Studio su organismi di controllo dei CSV
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Studio su organismi di controllo dei CSV
Organismi di controllo sui CSV Dalle funzioni attuali alle prospettive future settembre 2015 Pagina 1 di 59 Report prodotto dal Gruppo di lavoro coordinato dal Prof. Emanuele Rossi e dal Dott. Luca Gori e composto dai Dottori Andrea Blasini, Bruno Brancati, Giorgio Mocavini. Pagina 2 di 59 I. FINALITA’ E METODOLODIA DI UNA INDAGINE SUGLI ORGANISMI DI CONTROLLO SUI CSV La ricerca che la Scuola Sant’Anna ha svolto su incarico del Co.Ge Calabria, con la collaborazione della Consulta dei Comitati di gestione, ha ad oggetto la collocazione istituzionale e le funzioni svolte dai Comitati di gestione istituiti in base all’art. 15 della legge n. 266 del 1991. Tale collocazione viene letta sia in una prospettiva de iure condito sia in quella, altrettanto interessante, de iure condendo, considerando l’iniziativa legislativa governativa e l’approvazione da parte della Camera dei deputati dell’A.C. 2617 (Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell' impresa sociale e per la disciplina del Servizio civile universale), attualmente in discussione al Senato (A.S. 1870, esame in sede referente della 1° Commissione – Affari costituzionali). Il tema riviste una sua importanza non solo sul piano istituzionale, ma anche su quello “quantitativo”, cioè delle risorse messe a disposizione del “sistema” del volontariato. Sebbene nel 2013 si sia assistito a una riduzione significativa dei proventi complessivi che derivano dai contributi delle fondazioni bancarie rispetto al 2012, le risorse a disposizione dei centri di servizio per il volontariato nel 2013 sono state comunque pari a 49,6 milioni di euro, mentre nel 2012 ammontavano a circa 58 milioni. Alla fine del 2013, inoltre, è stato concluso un importante accordo, con prospettiva triennale, avente ad oggetto il quantum delle risorse e la loro destinazione (intesa tra Acri – l'Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio SpA; Forum Nazionale del Terzo Settore; Consulta Nazionale del Volontariato presso il Forum Nazionale del Terzo Settore; ConVol – Conferenza Permanente delle Associazioni, Federazioni e Reti di Volontariato; Consulta Nazionale dei Comitati di Gestione (Co.Ge.) e CSVnet - Coordinamento Nazionale dei Centri di Servizio per il Volontariato). Appare necessario, tuttavia, svolgere una considerazione di tipo metodologico. In questo lavoro, si è preso in considerazione sia il piano del diritto positivo sia il piano della prassi, delle concrete relazioni istituzionali che si sono affermate fra i Co. Ge., le fondazioni Pagina 3 di 59 di origine bancaria, i Centri servizi del volontariato. Anticipando le conclusioni di questo intervento, è infatti la dimensione “relazionale” dei comitati di gestione, il loro essere “snodo” fra gli enti finanziatori dei fondi speciali e gli enti destinatari e – come meglio si dirà – con gli enti territoriali che sono “attori del sistema” . E’ alla luce di questo tratto caratteristico “relazionale” e “dinamico” che si proverà a leggere il “sistema” dei COGE per come esso si è attualmente strutturato e per come potrebbe esserlo in un futuro prossimo. Pagina 4 di 59 II. IL QUADRO NORMATIVO ATTUALE a) L’art. 15 della legge n. 266 del 1991. Il disegno di legge delega per la riforma del codice civile e del Terzo settore costituisce occasione privilegiata per ripensare e mettere a fuoco alcuni dei problemi che la prassi sulla gestione dei Comitati di gestione e dei Centri di servizio ha evidenziato nei ventiquattro anni di vigenza della legge n. 266 del 1991 (sebbene l’implementazione della legge sia avvenuta a partire dal 1996, con l’istituzione dei primi Comitati di gestione, e dal 1997 con l’effettiva istituzione dei Centri di servizio). Tale operazione deve essere condotta con puntuale attenzione al dato normativo ed alla ricerca di meccanismi che consentano, anche mediante la loro disciplina giuridica, di migliorare l’efficienza del sistema nell’attuazione dei principi costituzionali. Preliminare esigenza è la ricostruzione puntuale del quadro normativo, che con riguardo al tema oggetto della presente analisi è costituto, in primo luogo, dall’art. 15 della legge n. 266 del 1991. Tale disposizione risulta così formulata: 1. Gli Enti di cui all’articolo 12, comma 1, del decreto legislativo 20 novembre 1990, nr. 356, devono prevedere nei propri statuti che una quota non inferiore ad un quindicesimo dei propri proventi, al netto delle spese di funzionamento e dell'accantonamento di cui alla lettera d) del comma 1, venga destinata alla costituzione di fondi speciali presso le Regioni al fine di istituire, per il tramite degli Enti locali, centri di servizi a disposizione delle organizzazioni di volontariato, e da queste gestiti, con la funzione di sostenerne e qualificarne l'attività. 2. Le Casse di risparmio, fino a quando non abbiamo proceduto alle operazioni di ristrutturazione di cui all'articolo 1 del citato decreto legislativo nr. 356 del 1990, devono destinare alle medesime finalità di cui al comma 1 una quota pari ad un decimo delle somme destinate ad opere di beneficenza e di pubblica utilità ai sensi dell'articolo 35, comma 3, del regio decreto 25 aprile 1923, nr. 967, e successive modificazioni. 3. Le modalità di attuazione delle norme di cui ai commi 1 e 2, saranno stabilite con decreto del Ministro del tesoro, di concerto con il Ministro per gli affari sociali, entro tre mesi dalla data di pubblicazione della presente legge. Pagina 5 di 59 La disposizione mira a introdurre un sistema di finanziamento forzoso – a carico delle fondazioni di origine bancaria - a vantaggio di strutture denominate Centri di servizio, le quali devono essere istituite dai Comitati di gestione, su iniziativa degli enti locali e gestite da organizzazioni di volontariato, con lo scopo di “sostenere e qualificare l’attività” delle stesse organizzazioni di volontariato. La formulazione legislativa ha indotto uno dei primi commentatori della legge a domandarsi “se le organizzazioni di volontariato gestiscano (come sembra indicare la lettera della legge) i centri di servizio, o invece (come indicherebbe la ratio della legge) i fondi speciali”1: dubbio che è stato prontamente risolto, come subito si dirà, dal decreto ministeriale di attuazione della normativa legislativa. b) Il Decreto ministeriale di attuazione Le modalità di attuazione della previsione legislativa sono state regolate dapprima con il Decreto del Ministro del Tesoro del 21 novembre 1991, il quale ha disciplinato le modalità di erogazione dei fondi previsti dalla legge nonché i profili organizzativi degli enti di gestione e dei centri di servizio. Tale decreto è stato successivamente modificato e integralmente sostituito ad opera del DM 8 ottobre 1997, che ha sostanzialmente confermato l’impianto complessivo del precedente, apportandovi alcune marginali revisioni. Non merita in questa sede valutare le differenze tra il primo e il secondo decreto: alla luce delle esigenze attuali conviene quindi senz’altro riferirsi al secondo, mentre in nota saranno segnalate le differenze di qualche rilievo tra le due formulazioni. Con riguardo alle modalità di erogazione dei fondi previsti dalla legge, il decreto ministeriale ha stabilito che gli enti tenuti al finanziamento in esame devono ripartire annualmente le somme previste dalla legge destinandone il 50% ad un fondo speciale costituito presso la regione ove i predetti enti e casse hanno sede legale, ed il restante 50% ad uno o a più altri fondi speciali, scelti liberamente dai suddetti enti e casse. 1 V. ITALIA, Il volontariato – Organizzazioni, statuti e convenzioni, Milano, 1992, 115. Pagina 6 di 59 Per l’amministrazione di tali fondi il DM provvede all’istituzione di comitati di gestione presso ciascuna regione italiana (e provincia autonoma), la cui composizione è così definita: a) un membro in rappresentanza della regione competente, designato secondo le previsioni delle disposizioni regionali in materia; b) quattro rappresentanti delle organizzazioni di volontariato - iscritte nei registri regionali – maggiormente presenti nel territorio regionale, nominati secondo le previsioni delle disposizioni regionali in materia; c) un membro nominato dal Ministro per la solidarietà sociale; d) sette membri nominati dagli enti e dalle casse che erogano i fondi; e) un membro nominato dall'Associazione fra le casse di risparmio italiane; f) un membro in rappresentanza degli enti locali della regione, nominato secondo le previsioni delle disposizioni regionali in materia2. I fondi in questione sono resi disponibili per i centri di servizio nonché (sulla base della modifica apportata con il decreto del 1997) “per le spese di funzionamento e di attività del comitato di gestione”. Tale parte del decreto merita di essere sottolineata perché colma un vuoto lasciato dalla legge, ovvero le modalità di gestione (e le connesse responsabilità) dei fondi di cui all’art. 15: la scelta del decreto di attuazione è dunque nel senso di prevedere un organismo composito, composto in rappresentanza dei diversi attori coinvolti, vale a dire le fondazioni di origine bancaria e l’ACRI (per un totale di 8 membri su 15), le organizzazioni di volontariato (4 membri scelti), gli enti costituenti la Repubblica (un 2 Rispetto al DM del 1991, le più significative variazioni sono motivate o da un maggior rispetto per l’autonomia regionale (nel senso che la prima versione prevedeva la partecipazione necessaria del Presidente della Giunta regionale o di un suo delegato anziché rimettere la decisione alla regione stessa, mentre la individuazione dei membri in rappresentanza delle OdV era rimessa nella prima versione al Presidente della Giunta regionale, mentre nella seconda si è operato un rinvio alle leggi regionali), o dalla modifica della denominazione del Ministero cui è attribuita una nomina (Ministero degli Affari sociali anziché per la solidarietà sociale). Le prime di tali modifiche sono state rese necessarie a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 355/1992, su cui v. infra. Infine, nel decreto del 1997 è stato aggiunto un membro in rappresentanza degli enti locali della regione, che invece non figurava nella prima versione). Pagina 7 di 59 membro ciascuno il Ministero, la regione e gli enti locali). Il comitato resta in carica per due anni, elegge al proprio interno un presidente e la partecipazione alle sue attività è a titolo gratuito (è previsto soltanto il rimborso delle spese effettivamente sostenute per partecipare alle riunioni). Il medesimo art. 2 provvede poi ad indicare i compiti attribuiti ai comitati gestione: tra questi il più rilevante risulta l’istituzione dei centri di servizio, da realizzare mediante una procedura tesa a salvaguardare la trasparenza e l’imparzialità dell’esercizio dell’azione amministrativa. Ed infatti è stabilito che è compito di ciascun comitato individuare preliminarmente e rendere pubblici i criteri da adottare per l’istituzione di detti centri (con la possibilità di istituirne uno o più in ciascuna regione); ricevere le istanze per la relativa istituzione e provvedere in ordine ad esse, fornendo adeguata motivazione; istituire altresì l’elenco regionale dei centri di servizio e pubblicizzarne l’esistenza. Esaurita tale fase, rimane al comitato un compito di sorveglianza e di controllo sull’attività posta in essere dai centri di servizio, da esercitare mediante due azioni fondamentali: da un lato, attraverso la nomina di un membro degli organi deliberativi e di un membro degli organi di controllo dei centri di servizio; dall’altro, attraverso la ripartizione annuale delle somme a disposizione del fondo fra i centri di servizi istituiti presso la regione; in terzo luogo, mediante l’esame dei rendiconti di detti centri e la connessa verifica della regolarità nonché della conformità ai rispettivi regolamenti. Tra le sanzioni che il comitato può adottare viene stabilita dal decreto quella più drastica, ovvero il potere di cancellare dall’elenco regionale il Centro di servizio, mediante provvedimento motivato, nei seguenti casi: a) il Centro sia stato cancellato dal registro delle organizzazioni di volontariato3 ; b) venga accertato il venire meno dell’effettivo svolgimento delle attività a favore delle OdV; c) appaia opportuna una diversa funzionalità e/o competenza territoriale in relazione ai Centri di servizio esistenti; d) l’attività sia svolta in modo difforme dai propri regolamenti; e) il Centro si renda responsabile di inadempienze o irregolarità di gestione (in generale, sul potere di cancellazione nel quadro del controllo, vedi par. IV del presente lavoro). 3 Da segnalare al riguardo che mentre il Decreto del 1991 prevedeva la possibilità di istituire centri di servizio ad opera delle OdV di cui all’art. 6 della legge n. 266 del 1991 (vale a dire di tutte le organizzazioni di volontariato, fossero essere iscritte o non iscritte ai registri regionali), al contrario il Decreto del 1997 limita tale possibilità alle sole OdV iscritte: coerentemente, dunque, lo stesso decreto del 1997 fa scaturire dalla cancellazione nel registro regionale anche la cancellazione come centro di servizio. Pagina 8 di 59 Con riguardo poi ai Centri di servizio, il decreto ministeriale ne ha definito i compiti, ripetendo in parte quanto stabilito dalla legge ("I Centri di servizio hanno lo scopo di sostenere e qualificare l'attività di volontariato") e precisando che "a tal fine erogano le proprie prestazioni sotto forma di servizi a favore delle organizzazioni di volontariato", operando "in particolare, fra l'altro", in una serie di settori indicati: l'approntamento "di strumenti e iniziative per la crescita della cultura della solidarietà, della promozione di nuove iniziative di volontariato e di rafforzamento di quelle esistenti"; "la consulenza e assistenza qualificata nonché l'offerta di strumenti per la progettazione, l'avvio e la realizzazione di specifiche attività"; la promozione di "iniziative di forma-zione e qualificazione nei confronti degli aderenti al volontariato"; l'offerta di "informazioni, notizie, documentazione e dati sulle attività di volontariato locale e nazionale". In sostanza, la logica all’interno della quale hanno operato la legge prima e il decreto successivamente è di prevedere e finanziare, mediante i Centri di servizio sorvegliati dai comitati di gestione, delle attività di supporto alle organizzazioni di volontariato, coerentemente con il termine stesso ("Centri di servizio") ed evitando che i fondi derivanti dagli enti creditizi fossero direttamente destinati alle organizzazioni di volontariato. c) La “Comunicazione” del Ministro Turco del 2000. In diversa prospettiva, rispetto a quanto appena indicato, ha operato una "Comunicazione ai Comitati di gestione dei fondi ex art. 15 Legge n. 266 del 1991 ed ai Centri di servizio per il Volontariato" emanata il 22 dicembre 2000 dal Ministro per la Solidarietà sociale Livia Turco: con essa è stata ammessa la possibilità per i suddetti Centri di servizio di sostenere progetti di intervento presentati da associazioni e organizzazioni di volontariato, attingendo ai fondi a essi concessi ai sensi della legge quadro. Tale Comunicazione, infatti, afferma "la legittimità dell’interpretazione, nell’attuale quadro normativo esistente, tanto a livello di legge quanto a livello ministeriale, che consenta ai centri di servizio di sostenere progetti di intervento delle associazioni di volontariato” peraltro in via subordinata rispetto ai propri compiti "istituzionali", sulla base di una serie di argomentazioni sulle quali si tornerà subito. La comunicazione aggiunge, per quanto Pagina 9 di 59 concerne il rapporto fra i Centri ed i Comitati che “nell’ambito della propria programmazione di attività da presentare al comitato di gestione, i centri di servizi interessati ad integrare la propria attività con interventi della specie, dovranno evidenziare tale finalità di spesa al comitato di gestione nel quadro del bilancio preventivo da presentare o da modificare (…). Prima di esaminare il merito della Comunicazione, tuttavia, è opportuno ricordare come essa non abbia la forza giuridica propria dì un atto normativo, né pertanto essa valga a modificare o integrare il decreto ministeriale cui sopra si è fatto riferimento. La Comunicazione, al contrario, ha valore di circolare interpretativa, offrendo una possibile interpretazione del dato normativo che ha evidenti aspetti di autorevolezza (provenendo da un Dipartimento della Presidenza del Consiglio ed essendo firmata dallo stesso Ministro senza portafoglio), ma che, in quanto tale, non ha valore assoluto: così che non solo altri potrebbero interpretare diversamente la disciplina normativa (a cominciare dagli stessi Centri di servizio, per i quali peraltro quanto previsto dalla Comunicazione è una possibilità e non un obbligo), ma che altresì non potrebbe escludersi una diversa valutazione operabile in sede giurisdizionale (che tuttavia al momento non si è riscontrata). Con riguardo alle argomentazioni addotte nella Comunicazione a sostegno della linea interpretativa in essa sostenuta, la prima fa riferimento alla non tassatività dell'elenco contenuto nell'art. 4 del d.m. Tesoro 8 ottobre 1997 che, come detto, individua i compiti dei Centri di servizio. Secondo l'interpretazione ministeriale, i compiti indicati nella varie lettere dell'art. 4 hanno valore esemplificativo e non esaustivo, come sarebbe dimostrato dall'inciso "fra l'altro" utilizzato dalla medesima disposizione. A ciò si aggiunga, prosegue la Comunicazione, che il compito indicato alla lettera a) ("I Centri di servizio approntano strumenti e iniziative per la crescita della cultura della solidarietà, la promozione di nuove iniziative di volontariato e il rafforzamento di quelle esistenti") "ha portata generale e, per ciò stesso, è tendenzialmente onnicomprensivo": da ciò la possibilità di ritenere che il sostegno economico fornito dai Centri di servizio ai progetti di intervento sociale presentati dalle organizzazioni di volontariato svolga "la funzione di strumento complementare per le finalità di sostegno e qualificazione previste dalla stessa normativa". Pagina 10 di 59 Tali argomentazioni, svolte in relazione alle disposizioni del decreto ministeriale, risultano abbastanza convincenti, ma non eliminano tutti i dubbi sul piano della logica giuridica dell'impianto normativo complessivo. Sempre con riferimento al decreto ministeriale, in primo luogo, va infatti ricordato che se è senz'altro vero che l'elenco di cui all'art. 4 è preceduto dall'espressione "In particolare, tra l'altro", così da sottolinearne il chiaro significato esemplificativo, è peraltro altrettanto innegabile che la parte precedente della stessa disposizione opera un collegamento molto stretto tra le finalità generali dei Centri di servizio (che sono quelle, si ricorda, di "sostenere e qualificare l'attività di volontariato") e l'erogazione delle "proprie prestazioni sotto forma di servizi a favore delle organizzazioni di volontariato iscritte e non iscritte nei registri regionali". Al riguardo non vi è dubbio che quest'ultima previsione ha carattere tassativo e non esemplificativo, ed è altrettanto evidente che nel termine "servizi" non può rientrare quello di "prestazioni in denaro". Anche perché, e qui l'analisi si sposta dal piano del decreto ministeriale a quello superiore della legge, l'art. 5 della legge n. 266 del 1991, nell'elencare le risorse economiche di cui possono beneficiare le organizzazioni di volontariato, non fa riferimento ai contributi dei Centri di servizio. Questo passaggio argomentativo è bene espresso nella motivazione della sentenza della Corte costituzionale n. 500/1993 (di cui si dirà), che nel respingere la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 15 della legge n. 266 del 1991 espressamente afferma che il disegno strutturale scelto dal legislatore "prevede un aiuto offerto non direttamente come da taluno auspicato - alle organizzazioni di volontariato (le quali ricevono "risorse economiche" dirette dalle fonti indicate nell'art. 5 della legge n. 266 del 1991), ma mediante servizi di supporto messi a disposizione da appositi centri". In sostanza: la possibilità per i Centri di servizio di finanziare direttamente le organizzazioni di volontariato non sembra coerente con la logica della legge quadro, che distingue tra fondi di cui dette organizzazioni possono disporre per la gestione delle proprie attività e servizi che alle stesse possono essere resi per migliorare la qualità della propria azione. Pagina 11 di 59 A tale obiezione, che, come può osservarsi, si muove sullo stretto piano del ragionamento giuridico e che prescinde da valutazioni di opportunità politica, potrebbe peraltro ribattersi su un doppio piano. In primo luogo, ritenendo che la formulazione dell’'art. 5 della legge n. 266 del 1991 non escluda, sebbene non la preveda espressamente, la possibilità che tra le "risorse economiche" delle organizzazioni di volontariato possano rientrare anche i contributi dei Centri di servizio: questi infatti possono ritenersi compresi nella previsione generale di "contributi dello Stato, di enti o di istituzioni pubbliche finalizzati esclusivamente al sostegno di specifiche e documentate attività o progetti". Forse proprio per questo motivo la Comunicazione prevede che detti contributi potranno esse impiegati "per sostenere progetti riguardanti la realizzazione di interventi di volontariato, che si concretizzino in attività di sviluppo del sistema di volontariato". Sebbene ciò non sia poi più puntualmente ripreso, si può affermare che, secondo l’interpretazione assunta dalla comunicazione ministeriale, i Centri di servizio potranno erogare contributi alle organizzazioni soltanto quale "sostegno di specifiche e documentate attività o progetti", così rispettando il dettato della legge. In secondo luogo, si potrebbe ritenere superabile la dicotomia servizi/contributi sopra indicata considerando il sostegno economico dato alle organizzazioni di volontariato finalizzato esclusivamente alla produzione, da parte di queste organizzazioni, di servizi alle altre organizzazioni. In altri termini, si potrebbe ritenere che i Centri di servizio possano adempiere ai propri compiti o direttamente, erogando "in prima persona" i servizi che competono loro, ovvero indirettamente, sostenendo economicamente i servizi resi da alcune organizzazioni di volontariato ad altre. Questa linea, peraltro, non emerge dalla lettura della Comunicazione che, come detto, si riferisce a "interventi di volontariato che si concretizzino in attività di sviluppo del sistema del volontariato", e che anzi prevede che i fondi destinabili a tale scopo siano quelli ritenuti dai singoli centri "non necessari ad assicurare lo svolgimento dei compiti" istituzionali del Centro stesso. Malgrado le ragioni indicate, va tuttavia detto che probabilmente la Comunicazione in esame aveva lo scopo di "regolamentare" e comunque di razionalizzare una situazione già esistente in via di prassi, favorita in certa misura da una difficoltà dei Centri di servizi di impiegare utilmente le ingenti somme a loro disposizione, e Pagina 12 di 59 che quindi anche in relazione a questa prassi essa debba essere complessivamente valutata. d) L’Atto di indirizzo Visco del 2001. Un ulteriore intervento in materia si è realizzato mediante un atto di indirizzo emanato dal Ministero del tesoro Visco in data 19 aprile 2001, recante «indicazioni per la redazione, da parte delle fondazioni bancarie, del bilancio relativo all’esercizio chiuso il 31 dicembre 2000», con il quale sono stati modificati i criteri di quantificazione dei fondi che le fondazioni bancarie sono tenute a mettere a disposizione dei Centri di servizio. In particolare, l’art. 9.7 di esso ha definito i criteri sulla cui base le fondazioni bancarie sono tenute a provvedere all’accantonamento del relativo fondo. L’elemento di novità costituito dall’atto di indirizzo, ma in verità deducibile da una previsione normativa precedente avente rango legislativo (l’art. 8, 1° comma, d. lgs. n. 153 del 1999), consiste in un differente criterio di calcolo della quota che le fondazioni bancarie devono trasferire ai comitati di gestione: secondo tale atto, infatti, detta quota deve essere determinata «nella misura di un quindicesimo del risultato della differenza tra l’avanzo dell’esercizio meno l’accantonamento alla riserva obbligatoria» (vale a dire il venti per cento dell’avanzo dell’esercizio) «e l’importo minimo da destinare ai settori rilevanti di cui all’art. 8, 1° comma, lett. d), d.lgs. 17 maggio 1999 n. 153» 4. In sostanza, mentre la l. 266/91 stabilisce che il quindicesimo deve essere calcolato sulla differenza tra proventi e le spese di funzionamento e accantonamento della riserva obbligatoria, l’atto di indirizzo fa riferimento alla differenza tra avanzo di esercizio e riserva obbligatoria e importo minimo da destinare ai «settori rilevanti». Considerando che il termine «avanzo dell’esercizio» può significare «proventi meno spese di funzionamento», si ricava che la differenza tra i due atti è data dalla previsione, nell’atto di indirizzo, della quota da destinare ai settori rilevanti. Differenza che, si noti, non è di poco conto, dato che le 4 Con riguardo a tali settori, va ricordato che l’art. 11 della legge finanziaria 2002 (l. 28 dicembre 2001 n. 448) ha innovato l’art. 1 d.lgs. n. 153 del 1999 mediante la previsione di un nuovo elenco di settori ammessi, i quali possono essere modificati, secondo la stessa legge, con regolamento dell’autorità di vigilanza. Secondo F.C. RAMPULLA, La corte si esercita in difficili equilibrismi sulle fondazioni bancarie, in Regioni, 2004, 287, si tratta di un «lungo e disordinato elenco di aree, caratterizzate da una genericità e da un’imprecisione tecnica sorprendente». Pagina 13 di 59 fondazioni hanno l’obbligo di destinare a detti settori rilevanti almeno il cinquanta per cento del reddito al netto delle spese di funzionamento, degli oneri fiscali e della riserva obbligatoria5. Il provvedimento ministeriale, che suscitò molte reazioni da parte dei centri di servizio e delle organizzazioni non profit6, fu sospeso prima dal Tar Lazio e successivamente dal Consiglio di Stato, in accoglimento delle doglianze dei ricorrenti incentrate in particolare sul mancato rispetto del principio della gerarchia delle fonti, sulla base del motivo, prospettato dai ricorrenti, che l’atto di indirizzo avesse di fatto modificato una disposizione di legge ordinaria. A siffatta obiezione aveva peraltro preventivamente replicato l’allora Ministro del tesoro pro tempore, il quale7 precisò di aver applicato «un provvedimento legislativo approvato dal parlamento nel 1999, riguardante le fondazioni bancarie, che ha dettato precise disposizioni sulla destinazione del reddito delle fondazioni modificando in maniera sostanziale i criteri sui quali era in precedenza fondato il finanziamento dei centri di servizio per il volontariato»7. Tale argomentazione è stata successivamente ripresa e precisata dalla sentenza del Tar del Lazio, sez. III, 13 aprile 2005 8 , secondo la quale «la disciplina dettata dal provvedimento impugnato è meramente riproduttiva della regolamentazione stabilita nell’art. 8, 1° comma, d.lgs. 153/99». Ed è dunque a tale decreto legislativo che si deve risalire per rinvenire in esso un intento modificativo della legge del 1991: come si legge nella relativa motivazione, infatti, occorre ritenere prevalente la disciplina del decreto legislativo sulla precedente legge (evidentemente in base al principio della lex posterior), senza peraltro che ciò abbia determinato l’abrogazione tout court dell’art. 15 l. 266/91 (cosa peraltro impossibile dato l’espresso richiamo dell’art. 3, 3° comma, dello stesso decreto legislativo), bensì piuttosto una sua modifica. 5 Occorre precisare che sebbene l’atto di indirizzo si riferisse esclusivamente ai bilanci per l’esercizio dell’anno 2000, esso è stato assunto anche per gli anni successivi dalle fondazioni bancarie come modello standard: così M. POLETTO- V. PUTRIGNANO, Il d.d.l. di riforma della legge sul volontariato: continuità e innovazioni per un fenomeno in crescita libera, in Non profit, 2004, 162. 6 Cfr. P. SCARSI, Il Tar Lazio dà ragione ai volontari e torto a Visco, in Vita. Non profitonline, 13 luglio 2001. 7 Volontariato: precisazioni sul finanziamento, in <http://www.tesoro.it/DOCUMENTAZIONE/ COMUNICATISTAMPA>, 10 maggio 2001. 8 In Foro it., 2006, III, 297 ss., con osservazioni di E. ROSSI, Fondazioni bancarie e Centri di servizio per il volontariato: una partita ancora aperta?. Pagina 14 di 59 e) La legislazione regionale. Non è possibile né opportuno, in questa sede, ripercorrere la legislazione regionale in materia di volontariato, che in taluni casi ha regolato anche l’attività e l’organizzazione del “sistema” centri di servizio – comitati di gestione. Sia sufficiente ricordare, in linea generale, che la competenza regionale in materia deriva dalla disposizione contenuta nell'art. 10 della legge n. 266 del 1991, la quale deve essere letta in sistema con quanto stabilito dagli art. 1, 2° comma, e 16 della stessa legge, il cui combinato disposto definisce i profili di collegamento fra Stato e Regioni in detta materia. Non deve dimenticarsi, infatti, che la legge in commento è anteriore rispetto alla riforma costituzionale del 2001, e che essa si auto-qualifica come "legge-quadro", il cui scopo è pertanto quello di delineare la normativa di principio cui dovranno attenersi le regioni nel disciplinare nel dettaglio la materia. Molto si discusse, subito dopo l’approvazione della legge, sul rapporto tra legislazione nazionale e legislazione regionale, fino a giungere alla sentenza 28 febbraio 1992, n. 75 della Corte costituzionale con cui furono date alcune risposte al tema. In particolare la Corte, come noto, negò la riconducibilità del volontariato nell'ambito delle "materie" di competenza statale o regionale (presupposto su cui si fondavano i ricorsi), affermandone di converso il valore generale attraverso il richiamo ai principi costituzionali, in particolare a quello di solidarietà ex art. 2 Cost. Secondo la Corte, infatti, il volontariato "esige che siano stabilite, da parte del legislatore statale, le condizioni necessarie affinché‚ sia garantito uno svolgimento dello stesso il più possibile uniforme su tutto il territorio nazionale". In questo contesto, i principi fissati dalla l. 266 del 1991, cui le regioni e le province autonome devono attenersi nel regolare i rapporti fra le istituzioni pubbliche e le organizzazioni di volontariato, vanno considerati "principi generali dell'ordinamento giuridico, in ragione della concorrente circostanza che attengono strettamente a valori costituzionali supremi e, soprattutto, che contengono criteri direttivi così generali da abbracciare svariati e molteplici campi di attività materiali". In quanto principi generali dell' ordinamento giuridico, essi si impongono, a giudizio della Corte, a tutta la Pagina 15 di 59 competenza legislativa regionale, anche a quella di tipo primario. Su questa base si sono mossi i legislatori regionali, alcuni confermando la legislazione preesistente alla legge quadro, altri intervenendo successivamente con l’attenzione – come richiesto dalla Corte – a mantenere uniformità nella regolazione dei rapporti tra amministrazioni pubbliche e organizzazioni di volontariato. Con riguardo specifico al tema qui in esame, soltanto alcune leggi regionali lo hanno riguardato, ovviamente tra quelle successive all’entrata in vigore della legge statale (prima di essa, infatti, non era possibile né pensabile una regolazione di fondi che non esistevano). Tra queste, merita segnalare la legge Veneto 30 agosto 1993 n. 40: essa da un lato attribuisce al comitato di gestione del fondo speciale il compito di istituire i centri di servizio per il volontariato determinandone contestualmente la durata della relativa gestione, e operando in ciò, “al fine di favorire un omogeneo sviluppo territoriale delle attività del volontariato, (…) in armonia con gli indirizzi programmatici adottati dalla Giunta regionale”. Inoltre stabilisce che del comitato faccia parte il Presidente della Giunta regionale o l'Assessore suo delegato, e che alle riunioni in cui si definiscono la costituzione dei centri di servizio e la ripartizione dei fondi per la realizzazione delle attività partecipano, con voto consultivo, sei rappresentanti delle organizzazioni di volontariato regolarmente iscritte al registro regionale, nominati dalla conferenza regionale del volontariato. La stessa legge (come modificata sul punto dall’art. 3 delle l.r. n. 1/1995) ha imposto altresì la costituzione di un centro di servizio in ciascun capoluogo di provincia, tenuto conto delle esigenze socio-territoriali e della presenza delle organizzazioni di volontariato nel territorio. Analoga previsione (un Centro per ogni “ambito territoriale provinciale”, espressione che sostituisce quella di “provincia” in vista della definitiva soppressione di tale ente locale) è contenuta nella legge dell’Emilia – Romagna, mentre la legge siciliana individua sia il numero che l’ambito territoriale di ciascun Centro. In Campania, al contrario, le modalità di valorizzazione dei centri di servizi del volontariato sono individuate dal regolamento adottato ai sensi dell’art. 14, 5° c., della legge regionale 23 ottobre 2007, n. 11. Alla Regione spetta solo una funzione di indirizzo e di coordinamento delle iniziative svolte dai Centri di servizi, i quali vengono istituiti da Pagina 16 di 59 province e comuni e vengono gestiti dagli enti locali in collaborazione con le organizzazioni di volontariato iscritte nell’apposito registro regionale. Tale regolamento, peraltro, pone dei problemi di compatibilità con lo schema generale dettato dal d.m. 8 ottobre 1997, attuativo dell’art. 15, l. 11 agosto 1991, n. 266, che attribuisce ai Co.ge., non agli enti territoriali, il potere di istituire centri di servizio per il volontariato (al massimo gli enti locali possono chiedere al comitato di gestione di costituire un centro di servizio per il volontariato). Alcune previsioni legislative regionali si spingono fino a regolare in maniera incisiva l’operato e le attività dei Centri di servizi. Questo è il caso delle leggi regionali del Piemonte, della Valle d’Aosta e delle Marche. L’art. 13 della legge Piemonte 29 agosto 1994, n. 38 (come modificata dalla successiva legge 8 gennaio 2004, n. 1) prevede che i centri di servizio, nell’ambito delle proprie competenze, debbano uniformarsi agli indirizzi del piano regionale di sviluppo e ai singoli piani di settore. La Giunta regionale può inoltre deliberare criteri ulteriori rispetto a quelli previsti dalla normativa statale per l’uso dei fondi dei CSV. In Valle d’Aosta, l’art. 12 della legge regionale 22 luglio 2005, n. 16, istituisce un unico Centro di servizi per tutto il territorio regionale. Tale centro è tenuto ad armonizzare la propria attività con le indicazioni contenute nella programmazione regionale, sulla base di appositi protocolli d'intesa sottoscritti con la Regione. La medesima disposizione stabilisce inoltre che, nel caso in cui sia accertato il venir meno dell'effettivo svolgimento delle attività a favore delle organizzazioni di volontariato, ovvero lo svolgimento di attività in modo non conforme ai propri regolamenti, oppure in caso di accertate inadempienze o irregolarità nella gestione, il centro di servizi può essere commissariato dal COGE. L’art. 9 della legge Marche 30 maggio 2012, n. 15, contiene un elenco delle attività che possono essere svolte dai CSV: si va dall’approntare strumenti e iniziative per la crescita della cultura della solidarietà e la promozione delle iniziative di volontariato all’offerta di consulenza e assistenza qualificata per il sostegno alla progettazione di specifiche attività; si spazia dall’attuazione dei progetti promossi e realizzati dalle organizzazioni di volontariato, anche attraverso iniziative congiunte con la Regione, Pagina 17 di 59 all’assunzione di iniziative di formazione e qualificazione dei volontari e delle organizzazioni di volontariato. Interessante è la previsione contenuta nella legge emiliano-romagnola (legge regionale 21 febbraio 2005, n.12), che demanda al COGE, “nell’esercizio delle proprie funzioni di controllo”, di attivare “procedimenti di verifica sull’attività e sulla gestione contabile dei CSV”, anche avvalendosi di persone alle quali siano riconosciute elevate competenze ed esperienza professionale nelle discipline economico-contabili”. Tale legge si distingue anche per la penetrante disciplina dettata in relazione alla struttura interna dei CSV, i quali sono gestiti in forma associata dalle organizzazioni di volontariato e devono dotarsi essi stessi di una base associativa che favorisca il più possibile il ricambio nella composizione degli organi direttivi. Merita inoltre attenzione anche la disciplina regionale della Sardegna in materia di volontariato che si ricava dall’art. 27, l. r. 11 maggio 2006, n. 4. Tale disposizione detta una disciplina più puntuale in relazione alle funzioni del Co.Ge. rispetto alla precedente normativa di cui all’art. 45, l. r. 23 dicembre 2005, n. 23. Infatti, oltre all’individuazione dei criteri sulla base dei quali pervenire alla composizione del comitato, l’art. 27 ne stabilisce le funzioni in maniera analitica. A fronte di una grande cura riservata al regime del comitato di gestione, la disciplina sarda rinvia però direttamente all’art. 3, d.m. 8 ottobre 1997, per quanto riguarda le modalità di funzionamento dei propri centri di servizio, trovando pertanto applicazione automatica la disciplina statale. Da segnalare infine la particolare situazione della provincia autonoma di Bolzano, che è intervenuta in materia con la l.p. n. 11/1993: numerose sono le ragioni di grave criticità. In primo luogo per il fatto che non si prevede l’istituzione di Centri di servizio, e che le relative funzioni siano attribuite direttamente al Co.Ge.; in secondo luogo per la previsione che attribuisce al Presidente della Giunta regionale, o suo delegato, la presidenza di tale organismo, mentre alla Giunta compete la nomina come membri del comitato di quattro rappresentanti delle ODV, “iscritte nel registro provinciale, maggiormente presenti nel territorio provinciale”. Tale situazione, come è evidente, appare fortemente lesiva dell’autonomia sia delle organizzazioni di volontariato che delle Pagina 18 di 59 fondazioni erogatrici, e meriterebbe pertanto una profonda revisione. f) Uno sguardo di insieme alla normativa La ricostruzione del ruolo di controllo dei Co.Ge., nel rapporto con i CSV, risulta essere una operazione “complessa” proprio a partire (ed in ragione) del sistema delle fonti per come affermatosi attualmente (e come sinteticamente si è qui ricostruito). Si deve prendere atto che le fonti che regolano struttura ed attività sono integralmente rimesse alla normativa secondaria e ad atti, di natura pattizia, conclusi direttamente fra il Co.Ge. ed i soggetti che con questo entrano in relazione. La legge – come è ampiamente noto – si limita a prevedere l’istituzione dei fondi speciali (art.15, legge n. 266 del 1991), mentre sono il D.M. 21 novembre 1991 ed il successivo D.M. 8 ottobre 1997 a disciplinare i “Comitati di gestione” quali soggetti preposti all’amministrazione dei fondi speciali. Per la verità, le Regioni, sia a statuto speciale sia a statuto ordinario, sono intervenute con provvedimenti legislativi di attuazione (generalmente in linea con quanto previsto dalla normativa statale, sebbene con qualche eccezione). I D.M., a giudizio della giurisprudenza (ma l’opinione non è unanime), hanno natura regolamentare (Cons. Stato, sez. IV, 4 febbraio 2003, n. 565). Accanto ai richiamati D.M., si deve tenere presente che una “fonte” di disciplina del settore estremamente rilevante è costituita da atti di natura amministrativa aventi una finalità interpretativa-attuativa della disciplina secondaria. Si fa riferimento, in particolare, alla c.d. circolare Ossicini (15 maggio 1996) ed alla c.d. comunicazione Turco (20 ottobre 2000) o all’atto di indirizzo Visco che contengono elementi non secondari della disciplina (anzi, per certi versi, si può affermare che tali atti sub-secondari contengano una disciplina sostanzialmente primaria). Questo primo tratto caratteristico mette in evidenza come il sistema normativo che disciplina i Co.Ge. sia un sistema in evoluzione, soggetto a modificazioni che avvengono in forme flessibili per adattarsi alle esigenze mutevoli dei tempi. In altri termini, la normativa manifesta una peculiare capacità di adeguamento alla prassi o alle esigenze che si Pagina 19 di 59 presentano nell’agire concreto. Il quadro normativo è completato da una serie di accordi intervenuti fra gli enti finanziatori – le fondazioni di origine bancaria, gli enti amministratori – i Co.Ge., e gli enti destinatari – i CSV. Tali accordi rappresentano un asse portante dell’intero sistema, soprattutto perché concorrono a definire il quantum delle risorse a disposizione. Si tratta, in questi casi, di fonti che vincolano gli attori del sistema ma che sono, essenzialmente, espressione della loro autonomia costituzionale e rivestono una funzione integrativa della legge. A giudizio di alcuni, in realtà, essi avrebbero anche una valenza derogatoria o modificativa della legge. Non è questa l’occasione di entrare nel merito di questo dibattito (il riferimento è, principalmente, al noto accordo del 2005, ed al successivo del 2010; ma anche all’accordo del 30 novembre 2007 fra Consulta Co.Ge. e CSVnet in tema di Linee guida procedurali in merito alla gestione e utilizzo del Fondo speciale), ma è importante rilevare come, da alcune parti, si sia messa in discussione la legittimazione dei partecipanti all’accordo e, per altro verso, i contenuti dello stesso in quanto in contrasto rispetto alla legge. Appare evidente, quindi, che tale fonte ha una sua rilevanza se ed in quanto tutti gli attori coinvolti riconoscono agli altri una legittimazione a partecipare (un caso di “diritto convenzionale”) ed in quanto il rapporto con eventuali decisioni giurisdizionali o provvedimenti amministrativi sia, da tutte le parti, sciolto e riconosciuto in maniera analoga. Pagina 20 di 59 III. LA GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE Nella giurisprudenza in esame, la Corte costituzionale individua, innanzi tutto, il principio di solidarietà quale fondamento del volontariato: tale principio esige la collaborazione da parte di tutti i soggetti, pubblici e privati, che compongono la Repubblica (si veda, in particolare, la sentenza n. 75/1992). Pertanto, forme di finanziamento e sostegno delle organizzazioni di volontariato sono da ritenersi necessarie: la rilevanza pubblica dell'espressione individuale ed associativa del valore della solidarietà, il rispetto dell'autonomia e dell'originalità del volontariato quale strumento di partecipazione effettiva alla organizzazione economica, culturale e sociale del Paese, non può essere limitata al "fare", implicando ciò evidentemente quanto necessario per "sostenerne e qualificarne l'attività" (sentenza n. 500/1993). In relazione al peculiare tipo di finanziamento previsto dall’art. 15 della legge, la Corte spiega che, attraverso il meccanismo previsto, il legislatore ha prefigurato una soluzione organizzativa che, tendendo a salvaguardare l'autonomia delle attività di volontariato, anche in relazione a condizionamenti derivanti dalla gestione pubblica dei servizi di sostegno a favore delle stesse attività, individua nella costituzione dei fondi speciali presso le regioni o le province autonome «non già una funzione conferita o demandata a tali enti autonomi, ma, più semplicemente, la collocazione e la operatività spaziale dei fondi medesimi: le regioni e le province autonome, in altri termini, denotano nelle disposizioni impugnate l'ambito territoriale in relazione al quale quei fondi vanno costituiti e resi operanti» (sentenza n. 75/1992). La Corte non ha mancato di rimarcare alcune critiche emerse nei confronti di diversi aspetti dell’assetto normativo (in particolare con riguardo alla giustificazione e alle funzioni delle strutture intermedie, alla composizione in numero pari del comitato di gestione e all’esigenza di rivedere la composizione a seguito della sentenza n. 35 del 1992 C. Cost.), tuttavia ha messo in luce anche come tali lacune o incongruenze della Pagina 21 di 59 normativa non rendano la legge incostituzionale per irragionevolezza. Un aspetto del quale la giurisprudenza costituzionale si è occupata è costituito dal peculiare rapporto fra la disciplina dei fondi e gli articoli 41 e 47 della Costituzione. L’imposizione della costituzione di fondi separati, secondo la Corte, non viola l’art. 41 della Costituzione in quanto non realizza un’irragionevole intrusione dei pubblici poteri sul libero assetto imprenditoriale di enti che, anche se pubblici, operano nel sistema di mercato del risparmio e del credito. La Corte ha però rammentato che la legge, rivolgendosi agli enti creditizi che avevano per antica tradizione statutaria anche scopi di beneficenza ed assistenza, ha offerto loro la libertà di mantenere l’attività di impresa creditizia, semplicemente trasformandosi in s.p.a. Per la Corte, gli enti conferenti, invece, privati dello scopo di lucro, manterrebbero una iniziativa economica meramente strumentale alle originarie finalità di assistenza e di tutela delle categorie sociali più deboli" (sentenza n. 500/1993; vedi anche sentenza n. 301/2003, relativa all’iniziativa economica delle fondazioni). Per quanto concerne la costituzione di fondi speciali presso le regioni o province autonome, la Corte ha stabilito che essa non implica una funzione conferita a tali enti autonomi, ma semplicemente indica la collocazione e l’operatività spaziale dei fondi (le Regioni non potevano lamentare alcuna violazione di prerogative, in quanto veniva in rilievo la materia statale dell’ordinamento degli istituti di credito, e non quella regionale dell’assistenza e beneficenza pubblica: vedi, ancora, sentenza n. 75/1992). La Corte ha anche stabilito che un semplice atto amministrativo che, senza una base legislativa, vincola le Regioni a statuto speciale e le Province autonome a disciplinare determinati oggetti (istituzione e gestione dei fondi speciali) produce un’illegittima interferenza nei confronti delle loro competenze (sentenza n. 355/1992). Lo Stato, però, non può individuare i rappresentanti di tali autonomie territoriali nei comitati di gestione dei fondi speciali (sentenza n. 355/1992). Pagina 22 di 59 IV. L’ATTUAZIONE DELLA NORMATIVA: ORGANI E STRUTTURE FEDERATIVE a) Natura giuridica del CO.GE. Come si è sottolineato in precedenza, l’istituzione dei Comitati per la gestione dei fondi speciali per il volontariato è avvenuta ad opera di un decreto ministeriale attuativo dell’art. 15 della legge 266 del 1991, il quale sì prevedeva la costituzioni dei fondi speciali per il volontariato, ma nulla disponeva in merito ai profili organizzativi di tali fondi. Le disposizioni del suddetto decreto vengono a definire la composizione e le funzioni di tali organismi, ma si astengono dal qualificare giuridicamente i Co.Ge., i quali vengono semplicemente designati quali soggetti che amministrano i fondi speciali. In questo quadro di elementi negativi sovrabbondanti rispetto a quelli positivi, indubbiamente uno è significativo e ci fornisce talune coordinate: il decreto non contiene affatto norme attributive della personalità giuridica agli organismi in questione e di conseguenza si può affermare con certezza che questi ne sono sprovvisti. Da una parte, sussistono elementi che inducono a ritenere i Co.Ge. soggetti di natura pubblicistica. Quelli più significativi possono essere riassunti nei seguenti: in primo luogo la circostanza che la maggior parte della loro disciplina è contenuta in un atto ministeriale (probabilmente – come si è detto - di natura regolamentare9); in secondo luogo, il fatto che non sono nella disponibilità dei Co.Ge. né l’individuazione dei fini da perseguire né il modo in cui essi possono organizzarsi e neppure il potere di estinguersi; in ultimo, la circostanza che la normativa di riferimento non richiama la disciplina di diritto privato. Considerando inoltre che, sotto il profilo dell’attività esercitata, il decreto ministeriale delinea una disciplina pubblicistica delle funzioni riservate ai Co.Ge., si sarebbe indotti a ritenere la natura pubblicistica dell’attività dei Co.Ge.: la stessa normativa attribuisce infatti ad essi alcuni poteri di natura autoritativa (istituzione dell’elenco regionale dei CSV, 9 Cfr., sul punto, anche Cons. Stato, sez. IV, 4 febbraio 2003, n. 565. Pagina 23 di 59 cancellazione dei CSV dall’elenco regionale, etc.), e tende a tipizzare in senso pubblicistico il loro esercizio (procedimentalizzazione dell’attività, obblighi di pubblicità e trasparenza, motivazione dei provvedimenti adottati). Non a caso la stessa giurisprudenza ha qualificato gli atti adottati dai Co.Ge. quali provvedimenti formalmente e sostanzialmente amministrativi10. Sotto altro profilo, invece, la normativa mette in evidenza alcuni tratti caratteristici della natura privata dell’ente. In primo luogo, l’oggetto stesso dell’attività dei comitati è costituito dai fondi trasferiti dalle Fondazioni bancarie, per le finalità individuate dall’art. 15 della legge n. 266 del 1991. Secondariamente, i Comitati fungono istituzionalmente da anello di congiunzione tra i soggetti finanziatori dei fondi speciali per il volontariato (le fondazioni bancarie ed ex- bancarie e la loro rappresentanza nazionale, affidata all’ACRI) e i Centri di servizi per il volontariato, tutti enti aventi pacificamente natura privata. I Co.Ge. costituiscono dunque la figura centrale del sistema ideato dall’art. 15 della l. 266 del 1991: ad essi compete la funzione regolatoria in generale dei CSV. Tale funzione è assolta in maniera del tutto autonoma rispetto ai soggetti che ex lege devono finanziare i CSV, sebbene la maggioranza dei componenti dei Co.Ge. sia di nomina delle Fondazioni. Tale natura privata si riflette, pacificamente, su alcuni aspetti funzionali dei Comitati inerenti l’organizzazione interna ed il funzionamento, per ciò che non attiene all’amministrazione dei fondi (ad es., gestione del personale, acquisizione di beni e servizi, regolamentazione interna, ecc.). Ne consegue, dunque, che il Comitato di gestione assume una fisionomia giuridica “singolare”, differente a seconda del contesto funzionale di riferimento (un tratto non inusuale nella legislazione italiana, peraltro), che può essere compendiato efficacemente nell’espressione “soggetti privati esercitanti pubbliche funzioni”: funzioni che, tuttavia, non attraggono totalmente la natura dell’ente nell’orbita degli enti pubblici, ma solo in relazione ad alcuni aspetti (in particolare, tutto il procedimento di amministrazione dei 10 Tar, Puglia, Bari, Sez. I, 24 aprile 2008, n. 1043. In senso conforme Tar, Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, 17 giugno 2002, n. 858. Pagina 24 di 59 fondi). b) I Comitati gestione per il fondo speciale del volontariato I Comitati di gestione per il fondo speciale del volontariato sono istituiti presso le Regioni e le Province Autonome di Bolzano e di Trento ai sensi del D.M. 8 ottobre 1997, in attuazione dell’art. 15, l. 11 agosto 1991, n. 266. Si rinvia alle altre parti di questo lavoro per la trattazione complessiva delle fonti istitutive e delle vicende relative all’organizzazione ed al funzionamento dei Co.Ge. c) I Centri di servizio per il volontariato In Italia si contano settantadue centri di servizio per il volontariato, alcuni organizzati su base provinciale, altri su base regionale, ma con sportelli nei vari capoluoghi di provincia, altri ancora con un’articolazione “mista”, ossia più centri di servizi a competenza regionale o interprovinciale. I centri di servizio sono organizzati a livello provinciale in Abruzzo, Calabria, Campania, Emilia-Romagna, Liguria, Lombardia, Piemonte (dove il numero dei centri di servizio è recentemente sceso da nove a cinque), Puglia (nella quale operano contemporaneamente due centri di servizio in provincia di Foggia, quando il criterio regionale imporrebbe un centro per provincia), Umbria e Veneto. I centri di servizio risultano strutturati su base regionale in Basilicata, nelle Marche (in cui la sede regionale è affiancata da cinque sportelli provinciali e da punti operativi in altre quattordici città), in Friuli-Venezia Giulia (in cui alla sede regionale fanno riferimento dieci sportelli territoriali), in Molise (dove i centri di servizio hanno conosciuto un processo di razionalizzazione che li ha portati da tre a uno), in Sardegna (alla cui sede regionale si aggiungono quaranta punti operativi dislocati sul territorio), in Toscana (dove la sede regionale è supportata da undici delegazioni territoriali), nella Provincia Autonoma di Trento e in Valle d’Aosta. L’articolazione “mista” si riscontra nel Lazio, sul cui territorio operano due centri di servizio con sede a Roma ed entrambi con competenza regionale, e in Sicilia, dove operano tre centri di servizio di carattere interprovinciale. Pagina 25 di 59 d) La Consulta COGE La Consulta Nazionale dei COGE è stata istituita nel 2001 su iniziativa dei Comitati di gestione dei fondi speciali per il volontariato, quale struttura preposta al coordinamento e alla rappresentanza nazionale degli stessi Comitati di gestione istituiti presso le Regioni, con funzioni anche di supporto tecnico-gestionale, legale, e nel campo della formazione, ricerca e innovazione. La Consulta si pone quindi l’obiettivo di rappresentare tutti i Co.Ge. dal punto di vista politico-istituzionale e di elaborare e promuovere soluzioni di sintesi per le politiche di gestione dei fondi speciali per il volontariato. L’organo dotato di poteri di ordinaria e di straordinaria amministrazione, con competenza generale su tutte le questioni di pertinenza della Consulta nazionale, è la consulta generale, composta dai presidenti di tutti i Co.Ge. aderenti. La consulta generale elegge tra i propri componenti un presidente, un vice presidente e i componenti del comitato esecutivo, a propria volta composto da sette membri. E’ inoltre previsto un ruolo di coordinamento operativo, affidato a un esperto esterno ai Co.ge., per la gestione organizzativa ed esecutiva delle attività programmate. La Consulta Nazionale opera sia mediante periodiche riunioni sia mediante gruppi di lavoro istituiti ad hoc per compiere approfondimenti e ricerche su tematiche specifiche, quali, ad esempio, forme e strumenti di programmazione, rendicontazione e valutazione dell’attività dei Csv, studi e ricerche territoriali inerenti il volontariato, innovazione e sviluppo dei sistemi informativi dei Csv. Per quanto riguarda l’assistenza legale, la Consulta offre ai singoli Comitati la possibilità di una consultazione con esperti sulle problematiche di natura giuridica inerenti la realizzazione dell’attività istituzionale. Relativamente alla consulenza gestionale, la Consulta Nazionale garantisce ai comitati di gestione aderenti un servizio di assistenza personalizzata, volto a fornire criteri generali e indicazioni operative, valutazioni comparative, nonché approfondimenti tecnici di varia natura. La consulenza è fornita tramite uno staff di esperti con cui è stato Pagina 26 di 59 definito un apposito accordo di collaborazione. e) CSVnet CSVnet è il Coordinamento Nazionale dei Centri di Servizio per il Volontariato (CSV) ed è stato costituito nel gennaio 2003. Si configura come associazione apartitica che non persegue finalità lucrative e si ispira i principi di solidarietà, democrazia e pluralismo e alla “carta dei valori del volontariato” (art.1, St. CSVnet). Attualmente riunisce e rappresenta la quasi totalità dei Centri di Servizio per il Volontariato. L’azione del Coordinamento è quella di rafforzare la collaborazione, lo scambio di informazioni, di competenze e di servizi fra i CSV, nonché quella di fornire una serie di servizi di formazione, di consulenza e di sostegno ai CSV soci (art.2, St. CSVnet). Il Coordinamento Nazionale si compone di alcuni organi fondamentali: l'assemblea dei soci, il consiglio direttivo, il comitato esecutivo, il collegio dei garanti e il collegio dei revisori dei conti (art.6, St. CSVnet). L’assemblea è composta dai rappresentanti dei centri di servizio soci. Essa è l’organo sovrano di CSVnet ha il compito di definire gli orientamenti e gli indirizzi generali dell’ente. Essa inoltre elegge i membri del consiglio direttivo e nomina il collegio dei garanti e quello dei revisori dei conti (art.7, St. CSVnet). Il consiglio direttivo esercita tutti i poteri di ordinaria e di straordinaria amministrazione e nomina i membri del comitato esecutivo. I membri del consiglio devono essere componenti di un organo direttivo dei CSV soci di CSVnet o lo devono essere stati per almeno un mandato pieno negli ultimi otto anni; inoltre non devono avere in essere rapporti di lavoro con i CSV soci o con le loro forme di coordinamento (art.8, St. CSVnet). Il comitato esecutivo è destinatario di una serie di importanti attribuzioni: innanzitutto, cura l’attuazione delle delibere del Consiglio direttivo e ne attua i mandati; in secondo luogo, organizza le attività amministrative e la tenuta dell’amministrazione; in terzo luogo, coordina l’attuazione del programma annuale approvato, coordina l’azione Pagina 27 di 59 degli eventuali gruppi di lavoro e l’azione dei consiglieri delegati a specifiche attività, curando la massima collegialità, sinergia, coerenza alla programmazione approvata, rispetto dei regolamenti; infine cura la relazione con le forme di coordinamento regionali riconosciute da CSVnet (art.9, St. CSVnet). Oltre ai soci possono prendere parte alle attività del CSVnet i c.d. “osservatori”, ossia quei centri di servizio per il volontariato che condividono in generale le finalità di CSVnet e intendono conoscerne maggiormente le attività, per poi riservarsi la facoltà di chiedere l’adesione. L’osservatore gode di tre diritti: può partecipare a tutte le attività di CSVnet; può partecipare all’assemblea senza diritto di voto, ma con diritto di parola; può prendere visione di tutti gli atti deliberati e di tutta la documentazione relativa alla gestione di CSVnet (art.5, St. CSVnet). CSVnet partecipa a propria volta a ulteriori coordinamenti: esso è socio del Centro Europeo per il Volontariato (CEV) che ha sede a Bruxelles; è socio dell’Euricse (European Research Institute on Cooperative and Social Enterprises); è poi socio sostenitore di Labsus, ossia il Laboratorio per la sussidiarietà; infine fa parte delle associazioni osservatrici del Forum Nazionale del Terzo Settore. Pagina 28 di 59 V. LA RICOSTRUZIONE DEL SISTEMA DEI CONTROLLI E LA PRASSI APPLICATIVA a) Il controllo dei COGE: una nozione “complessa” E’ in questo quadro normativo (fluido) ed organizzativo, dunque, che il controllo esercitato dal COGE deve essere letto sia nella sua estensione – intendendosi i momenti ed i settori che possono essere oggetto di controllo – sia nella profondità – intesa, qui, come penetrazione del potere e tipologia degli effetti che si possono determinare in capo al soggetto controllato. La natura fluida del sistema delle fonti, tuttavia, pone all’interprete un difficile compito ricostruttivo all’interno di un sistema di dati di diritto positivo non sempre nitido. Tre sono i momenti nei quali si esprime tipicamente il potere di controllo del Co.Ge. rispetto ai CSV: il generale potere di istituzione dei CSV e la loro cancellazione (art. 2, c. 6, lett. a), b) ed g) del D.M. 8 ottobre 1997), la nomina dei componenti dell’organo direttivo e dell’organo di revisione contabile (art. 2, c. 6, lett. d) del D.M. 8 ottobre 1997), il controllo sui bilanci preventivi e consuntivi (art. 2, c. 6, lett. f)e art. 5, c. 2). In via interpretativa, da questo reticolato di norme, si può desumere come l’estensione del potere sia, in realtà, ampia: dal potere di istituzione e di cancellazione dei CSV deriva che il Co.Ge. possa disporre di poteri più ampi di verifica sull’attività del CSV sia ex ante, sia in itinere, sia ex post attraverso una pluralità di strumenti che si delineeranno in seguito. Il criterio che ne regola la profondità può essere individuato, a giudizio di chi scrive, in linea generale, nella natura relazionale del Co.Ge. quale organo di raccordo, punto di congiunzione fra istanze ed interessi provenienti da settori diversi, ente in grado di esprimere una capacità federativa di più istituzioni. In quest’ottica, il controllo non può essere separato da una dinamica fortemente collaborativa fra il soggetto controllore ed il soggetto controllato. Tale dinamica può trovare una propria emersione, sul piano giuridico, nella nozione di controllo collaborativo. Pagina 29 di 59 La nozione di “controllo collaborativo” – elaborata dalla dottrina amministrativistica e dalla Corte costituzionale con la nota sentenza n. 29 del 1995 a proposito dell’attività della giurisdizione contabile sugli enti territoriali – si attaglia a questa realtà: partecipazione attiva ed organica dei soggetti controllati alle attività; assenza di effetti immediatamente “repressivi” ma attivazione di percorsi “assistiti” di correzione (nel caso dei Co.ge. detti percorsi sono sempre intrapresi, o almeno tentati, prima di addivenire all’intervento sanzionatorio previsto dalla normativa); la presenza di una forma di dialogo fra l’ente controllato e l’ente controllore per raggiungere il risultato dell’attività di controllo. Soprattutto, ciò che caratterizza il controllo collaborativo è il suo riferirsi al complesso dell’attività, e non a singoli atti: «il controllo consiste nel confronto ex-post tra la situazione effettivamente realizzata con l'attività amministrativa e la situazione ipotizzata dal legislatore come obiettivo da realizzare, in modo da verificare, ai fini della valutazione del conseguimento dei risultati, se le procedure e i mezzi utilizzati, esaminati in comparazione con quelli apprestati in situazioni omogenee, siano stati frutto di scelte ottimali dal punto di vista dei costi economici, della speditezza dell'esecuzione e dell'efficienza organizzativa, nonché dell'efficacia dal punto di vista dei risultati». In questo senso, si apprezza quella che si è definita la “natura relazionale” del Co.Ge.: il controllo collaborativo del Co.Ge. non muove da astratte considerazioni, bensì dai risultati già conseguiti dai CSV e dalle argomentazioni che questi posso addurre a sostegno della loro azione, e dai risultati percepibili ed apprezzabili (fondamentale, in questa direzione, l’affinamento del bilancio sociale quale strumento per la rappresentazione puntuale e trasparente, attenta anche al profilo tecnico-gestionale oltre che a quello comunicativopromozionale, dell’attività svolta), e dai residui prodotti. b) La nomina dei membri dell’organo direttivo e dell’organo di revisione contabile dei CSV L’art.2, c.6, lett. d), D.M. 8 ottobre 1997 attribuisce al Co.Ge. il potere di nominare un membro degli organi deliberativi ed un membro degli organi di controllo dei centri di servizio. Tale potere assolve ad una funzione (quasi dichiaratamente) di controllo permanente e durevole sull’attività dei CSV. Il Manuale operativo elaborato dalla Pagina 30 di 59 Consulta nazionale Co.Ge. riconduce tale potere di nomina alla funzione di controllo in itinere sulle attività, presupponendo l’esistenza di raccordi operativi e di forme di consultazione fra i nominati nei CSV ed i nominanti (Co.Ge.). I membri di nomina COGE non hanno uno statuto differente rispetto agli altri membri, in base a quanto previsto dal D.M.: ciò significa che essi partecipano, a pieno diritto, a tutte le manifestazioni di autonomia del CSV. In altri termini, essi – sul presupposto che esista un legame forte fra ente nominante e nominati – svolgono una funzione di controllo e di indirizzo delle attività e condividono, in definitiva, con gli altri membri la responsabilità per le scelte compiute. Nella prassi, è attraverso questa presenza che si realizzano forme, più o meno dirette, di indirizzo e controllo dell’attività del CSV, su un piano di puro fatto, atteso l’inesistenza di qualsiasi potere “specifico” (i.e., differimento delle decisioni, richiesta di riesame, potere di veto, ecc.) in capo ai membri nominati dai Co.Ge. Il Manuale operativo, infatti, da una lato rammenta i “pari poteri” e la “pari dignità” (p.86), dall’altra fa riferimento ad una forma di controllo in itinere che si sostanzia in una attività di aggiornamento generale sulle attività dei CSV e sulle attività intraprese, nonché sulle criticità incontrate nello svolgimento dell’attività. Ciò appare un elemento meritevole di un approfondimento. La dinamica relazionale presupporrebbe una netta alterità fra i due soggetti che entrano in contatto ai fini del controllo, con l’attribuzione di poteri specifici e di distinte responsabilità. L’attuale sistema, invece, presenta profili di delicatezza, poiché i membri di nomina Co.Ge., non differendo dagli altri quanto a poteri, rivestono ad un tempo il ruolo di controllori (rectius, di agente del controllore) e di controllati. Sul piano della prassi, tuttavia si deve constatare che tale profilo “teoricamente” delicato, costituisce un fattore di “prevenzione” della conflittualità fra gli enti, soprattutto attraverso un monitoraggio sistematico delle attività del direttivo del CSV che contribuisce a rendere maggiormente fluidi i rapporti fra Co.Ge. e CSV. La validità pratica del modello si realizza, massimamente, allorché il rappresentante del Co.Ge. negli organi direttivi e di controllo dei CSV sia soggetto effettivamente “terzo”, circostanza che accresce e sottolinea la funzione di “anello di congiunzione” svolto dal rappresentante. Pagina 31 di 59 c) L’istituzione del CSV (e la cancellazione) come “cartina di tornasole” dell’estensione e dell’intensità del potere di controllo dei COGE Il potere di istituzione del CSV è attribuito al Co.Ge. e disciplinato dall’art. 2, c. 6, lett. b), D.M. 8 ottobre 1997, su istanza degli enti locali, delle organizzazioni di volontariato (in questo caso, in numero non inferiore a cinque), di fondazioni di origine bancaria, nell’ambito di bandi periodicamente emessi dai Comitati. Tali bandi debbono contenere l’indicazione di criteri in base ai quali le istanze saranno valutate. Sulle istanze viene acquisito dal comitato il parere non vincolante del Comune nell’ambito del quale il Centro servizio avrà sede. A seguito dell’istituzione è disposto l’inserimento del CSV nell’elenco regionale. L’istituzione, pertanto, avviene in base ai criteri stabiliti nel bando e in relazione ai contenuti dell’istanza (bozza di statuto, regolamento e progetto). La cancellazione, invece, è disciplinata dall’art. 3, c. 5, D.M. 8 ottobre 1997. La disposizione risulta avere, anche alla luce della prassi applicativa e degli orientamenti interpretativi, una fondamentale importanza, al punto da configurarsi quale “pietra angolare” del generale rapporto fra Co.Ge. e CSV. La disciplina prevede che la cancellazione avvenga con provvedimento motivato, nelle seguenti circostanze: a) mancato svolgimento da parte del CSV delle funzioni istituzionali ossia non svolga più attività a favore delle organizzazioni di volontariato; b) irregolarità e difformità nella gestione rispetto ai regolamenti; c) insorgere di nuove esigenze che impongano una ridistribuzione territoriale dei CSV o una diversa funzionalità degli stessi. La cancellazione opera automaticamente anche nel caso di cancellazione dal Pagina 32 di 59 registro regionale delle organizzazioni di volontariato. Le ipotesi di cui alle lettere a) e b) sono, indubbiamente, fattispecie di tipo sanzionatorio, attivabili a seguito di attività di controllo del Co.Ge. L’ipotesi sub c), invece, si riferisce ad una forma di monitoraggio della complessiva attività dei CSV e delle organizzazioni di volontariato sul territorio. La disposizione, infatti, fa riferimento all’ipotesi che «appaia opportuno una diversa funzionalità e/o competenza territoriale in relazione ai centri di servizio esistenti» (art. 3, c. 5, u.p.): non dunque la rilevazione di puntuali inadempienze da parte del CSV, bensì l’esercizio di un potere che rimanda ad una più generale funzione di monitoraggio del sistema, di distribuzione delle risorse e dalla raccolta di informazioni e dati rilevanti sulle attività. Quest’ultima constatazione apre una prospettiva di fondamentale importanza sull’estensione e sull’intensità dei poteri di controllo c.d. ex ante ed ex post. Il potere di cancellazione, sia nella sua manifestazione sanzionatoria sia in quella di “monitoraggio” del sistema, presuppone naturalmente un controllo che non sia di mera regolarità formale degli atti e delle attività dei CSV, assumendo come parametro lo statuto ed i regolamenti dei centri medesimi. Se, infatti, il potere di cancellazione è previsto con le finalità di cui sopra, è consequenziale che la funzione di controllo si estenda alla progettazione ed alla programmazione delle attività e non solo ai bilanci preventivi (controllo ex ante); parimenti, il controllo sui bilanci consuntivi si estende all’effettiva realizzazione delle attività programmate, all’utilizzo effettivo delle risorse assegnate, alla corrispondenza fra attivitàspese preventivate e attività-spese realizzate (controllo ex post). Si può, tuttavia, affermare che la soft law, ovvero il diritto convenzionale formatosi fra gli operatori del settore, sia in difficoltà a disciplinare questo aspetto. L’accordo del 30 novembre 2007 fra Consulta Co.Ge. e CSVnet in tema di Linee guida procedurali in merito alla gestione e utilizzo del Fondo identifica una serie di atti ed attività sottoposti al controllo prefigurando una “dinamica relazionale” molto complessa che si proverà, di seguito, a descrivere. d) Il controllo ex ante Pagina 33 di 59 Il controllo ex ante si realizza – a tenore del D.M. - principalmente sul bilancio preventivo del CSV, la cui trasmissione al Co.Ge. è prevista dall’art. 5, c.2, D.M. 8 ottobre 1997. Il bilancio preventivo è costituito da una parte contenente le previsioni contabili di spesa ed una parte esplicativa delle attività programmate a favore del volontariato (relazione). Nella prassi, si è affermata la convenzione per cui il bilancio costituisce la sola rappresentazione contabile dell’attività che il CSV intende porre in essere. Esiste, infatti una convenzione che trova espressione nelle richiamate Linee guida procedurali in merito alla gestione e utilizzo del Fondo che prevede la trasmissione da parte del CSV al Co.Ge. di programmi pluriennali e di piani di attività annuali, i cui contenuti sono definiti nell’ambito delle medesime Linee guida. L’elemento di interesse che concorre a definire la funzione del Co.Ge. rispetto ai CSV è il sistema di poteri che il Comitato può esercitare. Il piano pluriennale, infatti, che è costituito da una pluralità di informazioni riguardanti sia la descrizione delle attività e delle relative previsioni di spesa, oltre ad una serie di informazioni riguardanti l’organizzazione e la struttura del CSV, comporta uno scambio di informazioni che culmina in un parere del Co.Ge. destinato ad orientare l’attività annuale del CSV. L’attività annuale del CSV è, invece, contenuta nel piano annuale delle attività, di cui il bilancio preventivo costituisce la rappresentazione contabile, accanto ad una parte descrittiva delle attività (che si inscriveranno all’interno dell’orizzonte pluriennale), ed alla descrizione delle azioni annuali, al budget degli investimenti e dei costi di struttura. Al di là degli aspetti procedurali concernenti la trasmissione del piano annuale e le variazioniintegrazioni dello stesso, risulta rilevante, ai nostri fini, evidenziare come su questi documenti si sviluppi una “dialettica” che conduce i due “attori” del processo a convergere su un risultato condiviso. I Co.Ge., infatti, si esprimono attraverso osservazioni e condizioni che, operando sia sul piano del merito sia sul piano della legittimità, conducono alla condivisione di un piano annuale delle attività che risponda effettivamente alle esigenze delle organizzazioni di volontariato di riferimento. Pagina 34 di 59 Diversamente opinando, limitando cioè il controllo del Co.Ge. al solo bilancio preventivo (ex art.3, c.5, D.M. 8 ottobre 1997) si crea un’aporia di non poco conto con riferimento a quanto previsto dall’art. 2, c. 6, lett. g) e, più in particolare, dall’art. 3, c.5. Infatti, qualora si interpretasse il controllo in maniera restrittiva, il Co.Ge. sarebbe, sul piano di fatto, impossibilitato ad esercitare il potere di cancellazione, non potendosi desumere dalla mera rappresentazione contabile gli indici che il D.M. ritiene, invece, rilevanti ai fini dell’esercizio del potere de quo. La prassi, inoltre, conferma che la chiave di lettura che si è proposta in apertura – ovverosia, quella del “controllo collaborativo” – costituisca già una realtà positivamente affermatasi che conduce non ad una “sostituzione” della volontà del CSV con quella del Co.Ge. (come potrebbe accadere nella versione più estrema del potere sanzionatorio), né all’esercizio di un potere meramente persuasivo, bensì ad un percorso di accompagnamento che parte, necessariamente, anche dal controllo ex post riferito al piano pluriennale precedente ed al piano annuale conclusosi. e) Il controllo ex post Il controllo c.d. ex post, si realizza – a tenore del D.M. – essenzialmente sul bilancio consuntivo del CSV (art. 3, c. 6, lett. f),art. 5, c.2, D.M. 8 ottobre 1997). Il controllo svolto dal CSV deve essere letto alla luce delle indicazioni interpretative che sono state adottate nel corso di questo lavoro. In effetti, le già richiamate Linee guida definiscono una documentazione di rendicontazione molto ampia, ulteriormente arricchita dai dati provenienti da altre fonti (anche a-tipiche, per così dire), quali le relazioni dei membri dei CSV di nomina dei Co.Ge., le rilevazioni condotte d’intesa fra Co.Ge. e CSV. Anche in questo caso, è il potere di cancellazione della qualifica di CSV che costituisce l’unità di misurazione del potere del Comitato, e la sua natura “relazionale” che ne definisce la modalità operativa. Il potere di cancellazione, infatti, presuppone che il Co.Ge. sia messo in grado di avere uno spettro di informazioni molto ampio, non limitato certamente alla sola Pagina 35 di 59 rappresentazione contabile (pur necessaria) contenuta nel bilancio consuntivo. Nella prassi, il CSV trasmette, accanto a questo documento (costituito da stato patrimoniale, rendiconto gestionale, nota integrativa), anche il bilancio sociale ed un rendiconto finanziario in grado di dare immediata evidenza alla relazione esistente fra le risorse trasferite. Il parametro di verifica sarà costituito dal bilancio preventivo, dal piano annuale (e, più in generale, dal piano pluriennale), dal rispetto dei regolamenti e degli statuti, dai risultati concretamente prodotti (efficacia) e dal rapporto fra risorse preventivate e risorse effettivamente spese (efficienza). Nella prassi, al di là del controllo di legittimità (che comporterà, in caso di esito negativo, la necessità del riesame dei documenti o, nei casi più gravi, la cancellazione della qualifica), si sviluppa necessariamente un percorso di acquisizione di informazioni e di rilascio di indicazioni (articolate, anche in questo caso, nella formula delle osservazioni e delle condizioni) che prefigurano un rapporto dialettico e di accompagnamento dei CSV. Particolarmente appropriate a questa fase appaiono le osservazioni svolte dalla richiamata giurisprudenza costituzionale a proposito della nozione di controllo collaborativo, laddove sottolineano (C.cost. n. 29 del 1995) il “confronto ex-post tra la situazione effettivamente realizzata con l'attività amministrativa e la situazione ipotizzata dal legislatore come obiettivo da realizzare” verificando “se le procedure e i mezzi utilizzati, esaminati in comparazione con quelli apprestati in situazioni omogenee, siano stati frutto di scelte ottimali dal punto di vista dei costi economici, della speditezza dell'esecuzione e dell'efficienza organizzativa, nonché dell'efficacia dal punto di vista dei risultati”. f) Considerazioni sul potere di “controllo” collaborativo dei COGE Si è detto che il potere di cancellazione dei CSV costituisce la “cartina di tornasole” per verificare l’estensione del potere di controllo dei Co.Ge.; allo stesso tempo, si è provato a dimostrare come la natura propria del Co.Ge. di “ente federatore” costituisca un elemento dal quale trarre indicazioni in merito alla tipologia del controllo svolto. Si è Pagina 36 di 59 evidenziato come la prassi si sia già orientata in questa direzione, sviluppando – sul piano del diritto convenzionale – una serie di relazioni fra Co.Ge. e CSV ispirate proprio ad una estensione degli atti e delle attività soggette a controllo ed un rapporto fra soggetto controllante e soggetto controllato ispirato al principio della collaborazione. Pare essere questa la dimensione da sviluppare, nella prospettiva delle riforme, definendo con maggiore chiarezza il piano normativo, attualmente affidato alle laconiche previsioni del D.M. 8 ottobre 1997 e, soprattutto, agli atti di diritto convenzionale elaborati fra gli attori del sistema coerentemente con l’impianto normativo definito dagli atti sub-secondari. D’altra parte, sostenendo forme di controllo limitate al piano della legittimità ed ai soli atti richiamati dal D.M., si asseconderebbe un processo di trasformazione della natura del Co.Ge. rispetto al ruolo di soggetto regolatore del sistema, attribuendogli paradossalmente poteri molto incisivi, come quello di cancellazione della qualifica di CSV, senza fornire gli strumenti necessari per quella “motivazione” del provvedimento di cancellazione che il D.M. richiama come elemento essenziale della scelta. Peraltro, nella prassi, i provvedimenti di cancellazione sono stati adottati raramente all’interno di un quadro di relazioni particolarmente teso sfociato, quasi sempre, davanti al giudice amministrativo. Si è suggerito un ripensamento del potere di nomina di membri degli organi direttivi e di controllo dei CSV da parte dei Co.Ge., non tanto nell’ottica di un depotenziamento del ruolo dei Comitati, quanto, piuttosto, di un maggiore chiarimento dei rispettivi ruoli dei due enti e dell’assunzione di un ruolo di controllo dotato di una migliore fisionomia sul piano giuridico (essendo, oggi, del tutto fattuale il tipo di controllo svolto dai membri di nomina Co.Ge. e le relazioni che quest’ultimi instaurano con i loro danti causa). Pagina 37 di 59 VI. VERSO LA RIFORMA a) L’art. 5, comma 1, lett. e), del disegno di legge S 1870. Quali possibili novità si prospettano qualora fosse definitivamente approvato il DDL S1870, già approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati ed attualmente all’esame della I Commissione del Senato? Occorre ricordare, al riguardo, che non solo il testo che qui si esamina è suscettibile di modifiche da parte dell’assemblea del Senato, ma che altresì – trattandosi di un disegno di legge delega – saranno i decreti delegati a definire compiutamente la disciplina legislativa della materia. Con tali caveat, esaminiamo dunque le formulazione come approvata dalla Camera. L’art. 5, comma 1, lett. e), stabilisce che i decreti delegati dovranno provvedere alla “revisione del sistema dei centri di servizio per il volontariato, di cui all’articolo 15 della legge 11 agosto 1991, n. 266”, sulla base dei principi e criteri direttivi che vengono successivamente enunciati. b) La “promozione” e la “gestione” dei Centri di servizio. Il primo criterio prevede che detti Centri “siano promossi da organizzazioni di volontariato per finalità di supporto tecnico, formativo e informativo degli enti del Terzo settore e per il sostegno di iniziative territoriali solidali”. Proviamo ad analizzare tale formulazione rispetto alla previsione legislativa attuale, per cercare di comprendere la ratio delle modifiche auspicate dal legislatore. Si andrebbe innanzitutto a modificare il rapporto tra organizzazioni di volontariato e centri di servizio: mentre la formulazione attuale, infatti, prevede che detti centri siano “a disposizione” delle OdV e “da queste gestiti”, nella nuova formulazione si prevederebbe che gli stessi debbano essere “promossi” dalle OdV. Il che dovrebbe significare quanto segue: ovvero che le OdV sarebbero gli unici soggetti cui è attribuito il compito di promuovere l’istituzione di un CdS, mentre nella formulazione attuale della disposizione Pagina 38 di 59 legislativa questo punto non è definito. In senso invece meno favorevole alle OdV, si deve desumere dalla disposizione in esame che detti Centri non debbano più essere necessariamente “gestiti” da OdV: ben potendo quindi essere gestiti da altre organizzazioni, non necessariamente di volontariato (né tantomeno, quindi, iscritte nei relativi registri). In secondo luogo, si avrebbero novità in ordine alle finalità di tali Centri. La legge attuale prevede, come si è detto, che lo scopo di essi è di “sostenere e qualificare l’attività” delle OdV, mentre la formulazione del disegno di legge indica “finalità di supporto tecnico, formativo e informativo degli enti del Terzo settore”. Due almeno gli elementi da sottolineare. In primo luogo, la precisazione – e la conseguente delimitazione – dell’ambito di attività di tali Centri: non più una generica opera di qualificazione dell’attività delle OdV bensì soltanto un supporto di tipo tecnico (che sembra far riferimento a servizi di carattere materiale, quali la messa a disposizione di spazi, materiali, ecc.), di tipo formativo (ovvero la possibilità di corsi e percorsi di formazione, approfondimento, e così via), nonché di tipo informativo (attività di aggiornamento, conoscenza di eventi e situazioni, e così via). Da tale formulazione sembrerebbe doversi escludere la possibilità aperta con la sopra richiamata Comunicazione del Ministro Turco, ovvero la possibilità per i Centri di servizio di finanziare direttamente progetti di intervento a favore delle singole OdV. Ma su questo punto occorre chiarire il senso della previsione relativa al “sostegno di iniziative territoriali solidali”, che di per sé appare assai poco chiara. Essa infatti potrebbe essere intesa a recuperare il contenuto della suddetta Comunicazione, andandosi così di fatto a sovrapporre – tra l’altro - a quanto già devono svolgere le fondazioni di origine bancaria11; ma forse potrebbe voler significare qualcosa di più, dato che non può essere esclusa, dalla lettura della formulazione, l’ipotesi che dette “iniziative territoriali solidali” possano essere promosse anche da parte di soggetti diversi dalle OdV, quali altri enti del Terzo settore (cooperative, associazioni di promozione sociale, ecc.) ma anche enti pubblici e, perché no?, enti ed imprese privati. 11 In tal senso v, l’intervento dell’on. Nicchi (Sel) in Commissione Affari sociali della Camera dei deputati (seduta del 25 febbraio 2015), per la quale “con questa possibilità di intervento diretto si creerebbero delle sovrapposizioni e delle confusioni che riteniamo sbagliate”. Pagina 39 di 59 Oltre a questo, l’elemento di novità della nuova formulazione appare evidente: l’attività dei Centri di servizio non sarebbe più indirizzata (soltanto) a vantaggio delle OdV bensì di tutti gli “enti del terzo settore”. Si tratterebbe, qualora fosse approvata in via definitiva, di una novità assai significativa, che costringerebbe, per coerenza, anche a mutare la denominazione di tali Centri (non più di servizio per il volontariato bensì, appunto, per il Terzo settore) e che dovrebbe coerentemente essere trasferita dalla legge quadro sul volontariato per essere inserita nella parte generale del futuro codice riferita a tutti gli enti del Terzo settore. Con tuttavia un ulteriore problema che qui soltanto si accenna: è giustificabile un’attività di supporto tecnico, formativo e informativo a vantaggio di enti che operano mediante criteri di imprenditorialità (le cooperative sociali, forsanche le imprese sociali qualora si ritenessero queste ultime appartenenti al mondo del Terzo settore) rispetto ad enti che pur svolgendo attività di utilità sociali non possiedano altri requisiti per essere considerati appartenenti al Terzo settore? A ciò si aggiunga una considerazione sul piano del merito della scelta del legislatore: estendere la platea dei destinatari delle attività dei Centri di servizio significa sicuramente penalizzare il volontariato, che in una logica di sistema della legislazione sul Terzo settore dovrebbe godere di una posizione privilegiata in quanto strutturalmente più “debole” rispetto agli altri enti. A tale proposito, pare opportuno suggerire che il legislatore circoscriva il supporto dei CSV agli enti del Terzo settore - diversi dalle organizzazioni di volontariato - per le sole attività riguardanti i volontari in essi impegnati. c) La personalità giuridica dei Centri di servizio. La seconda previsione contenuta nell’art. 5 del DDL di riforma impone ai Centri di servizio di “costituirsi in una delle forme previste per gli enti del Terzo settore acquisendo la personalità giuridica”. Tale previsione sembra superare, con un semplice tratto di penna, il dibattito relativo alla distinzione tra soggettività giuridica del CSV in quanto tale e soggettività giuridica dell’ente costituito CSV12: la formulazione infatti impone al CSV in quanto tale, e non all’ente che ne ha assunto la qualifica, l’acquisizione della soggettività giuridica. Ciò pone l’interrogativo di come si dovrebbe comportare un’associazione non 12 Su cui v. riassuntivamente il Rapporto di ricerca EURICSE n. 012/15, Natura giuridica e modelli organizzativi dei centri di servizio per il volontariato, p. 22 ss. Pagina 40 di 59 riconosciuta (ad esempio una OdV) qualora le fosse attribuita la qualifica di CSV: essa dovrebbe acquisire la personalità giuridica (e questo è fuori discussione), ma non è chiaro se ciò debba avvenire come tale (ovvero come associazione “originaria”) ovvero come “Centro di servizio”? In altri termini, l’OdV (o qualsiasi altra organizzazione) che assuma detta qualifica, deve staccare da sé il CSV per costituirne un ente autonomo (dotato di personalità giuridica), oppure può mantenere su di sé la doppia qualifica, con l’obbligo di registrarsi ed acquisendo la personalità giuridica? A noi pare che la formulazione della disposizione, considerata nel suo significato letterale, imponga una scissione tra i due soggetti; così superando, come si è detto, il dibattito sopra indicato e “trasformando” i Centri di servizio in entità autonome: il che sarebbe coerente anche con la previsione che detti CSV non debbano essere più “gestiti” dalle OdV (come è attualmente) bensì semplicemente da queste “promossi”. Ed una volta che tale “promozione” si sia realizzata mediante la costituzione del centro, quest’ultimo dovrà avere la propria autonomia, coerentemente con il riconoscimento della personalità giuridica. Va anche avvertito – ma ciò è di tutta evidenza – che la nuova formulazione legislativa impone il superamento del DM del 1997 nella parte in cui prevede che l’ente-CSV possa essere (soltanto) o una OdV ovvero un’entità giuridica costituita da OdV e con presenza maggioritaria di esse (art. 3, comma 3, lett. a) e b)): i CSV potranno infatti avere la forma di associazione (riconosciuta) ed anche di fondazione e di società (come già viene riconosciuto in base alla normativa vigente13), senza che sia più necessario per essi né la qualifica di OdV né tantomeno la presenza maggioritaria delle stesse organizzazioni, a condizione che siano costituiti in una delle forme previste per gli enti del Terzo settore. d) Le forme di finanziamento dei centri di servizio. Il terzo aspetto dell’articolo in esame riguarda le forme di finanziamento: nel punto 3 della lett. e) si stabilisce infatti che “al loro finanziamento si provveda stabilmente, attraverso una programmazione triennale, con le risorse previste dall’articolo 15 della legge 11 agosto 1991, n. 266, e che, qualora si utilizzino risorse diverse, le medesime siano comprese in una contabilità separata”. Quanto all’ammontare delle somme dovute dalle 13 Rapporto di ricerca EURICSE n. 012/15, cit., p. 28. Pagina 41 di 59 fondazioni di origine bancaria nulla cambierebbe: il rinvio operato all’art. 15 della legge n. 266 del 1991 intende mantenerne l’impianto ed il conseguente criterio di individuazione delle somme. I cambiamenti riguarderebbero invece due aspetti: la programmazione triennale e la previsione di una contabilità separata per l’utilizzo di risorse diverse rispetto a quelle di cui alla legge sul volontariato. Come sembra evidente, le due previsioni si riferiscono a soggetti diversi: la seconda sicuramente ai CSV (i quali quindi dovranno tenere una doppia contabilità: la prima riferita alle somme loro destinate dagli organismi regionali e nazionali di cui si dirà; la seconda alimentata da eventuali altre entrate), mentre la prima sembra riguardare in prima battuta gli organismi di gestione (e, conseguentemente, le fondazioni di origine bancaria), e di riflesso, gli stessi CSV. Il superamento di una logica annuale di attribuzione delle risorse a vantaggio di un intervento sulla base di una programmazione triennale (attribuzione di risorse non significa necessariamente trasferimento: questo può avvenire anche in tempi diversi, e prevedibilmente sulla base di un programma annuale coerente con la programmazione triennale) mira infatti a coinvolgere tutti gli attori nel processo programmatorio: i CSV dovranno predisporre infatti programmi triennali delle attività che si propongono di realizzare; le fondazioni dovranno prevedere uno stanziamento su base triennale; gli organismi di gestione dovranno approvare i programmi triennali presentati dai CSV e sulla base di essi attribuire le risorse. Il che ovviamente può comportare qualche problema in sede applicativa: le fondazioni, infatti, dovranno operare una previsione delle somme da mettere a disposizione anche per gli anni successivi alla gestione in corso (dovendo dare una sorta di pronostico sulle risorse effettivamente disponibili); la verifica dell’attività svolta dai CSV dovrebbe essere completata alla fine del triennio di riferimento, ma con la possibilità di intervenire qualora al termine del primo anno o successivamente il programma non sia stato rispettato, e così via. e) Gli organismi di controllo dei centri di servizio e la loro articolazione territoriale. Il quarto punto preso in considerazione dal DDL di riforma riguarda quegli organismi non espressamente previsti dalla legge quadro del 1991, ma introdotti dal DM del 1991 e confermati da quello del 1997. Nell’attuale dizione essi sono definiti, come si è detto, Pagina 42 di 59 “Comitati di gestione” dall’art. 2 del DM del 1997, mentre la formulazione della novella legislativa parla di “organismi regionali e nazionali” cui verrebbe affidato “il controllo delle attività e della gestione” dei CSV. Un primo dubbio interpretativo riguarda la coincidenza – o meno – tra i due riferimenti: detto in altri termini, detti “organismi regionali e nazionali” corrispondono agli attuali Co.Ge. o vanno ritenuti come una diversa entità? Il dubbio è alimentato dalla relazione del sen. Lepri (relatore in I Commissione Affari costituzionali del Senato del DDL di riforma), nella quale si legge che detti organismi di controllo sono “destinati ad assumere anche i compiti e le funzioni degli attuali Co.Ge.”: il che sembrerebbe supporre una diversa consistenza dei due organismi, con quelli “nuovi” che dovrebbero configurarsi diversamente dai primi ed assorbirne le relative funzioni (oltre, evidentemente, a svolgerne altre). Al di là di tale profilo, che tuttavia potrebbe essere superato dall’analisi delle relative funzioni e delle norme regolanti l’organizzazione, merita sottolineare che detti organismi verrebbero significativamente ad essere previsti e disciplinati a livello di legislazione ordinaria: mentre allo stato degli atti, come si è detto, la loro previsione è limitata ad una fonte di livello secondario quale il decreto ministeriale. Ciò varrebbe indubbiamente a rafforzarne il ruolo ed i relativi poteri, facendone parte integrante del sistema di realizzazione della finalità cui la legge è ispirata. Il secondo aspetto che merita considerare riguarda la natura territoriale di detti organismi, con riferimento alla previsione che li indica come “regionali e nazionali”. Ciò dovrebbe aprire ad un superamento della situazione attuale: nella quale, come noto, i Co.Ge. hanno carattere regionale. Tale evoluzione può risultare dirompente, ed è al momento di difficile previsione. Astrattamente parlando, si possono immaginare due ipotetiche soluzioni. La prima induce a supporre un sistema di tipo piramidale, con un livello nazionale sovraordinato (non necessariamente in termini gerarchici, ma almeno con poteri di coordinamento) ed un livello regionale sostanzialmente analogo a quello attuale (con solo qualche eventuale intervento di accorpamento delle realtà regionali più piccole e omogenee). Se così fosse, il risultato sarebbe di un evidente aumento della complessità del sistema, i cui benefici peraltro non appaiono di immediata evidenza; forse si potrebbe ritenere che in tal modo sia possibile perseguire una maggiore omogeneità nei comportamenti dei Co.Ge.: ma certo ciò potrà dipendere dagli effettivi poteri attribuiti all’organismo nazionale nei confronti di quelli regionali. L’altra possibilità è Pagina 43 di 59 di un modello di tipo reticolare, nel quale cioè organismi nazionali e regionali svolgano le medesime attività in relazione a destinatari diversi (ovvero a CSV diversi): ciò dovrebbe presupporre che anche i CSV si organizzino sia su scala nazionale che regionale (nel DDL non vi è alcuna indicazione circa la natura esclusivamente regionale di essi). In tal modo l’organismo nazionale di controllo dovrebbe trasferire i fondi ai CSV nazionali e verificarne l’operato; quelli regionali continuerebbero, come ora, ad operare nei confronti dei CSV del proprio territorio. Se ciò fosse, bisognerebbe definire in che modo saranno alimentati i fondi a disposizione del livello nazionale, ed in quale misura dunque le fondazioni dovranno trasferire quanto dovuto al livello nazionale ed a quello regionale. Pare a chi scrive che, complessivamente valutando, la prima soluzione appaia assolutamente preferibile, se proprio si intende seguire la strada di un doppio livello di organi di controllo su base territoriale. f) Le funzioni degli organismi di controllo. La successiva previsione normativa riguarda le funzioni che verrebbero attribuite a detti organismi: in particolare, di provvedere “al controllo delle attività e della gestione” dei CSV. Tale previsione rafforza indubbiamente la posizione, il ruolo e le responsabilità di detti organismi, sia rispetto alla legge vigente (nella quale, lo si ricorda, nulla si dice circa tali organismi), ma anche con riguardo ai decreti ministeriali richiamati. Operando un raffronto con quanto in essi previsto, si osserva che nel DDL non è espressamente attribuita a tali organismi la decisione circa l’istituzione dei CSV: nondimeno ci pare che quella funzione debba essere confermata, anche perché strettamente connessa all’attività di controllo, oltre che non attribuita ad altri soggetti (né sarebbe facilmente ipotizzabile a chi possa essere attribuita in alternativa). In tal caso andrebbero confermati, in quanto logicamente connessi, i compiti di istituzione dell’elenco regionale e di cancellazione da essi dei CSV risultanti deficitari a seguito dei controlli svolti (con tutte le funzioni a ciò correlate che si sono indicate in precedenza). Circa gli altri compiti, il DM del 1997 attribuisce ai Co.Ge., come si è detto, due Pagina 44 di 59 funzioni: la nomina di un membro degli organi deliberativi e di un membro degli organi di controllo dei CSV; nonché la verifica della regolarità dei rendiconti approvati dai CSV. A tali compiti, il DDL sostituirebbe una previsione di carattere più generale (e notevolmente più ampia), vale a dire il “controllo delle attività e della gestione”. Valutiamo innanzitutto se la nuova previsione assorbe interamente la precedente. E’ evidente, al riguardo, che i poteri di nomina indicati sono finalizzati alla realizzazione di forme di controllo: in quanto tali essi, potrebbero essere mantenuti, sebbene possa risultare maggiormente rispettoso del principio della separazione di ruoli tra controllori e controllati che ai Co.Ge. sia attribuito il compito di nominare un membro (o anche più) dell’organo di controllo dei CSV, piuttosto che essere coinvolto nella responsabilità della gestione amministrativa dei CSV stessi. E’ bensì vero, al riguardo, che negli organi di amministrazione dei CSV il Co.Ge. dovrebbe comunque nominare un soggetto terzo, vale a dire non appartenente al Co.Ge. stesso (come avviene, già oggi, nella prassi di alcune realtà), a garanzia della opportuna distinzione tra amministrazione e controllo (si veda, a tal proposito, quanto sostenuto supra). Circa poi la verifica della regolarità dei rendiconti, non pare dubbio che essa debba essere senz’altro ricompresa nell’ambito del controllo sulla gestione dei CSV. Per quanto attiene alle “nuove” funzioni che verrebbero attribuite agli organismi di controllo, occorre operare qualche precisazione. Un recente studio, basato sulla situazione normativa in essere, concludeva nel senso che “la vigente normativa statale non attribuisce ai Co.Ge. alcun potere di valutazione del merito (…) delle attività dei CSV”, in quanto “i CSV sono gestiti da OdV e non già dai Co.Ge. o da altri soggetti 14”. Stando a tale linea ricostruttiva, siccome nel DDL i CSV non sarebbero più “gestiti” da OdV, se ne dovrebbe trarre la conseguenza opposta, o perlomeno che non vi è alcuna preclusione al potere dei COGE di valutazione del merito delle attività dei CSV. Se poi si aggiunge che agli stessi organismi verrebbe attribuita una funzione di “controllo delle attività”, forse la conclusione dovrebbe essere opposta. Tuttavia si ritiene necessario, in una materia delicata come questa, non agire sulla base di una logica contrappositiva e “avvocatesca”, bensì ragionare con equilibrio al fine di individuare la soluzione più 14 Rapporto di ricerca EURICSE n. 012/15, cit., p. 18. Pagina 45 di 59 bilanciata e rispettose delle diverse istanze. Per questa ragione ci pare che il criterio da perseguire sia quello della distinzione più netta e chiara possibile tra “gestione” e “controllo”: da un lato, attribuendo la gestione ai CSV, da intendersi come possibilità di scegliere le soluzioni ritenute più opportune ed adeguate al perseguimento delle finalità generali della legge e specifiche del sistema di cui all’art. 15, coerentemente con la programmazione (triennale, come previsto dal DDL, che poi verrà verosimilmente articolata su base annuale) elaborata ed approvata dagli stessi CSV. Al contempo, pare necessario che detta gestione sia attentamente valutata e controllata: senza che tale controllo investa il merito della discrezionalità attribuita al CSV, ma con l’attenzione a che l’attività posta in essere corrisponda non soltanto ai requisiti di legge, ma anche alle previsioni contenute nel documento di programmazione. Come realizzare concretamente ed efficacemente tale equilibrio non è possibile in questa sede specificare: e tuttavia è evidente – almeno ci pare – che il controllo “dell’attività e della gestione” non possa operarsi soltanto in sede di bilancio consuntivo. g) I costi di funzionamento degli organismi di controllo. L’ultimo aspetto da sottolineare, relativamente al testo di riforma, riguarda i costi e le spese di funzionamento di detti organismi nazionali e regionali: la loro costituzione deve essere infatti ispirata a “criteri di efficienza e di contenimento dei costi di funzionamento, i quali non possono essere posti a carico delle risorse di cui all’art. 15 legge n. 266 del 1991”. Attualmente, i costi di funzionamento del Co.Ge., sul piano normativo, sono disciplinati dal D.M. 8 ottobre 1997 (art. 2, c.4), con la formula criptica: “nella misura strettamente necessaria”. Dare un contenuto normativo a questa espressione, appare difficile, specialmente se si considera che l’art. 2, c.3 prevede la gratuità dell’incarico di membro del Co.Ge., fatto salvo il rimborso delle spese. Sul piano normativo, la circolare Ossicini del 1996, prevede, fra l’altro, che sia opportuno prevedere e vincolare «un importo non superiore al 10% delle entrate di ciascun Centro derivanti dai trasferimenti dal Fondo regionale in argomento, ferma restando per i singoli Centri di servizio la possibilità di riacquistare la piena disponibilità delle somme così vincolate e non utilizzate per la copertura pro-quota delle spese del Comitato di gestione in ciascun esercizio». Pagina 46 di 59 Anche su questo piano ha operato una significativa intesa ha disciplinato questo tema, individuando per il triennio 2013-2015 una assegnazione complessiva per la spesa di funzionamento dei Co.Ge. di 2,1 milioni di Euro, di cui 190.000 Euro circa per i rimborsi ai 266 componenti, 80.000 Euro di imposte e 98.000 Euro di contributo per il funzionamento della Consulta nazionale. Sul primo aspetto della proposta normativa, quindi, vi è poco da dire: si tratta di una previsione contenente un obiettivo che, forse, dovrebbe essere perseguito in base a principi generali dell’ordinamento, e cioè anche in assenza di una specifica previsione. Tuttavia, repetita iuvant, e perciò ben venga l’invito del legislatore ad essere efficienti ed utilizzare bene le risorse: invito che dovrebbe intendersi rivolto alle regioni (per gli organismi a base regionale) e forse al Governo (per quelli nazionali), nonché alle fondazioni di origine bancaria. Più interessante è invece l’altro punto, che esclude la possibilità di porre a carico delle risorse spettanti ex art. 15 i costi di funzionamento di detti organismi. L’evidente conseguenza di tale previsione dovrebbe essere che detti costi siano posti a carico di “altro”, e può immaginarsi che il legislatore intenda questo “altro” proveniente dalle fondazioni di origine bancaria (è difficile infatti immaginare, nell’attuale contesto economico, che i costi vengano imputati agli enti regionali o locali, sebbene ciò non sia da escludere in linea teorica e di coerenza sistematica). Proviamo dunque a valutare le conseguenze di questa ipotesi. In primo luogo, una logica ed immediata conseguenza sarebbe l’aumento delle risorse che le fondazioni devono mettere a disposizione di questo sistema: in ciò si ritornerebbe parzialmente indietro rispetto agli effetti prodotti dal decreto Visco. In secondo luogo, se sono le fondazioni a dover sostenere interamente le spese, al di fuori del budget già destinato per il sistema, è verosimile ritenere che ad esse debba essere consentito decidere le modalità di funzionamento degli organi ed anche il loro numero (nonché la scelta se prevedere la partecipazione a titolo gratuito o a titolo oneroso). Vi sarebbe poi un aspetto da considerare: i costi di gestione dei CSV rimarrebbero nel perimetro dei fondi ex art. 15, quelli dei Co.Ge. no. Sarebbe razionale tale Pagina 47 di 59 differenziazione? In fondo, i due organismi costituiscono un unico sistema, ed entrambi operano per il perseguimento del medesimo obiettivo: qualora fosse approvato in questa versione il DDL di riforma ai CSV sarebbe assicurata una copertura dei costi di funzionamento certa in quanto imposta dalla legge, mentre per gli organismi di controllo la decisione sull’an e sul quantum della copertura delle spese sarebbe di volta in volta rimessa alla discrezionalità dei soggetti finanziatori. Se poi questi fossero (unicamente) le fondazioni bancarie, i relativi costi andrebbero sottratti alle altre destinazioni cui queste sono tenute in base ai rispettivi statuti. A tale riguardo occorre ricordare che il decreto legislativo 17 maggio 1999 n. 153, emanato sulla base della delega conferita al governo con l. 23 dicembre 1998 n. 461, prevede, all’art. 8, una puntuale previsione circa la destinazione del reddito delle fondazioni. In forza di detta previsione, detto reddito è destinato, «secondo il seguente ordine»: a) alle spese di funzionamento; b) agli oneri fiscali; c) alla riserva obbligatoria; d) ai settori rilevanti, per almeno il cinquanta per cento del reddito residuo; e) ad eventuali altri fini statutari, al reinvestimento del reddito o a accantonamenti e riserve facoltativi previsti dallo statuto o dall’autorità di vigilanza; f) alle erogazioni previste da specifiche norme di legge. Tale puntuale previsione pose un profilo di compatibilità con l’art. 15 della legge n. 266/91: secondo quest’ultima la quota di un quindicesimo deve infatti essere calcolata sostanzialmente sull’intero (salve le spese di funzionamento e la riserva obbligatoria); per il decreto legislativo, invece, occorre seguire l’ordine riportato. Pertanto, le erogazioni previste da specifiche norme di legge (tra le quali quella della legge sul volontariato) devono effettuarsi sulla differenza tra il reddito complessivo e tutte le varie voci prima elencate. Sui tale profilo va anche ricordato come la sentenza del Tar Lazio, sez. III, 13 aprile 2005, ha affermato che in tal modo la legge “ha inteso privilegiare i settori rilevanti, non a caso inseriti nell’art. 2 della legge (natura e scopi delle fondazioni) rispetto alle organizzazioni di volontariato trattate all’art. 3 (modalità di perseguimento degli scopi statutari)”. Pagina 48 di 59 La decisione del Tar deve pertanto essere considerata in relazione al punto in questione: giacché con la previsione del DDL, come si è detto, i costi di funzionamento dei futuri Co.Ge. dovranno essere dedotti dalle altre voci, con conseguente contraddizione rispetto a quel criterio indicato nella sentenza del giudice amministrativo. Pagina 49 di 59 VI. IN CONCLUSIONE Il presente rapporto ha cercato di ricostruire, attraverso la disciplina organizzativa prevista e le funzioni attribuite, il ruolo e la collocazione istituzionale dei Comitati di gestione, regolati da fonti – sin qui almeno – di rango secondario, sulla base dei presupposti indicati dall’art. 15 della legge n. 266 del 1991. E’ stata analizzata la ricca e rilevante giurisprudenza costituzionale che si è formata sul punto, nel contesto più generale della disciplina giuridica dell’attività di volontariato, per cercare di definire con compiutezza il quadro regolatorio vigente. Si è inoltre dato conto della situazione operativa del sistema costituito dai comitati di gestione e dai centri di servizio per il volontariato: un sistema, come si è rilevato, dagli equilibri assai delicati ma il cui buon funzionamento è garanzia per la corretta gestione dei fondi che la legge quadro richiede di mettere a disposizione delle organizzazioni di volontariato. In altri termini, possiamo dire che il complessivo sistema mira a rendere efficace l’intento solidaristico che ha ispirato il legislatore del 1991, valorizzando l’apporto delle fondazioni di origine bancaria a vantaggio di quelle organizzazioni che hanno nella gratuità dell’impegno a vantaggio di altri la cifra della loro identità. Il quadro ha fatto emergere la fondamentale dimensione “relazionale” dei comitati di gestione, che potremmo definire come i “soggetti del dialogo” fra i diversi attori del sistema indicato. Attori che sono costituiti, in primo luogo, dagli enti finanziatori dei fondi speciali, i quali gestiscono risorse economiche dovendole utilizzare a fini di utilità sociale, perseguendo scopi di "interesse pubblico e di utilità sociale preminentemente nei settori della ricerca scientifica, dell'istruzione, dell'arte e della sanità" (come ricordato anche dalla Corte costituzionale). E’, quest’ultimo, un aspetto che merita di essere richiamato: i fondi che le fondazioni di origine bancaria trasferiscono, in forza della legge, ai comitati di gestione e per il loro tramite ai centri di servizio per il volontariato, sono fondi che non vengono destinati ad altri scopi di interesse pubblico e di utilità sociale. E ciò per una scelta compiuta dal legislatore, il quale ha evidentemente ritenuto preminente le finalità perseguite con quelle più generalmente previste, ma che proprio per questo richiede un Pagina 50 di 59 attento monitoraggio del corretto utilizzo di detti fondi, in quanto le finalità delle fondazioni consiste nell’operare – con tutti i fondi a loro disposizione – per il perseguimento di finalità di interesse generale. Il secondo soggetto del dialogo in questione è costituito dai Centri di servizio, terminali dell’azione dei Co.Ge. e loro interlocutori privilegiati nel disegno normativo. Il Rapporto ha sottolineato la delicatezza e l’importanza dei rapporti tra i due organismi, insieme alla necessità di definire regole chiare che consentano il mantenimento di rapporti di piena collaborazione e di efficacia nell’azione. Ma non può dimenticarsi anche la relazione tra i comitati di gestione e gli enti territoriali: questi ultimi contribuiscono infatti alla costituzione dei Co.Ge. e, al contempo, sono i soggetti di interlocuzione necessaria per quanto riguarda gli interventi da realizzare sul territorio, in una prospettiva di progettualità sociale che dovrebbe costituire la base per un efficace intervento sociale. Per queste ragioni abbiamo voluto sottolineare, nel presente rapporto, il ruolo che si è definito “relazionale” e “dinamico” dei Co. Ge., considerati come sistema in sé e come parte di un sistema più ampio. Proprio per tale alta funzione, tale sistema più ampio richiede di essere esaminato con attenzione, attesa la sua configurazione in evoluzione: e ciò non soltanto in ragione delle frequenti variazioni del quadro normativo “esterno” (ma ovviamente incidente anche sul sistema indicato), quanto anche – e forse soprattutto - per consentire ai soggetti che ne sono protagonisti di rendersi adeguati ai cambiamenti istituzionali e sociali, e quindi di rimanere fedeli alla loro ragion d’essere. Per tali ragioni l’analisi è stata condotta con riguardo all’evoluzione giuridica e storica degli istituti, come anche alla sua configurazione attuale; sia infine con riguardo alle prospettive che si potrebbero aprire con l’approvazione del disegno di legge governativo. A quest’ultimo riguardo, il momento che stiamo vivendo può rivelarsi di estrema importanza e di particolare delicatezza. Opportunamente, infatti, il legislatore sta Pagina 51 di 59 intervenendo su tutta la materia del Terzo settore, operando per giungere ad una revisione organica della relativa disciplina: revisione che è stata da tempo invocata e la cui esigenza appare indifferibile. All’interno di tale disegno riformatore, realizzato con l’A.C. 2617, approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati ed attualmente all’attenzione del Senato della Repubblica, il legislatore intende ridefinire anche il ruolo e le funzioni dei centri di servizio per il volontariato ed il sistema dei relativi controlli, come si è cercato di analizzare in questa sede. Il testo attuale contiene sicuramente alcuni aspetti positivi e la sua approvazione potrà costituire – per quanto riguarda i profili qui esaminati – un significativo miglioramento del funzionamento e dell’operatività di tutto il sistema. Nondimeno, permangono alcuni aspetti che dovranno costituire oggetto di ulteriore attenzione e riformulazione, e la cui positiva soluzione consentirà di chiarire alcuni nodi problematici ancora irrisolti. L’auspicio è che il lavoro del Senato, prima in Commissione e successivamente in Assemblea, possa offrire al legislatore delegato gli elementi essenziali perché tutto il sistema possa positivamente orientarsi e consolidarsi in senso virtuoso, a vantaggio di quelle finalità che i padri e le madri della legge n. 266 del 1991 indicarono con grande lungimiranza. Pagina 52 di 59 APPENDICE La giurisprudenza costituzionale rilevante Sentenza n. 75 del 1992 Nella sentenza n. 75 del 1992 si rinvengono alcune importanti affermazioni della Corte circa la “collocazione” che ha il volontariato nel sistema costituzionale. La sentenza n. 75 del 1992 nasce da ricorsi delle Province autonome di Bolzano e Trento, che la Corte riunisce in quanto prospettano questioni identiche o connesse, le quali concernono soprattutto parametri costituzionali ricavabili dallo Statuto speciale. Nel dichiarare infondate le questioni, la Corte ricostruisce il ruolo e i fondamenti costituzionali del volontariato. Essa afferma che «il volontariato costituisce […] un paradigma dell'azione sociale riferibile a singoli individui o ad associazioni di più individui », e quindi non può essere considerato una materia. Per la Corte, «il volontariato […] è […] la più diretta realizzazione del principio di solidarietà sociale». Data la rilevanza e la centralità che il volontariato ha nell’assetto costituzionale, al legislatore statale è chiesto principalmente di assicurare una certa uniformità su tutto il territorio nazionale, innanzi tutto con riguardo ai requisiti essenziali attinenti ai caratteri strutturali, all'autonomia interna e alla trasparenza delle organizzazioni di volontariato, la cui ricorrenza è configurata come condizione necessaria perché tali organizzazioni possano beneficiare delle agevolazioni e delle strutture di servizio o di sostegno previste dalla legge medesima. Con riguardo allo specifico tema del finanziamento del volontariato, la Corte, trattando l’art. 10, comma 2, lettera e) della legge, dice che aspetti indefettibili della disciplina pubblica del volontariato sono le forme di finanziamento e gli interventi di sostegno, poiché, in loro mancanza, risulterebbero frustrati i valori costituzionali sottesi al riconoscimento e allo sviluppo del volontariato. Pagina 53 di 59 In relazione al peculiare tipo di finanziamento previsto dall’art. 15 della legge, la Corte spiega che, attraverso il meccanismo previsto, il legislatore ha prefigurato una soluzione organizzativa che, tendendo a salvaguardare l'autonomia delle attività di volontariato, anche in relazione a condizionamenti derivanti dalla gestione pubblica dei servizi di sostegno a favore delle stesse attività, individua nella costituzione dei fondi speciali presso le regioni o le province autonome «non già una funzione conferita o demandata a tali enti autonomi, ma, più semplicemente, la collocazione e la operatività spaziale dei fondi medesimi: le regioni e le province autonome, in altri termini, denotano nelle disposizioni impugnate l'ambito territoriale in relazione al quale quei fondi vanno costituiti e resi operanti». Pertanto, la quota di risorse che gli enti individuati dall’art. 15 devono erogare sono funzionali alla salvaguardia dell’autonomia del volontariato. Alla luce di ciò, le Regioni non possono lamentare violazioni di loro prerogative. La materia interessata è quella (statale) dell’ordinamento degli istituti di credito, e non quella (regionale o provinciale) dell’assistenza e beneficenza pubblica. Pertanto, anche la previsione del decreto attuativo del Ministro del Tesoro non viola la Costituzione. Sentenza n. 355 del 1992 La sentenza n. 355 del 1992 decide un conflitto di attribuzione sorto a seguito del ricorso della Regione Lombardia e delle Province autonome di Trento e di Bolzano contro il decreto ministeriale 21 novembre 1991 “Modalità per la costituzione dei fondi speciali per il volontariato presso le Regioni”. La Corte accoglie le censure formulate nei confronti dell’art. 6 del decreto, il quale stabilisce che "le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e Bolzano disciplinano con proprio provvedimento, tenendo conto delle rispettive realtà locali, quanto previsto nei precedenti articoli 2, 3, 4 e 5, nel rispetto dei principi contenuti nella legge n. 266 del 1991 e dei criteri risultanti dalle norme del presente decreto". La Corte ravvisa una violazione del principio di legalità sostanziale e sottolinea che, con un semplice atto amministrativo privo di qualsiasi base legislativa, si demanda alle Province stesse la disciplina di determinati oggetti (segnatamente: l'istituzione e la gestione di fondi speciali, l'organizzazione, i compiti e le modalità di funzionamento dei centri di servizio), Pagina 54 di 59 producendo così un'illegittima interferenza nei confronti delle competenze costituzionalmente riconosciute all'autonomia delle ricorrenti. Invece, viene respinta la censura proposta avverso l’art. 2 del decreto, nella parte in cui, nell'istituire presso ogni regione (o provincia autonoma) un fondo speciale nel quale sono contabilizzati gli importi segnalati dagli enti e dalle casse di risparmio indicati nel primo comma dell'art. 1 dello stesso decreto, dispone che tali somme costituiscono patrimonio separato avente speciale destinazione, di pertinenza degli stessi enti e casse. Infatti, il decreto impugnato è coerente col sistema stabilito dal legislatore, in cui, non c'è spazio per poteri di disciplina o di disposizione delle regioni o delle province autonome o per esigenze di coordinamento della finanza statale con quella regionale. Viene, tuttavia, considerato invasivo delle competenze delle Province autonome l’art. 2, secondo comma, del decreto impugnato, nella parte in cui, nel definire la composizione del comitato di gestione dei fondi speciali, designa direttamente gli organi regionali o provinciali che vi partecipano o che sono tenuti a nominare ulteriori rappresentanti. Infatti, lo Stato non può individuare gli organi o gli uffici regionali o provinciali da includere nella composizione di altri organi - pur se sottoposti alle competenze statali - ma dovrà lasciare che siano le regioni o le province autonome a designare le rappresentanze di propria competenza o a individuare i propri organi o uffici destinati a rappresentare l'ente di appartenenza. Non sono accolte, invece, le censure nei confronti dell’art.3 (che esclude le province autonome dalla disciplina della costituzione e del funzionamento dei centri di servizio), nonché dell’art. 1, primo comma e dell’art. 5, in quanto queste disposizioni concernono i circuiti che si instaurano tra enti creditizi, fondi speciali, comitati di gestione e organizzazioni di volontariato, da cui le Province autonome (e le regioni ) sono state legittimamente escluse. Non viola le competenze delle Province nemmeno l’art. 4, che pone le finalità generali in vista del raggiungimento delle quali opereranno i centri di servizio, in quanto il perseguimento di tali finalità sarà soggetto alla disciplina statale ovvero a quella regionale (o provinciale) a seconda che le attività di volontariato poste in essere ineriranno a materie riservate allo Stato ovvero a quelle attribuite alle regioni (o alle Pagina 55 di 59 province autonome). Sentenza n. 500 del 1993 La pronuncia n. 500 del 1993 decide alcune questioni di legittimità costituzionale gravanti sull’art. 15 della legge-quadro sul volontariato, e, in particolare, sia sul primo che sul secondo comma. La Corte individua tre gruppi di profili di incostituzionalità. Il primo gruppo comprende gli artt. 2 e 3 della Costituzione. Le censure sono molteplici. Tra le altre, si ricordano quelle relative alla violazione del principio di autonomia del movimento del volontariato nei suoi rapporti con lo Stato e gli enti locali, e a varie discriminazioni tra enti. La Corte sottolinea che il principio di solidarietà sociale costituisce un modo per concorrere alla realizzazione del principio di eguaglianza sostanziale, da un lato, e, dall’altro, mira ad ottenere - anche dai cittadini- la collaborazione per conseguire essenziali beni comuni quali la ricerca scientifica, la promozione artistica e culturale, nonché la sanità (cons. in dir., 5). Dunque, la Corte dichiara la necessità di una collaborazione da parte di tutti i soggetti, pubblici e privati, appartenenti alla Repubblica. Le critiche emerse nei confronti di diversi aspetti dell’assetto normativo (in particolare con riguardo alla giustificazione e alle funzioni delle strutture intermedie, alla composizione in numero pari del comitato di gestione e all’esigenza di rivedere la composizione a seguito della sentenza C. cost. n. 35 del 1992) mettono in luce lacune o incongruenze della normativa, le quali, però, non rendono la legge incostituzionale per irragionevolezza (cons. in dir., 6). Piuttosto, la Corte costituzionale richiama la sentenza n. 75 del 1992, in cui aveva fatto riferimento alla necessità di forme di finanziamento e di interventi di sostegno da prevedere a favore delle organizzazioni di volontariato, per realizzare i valori costituzionali sottesi al volontariato stesso: «onde l'importanza della norma denunziata»27. Per quanto riguarda la “segmentazione ingiustificata nell'ambito della stessa categoria degli enti creditizi”, la Corte afferma che essa non è stata operata dalla norma che costituisce oggetto formale del giudizio, ma da fonti non coinvolte nella questione28. Pagina 56 di 59 La Corte precisa anche che gli enti pubblici conferenti di cui all’art. 15, comma 1° hanno perduto la originaria natura creditizia, in quanto tale attività è stata per intero trasferita alla s.p.a., e non perseguono più scopi di lucro, ma solo fini di interesse pubblico e di utilità sociale. Il secondo gruppo di questioni riguarda gli art. 24, 41 e 47 Cost. In particolare, si denunzia la violazione degli articoli 41 e 47 della Costituzione perché, imponendo la costituzione di fondi speciali come patrimoni separati, si sarebbe realizzata una irragionevole intrusione dei pubblici poteri sul libero assetto imprenditoriale di enti che, anche se pubblici, operano nel sistema di mercato del risparmio e del credito. Anche con riferimento a questo gruppo di censure, la Corte perviene ad una decisione di infondatezza. Essa prende le mosse da una differenziazione degli enti in questione rispetto alle IPAB, la cui autonomia la Corte stessa aveva ritenuto pienamente valorizzata negli statuti. La situazione degli enti che vengono in rilievo nella decisione in commento appare alla Corte sostanzialmente diversa, perché la legge, rivolgendosi agli enti creditizi che avevano per antica tradizione statutaria anche scopi di beneficenza ed assistenza, ha offerto loro la libertà di mantenere l’attività di impresa creditizia, semplicemente trasformandosi in s.p.a. Per la Corte, gli enti conferenti, invece, privati dello scopo di lucro, manterrebbero una iniziativa economica meramente strumentale alle originarie finalità di assistenza e di tutela delle categorie sociali più deboli" (art. 12 del decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 356)»29. Pertanto, la legge ha rispettato – secondo la Corte – l’autonomia decisionale e statutaria degli enti. Inoltre, la Corte rileva che le somme di cui alla disposizione impugnata sono contabilizzate presso fondi amministrati da un comitato composto in maggioranza da rappresentanti degli enti finanziatori, i quali possono destinarle, per il 50% al fondo della regione dove hanno sede legale, e per l'altro 50% ad altri fondi liberamente scelti. Pertanto, per la Corte risulta infondata la censura relativa all'art.24 della Costituzione, sia perché i soggetti interessati hanno avuto e avranno ampia possibilità di difendersi contro la sospettata incostituzionalità della legge, sia perché la dedotta menomazione consiste in realtà in un effetto della libera scelta del mutamento della natura dell'ente. Infondata è anche la Pagina 57 di 59 denunziata violazione dell'art. 41, dal momento che l'iniziativa economica di dette fondazioni è consentita come strumentale al perseguimento dei "fini sociali", che lo stesso art. 41 richiama; pure infondata è la censura relativa all'art. 47, non risultando lese la tutela del risparmio e la disciplina del credito, che non risentono contraccolpi per le limitate elargizioni, anche perché trattasi di somme comunque non destinate alle attività creditizie. Il terzo gruppo di questioni fa riferimento agli art. 53, 81 e 97 Cost. In particolare, la disposizione impugnata -obbligando ad inserire negli statuti degli enti il dovere di destinare senza libertà di scelta una determinata quota dei proventi a certi beneficiari e con precise modalità - maschererebbe un prelievo sugli utili di esercizio, di sostanziale natura di tributo di scopo, senza rispettare il principio di eguaglianza dei cittadini e delle persone giuridiche di fronte al carico tributario, senza indici concretamente rivelatori di capacità contributiva; si prevederebbe una gestione fuori bilancio, con violazione delle relative garanzie e dei principi di unità, universalità, veridicità e globalità del bilancio dello Stato. La Corte rigetta anche queste censure, ricordando che non tutte le prestazioni patrimoniali obbligatorie hanno natura tributaria, in quanto ve ne possono essere alcune che non passano attraverso bilanci pubblici, o che consistono in oneri dipendenti dall’effettuazione di scelte. La Corte ha riconosciuto che la legge avrebbe potuto prescrivere specifici controlli anche sull'attività di questi comitati di gestione , oltre che eventuali facoltà di ricorsi, ma questi profili esulano dall'ambito della presente questione di costituzionalità. Da queste considerazioni finali della Corte si evince il ruolo fondamentale e delicato dei comitati di gestione, che devono verificare che la destinazione delle risorse alle organizzazioni di volontariato tramite i centri di servizio vada a buon fine. La previsione di organi quali i comitati di gestione può considerarsi qualificabile, anzi, come “doverosa”, costituendo attuazione e garanzia di funzionamento del supporto finanziario al mondo del volontariato, che il legislatore predispone al fine di realizzare gli ineludibili principi di Pagina 58 di 59 solidarietà sociale ed eguaglianza sostanziale. Pagina 59 di 59