Alla scoperta di quell`isola selvaggia che scatena i

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Alla scoperta di quell`isola selvaggia che scatena i
Alla scoperta di
quell'isola
selvaggia che
scatena i
sentimenti
Il guardiano del faro/18. Un capitano turco durante un viaggio memorabile molti
anni fa mi parlò di un lembo di terra grande come un fazzoletto
di PAOLO RUMIZ
A pensarci bene, il primo a parlarmi dell'Isola fu un capitano turco, una trentina d'anni fa. Ricordo
solo il nome della sua nave, "Kaptan Özege", un trabiccolo carico di storia che portava camion da
Trieste a Iskenderun, l'antica Alessandretta. Le crociere su navi da trasporto sono mille volte
meglio dei viaggi per mare sui lager di lusso, e io, forte di questa convinzione, avevo cercato e
ottenuto un imbarco su quel rugginoso mercantile battente bandiera scarlatta con Luna crescente.
Conoscevo i camionisti turchi dei tempi eroici. Ne avevo sperimentato la valentia sui polverosi
sterrati dell'Anatolia e avevo anche viaggiato su uno dei loro monumentali quattroruote tintinnanti
di amuleti. Dunque la compagnia era perfetta per me.
Fu un viaggio memorabile. L'automobile col suo carrello tenda, agganciata a robuste catene contro
il mare grosso, era parcheggiata fra due Tir. I miei bambini, che avranno avuto allora
rispettivamente undici e sei anni, vivevano la nave in assoluta libertà. Imparavano numeri e
parolacce in turco dai marinai, impastavano il pane con il cuoco di bordo, prendevano persino il
timone sotto l'occhio vigile del primo ufficiale. I pasti erano squisiti, la cucina turca è una delle
migliori del mondo. Ma la delizia erano le notti, quando mi stendevo con una stuoia sopra il ponte e
guardavo l'universo stellato beccheggiare col ritmo lungo del vento di levante. Al largo del
Dodecaneso vedemmo pesci fosforescenti volare sopra le acque calde del Mediterraneo.
Fu in una di quelle notti che il capitano mi parlò di isole. Come tutti i turchi, soffriva di claustrofobia
per via dell'Egeo completamente in mano greca. Quel confine marittimo che arrivava a un metro
dall'Asia Minore gli metteva addosso una fame inesausta di arcipelaghi. Passando fra Citera e
Capo Matapan, con Creta a due ore appena, la nave puntò su Santorini e il vecchio stambuliota a
fine carriera, fumando con immensa malinconia una sigaretta sulla murata, cominciò a distillare
memorie di mare. Vennero fuori Pantelleria, l'Île de Sein in Bretagna, la solitaria Linosa, la piccola
Adalar a sud della parte asiatica di Istanbul. E venne fuori anche l'Isola, selvaggia e disabitata, con
la sua torre di luce ad altezza fenomenale sul mare infinito.
Il faro tornò a chiamarmi una ventina d'anni dopo, a Marsiglia. Ero lì a farmi di profumi, agliomenta-rosmarino, quando attaccai discorso con un giovanotto di nome Lionel, che serviva come
cameriere in un ristorante dalle parti delle Calanques e aveva fatto il cuoco per una decina d'anni
sulle navi da carico. Mi parlò delle mille ricette e contaminazioni culinarie che aveva rubato qua e
là viaggiando per mare. Poi, non so come, il discorso cadde su un'isola. La chiamava "il
condominio sommerso dei pesci", per via della sua straordinaria pescosità, ma non ne ricordava il
nome. Disse però che "Il y avait un phare" a strapiombo, che - come uno scoglio di sirene - attirava
tutti quelli che ci passavano accanto. Ne feci il nome, e lui rise: "Qui! Voilà nôtre île".
Da allora le chiamate si moltiplicarono, e il luogo mi crebbe dentro come mito e desiderio, finché
non giunse il terzo incontro, quello decisivo. Era un archeologo dalmata specializzato in storia del
Mediterraneo, e si chiamava Branko Kirgigin. Era stato più volte su quello scoglio sperduto e negli
anni Novanta vi aveva svolto una campagna di scavi. Quando lo cercai per saperne di più, mi
invitò subito a cena nella sua casa di Spalato e mi riversò una montagna di storie. Era un
visionario: tracimava di immagini più che di dati scientifici. Evidentemente l'Isola era per lui un
luogo dell'anima, più che un oggetto di studio.
Quella sera masticammo nomi greci e versi di Omero insieme a gamberi e baccalà con le patate,
finché non giungemmo al cospetto dell'Ultima Thule, il favoloso baricentro del Pontos, il luogo da
dove nelle giornate nitide è possibile vedere il Continente e nello stesso tempo, dal lato opposto,
l'Arcipelago. Seppi che su quel gigantesco, solitario catafalco di pietra, visibile da trenta miglia
almeno, era stato forse sepolto uno tra i più famosi dei "Nòstoi", i reduci dalla guerra di Troia. Era
stato un bambino, il figlio di un farista, a strabiliare persino gli archeologi inglesi, mostrando loro un
coccio di ceramica greca con sopra il nome dell'Eroe. Nome che ovviamente non farò.
Scorse molto vino e molto inchiostro - nel mio taccuino - in quella sera adriatica, mentre Branko
sparava storie pazzesche. Disse di vecchie barche di legno portate in processione e bruciate in
onore degli dei nel giorno di San Nicola, patrono internazionale dei naviganti, e disse di quelle
ceneri benedette che poi venivano trasferite come talismano sulle barche nuove in costruzione.
Narrò di pescatori di un'isola colonizzata dai Greci che uscivano ancora in mare nudi, tale era la
lotta con gli elementi nella caccia agli scorfani e ai dentici annidati in quei fondali. Raccontò di
isolotti pescosissimi dove la bussola impazziva e dove, dicevano i marinai, non servivano droghe
per star svegli la notte. Celebrò la fantastica altezza del faro e la potenza del Sole che consumava
l'intera sua parabola da mare a mare.
Profetizzò: "Non ti annoierai mai. È grande come un fazzoletto ma non ti basterà un mese a
esplorarla tutta". Si commosse: "È un luogo razionalmente incontrollabile, ogni giorno è diverso,
ogni vento ti scatena una tempesta di sentimenti inattesi". Raccomandò: "portati limoni, per condire
le patelle, che sono grandi come capesante". Capii che moriva dalla voglia di tornarci e lo invitai a
partire con me, il giorno che avessi deciso in tal senso, ma lui disse no, che non ci sarebbe tornato
mai più. Gliene chiesi il motivo ma non volle dirmelo, e io pensai che era scappato dall'Isola come
Odisseo da Calipso, forse perché si era trovato a un passo dallo sperdimento, ai confini
dell'eterno, e aveva preferito rientrare come comune mortale alla sua Itaca profumata di rosmarino.
(18 - continua)