forma AVI specifica
il fenotipo non-taster, la forma PAV sembra essere specifica per il
fenotipo taster.
Le variazioni genetiche nel TAS2R38, comunque, spiegano circa il
55-80% della variabilità nella sensibilità al PTC/PROP, suggerendo
che altri fattori sia genetici che ambientali possono contribuire a
determinare il fenotipo (Kim et al., 2003).
Per quanto riguarda altre qualità gustative, variazioni genetiche nei
geni della famiglia TAS1R sono state associate a differenze nella percezione dei gusti dolce e umami. Per esempio varianti nelle regioni del
promotore del gene TAS1R3 sono state associate con una riduzione
della capacità di percepire il gusto dolce (Fushan et al., 2009).
Analogamente, è stato riportato che differenze genetiche a livello
del gene TAS1R3 sono legate a una ridotta sensibilità all’umami,
mentre differenze nel gene TAS1R1 a un aumento della sensibilità
(Shigemura et al., 2009).
Studi molto recenti hanno suggerito che nell’uomo variazioni nei
geni che codificano per il canale TRPV1 e la beta sub-unità del canale ENaC potrebbero modificare la percezione del gusto salato (Dias
et al., 2013).
Infine, varianti a livello del gene CD36 sono ritenute responsabili di
differenze nella capacità di percepire e riconoscere le molecole di
grasso contenuti nei cibi (Keller et al., 2012).
Figura 1.
Variazioni genetiche nei recettori del gusto determinano differenze nella
percezione gustativa e possono influenzare la scelta e il consumo di
cibo, con ricadute sul metabolismo e sullo stato di salute.
La Genetica del Gusto
Variazioni nella percezione gustativa possono
influenzare le scelte alimentari e lo stato di salute
Variazioni genetiche a livello dei recettori gustativi, determinando
differenze nella percezione gustativa, possono portare anche a differenze nelle preferenze alimentari e nel consumo di cibo. Ciò può
a sua volta influenzare lo stato di salute, in particolare per quanto
riguarda il rischio di sviluppare alcune patologie legate alla dieta
quali il diabete o l’obesità (Garcia-Bailo et al., 2009) (Fig. 1).
Il maggior numero di studi si è focalizzato sulla relazione tra la capacità di percepire il gusto amaro del PTC o del PROP, mediata dal
gene TAS2R38, e le abitudini e preferenze alimentari (Dinehart, et
al., 2006; Robino et al., 2014). In particolare, la percezione del gusto amaro del PROP/PTC è stata associata a differenze nella preferenza per diversi tipi di cibi, quali verdure, caffè, birra, pompelmo,
peperoncino, grassi, consumo di alcool (Keller et al., 2002; Ullrich
et al., 2004; Dinehart et al., 2006; Tepper, 2008; Tsuji et al., 2012;
Drewnowski et al., 1997; Duffy, 2004; Hayes & Duffy, 2008). Variazioni nel gene TAS2R38 sono state associate anche al consumo di
fibre e all’assunzione di tiamina, vitamina B6 e folati, ovvero a fattori
indicativi di una sana alimentazione (Feeney et al., 2011).
Polimorfismi in altri geni responsabili della percezione del gusto
amaro sono in grado di influenzare le preferenze e le scelte alimentari. Per esempio uno studio recente ha mostrato associazione tra
varianti nel gene TAS2R43 e la percezione della caffeina e la preferenza per il caffè (Pirastu et al., 2014).
La percezione del gusto amaro è stata anche ampiamente relata
allo stato di salute. Ad esempio è stato dimostrato che la capacità di
percepire il PROP, attraverso differenze nel consumo di cibi ad elevato contenuto calorico e di grassi, può influenzare l’indice di massa
corporea e il rischio di sviluppare obesità (Tepper & Ullrich, 2002;
Tepper et al., 2008; Shafaie et al., 2013).
Il rischio di tumore del colon, mediato in parte dalla dieta, è stato anche
legato a variazioni genetiche nel gene TAS2R38 (Basson et al., 2005).
Inoltre, il rischio di sviluppare carie dentali, presumibilmente come
conseguenza della maggiore preferenza per gli alimenti contenenti
zucchero, è stato associato a variazioni nella percezione del gusto
amaro (Lin, 2003; Wendell et al., 2010).
È stato infine ipotizzato che esiste una relazione tra la percezione
del gusto amaro e il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari,
attraverso un comportamento alimentare che aumenta questo rischio perchè caratterizzato da una maggiore assunzione di alcool,
una maggiore preferenza per i cibi dolci ed ad alto contenuto di
grassi, più alta pressione arteriosa e profilo lipidico meno favorevole
(Duffy, 2004).
Studi sulla relazione tra percezione del gusto, scelte alimentari e
implicazioni per la salute sono stati riportati anche per altre qualità
gustative.
Variazioni genetiche del gene TAS1R2, responsabile della percezione
del gusto dolce, sono state associate a differenze nel consumo di
zuccheri in soggetti sovrappeso ed obesi (Eny et al., 2010). Differenze nella percezione del gusto dolce sono state anche associate
all’alcolismo (Mennella et al., 2010), all’indice di massa corporea
(Donaldson et al., 2009) e allo sviluppo di carie (Kulkarni et al., 2013).
Polimorfismi del gene CD36 sono stati associati associate ad una
diversa sensibilità agli alimenti grassi, con conseguente impatto
sull’indice di massa corporea e il rischio di sviluppare obesità (Bokor
et al., 2010; Heni et al., 2011; Yun et al., 2007; Keller et al., 2012). In
altri studi, variazioni genetiche nel gene CD36 sono stati anche legati a livelli di trigliceridi e di acidi grassi liberi (Ma et al., 2004; Madden et al., 2008) e alla sindrome metabolica (Farook et al., 2012).
Lo sviluppo del gusto nel bambino
Il neonato come l’adulto è capace di percepire e discriminare le diverse qualità gustative. Le papille gustative, all’interno delle quali si
trovano le cellule recettoriali gustative, si formano già nel periodo
embrionale (all’inizio del terzo trimestre). Il feto è quindi in grado di
percepire il sapore del liquido amniotico che contiene molti nutrienti come il glucosio. Si è visto che il feto regola la deglutizione del
liquido amniotico aumentandola o diminuendola in base al sapore
dolce o amaro dello stesso (Beauchamp & Mennella, 2011; Ventura
& Worobey, 2013).
Tutto il sistema gustativo è funzionalmente maturo alla fine della
gestazione.
Analogamente a quanto avviene già a livello fetale, i neonati poco
dopo la nascita mostrano caratteristiche preferenze gustative. In
particolare, i neonati manifestano una preferenza per il gusto dolce
e umami rispetto ai gusti amaro, acido e salato. Infatti reagiscono
con una espressione facciale di tranquillità e soddisfazione ad una
soluzione di zucchero, mentre con una espressione facciale accigliata e di repulsione al gusto amaro (Tab. II) (Steiner et al., 2001).
Queste differenze possono avere un rilevante significato evolutivo.
La preferenza per il gusto dolce può essere infatti legata al fatto che
è indice di fonte di energia, di cui il neonato ha estremo bisogno.
Per quanto riguarda invece lo svezzamento, questo è il momento
in cui il lattante entra in contatto e impara a conoscere i diversi
gusti dei cibi. Inoltre con lo svezzamento il lattante passa da un’alimentazione chiaramente dolce (il latte) ad una più varia e meno
dolce, in alcun casi caratterizzata anche da cibi amari. È noto che
le esperienze gustative del neonato durante lo svezzamento sono in
grado di influenzare e determinare le sue scelte alimentari da adulto
(Nicklaus et al., 2005). Inoltre è anche possibile che le variazioni
genetiche responsabili delle differenze nella capacità di percepire i
vari gusti siano in grado di condizionare il comportamento alimentare del lattante durante lo svezzamento. Basti pensare per esempio
che ci sono lattanti che si svezzano con estrema facilità ed altri per
i quali è richiesto un tempo molto più lungo. Studi su questi aspetti
sono ora in corso.
I recettori del gusto nel sistema gastrointestinale
e respiratorio
Numerose evidenze hanno dimostrato che i recettori del gusto sono
espressi oltre che sulla lingua, anche nel tratto gastrointestinale e respiratorio (Höfer et al.,1996; Wu et al., 2002; Kaske et al., 2007) (Fig. 2).
Ovviamente i recettori del gusto nell’intestino non inducono sensazioni gustative, ma piuttosto sembrano contribuire a guidare la
digestione o il rifiuto di sostanze alimentari che attraversano l’intestino. Allo stesso modo, i recettori del gusto presenti nelle vie aeree
sembrano coinvolti in risposte di difesa da sostanze estranee inalate
e potenzialmente tossiche (Finger & Kinnamon, 2011).
In particolare, l’esistenza di recettori per il gusto dolce TAS1R nell’intestino sembra responsabile della regolazione delle funzioni digestive. Questi recettori rilevano sostanze dolci e rispondono secernendo
GLP-1 (glucagon-like-peptide-1), che a sua volta stimola il rilascio di
insulina promuovendo l’assorbimento di glucosio. Inoltre, l’attivazione dei recettori per il gusto dolce nell’intestino guida l’inserimento
dei trasportatori del glucosio SGLT-1 e GLUT2 nelle membrane delle
cellule intestinali facilitando l’assorbimento di glucosio (Mace et al.,
2007; Margolskee et al., 2007).
Meno chiara è la funzione dei recettori per il gusto amaro TAS2R
nel tratto gastrointestinale. L’attivazione di questi recettori provoca il
199
A. Robino, N. Pirastu, P. Gasparini
Tabella II.
Sviluppo del gusto e risposte innate alle diverse qualità gustative.
Gusto
Sviluppo del gusto
Risposta innata
Amaro
Prenatale
Negativa/Rifiuto
Dolce
Prenatale
Positiva
Umami
Prenatale
Positiva
Salato
4-6 mesi
Incerta
Acido
Prenatale
Negativa/Rifiuto
rilascio di CCK (colecistochinina) che può ridurre la motilità intestinale. Quindi, l’assunzione di un potenziale tossina che attiva i recettori per l’amaro potrebbe diminuire la velocità con cui il cibo passa
attraverso lo stomaco e quindi l’assunzione di cibo (Glendinning,
Yiin, Ackroff et al., 2008). Nel colon l’attivazione dei recettori TAS2R
sembra invece favorire l’eliminazione di possibili tossine (Kaji et al.,
2009).
Per quanto riguarda invece il ruolo dei recettori del gusto nelle vie
aeree, un recente lavoro ha dimostrato che il recettore TAS2R38,
responsabile della percezione del PROP/PTC, è espresso anche
nell’epitelio respiratorio superiore e viene attivato da molecole secrete da batteri gram-negativi. La sua attivazione va a regolare la
produzione di ossido di azoto con conseguenti effetti antibatterici
diretti. Inoltre nello stesso studio è emerso che le stesse variazioni
del gene TAS2R38 associate a differenze nella capacità di percepire
il gusto amaro, risultano associate anche a differenze nella capacità
di rispondere alle infezioni delle vie respiratorie (Lee et al., 2012).
È interessante anche la possibile funzione dei recettori del gusto nei
polmoni. Sembra che in questa sede i composti amari siano in grado
di attivare i recettori TAS2Rs provocando il rilassamento delle cellule muscolari e una riduzione dell’ostruzione delle vie aeree. Questo
sistema potrebbe essere per esempio sfruttato per realizzare nuovi
broncodilatatori efficaci per il trattamento delle malattie polmonari
ostruttive (Deshpande et al., 2010).
Conclusioni
La definizione della percezione del gusto e delle preferenze alimentari
inizia nel grembo materno e continua poi per tutto il resto della vita.
La percezione del gusto e le preferenze alimentari sono sicuramente fortemente influenzate dalle esperienze personali, dalla cultura,
dallo stile di vita. Nonostante ciò è sempre più evidente che in parte
percezione del gusto e preferenze alimentari sono anche “biologicamente determinate”, ovvero che esiste una componente genetica
in grado di determinare differenze individuali, sia nella capacità di
percepire i 5 gusti principali, sia nel grado di accettazione dei cibi.
Molti aspetti che riguardano la genetica del gusto restano ancora da
delucidare. In particolare, maggiori studi sono necessari per identificare ulteriori geni associati alla percezione gustativa e comprendere
meglio il loro possibile legame con lo stato di salute.
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Figura 2.
Presenza dei recettori gustativi in vari distretti del corpo.
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[email protected]
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Luglio-Settembre 2014 • Vol. 44 • N. 175 • Pp. 203-207
Focus
La Farmacovigilanza in età pediatrica
Carmen D’Amore, Francesca Menniti-Ippolito, Giuseppe Traversa
Reparto di Farmacoepidemiologia, Centro Nazionale di Epidemiologia, Istituto Superiore di Sanità
Riassunto
Negli anni è aumentata la consapevolezza della necessità di condurre studi clinici in ambito pediatrico per disporre di informazioni più accurate sul profilo beneficio-rischio dei farmaci da utilizzare nei bambini. Come nella popolazione adulta, tuttavia, le sperimentazioni cliniche preregistrative forniscono
informazioni aggiuntive soprattutto sull’efficacia dei farmaci. Il profilo di sicurezza, per quanto riguarda le reazioni avverse più rare o che si verificano in
sottogruppi di pazienti selezionati, deve continuare ad essere studiato anche dopo la commercializzazione dei farmaci. I sistemi di sorveglianza basati
sulle segnalazioni spontanee, insieme agli studi osservazionali, sono gli strumenti principali per acquisire nuove informazioni sui rischi associati all’uso dei
farmaci nei bambini. In Italia, fra il 2001 e il 2010 è più che triplicato il numero di segnalazioni di sospette reazioni avverse nella popolazione pediatrica,
nella maggior parte dei casi relative a vaccini, che sono pervenute alla rete nazionale di farmacovigilanza. Sono anche aumentati gli studi osservazionali
realizzati per dare risposta ai segnali messi in evidenza dai sistemi di segnalazione spontanea. Ciononostante, solo poco più di 400 pediatri di libera scelta
effettua almeno una segnalazione nel corso dell’anno. Rimane quindi la necessità di stimolare l’attenzione sul tema della farmacovigilanza per contribuire
a produrre le informazioni inevitabilmente mancanti nella fase di registrazione dei farmaci e contribuire a ridurre i rischi associati alla prescrizione nella
popolazione pediatrica.
Parole chiave: reazioni avverse ai farmaci, segnalazione spontanea, farmacoepidemiologia, studi osservazionali
Summary
The need to conduct clinical trials in the pediatric field in order to have more accurate information on the benefit-risk profile of pediatric medicines is increasing over the years. However, as in the adult population, preregistrative clinical trials mostly provide additional information on the efficacy of medicines.
The safety profile needs to be studied even after marketing of drugs especially with regard to rare adverse reactions (ADR) and reactions that occur in
subgroups of selected patients. Surveillance systems based on spontaneous reports, together with observational studies, are the main tools to gain new
information on the risks associated with the use of pediatric medicines. In Italy, the number of reports of suspected ADR (in most cases related to vaccines)
occurring in the pediatric population, increased three times between 2001 and 2010. The number of observational studies designed to give response to
the signals highlighted by spontaneous reporting systems also increased. Nevertheless, less than 400 pediatricians reported at least one ADR each year.
There is a need to stimulate the attention to the issue of pharmacovigilance in order to produce the information which is inevitably lacking in the marketing
approval of new drugs. These additional data will help to reduce the risks associated with prescriptions in the pediatric population.
Keywords: adverse drug reaction, spontanuoeus report, pharmacoepidemiology, observational studies.
Introduzione
Nello sviluppo di un farmaco, le conoscenze di base rappresentate
dalle informazioni farmacologiche e tossicologiche ottenute dagli
studi preclinici vengono successivamente integrate con dati di efficacia e sicurezza derivanti dalle sperimentazioni cliniche effettuate
su gruppi selezionati di pazienti. La disponibilità di informazioni sui
farmaci, soprattutto inerenti il profilo di sicurezza, cresce una volta
che il prodotto medicinale è commercializzato e utilizzato in grandi
popolazioni. È un fatto, inoltre, che gli studi clinici intrapresi a sostegno della registrazione di un farmaco, così come quelli post autorizzativi, siano condotti soprattutto nella popolazione adulta.
La riluttanza ad includere i bambini negli studi clinici è da ricondursi a un atteggiamento condiviso di tutela dei soggetti più fragili.
A ciò si aggiunge il limitato interesse commerciale delle aziende
farmaceutiche ad investire nella ricerca clinica pediatrica per problemi logistici, finanziari, etici e metodologici. Fra questi ultimi, basti
pensare alle difficoltà che insorgono se si considera la popolazione
pediatrica non come un unico gruppo, ma distinta in più fasce d’età
ben differenziate, e se si intende produrre risultati che si applichino
specificamente a ciascuna età.
I cambiamenti di ordine biologico e psicologico che accompagnano il
passaggio dalla nascita all’adolescenza impongono un adattamento
nel disegno degli studi relativamente sia alla cosiddetta validità interna che alla trasferibilità dei risultati. Come conseguenza di queste
difficoltà, una quota rilevante di farmaci viene utilizzata nel bambino
nonostante sia stata studiata e abbia una indicazione approvata solo
negli adulti, esponendo i bambini a trattamenti potenzialmente poco
efficaci o imprevedibilmente pericolosi (Smyth e Weindling, 1999).
Differenze di farmacocinetica e farmacodinamica possono essere
responsabili di una diversa risposta all’assunzione di un farmaco; in
più, problemi di palatabilità e mancanza di formulazioni o di device
adeguati all’età del bambino influenzano negativamente la somministrazione e la compliance al trattamento.
La necessità di un graduale allargamento delle sperimentazioni
alla popolazione pediatrica è stata riconosciuta sia dall’Agenzia
regolatoria americana (Food and Drug Administration, FDA) che da
quella europea (European Medicines Agency, EMA) e ha portato
all’adozione di provvedimenti finalizzati a promuovere lo sviluppo
della ricerca pediatrica (FDA 2002; EMA 2006). In Europa, questi
consistono essenzialmente nell’obbligo di presentare un piano di
studi pediatrici (PIP) al momento della richiesta di autorizzazione
all’immissione in commercio (fornendo una motivazione nel caso
in cui non sia ritenuto possibile condurre le studio) e su sistemi
incentivanti che prevedono un allungamento della copertura brevettuale.
203
C. D’Amore et al.
Nel 2012, a 6 anni dall’entrata in vigore del Regolamento Europeo
sui farmaci pediatrici, è aumentata, sebbene solo in maniera limitata
la proporzione di studi clinici che includono anche la popolazione pediatrica: nel 2012 il 10% circa degli studi includeva anche i bambini
(EMA/250577/2013). Una spiegazione va ricercata nel fatto che le
sperimentazioni cliniche pediatriche previste dalla regolamentazione dell’EMA vengono generalmente differite ed effettuate dopo la
conclusione degli studi e la dimostrazione di risultati favorevoli negli
adulti. Nonostante ciò, alla fine del 2012, circa 600 PIP erano stati
concordati fra Comitato pediatrico dell’EMA e aziende farmaceutiche. Sarà necessario attendere ancora alcuni anni per conoscere i
risultati di questi studi e valutare in particolare le ricadute in termini
di maggiori informazioni di sicurezza nell’uso dei farmaci in ambito
pediatrico.
Rimane il fatto che i maggiori dati provenienti dalle sperimentazioni
cliniche saranno in grado di chiarire meglio, in primo luogo, il profilo
di beneficio dei farmaci. Come nella popolazione adulta, bisogna tenere conto che le informazioni sul profilo di rischio non possono che
completarsi nel corso della vita del farmaco. Gli strumenti utilizzati
per acquisire queste informazioni si basano innanzitutto sui sistemi
di segnalazione spontanea di reazioni avverse e sugli studi di farmacoepidemiologia di tipo osservazionale (ENCePP 2014). Nella parte
che segue verranno presentati questi strumenti e discussi i possibili
contributi alla conoscenza del profilo di rischio dei farmaci in età
pediatrica.
La segnalazione spontanea
La segnalazione spontanea di reazioni avverse ai farmaci (ADR) ha
un ruolo di primo piano nei sistemi di sorveglianza post-marketing
(Tab. II). Rispetto agli studi epidemiologici le segnalazioni spontanee
sono in grado di fornire informazioni più immediate e costituiscono
Tabella I.
Nuova definizione di reazione avversa introdotta con la direttiva
2010/84/EU*.
Per reazione avversa ai farmaci (ADR) si intende un effetto sfavorevole
o pericoloso che si verifica in risposta ad un trattamento. La nuova definizione allarga il concetto di reazione avversa a differenti situazioni che
includono:
-
overdose: si intende la somministrazione di una quantità di medicinale, assunta singolarmente o cumulativamente, superiore alla
massima dose raccomandata secondo le informazioni autorizzate del
prodotto;
-
uso off-label: si riferisce ad ADR dovute ad impieghi del medicinale
usato intenzionalmente per finalità mediche non in accordo con le
condizioni di autorizzazione non solo nelle indicazioni terapeutiche,
ma anche nella via di somministrazione e nella posologia;
-
misuso: si riferisce a situazioni in cui il medicinale è usato intenzionalmente e in modo inappropriato non in accordo con le condizioni
di autorizzazione;
-
abuso: si riferisce a un intenzionale uso eccessivo del medicinale,
sporadico o persistente, accompagnato da effetti dannosi fisici o psicologici;
-
esposizione occupazionale: si riferisce all’esposizione a un medicinale come risultato di un impiego professionale o non professionale.
* La scheda per la segnalazione delle reazioni avverse, come pure il testo della nuova regolamentazione di Farmacovigilanza, sono disponibili on-line al sito:
http://www.agenziafarmaco.gov.it/it/content/modalit%C3%A0-di-segnalazionedelle-sospette-reazioni-avverse-ai-medicinali
204
uno strumento importante per monitorare in modo continuo e sistematico il profilo di sicurezza dei farmaci e dei vaccini dopo la loro registrazione. I dati delle segnalazioni spontanee, presi singolarmente
o in forma aggregata, non permettono di quantificare il rischio associato all’uso di un farmaco. Tuttavia, forniscono una indicazione
sull’esistenza o meno di un segnale, e cioè di un potenziale aumento
rispetto all’atteso di eventi insorti a seguito dell’assunzione di un
farmaco. La segnalazione spontanea è particolarmente utile in campo pediatrico, dove i case report pubblicati in letteratura rappresentano spesso l’unica fonte di informazione di sicurezza per i medici.
Gli operatori sanitari sono chiamati a segnalare tutte le ADR, indipendentemente dalla gravità e/o dalla notorietà, allo scopo sia di
individuare le reazioni gravi e rare non note in precedenza, che di
monitorare la frequenza delle ADR note e non gravi (Tab. III). In Italia
l’attività di segnalazione spontanea da parte dei pediatri di libera
scelta (PLS) è complessivamente molto limitata: i dati aggiornati al
2012 evidenziavano che i report pediatrici costituivano l’1,4% del
totale (circa 400 schede inserite dai PLS su un totale di 29036 schede nella rete nazionale di farmacovigilanza) (AIFA, 2013).
La sottosegnalazione delle ADR è uno dei principali limiti del sistema
di segnalazione spontanea. Va tenuto presente che il fenomeno della
sottosegnalazione non si limita alle ADR note e non gravi (che non
costituiscono un rischio immediato per la salute del paziente), ma
si estende anche alle ADR gravi e non note. Diversi studi spiegano
il fenomeno della sottosegnalazione con la mancanza di tempo, la
Tabella II.
Modalità di segnalazione delle sospette reazioni avverse ai medicinali
Le segnalazioni spontanee di sospette reazioni avverse costituiscono
un’importante fonte di informazioni per le attività di farmacovigilanza, in
quanto consentono di rilevare potenziali segnali di allarme relativi all’uso di
tutti i farmaci disponibili sul territorio nazionale. La Farmacovigilanza coinvolge a diversi livelli tutta la comunità: pazienti, prescrittori, operatori sanitari, aziende farmaceutiche, istituzioni ed accademia e la segnalazione può
essere effettuata non solo dall’operatore sanitario ma anche dai cittadini.
In attesa del Recepimento della direttiva 2010/84/CE e dei conseguenti
atti normativi relativi, sarà possibile effettuare una segnalazione spontanea di sospetta reazione avversa secondo due diverse modalità. Nello
specifico gli operatori sanitari e/o i cittadini potranno
A) o compilare la “scheda cartacea” di segnalazione di sospetta reazione avversa (istituita con il DM 12/12/2003), che può essere scaricata e
stampata cliccando su questo link a seconda di chi fa la segnalazione:
Operatore sanitario o Cittadino. Questa scheda una volta compilata va
inviata al Responsabile di farmacovigilanza della propria struttura di appartenenza;
B) o compilare on-line la “scheda elettronica” di segnalazione di sospetta reazione avversa” che può essere trovata cliccando su questo link a
seconda di chi fa la segnalazione: Operatore sanitario o Cittadino. Dopo
la compilazione on line, la scheda può essere salvata sul proprio PC ed
inviata per e-mail al Responsabile di Farmacovigilanza della propria struttura di appartenenza. In alternativa il modulo on line può essere stampato, compilato e trasmesso al Responsabile di Farmacovigilanza della propria struttura di appartenenza (secondo la modalità descritta al punto A).
I riferimenti e i contatti e-mail di tutti i Responsabili di Farmacovigilanza
sono disponibili sul sito
http://www.agenziafarmaco.gov.it/it/content/modalit%C3%A0-di-segnalazione-delle-sospette-reazioni-avverse-ai-medicinali
Sarà cura del Responsabile di Farmacovigilanza provvedere all’inserimento delle segnalazioni di sospette reazioni avverse nella Rete Nazionale di Farmacovigilanza. In questo modo sarà realizzato un costante e
continuo monitoraggio delle reazioni avverse e della sicurezza d’uso dei
medicinali.
La Farmacovigilanza in età pediatrica
Tabella III.
Classificazione delle ADR in base alla gravità e alla frequenza.
Una reazione avversa è considerata “grave” se:
- provoca la morte di un individuo;
- ne mette in pericolo la vita;
- causa o prolunga l’ospedalizzazione;
- provoca disabilità/incapacità persistente o significativa;
- comporta una anomalia congenita o un difetto alla nascita.
In merito alla frequenza si distinguono ADR:
- molto frequenti: >1/10;
- frequenti: >1/100 e <1/10;
- infrequenti: >1/1000 e <1/100;
- rare: >1/10000 e <1/1000.
scelta di diverse priorità nell’assistenza, difficoltà di accesso/compilazione dei moduli per le segnalazioni, la mancanza di conoscenza
dello scopo e dell’utilità clinica della farmacovigilanza e soprattutto
l’incertezza sul nesso di causalità tra farmaco e ADR (Pellegrino et
al., 2013).
A questo proposito, va tenuto presente che il ruolo delle segnalazioni
spontanee è quello di far sorgere il sospetto di una possibile associazione causale tra farmaco e ADR. Ai fini della segnalazione non
è necessario essere “certi” della correlazione farmaco-ADR, ma è
sufficiente il sospetto che i due eventi siano associati. Successivamente, il segnale emerso può essere indagato e verificato in modo
formale attraverso studi epidemiologici.
Una spiegazione ulteriore del fenomeno della sottosegnalazione in
pediatria riguarda la difficoltà aggiuntiva di riconoscimento delle
ADR. I più piccoli, infatti, hanno mezzi più limitati per comunicare
il proprio disagio e dipendono totalmente da coloro che se ne prendono cura e dalla capacità degli specialisti di mettere in relazione
l’uso di un farmaco con i cambiamenti di natura fisica o psicologica
(Star e Edwards, 2014). Per rispondere al problema della sottostima
(under-reporting) e migliorare la qualità dei dati raccolti, sono utili gli
studi basati sulla sorveglianza attiva delle reazioni avverse ai farmaci. Uno studio condotto con un gruppo di 29 pediatri del Veneto ha
permesso di analizzare in un anno 244 segnalazioni, relative a 388
eventi, e di stimare l’incidenza di reazioni avverse nei bambini (15,1
per 1.000 bambini) (Menniti-Ippolito et al., 2000). La partecipazione dei pediatri allo studio è stata soddisfacente, a dimostrazione
che la sollecitazione derivante da incontri frequenti con gli operatori
sanitari stimola gli stessi a porre attenzione alla possibilità di insorgenza di ADR, a riconoscerle e segnalarle precocemente. Il risultato
finale, nello studio citato, è stato quello di raggiungere un livello di
segnalazione decine di volte superiore a quello che si riscontra nelle
segnalazioni spontanee.
Va tenuto presente che la sottosegnalazione non è l’unico bias presente nelle segnalazioni spontanee. Una distorsione potenzialmente
più grave è rappresentata dal reporting selettivo. Quello che può
avvenire, cioè, è che sotto l’influenza di fattori esterni (ad es., provvedimenti adottati dalle Agenzie Regolatorie) vi sia un’attenzione
selettiva. Sono ben noti i fenomeni di incremento nella frequenza di
segnalazioni spontanee dopo che sia stata diffusa una “dear doctor
letter” e data pubblicità a un segnale di rischio di un farmaco.
Nella popolazione pediatrica la maggior parte delle segnalazioni
spontanee riportano reazioni avverse da vaccino sia perché vige
l’obbligo di segnalare qualsiasi reazione, anche se attesa e non
grave, sia per una maggiore attenzione e sensibilità da parte degli
operatori sanitari coinvolti. L’analisi presentata in Figura 1 si riferisce
alle segnalazioni presenti nella Rete Nazionale di Farmacovigilanza
insorte nel periodo 2001-2010 e che riguardano la popolazione fino
a 17 anni (poco meno di 3.000 segnalazioni nel 2009 e 2010). Nel
2010 il numero di segnalazioni di reazioni avverse da vaccino nella
popolazione pediatrica era di 1755, pari a circa il 60% del totale
(Fig. 1), percentuale lievemente in calo rispetto al 2009 quando, in
occasione della pandemia influenzale, si è osservata una crescita di
segnalazioni da vaccino.
Gli studi epidemiologici
A partire da una valutazione qualitativa legata alla presenza di segnalazioni spontanee che evidenziano un possibile rischio da farmaci, gli approfondimenti successivi sono di due tipi: verificare se
ci sia un incremento della frequenza rispetto all’atteso (al fine di
escludere il ruolo del caso), e valutare se l’incremento osservato
non possa essere spiegato da cause alternative (e cioè attribuibile a
fattori confondenti).
Il primo tipo di verifica si basa sul confronto fra la frequenza di eventi avversi osservati fra gli assuntori di un farmaco e il numero di
eventi attesi in assenza dell’esposizione al farmaco (o in presenza
di un’esposizione a un farmaco alternativo). In mancanza dell’informazione del numero di soggetti utilizzatori, o della frequenza attesa,
è possibile comunque stimare l’eventuale incremento del rischio
tramite misure cosiddette di disproporzionalità, quali il proportional
reporting ratio o il reporting odds ratio. In queste misure si confrontano la proporzione (o l’odds) di eventi di interesse sul totale delle
segnalazioni del farmaco in studio, con il corrispondente valore per
uno o più altri farmaci (o anche il complesso dei farmaci).
Ad esempio, per un vaccino antirotavirus e per un vaccino esavalente si è osservato, dopo la commercializzazione, un incremento di circa 20 volte della frequenza osservata rispetto all’atteso (CDC, 1998;
von Kries et al., 2005). In entrambi i casi le differenze erano statisticamente significative, cioè non attribuibili al ruolo del caso. Per la
natura delle segnalazioni, tuttavia, non è possibile stabilire se non
ci siano cause alternative che possano spiegare il dato osservato.
Figura 1.
Segnalazioni pediatriche a farmaci e vaccini nel periodo 2001-2010
(tratto da Santuccio et al., Medico e Bambino, 2013, per gentile concessione).
205
C. D’Amore et al.
La forza degli studi epidemiologici rispetto alle segnalazioni spontanee risiede nella possibilità di poter concludere che un farmaco è
causa di un evento (voluto o indesiderato) se l’incidenza di eventi
fra gli utilizzatori è maggiore di quella fra i non utilizzatori, a parità
di tutte le altre condizioni. In assenza di bias, la “parità delle condizioni” si raggiunge attraverso il controllo dei determinanti estranei
(cioè dei cosiddetti fattori di confondimento). Gli studi che non riescono a controllare adeguatamente tali fattori confondenti possono
sottovalutare o sopravvalutare i rischi di eventi avversi attribuibili
all’uso del farmaco.
Nel caso del segnale relativo all’associazione fra intussuscezione e vaccino antirotavirus, il vaccino è stato sospeso ed è stato condotto uno
studio caso-controllo. I casi erano rappresentati dai bambini con intussuscezione e i controlli da bambini nati nello stesso ospedale dei casi e
appaiati per età. Lo studio ha evidenziato un Odds ratio aggiustato (cioè
indipendente dai fattori di confondimento) di 21,7 (intervallo di confidenza 95%: 9,6-48,9), confermando così quanto emerso dalle segnalazioni
spontanee (Murphy et al., 2001). Se si tiene conto che i bambini vaccinati tendono ad avere in media uno stato di salute migliore di coloro che
non si vaccinano – il cosiddetto “healthy vaccinee effect” (Fine e Chen,
1992) – si comprende come l’incremento di rischio osservato con quel
particolare vaccino antirotavirus fosse reale.
Il caso del segnale connesso al vaccino esavalente è più complesso.
Durante i primi mesi di vita, i bambini ricevono numerose vaccinazioni; di conseguenza è probabile che eventi che pure avvengono
negli stessi mesi, come le SIDS, possano verificarsi successivamente alla somministrazione del vaccino, determinando quindi un aumento delle segnalazioni, per il solo effetto del caso. L’associazione
temporale può indurre a pensare che esista un nesso di causalità
tra la somministrazione del vaccino e la reazione avversa segnalata,
richiedendo quindi ulteriori approfondimenti. Inoltre, quando quasi
tutta la popolazione di riferimento è vaccinata, può essere difficile
individuare un adeguato gruppo di controllo e quindi di poter controllare l’effetto dei potenziali confondenti.
Un modello di studio particolarmente adatto a verificare la plausibilità
di segnali di rischio legati all’uso dei vaccini è rappresentato dal caseseries. Questo disegno è in grado di controllare il confondimento individuale in quanto nello studio sono inclusi solo i “casi”, cioè i soggetti
che hanno sviluppato l’evento di interesse. Negli studi case-series il
periodo di osservazione dopo la vaccinazione è suddiviso in periodi di rischio (i giorni immediatamente successivi a ciascuna dose) e
periodo di controllo (i giorni rimanenti prima dell’esito). Il confronto
avviene fra la frequenza di eventi a ridosso della vaccinazione (periodi di rischio) rispetto alla corrispondente frequenza nei periodi più
distanti (periodi di controllo). Se i soggetti in studio presentano fattori
prognostici che non si modificano nel tempo, queste caratteristiche
sono automaticamente controllate. In uno studio case-series condotto
su tutti i bambini che hanno sviluppato una Sids in Italia nel periodo
1999-2004 non è stato confermato un incremento di rischio associato
alla vaccinazione esavalente (Traversa et al., 2011).
Va infine tenuta presente la differenza fra rischi relativi e numero
di eventi aggiuntivi attesi in una popolazione. Un aumento di 2-3
volte nel rischio di un evento raro tra gli utilizzatori di un farmaco
può essere rilevante da un punto di vista conoscitivo ma non così
importante nella pratica clinica. Ad esempio, il rischio di insorgenza
della Sindrome di Stevens-Johnson aumenta di circa 3 volte fra gli
assuntori di Fans o di paracetamolo (Raucci et al., 2013). Tuttavia,
l’incidenza di questa sindrome nella popolazione infantile è di circa
1 caso per milione di bambini per anno e di conseguenza la probabilità individuale di insorgenza rimane sostanzialmente irrisoria nel
breve periodo nel quale si utilizzano i farmaci.
206
Conclusioni
Sono numerose le indicazioni a sostegno di un’accresciuta attenzione al tema della sicurezza d’uso dei farmaci in pediatria. Un primo
contributo di rilievo è da attribuire alle norme approvate a livello internazionale per la conduzione degli studi pediatrici a sostegno della
registrazione dei farmaci. C’è anche una maggiore attenzione a livello
nazionale, come testimoniato dall’incremento del numero di segnalazioni spontanee pervenute alla rete di farmacovigilanza, relativamente
sia ai farmaci che ai vaccini. Sempre più spesso, poi, sono presenti in
letteratura articoli relativi a studi epidemiologici di coorte, caso-controllo, o basati solo sui casi (case-series e case-crossover), condotti
per valutare la consistenza dei segnali di possibili rischi.
Questi strumenti – sperimentazioni cliniche, segnalazioni spontanee
e studi osservazionali – vanno utilizzati congiuntamente per contribuire al chiarimento del profilo di rischio dei farmaci. I limiti di ciascuno di questi strumenti sono spesso compensati dai punti di forza
dell’altro. Ad esempio, le sperimentazioni cliniche presentano una
maggiore validità interna, cioè la capacità di accertare l’efficacia nei
pazienti inclusi negli studi. Tuttavia, i limiti di numerosità sono tali
da rendere difficoltoso mettere in evidenza reazioni avverse relativamente rare o che si verificano in sottogruppi poco rappresentati
negli RCT. Si tratta di limiti in qualche misura inevitabili. Al momento
dell’immissione in commercio di un farmaco dobbiamo accettare un
compromesso fra livello complessivo delle conoscenze disponibili,
tempi necessari per produrne di aggiuntive e attese dei pazienti che
necessitano di un trattamento.
I limiti di numerosità sono superati dai sistemi di segnalazione spontanea, dato che la popolazione di riferimento è rappresentata dal
complesso dei soggetti esposti a un farmaco. Il punto di forza di
questi strumenti consiste nella capacità di evidenziare rapidamente
il sospetto di una nuova reazione avversa: possono infatti essere
sufficienti pochissimi eventi per fare scattare un segnale di attenzione. Certo, le segnalazioni spontanee possono essere poco specifiche: spesso mancano informazioni sul “denominatore” (il totale
degli esposti) oltre ai fattori di rischio concomitanti che potrebbero
spiegare, in parte o completamente, gli eventi osservati. Proprio per
come sono costruite, è sufficiente un sospetto di potenziale relazione di causalità a fare scattare la segnalazione. Starà agli studi epidemiologici di tipo osservazionale verificare la consistenza o meno
del segnale e stimare, quando il segnale viene confermato, l’entità
dell’incremento di rischio fra gli utilizzatori.
I diversi strumenti devono quindi essere integrati fra di loro. In questa specie di puzzle, ciascuna nuova prova contribuisce a corroborare o a ridurre il livello di evidenza disponibile in precedenza.
Non bisogna neppure vedere ciascun nuovo pezzo di informazione
come definitivo quanto piuttosto come contributo in un accrescimento continuo delle conoscenze disponibili. In un quadro nel quale
il profilo beneficio-rischio rimane sostanzialmente positivo, l’acquisizione di nuove conoscenze su una reazione avversa può portare
semplicemente alla modifica della scheda tecnica del farmaco. Ci
sono invece situazioni nelle quali i dati aggiuntivi modificano il profilo beneficio-rischio e sono utilizzati a sostegno di provvedimenti che
vanno dalle limitazioni nell’uso fino al ritiro del farmaco dal mercato.
Condividere l’obiettivo di miglioramento delle conoscenze sulla sicurezza dei farmaci è indispensabile per ottenere il coinvolgimento
di tutti i professionisti, a iniziare dai pediatri, nelle attività di farmacovigilanza. Le ricadute di questa attività, ad esempio a seguito di
interventi EMA o FDA, sono presenti a livello internazionale, ma si
deve sapere che alla base c’è il lavoro e la capacità di riconoscimento delle reazioni avverse ai farmaci di singoli professionisti motivati.
La Farmacovigilanza in età pediatrica
Box di orientamento
Che cosa si sapeva prima
Negli anni è cresciuta la consapevolezza della necessità di condurre studi clinici in ambito pediatrico. Questa necessità è stata accolta dall’European
Medicines Agency (EMA) che ha adottato provvedimenti, quali il Regolamento Europeo sui farmaci pediatrici e la Nuova Normativa sulla Farmacovigilanza, rivolti a promuovere lo sviluppo della ricerca pediatrica e a migliorare il monitoraggio del profilo beneficio-rischio dei farmaci da utilizzare nei
bambini.
Che cosa sappiamo adesso
Sono numerose le indicazioni che mostrano una maggiore attenzione al tema della sicurezza d’uso dei farmaci in pediatria. In primo luogo, è in aumento
la proporzione di studi clinici che includono la popolazione pediatrica. Risultano inoltre aumentati il numero di segnalazioni di sospette reazioni avverse
nella popolazione pediatrica e gli studi osservazionali realizzati in campo pediatrico per dare risposta ai segnali emersi dai sistemi di segnalazione
spontanea.
Quali ricadute sulla pratica clinica
L’insieme delle informazioni provenienti dalle sperimentazioni cliniche, dalle segnalazioni spontanee e dagli studi osservazionali, utilizzate congiuntamente, migliorano le conoscenze sull’efficacia e sulla sicurezza dei farmaci, riducendo i rischi associati alla prescrizione nella popolazione pediatrica.
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Smyth RL, Weindling AM. Research in children: ethical and scientific aspects.
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Star K, Edwards IR. Pharmacovigilance for children’s sake. Drug Saf 2014;37:91-8.
** Una interessante review che fornisce un quadro approfondito della farmacovigilanza in pediatria.
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Corrispondenza
Giuseppe Traversa, Reparto di Farmacoepidemiologia, Centro Nazionale di Epidemiologia, Istituto Superiore di Sanità, viale Regina Elena 299, 00161
Roma. E-mail: [email protected]
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Luglio-Settembre 2014 • Vol. 44 • N. 175 • Pp. 208
Focus
Tavola Rotonda di “Prospettive in Pediatria”
Centro Congressi Università Federico II
Via Partenope, 36 – Napoli
23 gennaio 2015
11.00-14.00
Programmi di screening neonatale per malattie metaboliche ereditarie
Moderatori: Generoso Andria (Napoli), Fabio Sereni (Milano)
I programmi in atto in Europa e in Italia
DomenicaTaruscio (Roma)
Le evidenze scientifiche per le scelte politiche
Carlo Dionisi Vici (Roma)
I provvedimenti legislativi italiani
Serena Battilomo (Roma)
Il punto di vista della sanità pubblica e delle regioni
Paola Facchin (Padova)
Il follow-up e la presa in carico dei pazienti
Maria Alice Donati (Firenze)
Il punto di vista delle Associazioni e dell’opinione pubblica
Manuela Vaccarotto (Padova)
Aspetti etici
Sara Casati (Roma)
La Tavola Rotonda di Prospettive in Pediatria apre il Corso di formazione per pediatri:
L’assistenza pediatrica per le malattie rare: il modello delle sindromi genetiche e delle malattie metaboliche ereditarie
organizzato dal Centro di Coordinamento Malattie Rare - Regione Campania.
Per informazioni sul Corso di formazione (Napoli, 23-24 gennaio 2015) rivolgersi a:
Center Comunicazione e Congressi srl
Via Gaetano Quagliariello, 27
80131 Napoli
Tel: 08119578490 - Fax: 0819578071
[email protected] - www.centercongressi.it
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