Studio su organismi di controllo dei CSV

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Studio su organismi di controllo dei CSV
Organismi di controllo
sui CSV
Dalle funzioni attuali
alle prospettive future
settembre 2015
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Report prodotto dal Gruppo di lavoro
coordinato dal Prof. Emanuele Rossi e dal Dott.
Luca Gori e composto dai Dottori Andrea Blasini,
Bruno Brancati, Giorgio Mocavini.
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I. FINALITA’ E METODOLODIA DI UNA INDAGINE SUGLI ORGANISMI DI
CONTROLLO SUI CSV
La ricerca che la Scuola Sant’Anna ha svolto su incarico del Co.Ge Calabria, con la
collaborazione della Consulta dei Comitati di gestione, ha ad oggetto la collocazione
istituzionale e le funzioni svolte dai Comitati di gestione istituiti in base all’art. 15 della
legge n. 266 del 1991. Tale collocazione viene letta sia in una prospettiva de iure condito
sia in quella, altrettanto interessante, de iure condendo, considerando l’iniziativa
legislativa governativa e l’approvazione da parte della Camera dei deputati dell’A.C.
2617 (Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell' impresa sociale e per la
disciplina del Servizio civile universale), attualmente in discussione al Senato (A.S. 1870,
esame in sede referente della 1° Commissione – Affari costituzionali).
Il tema riviste una sua importanza non solo sul piano istituzionale, ma anche su quello
“quantitativo”, cioè delle risorse messe a disposizione del “sistema” del volontariato.
Sebbene nel 2013 si sia assistito a una riduzione significativa dei proventi complessivi che
derivano dai contributi delle fondazioni bancarie rispetto al 2012, le risorse a disposizione
dei centri di servizio per il volontariato nel 2013 sono state comunque pari a 49,6 milioni di
euro, mentre nel 2012 ammontavano a circa 58 milioni. Alla fine del 2013, inoltre, è stato
concluso un importante accordo, con prospettiva triennale, avente ad oggetto il
quantum delle risorse e la loro destinazione (intesa tra Acri – l'Associazione di Fondazioni e
di Casse di Risparmio SpA; Forum Nazionale del Terzo Settore; Consulta Nazionale del
Volontariato presso il Forum Nazionale del Terzo Settore; ConVol – Conferenza
Permanente delle Associazioni, Federazioni e Reti di Volontariato; Consulta Nazionale dei
Comitati di Gestione (Co.Ge.) e CSVnet - Coordinamento Nazionale dei Centri di Servizio
per il Volontariato).
Appare necessario, tuttavia, svolgere una considerazione di tipo metodologico. In
questo lavoro, si è preso in considerazione sia il piano del diritto positivo sia il piano della
prassi, delle concrete relazioni istituzionali che si sono affermate fra i Co. Ge., le fondazioni
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di origine bancaria, i Centri servizi del volontariato.
Anticipando le conclusioni di questo intervento, è infatti la dimensione “relazionale”
dei comitati di gestione, il loro essere “snodo” fra gli enti finanziatori dei fondi speciali e gli
enti destinatari e – come meglio si dirà – con gli enti territoriali che sono “attori del
sistema” . E’ alla luce di questo tratto caratteristico “relazionale” e “dinamico” che si
proverà a leggere il “sistema” dei COGE per come esso si è attualmente strutturato e per
come potrebbe esserlo in un futuro prossimo.
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II. IL QUADRO NORMATIVO ATTUALE
a) L’art. 15 della legge n. 266 del 1991.
Il disegno di legge delega per la riforma del codice civile e del Terzo settore
costituisce occasione privilegiata per ripensare e mettere a fuoco alcuni dei problemi
che la prassi sulla gestione dei Comitati di gestione e dei Centri di servizio ha evidenziato
nei ventiquattro anni di vigenza della legge n. 266 del 1991 (sebbene l’implementazione
della legge sia avvenuta a partire dal 1996, con l’istituzione dei primi Comitati di gestione,
e dal 1997 con l’effettiva istituzione dei Centri di servizio). Tale operazione deve essere
condotta con puntuale attenzione al dato normativo ed alla ricerca di meccanismi che
consentano, anche mediante la loro disciplina giuridica, di migliorare l’efficienza del
sistema nell’attuazione dei principi costituzionali.
Preliminare esigenza è la ricostruzione puntuale del quadro normativo, che con
riguardo al tema oggetto della presente analisi è costituto, in primo luogo, dall’art. 15
della legge n. 266 del 1991. Tale disposizione risulta così formulata:
1. Gli Enti di cui all’articolo 12, comma 1, del decreto legislativo 20
novembre 1990, nr. 356, devono prevedere nei propri statuti che una quota
non inferiore ad un quindicesimo dei propri proventi, al netto delle spese di
funzionamento e dell'accantonamento di cui alla lettera d) del comma 1,
venga destinata alla costituzione di fondi speciali presso le Regioni al fine di
istituire, per il tramite degli Enti locali, centri di servizi a disposizione delle
organizzazioni di volontariato, e da queste gestiti, con la funzione di
sostenerne e qualificarne l'attività.
2. Le Casse di risparmio, fino a quando non abbiamo proceduto alle
operazioni di ristrutturazione di cui all'articolo 1 del citato decreto legislativo nr.
356 del 1990, devono destinare alle medesime finalità di cui al comma 1 una
quota pari ad un decimo delle somme destinate ad opere di beneficenza e
di pubblica utilità ai sensi dell'articolo 35, comma 3, del regio decreto 25 aprile
1923, nr. 967, e successive modificazioni.
3. Le modalità di attuazione delle norme di cui ai commi 1 e 2, saranno
stabilite con decreto del Ministro del tesoro, di concerto con il Ministro per gli
affari sociali, entro tre mesi dalla data di pubblicazione della presente legge.
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La disposizione mira a introdurre un sistema di finanziamento forzoso – a carico delle
fondazioni di origine bancaria - a vantaggio di strutture denominate Centri di servizio, le
quali devono essere istituite dai Comitati di gestione, su iniziativa degli enti locali e gestite
da organizzazioni di volontariato, con lo scopo di “sostenere e qualificare l’attività” delle
stesse organizzazioni di volontariato.
La formulazione legislativa ha indotto uno dei primi commentatori della legge a
domandarsi “se le organizzazioni di volontariato gestiscano (come sembra indicare la
lettera della legge) i centri di servizio, o invece (come indicherebbe la ratio della legge) i
fondi speciali”1: dubbio che è stato prontamente risolto, come subito si dirà, dal decreto
ministeriale di attuazione della normativa legislativa.
b) Il Decreto ministeriale di attuazione
Le modalità di attuazione della previsione legislativa sono state regolate dapprima
con il Decreto del Ministro del Tesoro del 21 novembre 1991, il quale ha disciplinato le
modalità di erogazione dei fondi previsti dalla legge nonché i profili organizzativi degli
enti di gestione e dei centri di servizio. Tale decreto è stato successivamente modificato e
integralmente sostituito ad opera del DM 8 ottobre 1997, che ha sostanzialmente
confermato l’impianto complessivo del precedente, apportandovi alcune marginali
revisioni. Non merita in questa sede valutare le differenze tra il primo e il secondo decreto:
alla luce delle esigenze attuali conviene quindi senz’altro riferirsi al secondo, mentre in
nota saranno segnalate le differenze di qualche rilievo tra le due formulazioni.
Con riguardo alle modalità di erogazione dei fondi previsti dalla legge, il decreto
ministeriale ha stabilito che gli enti tenuti al finanziamento in esame devono ripartire
annualmente le somme previste dalla legge destinandone il 50% ad un fondo speciale
costituito presso la regione ove i predetti enti e casse hanno sede legale, ed il restante
50% ad uno o a più altri fondi speciali, scelti liberamente dai suddetti enti e casse.
1 V. ITALIA, Il volontariato – Organizzazioni, statuti e convenzioni, Milano, 1992, 115.
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Per l’amministrazione di tali fondi il DM provvede all’istituzione di comitati di gestione
presso ciascuna regione italiana (e provincia autonoma), la cui composizione è così
definita:
a) un membro in rappresentanza della regione competente, designato secondo le
previsioni delle disposizioni regionali in materia;
b) quattro rappresentanti delle organizzazioni di volontariato - iscritte nei registri
regionali – maggiormente presenti nel territorio regionale, nominati secondo le previsioni
delle disposizioni regionali in materia;
c)
un membro nominato dal Ministro per la solidarietà sociale;
d)
sette membri nominati dagli enti e dalle casse che erogano i fondi;
e)
un membro nominato dall'Associazione fra le casse di risparmio
italiane;
f) un membro in rappresentanza degli enti locali della regione, nominato secondo
le previsioni delle disposizioni regionali in materia2.
I fondi in questione sono resi disponibili per i centri di servizio nonché (sulla base della
modifica apportata con il decreto del 1997) “per le spese di funzionamento e di attività
del comitato di gestione”.
Tale parte del decreto merita di essere sottolineata perché colma un vuoto lasciato
dalla legge, ovvero le modalità di gestione (e le connesse responsabilità) dei fondi di cui
all’art. 15: la scelta del decreto di attuazione è dunque nel senso di prevedere un
organismo composito, composto in rappresentanza dei diversi attori coinvolti, vale a dire
le fondazioni di origine bancaria e l’ACRI (per un totale di 8 membri su 15), le
organizzazioni di volontariato (4 membri scelti), gli enti costituenti la Repubblica (un
2 Rispetto al DM del 1991, le più significative variazioni sono motivate o da un maggior rispetto per
l’autonomia regionale (nel senso che la prima versione prevedeva la partecipazione necessaria del
Presidente della Giunta regionale o di un suo delegato anziché rimettere la decisione alla regione stessa,
mentre la individuazione dei membri in rappresentanza delle OdV era rimessa nella prima versione al
Presidente della Giunta regionale, mentre nella seconda si è operato un rinvio alle leggi regionali), o dalla
modifica della denominazione del Ministero cui è attribuita una nomina (Ministero degli Affari sociali anziché
per la solidarietà sociale). Le prime di tali modifiche sono state rese necessarie a seguito della sentenza della
Corte costituzionale n. 355/1992, su cui v. infra. Infine, nel decreto del 1997 è stato aggiunto un membro in
rappresentanza degli enti locali della regione, che invece non figurava nella prima versione).
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membro ciascuno il Ministero, la regione e gli enti locali). Il comitato resta in carica per
due anni, elegge al proprio interno un presidente e la partecipazione alle sue attività è a
titolo gratuito (è previsto soltanto il rimborso delle spese effettivamente sostenute per
partecipare alle riunioni). Il medesimo art. 2 provvede poi ad indicare i compiti attribuiti ai
comitati gestione: tra questi il più rilevante risulta l’istituzione dei centri di servizio, da
realizzare mediante una procedura tesa a salvaguardare la trasparenza e l’imparzialità
dell’esercizio dell’azione amministrativa. Ed infatti è stabilito che è compito di ciascun
comitato individuare preliminarmente e rendere pubblici i criteri da adottare per
l’istituzione di detti centri (con la possibilità di istituirne uno o più in ciascuna regione);
ricevere le istanze per la relativa istituzione e provvedere in ordine ad esse, fornendo
adeguata motivazione; istituire altresì l’elenco regionale dei centri di servizio e
pubblicizzarne l’esistenza. Esaurita tale fase, rimane al comitato un compito di
sorveglianza e di controllo sull’attività posta in essere dai centri di servizio, da esercitare
mediante due azioni fondamentali: da un lato, attraverso la nomina di un membro degli
organi deliberativi e di un membro degli organi di controllo dei centri di servizio; dall’altro,
attraverso la ripartizione annuale delle somme a disposizione del fondo fra i centri di servizi
istituiti presso la regione; in terzo luogo, mediante l’esame dei rendiconti di detti centri e la
connessa verifica della regolarità nonché della conformità ai rispettivi regolamenti. Tra le
sanzioni che il comitato può adottare viene stabilita dal decreto quella più drastica,
ovvero il potere di cancellare dall’elenco regionale il Centro di servizio, mediante
provvedimento motivato, nei seguenti casi: a) il Centro sia stato cancellato dal registro
delle organizzazioni di volontariato3 ; b) venga accertato il venire meno dell’effettivo
svolgimento delle attività a favore delle OdV; c) appaia opportuna una diversa
funzionalità e/o competenza territoriale in relazione ai Centri di servizio esistenti; d)
l’attività sia svolta in modo difforme dai propri regolamenti; e) il Centro si renda
responsabile di inadempienze o irregolarità di gestione (in generale, sul potere di
cancellazione nel quadro del controllo, vedi par. IV del presente lavoro).
3 Da segnalare al riguardo che mentre il Decreto del 1991 prevedeva la possibilità di istituire centri di servizio
ad opera delle OdV di cui all’art. 6 della legge n. 266 del 1991 (vale a dire di tutte le organizzazioni di
volontariato, fossero essere iscritte o non iscritte ai registri regionali), al contrario il Decreto del 1997 limita tale
possibilità alle sole OdV iscritte: coerentemente, dunque, lo stesso decreto del 1997 fa scaturire dalla
cancellazione nel registro regionale anche la cancellazione come centro di servizio.
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Con riguardo poi ai Centri di servizio, il decreto ministeriale ne ha definito i compiti,
ripetendo in parte quanto stabilito dalla legge ("I Centri di servizio hanno lo scopo di
sostenere e qualificare l'attività di volontariato") e precisando che "a tal fine erogano le
proprie prestazioni sotto forma di servizi a favore delle organizzazioni di volontariato",
operando "in particolare, fra l'altro", in una serie di settori indicati: l'approntamento "di
strumenti e iniziative per la crescita della cultura della solidarietà, della promozione di
nuove iniziative di volontariato e di rafforzamento di quelle esistenti"; "la consulenza e
assistenza qualificata nonché l'offerta di strumenti per la progettazione, l'avvio e la
realizzazione di specifiche attività"; la promozione di "iniziative di forma-zione e
qualificazione nei confronti degli aderenti al volontariato"; l'offerta di "informazioni, notizie,
documentazione e dati sulle attività di volontariato locale e nazionale".
In sostanza, la logica all’interno della quale hanno operato la legge prima e il
decreto successivamente è di prevedere e finanziare, mediante i Centri di servizio
sorvegliati dai comitati di gestione, delle attività di supporto alle organizzazioni di
volontariato, coerentemente con il termine stesso ("Centri di servizio") ed evitando che i
fondi derivanti dagli enti creditizi fossero direttamente destinati alle organizzazioni di
volontariato.
c) La “Comunicazione” del Ministro Turco del 2000.
In diversa prospettiva, rispetto a quanto appena indicato, ha operato una
"Comunicazione ai Comitati di gestione dei fondi ex art. 15 Legge n. 266 del 1991 ed ai
Centri di servizio per il Volontariato" emanata il 22 dicembre 2000 dal Ministro per la
Solidarietà sociale Livia Turco: con essa è stata ammessa la possibilità per i suddetti Centri
di servizio di sostenere progetti di intervento presentati da associazioni e organizzazioni di
volontariato, attingendo ai fondi a essi concessi ai sensi della legge quadro. Tale
Comunicazione, infatti, afferma "la legittimità dell’interpretazione, nell’attuale quadro
normativo esistente, tanto a livello di legge quanto a livello ministeriale, che consenta ai
centri di servizio di sostenere progetti di intervento delle associazioni di volontariato”
peraltro in via subordinata rispetto ai propri compiti "istituzionali", sulla base di una serie di
argomentazioni sulle quali si tornerà subito. La comunicazione aggiunge, per quanto
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concerne il rapporto fra i Centri ed i Comitati che “nell’ambito della propria
programmazione di attività da presentare al comitato di gestione, i centri di servizi
interessati ad integrare la propria attività con interventi della specie, dovranno
evidenziare tale finalità di spesa al comitato di gestione nel quadro del bilancio
preventivo da presentare o da modificare (…).
Prima di esaminare il merito della Comunicazione, tuttavia, è opportuno ricordare
come essa non abbia la forza giuridica propria dì un atto normativo, né pertanto essa
valga a modificare o integrare il decreto ministeriale cui sopra si è fatto riferimento. La
Comunicazione, al contrario, ha valore di circolare interpretativa, offrendo una possibile
interpretazione del dato normativo che ha evidenti aspetti di autorevolezza (provenendo
da un Dipartimento della Presidenza del Consiglio ed essendo firmata dallo stesso Ministro
senza portafoglio), ma che, in quanto tale, non ha valore assoluto: così che non solo altri
potrebbero interpretare diversamente la disciplina normativa (a cominciare dagli stessi
Centri di servizio, per i quali peraltro quanto previsto dalla Comunicazione è una possibilità
e non un obbligo), ma che altresì non potrebbe escludersi una diversa valutazione
operabile in sede giurisdizionale (che tuttavia al momento non si è riscontrata).
Con riguardo alle argomentazioni addotte nella Comunicazione a sostegno della
linea interpretativa in essa sostenuta, la prima fa riferimento alla non tassatività dell'elenco
contenuto nell'art. 4 del d.m. Tesoro 8 ottobre 1997 che, come detto, individua i compiti
dei Centri di servizio. Secondo l'interpretazione ministeriale, i compiti indicati nella varie
lettere dell'art. 4 hanno valore esemplificativo e non esaustivo, come sarebbe dimostrato
dall'inciso "fra l'altro" utilizzato dalla medesima disposizione. A ciò si aggiunga, prosegue la
Comunicazione, che il compito indicato alla lettera a) ("I Centri di servizio approntano
strumenti e iniziative per la crescita della cultura della solidarietà, la promozione di nuove
iniziative di volontariato e il rafforzamento di quelle esistenti") "ha portata generale e, per
ciò stesso, è tendenzialmente onnicomprensivo": da ciò la possibilità di ritenere che il
sostegno economico fornito dai Centri di servizio ai progetti di intervento sociale
presentati dalle organizzazioni di volontariato svolga "la funzione di strumento
complementare per le finalità di sostegno e qualificazione previste dalla stessa
normativa".
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Tali argomentazioni, svolte in relazione alle disposizioni del decreto ministeriale,
risultano abbastanza convincenti, ma non eliminano tutti i dubbi sul piano della logica
giuridica dell'impianto normativo complessivo.
Sempre con riferimento al decreto ministeriale, in primo luogo, va infatti ricordato
che se è senz'altro vero che l'elenco di cui all'art. 4 è preceduto dall'espressione "In
particolare, tra l'altro", così da sottolinearne il chiaro significato esemplificativo, è peraltro
altrettanto innegabile che la parte precedente della stessa disposizione opera un
collegamento molto stretto tra le finalità generali dei Centri di servizio (che sono quelle, si
ricorda, di "sostenere e qualificare l'attività di volontariato") e l'erogazione delle "proprie
prestazioni sotto forma di servizi a favore delle organizzazioni di volontariato iscritte e non
iscritte nei registri regionali". Al riguardo non vi è dubbio che quest'ultima previsione ha
carattere tassativo e non esemplificativo, ed è altrettanto evidente che nel termine
"servizi" non può rientrare quello di "prestazioni in denaro". Anche perché, e qui l'analisi si
sposta dal piano del decreto ministeriale a quello superiore della legge, l'art. 5 della legge
n. 266 del 1991, nell'elencare le risorse economiche di cui possono beneficiare le
organizzazioni di volontariato, non fa riferimento ai contributi dei Centri di servizio. Questo
passaggio argomentativo è bene espresso nella motivazione della sentenza della Corte
costituzionale n. 500/1993 (di cui si dirà), che nel respingere la questione di legittimità
costituzionale relativa all’art. 15 della legge n. 266 del 1991 espressamente afferma che il
disegno strutturale scelto dal legislatore "prevede un aiuto offerto non direttamente come da taluno auspicato - alle organizzazioni di volontariato (le quali ricevono "risorse
economiche" dirette dalle fonti indicate nell'art. 5 della legge n. 266 del 1991), ma
mediante servizi di supporto messi a disposizione da appositi centri".
In sostanza: la possibilità per i Centri di servizio di finanziare direttamente le
organizzazioni di volontariato non sembra coerente con la logica della legge quadro,
che distingue tra fondi di cui dette organizzazioni possono disporre per la gestione delle
proprie attività e servizi che alle stesse possono essere resi per migliorare la qualità della
propria azione.
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A tale obiezione, che, come può osservarsi, si muove sullo stretto piano del
ragionamento giuridico e che prescinde da valutazioni di opportunità politica, potrebbe
peraltro ribattersi su un doppio piano. In primo luogo, ritenendo che la formulazione
dell’'art. 5 della legge n. 266 del 1991 non escluda, sebbene non la preveda
espressamente, la possibilità che tra le "risorse economiche" delle organizzazioni di
volontariato possano rientrare anche i contributi dei Centri di servizio: questi infatti
possono ritenersi compresi nella previsione generale di "contributi dello Stato, di enti o di
istituzioni pubbliche finalizzati esclusivamente al sostegno di specifiche e documentate
attività o progetti". Forse proprio per questo motivo la Comunicazione prevede che detti
contributi potranno esse impiegati "per sostenere progetti riguardanti la realizzazione di
interventi di volontariato, che si concretizzino in attività di sviluppo del sistema di
volontariato". Sebbene ciò non sia poi più puntualmente ripreso, si può affermare che,
secondo l’interpretazione assunta dalla comunicazione ministeriale, i Centri di servizio
potranno erogare contributi alle organizzazioni soltanto quale "sostegno di specifiche e
documentate attività o progetti", così rispettando il dettato della legge.
In secondo luogo, si potrebbe ritenere superabile la dicotomia servizi/contributi
sopra indicata considerando il sostegno economico dato alle organizzazioni di
volontariato finalizzato esclusivamente alla produzione, da parte di queste organizzazioni,
di servizi alle altre organizzazioni. In altri termini, si potrebbe ritenere che i Centri di servizio
possano adempiere ai propri compiti o direttamente, erogando "in prima persona" i servizi
che competono loro, ovvero indirettamente, sostenendo economicamente i servizi resi
da alcune organizzazioni di volontariato ad altre. Questa linea, peraltro, non emerge
dalla lettura della Comunicazione che, come detto, si riferisce a "interventi di volontariato
che si concretizzino in attività di sviluppo del sistema del volontariato", e che anzi prevede
che i fondi destinabili a tale scopo siano quelli ritenuti dai singoli centri "non necessari ad
assicurare lo svolgimento dei compiti" istituzionali del Centro stesso.
Malgrado
le
ragioni
indicate,
va
tuttavia
detto
che
probabilmente
la
Comunicazione in esame aveva lo scopo di "regolamentare" e comunque di
razionalizzare una situazione già esistente in via di prassi, favorita in certa misura da una
difficoltà dei Centri di servizi di impiegare utilmente le ingenti somme a loro disposizione, e
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che quindi anche in relazione a questa prassi essa debba essere complessivamente
valutata.
d) L’Atto di indirizzo Visco del 2001.
Un ulteriore intervento in materia si è realizzato mediante un atto di indirizzo
emanato dal Ministero del tesoro Visco in data 19 aprile 2001, recante «indicazioni per la
redazione, da parte delle fondazioni bancarie, del bilancio relativo all’esercizio chiuso il
31 dicembre 2000», con il quale sono stati modificati i criteri di quantificazione dei fondi
che le fondazioni bancarie sono tenute a mettere a disposizione dei Centri di servizio. In
particolare, l’art. 9.7 di esso ha definito i criteri sulla cui base le fondazioni bancarie sono
tenute a provvedere all’accantonamento del relativo fondo.
L’elemento di novità costituito dall’atto di indirizzo, ma in verità deducibile da una
previsione normativa precedente avente rango legislativo (l’art. 8, 1° comma, d. lgs. n.
153 del 1999), consiste in un differente criterio di calcolo della quota che le fondazioni
bancarie devono trasferire ai comitati di gestione: secondo tale atto, infatti, detta quota
deve essere determinata «nella misura di un quindicesimo del risultato della differenza tra
l’avanzo dell’esercizio meno l’accantonamento alla riserva obbligatoria» (vale a dire il
venti per cento dell’avanzo dell’esercizio) «e l’importo minimo da destinare ai settori
rilevanti di cui all’art. 8, 1° comma, lett. d), d.lgs. 17 maggio 1999 n. 153» 4. In sostanza,
mentre la l. 266/91 stabilisce che il quindicesimo deve essere calcolato sulla differenza tra
proventi e le spese di funzionamento e accantonamento della riserva obbligatoria, l’atto
di indirizzo fa riferimento alla differenza tra avanzo di esercizio e riserva obbligatoria e
importo minimo da destinare ai «settori rilevanti». Considerando che il termine «avanzo
dell’esercizio» può significare «proventi meno spese di funzionamento», si ricava che la
differenza tra i due atti è data dalla previsione, nell’atto di indirizzo, della quota da
destinare ai settori rilevanti. Differenza che, si noti, non è di poco conto, dato che le
4 Con riguardo a tali settori, va ricordato che l’art. 11 della legge finanziaria 2002 (l. 28 dicembre 2001 n. 448)
ha innovato l’art. 1 d.lgs. n. 153 del 1999 mediante la previsione di un nuovo elenco di settori ammessi, i quali
possono essere modificati, secondo la stessa legge, con regolamento dell’autorità di vigilanza. Secondo F.C.
RAMPULLA, La corte si esercita in difficili equilibrismi sulle fondazioni bancarie, in Regioni, 2004, 287, si tratta di
un «lungo e disordinato elenco di aree, caratterizzate da una genericità e da un’imprecisione tecnica
sorprendente».
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fondazioni hanno l’obbligo di destinare a detti settori rilevanti almeno il cinquanta per
cento del reddito al netto delle spese di funzionamento, degli oneri fiscali e della riserva
obbligatoria5.
Il provvedimento ministeriale, che suscitò molte reazioni da parte dei centri di servizio
e delle organizzazioni non profit6, fu sospeso prima dal Tar Lazio e successivamente dal
Consiglio di Stato, in accoglimento delle doglianze dei ricorrenti incentrate in particolare
sul mancato rispetto del principio della gerarchia delle fonti, sulla base del motivo,
prospettato dai ricorrenti, che l’atto di indirizzo avesse di fatto modificato una disposizione
di legge ordinaria. A siffatta obiezione aveva peraltro preventivamente replicato l’allora
Ministro del tesoro pro tempore, il quale7 precisò di aver applicato «un provvedimento
legislativo approvato dal parlamento nel 1999, riguardante le fondazioni bancarie, che
ha dettato precise disposizioni sulla destinazione del reddito delle fondazioni modificando
in maniera sostanziale i criteri sui quali era in precedenza fondato il finanziamento dei
centri di servizio per il volontariato»7.
Tale argomentazione è stata successivamente ripresa e precisata dalla sentenza del
Tar del Lazio, sez. III, 13 aprile 2005 8 , secondo la quale «la disciplina dettata dal
provvedimento impugnato è meramente riproduttiva della regolamentazione stabilita
nell’art. 8, 1° comma, d.lgs. 153/99». Ed è dunque a tale decreto legislativo che si deve
risalire per rinvenire in esso un intento modificativo della legge del 1991: come si legge
nella relativa motivazione, infatti, occorre ritenere prevalente la disciplina del decreto
legislativo sulla precedente legge (evidentemente in base al principio della lex posterior),
senza peraltro che ciò abbia determinato l’abrogazione tout court dell’art. 15 l. 266/91
(cosa peraltro impossibile dato l’espresso richiamo dell’art. 3, 3° comma, dello stesso
decreto legislativo), bensì piuttosto una sua modifica.
5 Occorre precisare che sebbene l’atto di indirizzo si riferisse esclusivamente ai bilanci per l’esercizio dell’anno
2000, esso è stato assunto anche per gli anni successivi dalle fondazioni bancarie come modello standard:
così M. POLETTO- V. PUTRIGNANO, Il d.d.l. di riforma della legge sul volontariato: continuità e innovazioni per
un fenomeno in crescita libera, in Non profit, 2004, 162.
6 Cfr. P. SCARSI, Il Tar Lazio dà ragione ai volontari e torto a Visco, in Vita. Non profitonline, 13 luglio 2001.
7 Volontariato: precisazioni sul finanziamento, in <http://www.tesoro.it/DOCUMENTAZIONE/ COMUNICATISTAMPA>, 10 maggio 2001.
8 In Foro it., 2006, III, 297 ss., con osservazioni di E. ROSSI, Fondazioni bancarie e Centri di servizio per il
volontariato: una partita ancora aperta?.
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e) La legislazione regionale.
Non è possibile né opportuno, in questa sede, ripercorrere la legislazione regionale in
materia di volontariato, che in taluni casi ha regolato anche l’attività e l’organizzazione
del “sistema” centri di servizio – comitati di gestione.
Sia sufficiente ricordare, in linea generale, che la competenza regionale in materia
deriva dalla disposizione contenuta nell'art. 10 della legge n. 266 del 1991, la quale deve
essere letta in sistema con quanto stabilito dagli art. 1, 2° comma, e 16 della stessa legge,
il cui combinato disposto definisce i profili di collegamento fra Stato e Regioni in detta
materia. Non deve dimenticarsi, infatti, che la legge in commento è anteriore rispetto alla
riforma costituzionale del 2001, e che essa si auto-qualifica come "legge-quadro", il cui
scopo è pertanto quello di delineare la normativa di principio cui dovranno attenersi le
regioni nel disciplinare nel dettaglio la materia.
Molto si discusse, subito dopo l’approvazione della legge, sul rapporto tra
legislazione nazionale e legislazione regionale, fino a giungere alla sentenza 28 febbraio
1992, n. 75 della Corte costituzionale con cui furono date alcune risposte al tema. In
particolare la Corte, come noto, negò la riconducibilità del volontariato nell'ambito delle
"materie" di competenza statale o regionale (presupposto su cui si fondavano i ricorsi),
affermandone di converso il valore generale attraverso il richiamo ai principi costituzionali,
in particolare a quello di solidarietà ex art. 2 Cost. Secondo la Corte, infatti, il volontariato
"esige che siano stabilite, da parte del legislatore statale, le condizioni necessarie
affinché‚ sia garantito uno svolgimento dello stesso il più possibile uniforme su tutto il
territorio nazionale". In questo contesto, i principi fissati dalla l. 266 del 1991, cui le regioni e
le province autonome devono attenersi nel regolare i rapporti fra le istituzioni pubbliche e
le organizzazioni di volontariato, vanno considerati "principi generali dell'ordinamento
giuridico, in ragione della concorrente circostanza che attengono strettamente a valori
costituzionali supremi e, soprattutto, che contengono criteri direttivi così generali da
abbracciare svariati e molteplici campi di attività materiali". In quanto principi generali
dell' ordinamento giuridico, essi si impongono, a giudizio della Corte, a tutta la
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competenza legislativa regionale, anche a quella di tipo primario.
Su questa base si sono mossi i legislatori regionali, alcuni confermando la legislazione
preesistente alla legge quadro, altri intervenendo successivamente con l’attenzione –
come richiesto dalla Corte – a mantenere uniformità nella regolazione dei rapporti tra
amministrazioni pubbliche e organizzazioni di volontariato.
Con riguardo specifico al tema qui in esame, soltanto alcune leggi regionali lo
hanno riguardato, ovviamente tra quelle successive all’entrata in vigore della legge
statale (prima di essa, infatti, non era possibile né pensabile una regolazione di fondi che
non esistevano). Tra queste, merita segnalare la legge Veneto 30 agosto 1993 n. 40: essa
da un lato attribuisce al comitato di gestione del fondo speciale il compito di istituire i
centri di servizio per il volontariato determinandone contestualmente la durata della
relativa gestione, e operando in ciò, “al fine di favorire un omogeneo sviluppo territoriale
delle attività del volontariato, (…) in armonia con gli indirizzi programmatici adottati dalla
Giunta regionale”. Inoltre stabilisce che del comitato faccia parte il Presidente della
Giunta regionale o l'Assessore suo delegato, e che alle riunioni in cui si definiscono la
costituzione dei centri di servizio e la ripartizione dei fondi per la realizzazione delle attività
partecipano, con voto consultivo, sei rappresentanti delle organizzazioni di volontariato
regolarmente iscritte al registro regionale, nominati dalla conferenza regionale del
volontariato. La stessa legge (come modificata sul punto dall’art. 3 delle l.r. n. 1/1995) ha
imposto altresì la costituzione di un centro di servizio in ciascun capoluogo di provincia,
tenuto conto delle esigenze socio-territoriali e della presenza delle organizzazioni di
volontariato nel territorio. Analoga previsione (un Centro per ogni “ambito territoriale
provinciale”, espressione che sostituisce quella di “provincia” in vista della definitiva
soppressione di tale ente locale) è contenuta nella legge dell’Emilia – Romagna, mentre
la legge siciliana individua sia il numero che l’ambito territoriale di ciascun Centro.
In Campania, al contrario, le modalità di valorizzazione dei centri di servizi del
volontariato sono individuate dal regolamento adottato ai sensi dell’art. 14, 5° c., della
legge regionale 23 ottobre 2007, n. 11. Alla Regione spetta solo una funzione di indirizzo e
di coordinamento delle iniziative svolte dai Centri di servizi, i quali vengono istituiti da
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province e comuni e vengono gestiti dagli enti locali in collaborazione con le
organizzazioni di volontariato iscritte nell’apposito registro regionale. Tale regolamento,
peraltro, pone dei problemi di compatibilità con lo schema generale dettato dal d.m. 8
ottobre 1997, attuativo dell’art. 15, l. 11 agosto 1991, n. 266, che attribuisce ai Co.ge., non
agli enti territoriali, il potere di istituire centri di servizio per il volontariato (al massimo gli enti
locali possono chiedere al comitato di gestione di costituire un centro di servizio per il
volontariato).
Alcune previsioni legislative regionali si spingono fino a regolare in maniera incisiva
l’operato e le attività dei Centri di servizi. Questo è il caso delle leggi regionali del
Piemonte, della Valle d’Aosta e delle Marche. L’art. 13 della legge Piemonte 29 agosto
1994, n. 38 (come modificata dalla successiva legge 8 gennaio 2004, n. 1) prevede che i
centri di servizio, nell’ambito delle proprie competenze, debbano uniformarsi agli indirizzi
del piano regionale di sviluppo e ai singoli piani di settore. La Giunta regionale può inoltre
deliberare criteri ulteriori rispetto a quelli previsti dalla normativa statale per l’uso dei fondi
dei CSV.
In Valle d’Aosta, l’art. 12 della legge regionale 22 luglio 2005, n. 16, istituisce un unico
Centro di servizi per tutto il territorio regionale. Tale centro è tenuto ad armonizzare la
propria attività con le indicazioni contenute nella programmazione regionale, sulla base
di appositi protocolli d'intesa sottoscritti con la Regione. La medesima disposizione
stabilisce inoltre che, nel caso in cui sia accertato il venir meno dell'effettivo svolgimento
delle attività a favore delle organizzazioni di volontariato, ovvero lo svolgimento di attività
in modo non conforme ai propri regolamenti, oppure in caso di accertate inadempienze
o irregolarità nella gestione, il centro di servizi può essere commissariato dal COGE.
L’art. 9 della legge Marche 30 maggio 2012, n. 15, contiene un elenco delle attività
che possono essere svolte dai CSV: si va dall’approntare strumenti e iniziative per la
crescita della cultura della solidarietà e la promozione delle iniziative di volontariato
all’offerta di consulenza e assistenza qualificata per il sostegno alla progettazione di
specifiche attività; si spazia dall’attuazione dei progetti promossi e realizzati dalle
organizzazioni di volontariato, anche attraverso iniziative congiunte con la Regione,
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all’assunzione di iniziative di formazione e qualificazione dei volontari e delle
organizzazioni di volontariato.
Interessante è la previsione contenuta nella legge emiliano-romagnola (legge
regionale 21 febbraio 2005, n.12), che demanda al COGE, “nell’esercizio delle proprie
funzioni di controllo”, di attivare “procedimenti di verifica sull’attività e sulla gestione
contabile dei CSV”, anche avvalendosi di persone alle quali siano riconosciute elevate
competenze ed esperienza professionale nelle discipline economico-contabili”. Tale
legge si distingue anche per la penetrante disciplina dettata in relazione alla struttura
interna dei CSV, i quali sono gestiti in forma associata dalle organizzazioni di volontariato
e devono dotarsi essi stessi di una base associativa che favorisca il più possibile il ricambio
nella composizione degli organi direttivi.
Merita inoltre attenzione anche la disciplina regionale della Sardegna in materia di
volontariato che si ricava dall’art. 27, l. r. 11 maggio 2006, n. 4. Tale disposizione detta una
disciplina più puntuale in relazione alle funzioni del Co.Ge. rispetto alla precedente
normativa di cui all’art. 45, l. r. 23 dicembre 2005, n. 23. Infatti, oltre all’individuazione dei
criteri sulla base dei quali pervenire alla composizione del comitato, l’art. 27 ne stabilisce
le funzioni in maniera analitica. A fronte di una grande cura riservata al regime del
comitato di gestione, la disciplina sarda rinvia però direttamente all’art. 3, d.m. 8 ottobre
1997, per quanto riguarda le modalità di funzionamento dei propri centri di servizio,
trovando pertanto applicazione automatica la disciplina statale.
Da segnalare infine la particolare situazione della provincia autonoma di Bolzano,
che è intervenuta in materia con la l.p. n. 11/1993: numerose sono le ragioni di grave
criticità. In primo luogo per il fatto che non si prevede l’istituzione di Centri di servizio, e
che le relative funzioni siano attribuite direttamente al Co.Ge.; in secondo luogo per la
previsione che attribuisce al Presidente della Giunta regionale, o suo delegato, la
presidenza di tale organismo, mentre alla Giunta compete la nomina come membri del
comitato di quattro rappresentanti delle ODV, “iscritte nel registro provinciale,
maggiormente presenti nel territorio provinciale”. Tale situazione, come è evidente,
appare fortemente lesiva dell’autonomia sia delle organizzazioni di volontariato che delle
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fondazioni erogatrici, e meriterebbe pertanto una profonda revisione.
f) Uno sguardo di insieme alla normativa
La ricostruzione del ruolo di controllo dei Co.Ge., nel rapporto con i CSV, risulta
essere una operazione “complessa” proprio a partire (ed in ragione) del sistema delle
fonti per come affermatosi attualmente (e come sinteticamente si è qui ricostruito).
Si deve prendere atto che le fonti che regolano struttura ed attività sono
integralmente rimesse alla normativa secondaria e ad atti, di natura pattizia, conclusi
direttamente fra il Co.Ge. ed i soggetti che con questo entrano in relazione. La legge –
come è ampiamente noto – si limita a prevedere l’istituzione dei fondi speciali (art.15,
legge n. 266 del 1991), mentre sono il D.M. 21 novembre 1991 ed il successivo D.M. 8
ottobre
1997
a
disciplinare
i
“Comitati
di
gestione”
quali
soggetti
preposti
all’amministrazione dei fondi speciali. Per la verità, le Regioni, sia a statuto speciale sia a
statuto
ordinario,
sono
intervenute
con
provvedimenti
legislativi
di
attuazione
(generalmente in linea con quanto previsto dalla normativa statale, sebbene con
qualche eccezione). I D.M., a giudizio della giurisprudenza (ma l’opinione non è
unanime), hanno natura regolamentare (Cons. Stato, sez. IV, 4 febbraio 2003, n. 565).
Accanto ai richiamati D.M., si deve tenere presente che una “fonte” di disciplina del
settore estremamente rilevante è costituita da atti di natura amministrativa aventi una
finalità interpretativa-attuativa della disciplina secondaria. Si fa riferimento, in particolare,
alla c.d. circolare Ossicini (15 maggio 1996) ed alla c.d. comunicazione Turco (20 ottobre
2000) o all’atto di indirizzo Visco che contengono elementi non secondari della disciplina
(anzi, per certi versi, si può affermare che tali atti sub-secondari contengano una
disciplina sostanzialmente primaria).
Questo primo tratto caratteristico mette in evidenza come il sistema normativo che
disciplina i Co.Ge. sia un sistema in evoluzione, soggetto a modificazioni che avvengono
in forme flessibili per adattarsi alle esigenze mutevoli dei tempi. In altri termini, la normativa
manifesta una peculiare capacità di adeguamento alla prassi o alle esigenze che si
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presentano nell’agire concreto.
Il quadro normativo è completato da una serie di accordi intervenuti fra gli enti
finanziatori – le fondazioni di origine bancaria, gli enti amministratori – i Co.Ge., e gli enti
destinatari – i CSV. Tali accordi rappresentano un asse portante dell’intero sistema,
soprattutto perché concorrono a definire il quantum delle risorse a disposizione. Si tratta,
in questi casi, di fonti che vincolano gli attori del sistema ma che sono, essenzialmente,
espressione della loro autonomia costituzionale e rivestono una funzione integrativa della
legge. A giudizio di alcuni, in realtà, essi avrebbero anche una valenza derogatoria o
modificativa della legge. Non è questa l’occasione di entrare nel merito di questo
dibattito (il riferimento è, principalmente, al noto accordo del 2005, ed al successivo del
2010; ma anche all’accordo del 30 novembre 2007 fra Consulta Co.Ge. e CSVnet in tema
di Linee guida procedurali in merito alla gestione e utilizzo del Fondo speciale), ma è
importante rilevare come, da alcune parti, si sia messa in discussione la legittimazione dei
partecipanti all’accordo e, per altro verso, i contenuti dello stesso in quanto in contrasto
rispetto alla legge. Appare evidente, quindi, che tale fonte ha una sua rilevanza se ed in
quanto tutti gli attori coinvolti riconoscono agli altri una legittimazione a partecipare (un
caso di “diritto convenzionale”) ed in quanto il rapporto con eventuali decisioni
giurisdizionali o provvedimenti amministrativi sia, da tutte le parti, sciolto e riconosciuto in
maniera analoga.
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III. LA GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE
Nella giurisprudenza in esame, la Corte costituzionale individua, innanzi tutto, il
principio di solidarietà quale fondamento del volontariato: tale principio esige la
collaborazione da parte di tutti i soggetti, pubblici e privati, che compongono la
Repubblica (si veda, in particolare, la sentenza n. 75/1992).
Pertanto, forme di finanziamento e sostegno delle organizzazioni di volontariato sono
da ritenersi necessarie: la rilevanza pubblica dell'espressione individuale ed associativa
del valore della solidarietà, il rispetto dell'autonomia e dell'originalità del volontariato
quale strumento di partecipazione effettiva alla organizzazione economica, culturale e
sociale del Paese, non può essere limitata al "fare", implicando ciò evidentemente
quanto necessario per "sostenerne e qualificarne l'attività" (sentenza n. 500/1993).
In relazione al peculiare tipo di finanziamento previsto dall’art. 15 della legge, la
Corte spiega che, attraverso il meccanismo previsto, il legislatore ha prefigurato una
soluzione organizzativa che, tendendo a salvaguardare l'autonomia delle attività di
volontariato, anche in relazione a condizionamenti derivanti dalla gestione pubblica dei
servizi di sostegno a favore delle stesse attività, individua nella costituzione dei fondi
speciali presso le regioni o le province autonome «non già una funzione conferita o
demandata a tali enti autonomi, ma, più semplicemente, la collocazione e la operatività
spaziale dei fondi medesimi: le regioni e le province autonome, in altri termini, denotano
nelle disposizioni impugnate l'ambito territoriale in relazione al quale quei fondi vanno
costituiti e resi operanti» (sentenza n. 75/1992).
La Corte non ha mancato di rimarcare alcune critiche emerse nei confronti di diversi
aspetti dell’assetto normativo (in particolare con riguardo alla giustificazione e alle
funzioni delle strutture intermedie, alla composizione in numero pari del comitato di
gestione e all’esigenza di rivedere la composizione a seguito della sentenza n. 35 del 1992
C. Cost.), tuttavia ha messo in luce anche come tali lacune o incongruenze della
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normativa non rendano la legge incostituzionale per irragionevolezza.
Un aspetto del quale la giurisprudenza costituzionale si è occupata è costituito dal
peculiare rapporto fra la disciplina dei fondi e gli articoli 41 e 47 della Costituzione.
L’imposizione della costituzione di fondi separati, secondo la Corte, non viola l’art. 41
della Costituzione in quanto non realizza un’irragionevole intrusione dei pubblici poteri sul
libero assetto imprenditoriale di enti che, anche se pubblici, operano nel sistema di
mercato del risparmio e del credito.
La Corte ha però rammentato che la legge, rivolgendosi agli enti creditizi che
avevano per antica tradizione statutaria anche scopi di beneficenza ed assistenza, ha
offerto loro la libertà di mantenere l’attività di impresa creditizia, semplicemente
trasformandosi in s.p.a. Per la Corte, gli enti conferenti, invece, privati dello scopo di lucro,
manterrebbero una iniziativa economica meramente strumentale alle originarie finalità di
assistenza e di tutela delle categorie sociali più deboli" (sentenza n. 500/1993; vedi anche
sentenza n. 301/2003, relativa all’iniziativa economica delle fondazioni).
Per quanto concerne la costituzione di fondi speciali presso le regioni o province
autonome, la Corte ha stabilito che essa non implica una funzione conferita a tali enti
autonomi, ma semplicemente indica la collocazione e l’operatività spaziale dei fondi (le
Regioni non potevano lamentare alcuna violazione di prerogative, in quanto veniva in
rilievo la materia statale dell’ordinamento degli istituti di credito, e non quella regionale
dell’assistenza e beneficenza pubblica: vedi, ancora, sentenza n. 75/1992).
La Corte ha anche stabilito che un semplice atto amministrativo che, senza una
base legislativa, vincola le Regioni a statuto speciale e le Province autonome a
disciplinare determinati oggetti (istituzione e gestione dei fondi speciali) produce
un’illegittima interferenza nei confronti delle loro competenze (sentenza n. 355/1992). Lo
Stato, però, non può individuare i rappresentanti di tali autonomie territoriali nei comitati
di gestione dei fondi speciali (sentenza n. 355/1992).
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IV. L’ATTUAZIONE DELLA NORMATIVA: ORGANI E STRUTTURE FEDERATIVE
a) Natura giuridica del CO.GE.
Come si è sottolineato in precedenza, l’istituzione dei Comitati per la gestione dei
fondi speciali per il volontariato è avvenuta ad opera di un decreto ministeriale attuativo
dell’art. 15 della legge 266 del 1991, il quale sì prevedeva la costituzioni dei fondi speciali
per il volontariato, ma nulla disponeva in merito ai profili organizzativi di tali fondi. Le
disposizioni del suddetto decreto vengono a definire la composizione e le funzioni di tali
organismi, ma si astengono dal qualificare giuridicamente i Co.Ge., i quali vengono
semplicemente designati quali soggetti che amministrano i fondi speciali.
In questo quadro di elementi negativi sovrabbondanti rispetto a quelli positivi,
indubbiamente uno è significativo e ci fornisce talune coordinate: il decreto non contiene
affatto norme attributive della personalità giuridica agli organismi in questione e di
conseguenza si può affermare con certezza che questi ne sono sprovvisti. Da una parte,
sussistono elementi che inducono a ritenere i Co.Ge. soggetti di natura pubblicistica.
Quelli più significativi possono essere riassunti nei seguenti: in primo luogo la circostanza
che la maggior parte della loro disciplina è contenuta in un atto ministeriale
(probabilmente – come si è detto - di natura regolamentare9); in secondo luogo, il fatto
che non sono nella disponibilità dei Co.Ge. né l’individuazione dei fini da perseguire né il
modo in cui essi possono organizzarsi e neppure il potere di estinguersi; in ultimo, la
circostanza che la normativa di riferimento non richiama la disciplina di diritto privato.
Considerando inoltre che, sotto il profilo dell’attività esercitata, il decreto ministeriale
delinea una disciplina pubblicistica delle funzioni riservate ai Co.Ge., si sarebbe indotti a
ritenere la natura pubblicistica dell’attività dei Co.Ge.: la stessa normativa attribuisce
infatti ad essi alcuni poteri di natura autoritativa (istituzione dell’elenco regionale dei CSV,
9 Cfr., sul punto, anche Cons. Stato, sez. IV, 4 febbraio 2003, n. 565.
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cancellazione dei CSV dall’elenco regionale, etc.), e tende a tipizzare in senso
pubblicistico il loro esercizio (procedimentalizzazione dell’attività, obblighi di pubblicità e
trasparenza, motivazione dei provvedimenti adottati). Non a caso la stessa giurisprudenza
ha qualificato gli atti adottati dai Co.Ge. quali provvedimenti formalmente e
sostanzialmente amministrativi10.
Sotto altro profilo, invece, la normativa mette in evidenza alcuni tratti caratteristici
della natura privata dell’ente. In primo luogo, l’oggetto stesso dell’attività dei comitati è
costituito dai fondi trasferiti dalle Fondazioni bancarie, per le finalità individuate dall’art.
15 della legge n. 266 del 1991. Secondariamente, i Comitati fungono istituzionalmente da
anello di congiunzione tra i soggetti finanziatori dei fondi speciali per il volontariato (le
fondazioni bancarie ed ex- bancarie e la loro rappresentanza nazionale, affidata
all’ACRI) e i Centri di servizi per il volontariato, tutti enti aventi pacificamente natura
privata. I Co.Ge. costituiscono dunque la figura centrale del sistema ideato dall’art. 15
della l. 266 del 1991: ad essi compete la funzione regolatoria in generale dei CSV. Tale
funzione è assolta in maniera del tutto autonoma rispetto ai soggetti che ex lege devono
finanziare i CSV, sebbene la maggioranza dei componenti dei Co.Ge. sia di nomina delle
Fondazioni.
Tale natura privata si riflette, pacificamente, su alcuni aspetti funzionali dei
Comitati inerenti l’organizzazione interna ed il funzionamento, per ciò che non attiene
all’amministrazione dei fondi (ad es., gestione del personale, acquisizione di beni e servizi,
regolamentazione interna, ecc.).
Ne consegue, dunque, che il Comitato di gestione assume una fisionomia giuridica
“singolare”, differente a seconda del contesto funzionale di riferimento (un tratto non
inusuale nella legislazione italiana, peraltro), che può essere compendiato efficacemente
nell’espressione “soggetti privati esercitanti pubbliche funzioni”: funzioni che, tuttavia, non
attraggono totalmente la natura dell’ente nell’orbita degli enti pubblici, ma solo in
relazione ad alcuni aspetti (in particolare, tutto il procedimento di amministrazione dei
10 Tar, Puglia, Bari, Sez. I, 24 aprile 2008, n. 1043. In senso conforme Tar, Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, 17
giugno 2002, n. 858.
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fondi).
b) I Comitati gestione per il fondo speciale del volontariato
I Comitati di gestione per il fondo speciale del volontariato sono istituiti presso le
Regioni e le Province Autonome di Bolzano e di Trento ai sensi del D.M. 8 ottobre 1997, in
attuazione dell’art. 15, l. 11 agosto 1991, n. 266. Si rinvia alle altre parti di questo lavoro per
la trattazione complessiva delle fonti istitutive e delle vicende relative all’organizzazione
ed al funzionamento dei Co.Ge.
c) I Centri di servizio per il volontariato
In Italia si contano settantadue centri di servizio per il volontariato, alcuni organizzati
su base provinciale, altri su base regionale, ma con sportelli nei vari capoluoghi di
provincia, altri ancora con un’articolazione “mista”, ossia più centri di servizi a
competenza regionale o interprovinciale.
I centri di servizio sono organizzati a livello provinciale in Abruzzo, Calabria,
Campania, Emilia-Romagna, Liguria, Lombardia, Piemonte (dove il numero dei centri di
servizio è recentemente sceso da nove a cinque), Puglia (nella quale operano
contemporaneamente due centri di servizio in provincia di Foggia, quando il criterio
regionale imporrebbe un centro per provincia), Umbria e Veneto.
I centri di servizio risultano strutturati su base regionale in Basilicata, nelle Marche (in
cui la sede regionale è affiancata da cinque sportelli provinciali e da punti operativi in
altre quattordici città), in Friuli-Venezia Giulia (in cui alla sede regionale fanno riferimento
dieci sportelli territoriali), in Molise (dove i centri di servizio hanno conosciuto un processo
di razionalizzazione che li ha portati da tre a uno), in Sardegna (alla cui sede regionale si
aggiungono quaranta punti operativi dislocati sul territorio), in Toscana (dove la sede
regionale è supportata da undici delegazioni territoriali), nella Provincia Autonoma di
Trento e in Valle d’Aosta.
L’articolazione “mista” si riscontra nel Lazio, sul cui territorio operano due centri di
servizio con sede a Roma ed entrambi con competenza regionale, e in Sicilia, dove
operano tre centri di servizio di carattere interprovinciale.
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d) La Consulta COGE
La Consulta Nazionale dei COGE è stata istituita nel 2001 su iniziativa dei Comitati di
gestione dei fondi speciali per il volontariato, quale struttura preposta al coordinamento e
alla rappresentanza nazionale degli stessi Comitati di gestione istituiti presso le Regioni,
con funzioni anche di supporto tecnico-gestionale, legale, e nel campo della formazione,
ricerca e innovazione.
La Consulta si pone quindi l’obiettivo di rappresentare tutti i Co.Ge. dal punto di
vista politico-istituzionale e di elaborare e promuovere soluzioni di sintesi per le politiche di
gestione dei fondi speciali per il volontariato.
L’organo dotato di poteri di ordinaria e di straordinaria amministrazione, con
competenza generale su tutte le questioni di pertinenza della Consulta nazionale, è la
consulta generale, composta dai presidenti di tutti i Co.Ge. aderenti.
La consulta generale elegge tra i propri componenti un presidente, un vice
presidente e i componenti del comitato esecutivo, a propria volta composto da sette
membri.
E’ inoltre previsto un ruolo di coordinamento operativo, affidato a un esperto esterno
ai Co.ge., per la gestione organizzativa ed esecutiva delle attività programmate.
La Consulta Nazionale opera sia mediante periodiche riunioni sia mediante gruppi di
lavoro istituiti ad hoc per compiere approfondimenti e ricerche su tematiche specifiche,
quali, ad esempio, forme e strumenti di programmazione, rendicontazione e valutazione
dell’attività dei Csv, studi e ricerche territoriali inerenti il volontariato, innovazione e
sviluppo dei sistemi informativi dei Csv.
Per quanto riguarda l’assistenza legale, la Consulta offre ai singoli Comitati la
possibilità di una consultazione con esperti sulle problematiche di natura giuridica inerenti
la realizzazione dell’attività istituzionale.
Relativamente alla consulenza gestionale, la Consulta Nazionale garantisce ai
comitati di gestione aderenti un servizio di assistenza personalizzata, volto a fornire criteri
generali e indicazioni operative, valutazioni comparative, nonché approfondimenti
tecnici di varia natura. La consulenza è fornita tramite uno staff di esperti con cui è stato
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definito un apposito accordo di collaborazione.
e) CSVnet
CSVnet è il Coordinamento Nazionale dei Centri di Servizio per il Volontariato (CSV)
ed è stato costituito nel gennaio 2003. Si configura come associazione apartitica che non
persegue finalità lucrative e si ispira i principi di solidarietà, democrazia e pluralismo e alla
“carta dei valori del volontariato” (art.1, St. CSVnet).
Attualmente riunisce e rappresenta la quasi totalità dei Centri di Servizio per il
Volontariato. L’azione del Coordinamento è quella di rafforzare la collaborazione, lo
scambio di informazioni, di competenze e di servizi fra i CSV, nonché quella di fornire una
serie di servizi di formazione, di consulenza e di sostegno ai CSV soci (art.2, St. CSVnet).
Il Coordinamento Nazionale si compone di alcuni organi fondamentali: l'assemblea
dei soci, il consiglio direttivo, il comitato esecutivo, il collegio dei garanti e il collegio dei
revisori dei conti (art.6, St. CSVnet).
L’assemblea è composta dai rappresentanti dei centri di servizio soci. Essa è
l’organo sovrano di CSVnet ha il compito di definire gli orientamenti e gli indirizzi generali
dell’ente. Essa inoltre elegge i membri del consiglio direttivo e nomina il collegio dei
garanti e quello dei revisori dei conti (art.7, St. CSVnet).
Il consiglio direttivo esercita tutti
i
poteri
di
ordinaria
e di
straordinaria
amministrazione e nomina i membri del comitato esecutivo. I membri del consiglio
devono essere componenti di un organo direttivo dei CSV soci di CSVnet o lo devono
essere stati per almeno un mandato pieno negli ultimi otto anni; inoltre non devono avere
in essere rapporti di lavoro con i CSV soci o con le loro forme di coordinamento (art.8, St.
CSVnet). Il comitato esecutivo è destinatario di una serie di importanti attribuzioni:
innanzitutto, cura l’attuazione delle delibere del Consiglio direttivo e ne attua i mandati; in
secondo luogo, organizza le attività amministrative e la tenuta dell’amministrazione; in
terzo luogo, coordina l’attuazione del programma annuale approvato, coordina l’azione
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degli eventuali gruppi di lavoro e l’azione dei consiglieri delegati a specifiche attività,
curando la massima collegialità, sinergia, coerenza alla programmazione approvata,
rispetto dei regolamenti; infine cura la relazione con le forme di coordinamento regionali
riconosciute da CSVnet (art.9, St. CSVnet).
Oltre ai soci possono prendere parte alle attività del CSVnet i c.d. “osservatori”, ossia
quei centri di servizio per il volontariato che condividono in generale le finalità di CSVnet
e intendono conoscerne maggiormente le attività, per poi riservarsi la facoltà di chiedere
l’adesione. L’osservatore gode di tre diritti: può partecipare a tutte le attività di CSVnet;
può partecipare all’assemblea senza diritto di voto, ma con diritto di parola; può
prendere visione di tutti gli atti deliberati e di tutta la documentazione relativa alla
gestione di CSVnet (art.5, St. CSVnet).
CSVnet partecipa a propria volta a ulteriori coordinamenti: esso è socio del Centro
Europeo per il Volontariato (CEV) che ha sede a Bruxelles; è socio dell’Euricse (European
Research Institute on Cooperative and Social Enterprises); è poi socio sostenitore di
Labsus, ossia il Laboratorio per la sussidiarietà; infine fa parte delle associazioni osservatrici
del Forum Nazionale del Terzo Settore.
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V. LA RICOSTRUZIONE DEL SISTEMA DEI CONTROLLI E LA PRASSI APPLICATIVA
a) Il controllo dei COGE: una nozione “complessa”
E’ in questo quadro normativo (fluido) ed organizzativo, dunque, che il controllo
esercitato dal COGE deve essere letto sia nella sua estensione – intendendosi i momenti
ed i settori che possono essere oggetto di controllo – sia nella profondità – intesa, qui,
come penetrazione del potere e tipologia degli effetti che si possono determinare in
capo al soggetto controllato.
La natura fluida del sistema delle fonti, tuttavia, pone all’interprete un difficile
compito ricostruttivo all’interno di un sistema di dati di diritto positivo non sempre nitido.
Tre sono i momenti nei quali si esprime tipicamente il potere di controllo del Co.Ge.
rispetto ai CSV: il generale potere di istituzione dei CSV e la loro cancellazione (art. 2, c. 6,
lett. a), b) ed g) del D.M. 8 ottobre 1997), la nomina dei componenti dell’organo direttivo
e dell’organo di revisione contabile (art. 2, c. 6, lett. d) del D.M. 8 ottobre 1997), il controllo
sui bilanci preventivi e consuntivi (art. 2, c. 6, lett. f)e art. 5, c. 2). In via interpretativa, da
questo reticolato di norme, si può desumere come l’estensione del potere sia, in realtà,
ampia: dal potere di istituzione e di cancellazione dei CSV deriva che il Co.Ge. possa
disporre di poteri più ampi di verifica sull’attività del CSV sia ex ante, sia in itinere, sia ex
post attraverso una pluralità di strumenti che si delineeranno in seguito.
Il criterio che ne regola la profondità può essere individuato, a giudizio di chi scrive,
in linea generale, nella natura relazionale del Co.Ge. quale organo di raccordo, punto di
congiunzione fra istanze ed interessi provenienti da settori diversi, ente in grado di
esprimere una capacità federativa di più istituzioni. In quest’ottica, il controllo non può
essere separato da una dinamica fortemente collaborativa fra il soggetto controllore ed il
soggetto controllato. Tale dinamica può trovare una propria emersione, sul piano
giuridico, nella nozione di controllo collaborativo.
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La nozione di “controllo collaborativo” – elaborata dalla dottrina amministrativistica
e dalla Corte costituzionale con la nota sentenza n. 29 del 1995 a proposito dell’attività
della giurisdizione contabile sugli enti territoriali – si attaglia a questa realtà:
partecipazione attiva ed organica dei soggetti controllati alle attività; assenza di effetti
immediatamente “repressivi” ma attivazione di percorsi “assistiti” di correzione (nel caso
dei Co.ge. detti percorsi sono sempre intrapresi, o almeno tentati, prima di addivenire
all’intervento sanzionatorio previsto dalla normativa); la presenza di una forma di dialogo
fra l’ente controllato e l’ente controllore per raggiungere il risultato dell’attività di
controllo. Soprattutto, ciò che caratterizza il controllo collaborativo è il suo riferirsi al
complesso dell’attività, e non a singoli atti: «il controllo consiste nel confronto ex-post tra la
situazione effettivamente realizzata con l'attività amministrativa e la situazione ipotizzata
dal legislatore come obiettivo da realizzare, in modo da verificare, ai fini della valutazione
del conseguimento dei risultati, se le procedure e i mezzi utilizzati, esaminati in
comparazione con quelli apprestati in situazioni omogenee, siano stati frutto di scelte
ottimali dal punto di vista dei costi economici, della speditezza dell'esecuzione e
dell'efficienza organizzativa, nonché dell'efficacia dal punto di vista dei risultati». In questo
senso, si apprezza quella che si è definita la “natura relazionale” del Co.Ge.: il controllo
collaborativo del Co.Ge. non muove da astratte considerazioni, bensì dai risultati già
conseguiti dai CSV e dalle argomentazioni che questi posso addurre a sostegno della loro
azione, e dai risultati percepibili ed apprezzabili (fondamentale, in questa direzione,
l’affinamento del bilancio sociale quale strumento per la rappresentazione puntuale e
trasparente, attenta anche al profilo tecnico-gestionale oltre che a quello comunicativopromozionale, dell’attività svolta), e dai residui prodotti.
b) La nomina dei membri dell’organo direttivo e dell’organo di revisione
contabile dei CSV
L’art.2, c.6, lett. d), D.M. 8 ottobre 1997 attribuisce al Co.Ge. il potere di nominare un
membro degli organi deliberativi ed un membro degli organi di controllo dei centri di
servizio. Tale potere assolve ad una funzione (quasi dichiaratamente) di controllo
permanente e durevole sull’attività dei CSV. Il Manuale operativo elaborato dalla
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Consulta nazionale Co.Ge. riconduce tale potere di nomina alla funzione di controllo in
itinere sulle attività, presupponendo l’esistenza di raccordi operativi e di forme di
consultazione fra i nominati nei CSV ed i nominanti (Co.Ge.).
I membri di nomina COGE non hanno uno statuto differente rispetto agli altri
membri, in base a quanto previsto dal D.M.: ciò significa che essi partecipano, a pieno
diritto, a tutte le manifestazioni di autonomia del CSV. In altri termini, essi – sul presupposto
che esista un legame forte fra ente nominante e nominati – svolgono una funzione di
controllo e di indirizzo delle attività e condividono, in definitiva, con gli altri membri la
responsabilità per le scelte compiute.
Nella prassi, è attraverso questa presenza che si realizzano forme, più o meno
dirette, di indirizzo e controllo dell’attività del CSV, su un piano di puro fatto, atteso
l’inesistenza di qualsiasi potere “specifico” (i.e., differimento delle decisioni, richiesta di
riesame, potere di veto, ecc.) in capo ai membri nominati dai Co.Ge. Il Manuale
operativo, infatti, da una lato rammenta i “pari poteri” e la “pari dignità” (p.86), dall’altra
fa riferimento ad una forma di controllo in itinere che si sostanzia in una attività di
aggiornamento generale sulle attività dei CSV e sulle attività intraprese, nonché sulle
criticità incontrate nello svolgimento dell’attività.
Ciò appare un elemento meritevole di un approfondimento. La dinamica
relazionale presupporrebbe una netta alterità fra i due soggetti che entrano in contatto
ai fini del controllo, con l’attribuzione di poteri specifici e di distinte responsabilità.
L’attuale sistema, invece, presenta profili di delicatezza, poiché i membri di nomina
Co.Ge., non differendo dagli altri quanto a poteri, rivestono ad un tempo il ruolo di
controllori (rectius, di agente del controllore) e di controllati. Sul piano della prassi, tuttavia
si deve constatare che tale profilo “teoricamente” delicato, costituisce un fattore di
“prevenzione” della conflittualità fra gli enti, soprattutto attraverso un monitoraggio
sistematico delle attività del direttivo del CSV che contribuisce a rendere maggiormente
fluidi i rapporti fra Co.Ge. e CSV.
La validità pratica del modello si realizza, massimamente, allorché il rappresentante
del Co.Ge. negli organi direttivi e di controllo dei CSV sia soggetto effettivamente “terzo”,
circostanza che accresce e sottolinea la funzione di “anello di congiunzione” svolto dal
rappresentante.
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c) L’istituzione del CSV (e la cancellazione) come “cartina di tornasole”
dell’estensione e dell’intensità del potere di controllo dei COGE
Il potere di istituzione del CSV è attribuito al Co.Ge. e disciplinato dall’art. 2, c. 6, lett.
b), D.M. 8 ottobre 1997, su istanza degli enti locali, delle organizzazioni di volontariato (in
questo caso, in numero non inferiore a cinque), di fondazioni di origine bancaria,
nell’ambito di bandi periodicamente emessi dai Comitati. Tali bandi debbono contenere
l’indicazione di criteri in base ai quali le istanze saranno valutate. Sulle istanze viene
acquisito dal comitato il parere non vincolante del Comune nell’ambito del quale il
Centro servizio avrà sede. A seguito dell’istituzione è disposto l’inserimento del CSV
nell’elenco regionale.
L’istituzione, pertanto, avviene in base ai criteri stabiliti nel bando e in relazione ai
contenuti dell’istanza (bozza di statuto, regolamento e progetto).
La cancellazione, invece, è disciplinata dall’art. 3, c. 5, D.M. 8 ottobre 1997. La
disposizione risulta avere, anche alla luce della prassi applicativa e degli orientamenti
interpretativi, una fondamentale importanza, al punto da configurarsi quale “pietra
angolare” del generale rapporto fra Co.Ge. e CSV.
La disciplina prevede che la cancellazione avvenga con provvedimento motivato,
nelle seguenti circostanze:
a) mancato svolgimento da parte del CSV delle funzioni istituzionali
ossia non svolga più attività a favore delle organizzazioni di volontariato;
b)
irregolarità e difformità nella gestione rispetto ai regolamenti;
c)
insorgere di nuove esigenze che impongano una ridistribuzione
territoriale dei CSV o una diversa funzionalità degli stessi.
La cancellazione opera automaticamente anche nel caso di cancellazione dal
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registro regionale delle organizzazioni di volontariato.
Le ipotesi di cui alle lettere a) e b) sono, indubbiamente, fattispecie di tipo
sanzionatorio, attivabili a seguito di attività di controllo del Co.Ge.
L’ipotesi sub c), invece, si riferisce ad una forma di monitoraggio della complessiva
attività dei CSV e delle organizzazioni di volontariato sul territorio. La disposizione, infatti, fa
riferimento all’ipotesi che «appaia opportuno una diversa funzionalità e/o competenza
territoriale in relazione ai centri di servizio esistenti» (art. 3, c. 5, u.p.): non dunque la
rilevazione di puntuali inadempienze da parte del CSV, bensì l’esercizio di un potere che
rimanda ad una più generale funzione di monitoraggio del sistema, di distribuzione delle
risorse e dalla raccolta di informazioni e dati rilevanti sulle attività.
Quest’ultima constatazione apre una prospettiva di fondamentale importanza
sull’estensione e sull’intensità dei poteri di controllo c.d. ex ante ed ex post. Il potere di
cancellazione, sia nella sua manifestazione sanzionatoria sia in quella di “monitoraggio”
del sistema, presuppone naturalmente un controllo che non sia di mera regolarità formale
degli atti e delle attività dei CSV, assumendo come parametro lo statuto ed i regolamenti
dei centri medesimi. Se, infatti, il potere di cancellazione è previsto con le finalità di cui
sopra, è consequenziale che la funzione di controllo si estenda alla progettazione ed alla
programmazione delle attività e non solo ai bilanci preventivi (controllo ex ante);
parimenti, il controllo sui bilanci consuntivi si estende all’effettiva realizzazione delle attività
programmate, all’utilizzo effettivo delle risorse assegnate, alla corrispondenza fra attivitàspese preventivate e attività-spese realizzate (controllo ex post).
Si può, tuttavia, affermare che la soft law, ovvero il diritto convenzionale formatosi
fra gli operatori del settore, sia in difficoltà a disciplinare questo aspetto. L’accordo del 30
novembre 2007 fra Consulta Co.Ge. e CSVnet in tema di Linee guida procedurali in
merito alla gestione e utilizzo del Fondo identifica una serie di atti ed attività sottoposti al
controllo prefigurando una “dinamica relazionale” molto complessa che si proverà, di
seguito, a descrivere.
d) Il controllo ex ante
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Il controllo ex ante si realizza – a tenore del D.M. - principalmente sul bilancio
preventivo del CSV, la cui trasmissione al Co.Ge. è prevista dall’art. 5, c.2, D.M. 8 ottobre
1997. Il bilancio preventivo è costituito da una parte contenente le previsioni contabili di
spesa ed una parte esplicativa delle attività programmate a favore del volontariato
(relazione).
Nella prassi, si è affermata la convenzione per cui il bilancio costituisce la sola
rappresentazione contabile dell’attività che il CSV intende porre in essere. Esiste, infatti
una convenzione che trova espressione nelle richiamate Linee guida procedurali in merito
alla gestione e utilizzo del Fondo che prevede la trasmissione da parte del CSV al Co.Ge.
di programmi pluriennali e di piani di attività annuali, i cui contenuti sono definiti
nell’ambito delle medesime Linee guida. L’elemento di interesse che concorre a definire
la funzione del Co.Ge. rispetto ai CSV è il sistema di poteri che il Comitato può esercitare.
Il piano pluriennale, infatti, che è costituito da una pluralità di informazioni
riguardanti sia la descrizione delle attività e delle relative previsioni di spesa, oltre ad una
serie di informazioni riguardanti l’organizzazione e la struttura del CSV, comporta uno
scambio di informazioni che culmina in un parere del Co.Ge. destinato ad orientare
l’attività annuale del CSV.
L’attività annuale del CSV è, invece, contenuta nel piano annuale delle attività, di
cui il bilancio preventivo costituisce la rappresentazione contabile, accanto ad una parte
descrittiva delle attività (che si inscriveranno all’interno dell’orizzonte pluriennale), ed alla
descrizione delle azioni annuali, al budget degli investimenti e dei costi di struttura. Al di là
degli aspetti procedurali concernenti la trasmissione del piano annuale e le variazioniintegrazioni dello stesso, risulta rilevante, ai nostri fini, evidenziare come su questi
documenti si sviluppi una “dialettica” che conduce i due “attori” del processo a
convergere su un risultato condiviso. I Co.Ge., infatti, si esprimono attraverso osservazioni
e condizioni che, operando sia sul piano del merito sia sul piano della legittimità,
conducono alla condivisione di un piano annuale delle attività che risponda
effettivamente alle esigenze delle organizzazioni di volontariato di riferimento.
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Diversamente opinando, limitando cioè il controllo del Co.Ge. al solo bilancio
preventivo (ex art.3, c.5, D.M. 8 ottobre 1997) si crea un’aporia di non poco conto con
riferimento a quanto previsto dall’art. 2, c. 6, lett. g) e, più in particolare, dall’art. 3, c.5.
Infatti, qualora si interpretasse il controllo in maniera restrittiva, il Co.Ge. sarebbe, sul piano
di fatto, impossibilitato ad esercitare il potere di cancellazione, non potendosi desumere
dalla mera rappresentazione contabile gli indici che il D.M. ritiene, invece, rilevanti ai fini
dell’esercizio del potere de quo.
La prassi, inoltre, conferma che la chiave di lettura che si è proposta in apertura –
ovverosia, quella del “controllo collaborativo” – costituisca già una realtà positivamente
affermatasi che conduce non ad una “sostituzione” della volontà del CSV con quella del
Co.Ge. (come potrebbe accadere nella versione più estrema del potere sanzionatorio),
né all’esercizio di un potere meramente persuasivo, bensì ad un percorso di
accompagnamento che parte, necessariamente, anche dal controllo ex post riferito al
piano pluriennale precedente ed al piano annuale conclusosi.
e) Il controllo ex post
Il controllo c.d. ex post, si realizza – a tenore del D.M. – essenzialmente sul bilancio
consuntivo del CSV (art. 3, c. 6, lett. f),art. 5, c.2, D.M. 8 ottobre 1997). Il controllo svolto dal
CSV deve essere letto alla luce delle indicazioni interpretative che sono state adottate nel
corso di questo lavoro. In effetti, le già richiamate Linee guida definiscono una
documentazione di rendicontazione molto ampia, ulteriormente arricchita dai dati
provenienti da altre fonti (anche a-tipiche, per così dire), quali le relazioni dei membri dei
CSV di nomina dei Co.Ge., le rilevazioni condotte d’intesa fra Co.Ge. e CSV.
Anche in questo caso, è il potere di cancellazione della qualifica di CSV che
costituisce l’unità di misurazione del potere del Comitato, e la sua natura “relazionale”
che ne definisce la modalità operativa.
Il potere di cancellazione, infatti, presuppone che il Co.Ge. sia messo in grado di
avere uno spettro di informazioni molto ampio, non limitato certamente alla sola
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rappresentazione contabile (pur necessaria) contenuta nel bilancio consuntivo. Nella
prassi, il CSV trasmette, accanto a questo documento (costituito da stato patrimoniale,
rendiconto gestionale, nota integrativa), anche il bilancio sociale ed un rendiconto
finanziario in grado di dare immediata evidenza alla relazione esistente fra le risorse
trasferite.
Il parametro di verifica sarà costituito dal bilancio preventivo, dal piano annuale (e,
più in generale, dal piano pluriennale), dal rispetto dei regolamenti e degli statuti, dai
risultati concretamente prodotti (efficacia) e dal rapporto fra risorse preventivate e risorse
effettivamente spese (efficienza).
Nella prassi, al di là del controllo di legittimità (che comporterà, in caso di esito
negativo, la necessità del riesame dei documenti o, nei casi più gravi, la cancellazione
della qualifica), si sviluppa necessariamente un percorso di acquisizione di informazioni e
di rilascio di indicazioni (articolate, anche in questo caso, nella formula delle osservazioni
e delle condizioni) che prefigurano un rapporto dialettico e di accompagnamento dei
CSV. Particolarmente appropriate a questa fase appaiono le osservazioni svolte dalla
richiamata
giurisprudenza
costituzionale
a
proposito
della
nozione
di
controllo
collaborativo, laddove sottolineano (C.cost. n. 29 del 1995) il “confronto ex-post tra la
situazione effettivamente realizzata con l'attività amministrativa e la situazione ipotizzata
dal legislatore come obiettivo da realizzare” verificando “se le procedure e i mezzi
utilizzati, esaminati in comparazione con quelli apprestati in situazioni omogenee, siano
stati frutto di scelte ottimali dal punto di vista dei costi economici, della speditezza
dell'esecuzione e dell'efficienza organizzativa, nonché dell'efficacia dal punto di vista dei
risultati”.
f) Considerazioni sul potere di “controllo” collaborativo dei COGE
Si è detto che il potere di cancellazione dei CSV costituisce la “cartina di tornasole”
per verificare l’estensione del potere di controllo dei Co.Ge.; allo stesso tempo, si è
provato a dimostrare come la natura propria del Co.Ge. di “ente federatore” costituisca
un elemento dal quale trarre indicazioni in merito alla tipologia del controllo svolto. Si è
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evidenziato come la prassi si sia già orientata in questa direzione, sviluppando – sul piano
del diritto convenzionale – una serie di relazioni fra Co.Ge. e CSV ispirate proprio ad una
estensione degli atti e delle attività soggette a controllo ed un rapporto fra soggetto
controllante e soggetto controllato ispirato al principio della collaborazione. Pare essere
questa la dimensione da sviluppare, nella prospettiva delle riforme, definendo con
maggiore chiarezza il piano normativo, attualmente affidato alle laconiche previsioni del
D.M. 8 ottobre 1997 e, soprattutto, agli atti di diritto convenzionale elaborati fra gli attori
del sistema coerentemente con l’impianto normativo definito dagli atti sub-secondari.
D’altra parte, sostenendo forme di controllo limitate al piano della legittimità ed ai soli atti
richiamati dal D.M., si asseconderebbe un processo di trasformazione della natura del
Co.Ge.
rispetto
al
ruolo
di
soggetto
regolatore
del
sistema,
attribuendogli
paradossalmente poteri molto incisivi, come quello di cancellazione della qualifica di
CSV, senza fornire gli strumenti necessari per quella “motivazione” del provvedimento di
cancellazione che il D.M. richiama come elemento essenziale della scelta. Peraltro, nella
prassi, i provvedimenti di cancellazione sono stati adottati raramente all’interno di un
quadro di relazioni particolarmente teso sfociato, quasi sempre, davanti al giudice
amministrativo.
Si è suggerito un ripensamento del potere di nomina di membri degli organi direttivi
e di controllo dei CSV da parte dei Co.Ge., non tanto nell’ottica di un depotenziamento
del ruolo dei Comitati, quanto, piuttosto, di un maggiore chiarimento dei rispettivi ruoli dei
due enti e dell’assunzione di un ruolo di controllo dotato di una migliore fisionomia sul
piano giuridico (essendo, oggi, del tutto fattuale il tipo di controllo svolto dai membri di
nomina Co.Ge. e le relazioni che quest’ultimi instaurano con i loro danti causa).
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VI. VERSO LA RIFORMA
a) L’art. 5, comma 1, lett. e), del disegno di legge S 1870.
Quali possibili novità si prospettano qualora fosse definitivamente approvato il DDL
S1870, già approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati ed attualmente
all’esame della I Commissione del Senato? Occorre ricordare, al riguardo, che non solo il
testo che qui si esamina è suscettibile di modifiche da parte dell’assemblea del Senato,
ma che altresì – trattandosi di un disegno di legge delega – saranno i decreti delegati a
definire compiutamente la disciplina legislativa della materia. Con tali caveat,
esaminiamo dunque le formulazione come approvata dalla Camera.
L’art. 5, comma 1, lett. e), stabilisce che i decreti delegati dovranno provvedere alla
“revisione del sistema dei centri di servizio per il volontariato, di cui all’articolo 15 della
legge 11 agosto 1991, n. 266”, sulla base dei principi e criteri direttivi che vengono
successivamente enunciati.
b) La “promozione” e la “gestione” dei Centri di servizio.
Il primo criterio prevede che detti Centri “siano promossi da organizzazioni di
volontariato per finalità di supporto tecnico, formativo e informativo degli enti del Terzo
settore e per il sostegno di iniziative territoriali solidali”. Proviamo ad analizzare tale
formulazione rispetto alla previsione legislativa attuale, per cercare di comprendere la
ratio delle modifiche auspicate dal legislatore.
Si andrebbe innanzitutto a modificare il rapporto tra organizzazioni di volontariato e
centri di servizio: mentre la formulazione attuale, infatti, prevede che detti centri siano “a
disposizione” delle OdV e “da queste gestiti”, nella nuova formulazione si prevederebbe
che gli stessi debbano essere “promossi” dalle OdV. Il che dovrebbe significare quanto
segue: ovvero che le OdV sarebbero gli unici soggetti cui è attribuito il compito di
promuovere l’istituzione di un CdS, mentre nella formulazione attuale della disposizione
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legislativa questo punto non è definito. In senso invece meno favorevole alle OdV, si deve
desumere dalla disposizione in esame che detti Centri non debbano più essere
necessariamente “gestiti” da OdV: ben potendo quindi essere gestiti da altre
organizzazioni, non necessariamente di volontariato (né tantomeno, quindi, iscritte nei
relativi registri).
In secondo luogo, si avrebbero novità in ordine alle finalità di tali Centri. La legge
attuale prevede, come si è detto, che lo scopo di essi è di “sostenere e qualificare
l’attività” delle OdV, mentre la formulazione del disegno di legge indica “finalità di
supporto tecnico, formativo e informativo degli enti del Terzo settore”. Due almeno gli
elementi da sottolineare. In primo luogo, la precisazione – e la conseguente delimitazione
– dell’ambito di attività di tali Centri: non più una generica opera di qualificazione
dell’attività delle OdV bensì soltanto un supporto di tipo tecnico (che sembra far
riferimento a servizi di carattere materiale, quali la messa a disposizione di spazi, materiali,
ecc.), di tipo formativo (ovvero la possibilità di corsi e percorsi di formazione,
approfondimento, e così via), nonché di tipo informativo (attività di aggiornamento,
conoscenza di eventi e situazioni, e così via). Da tale formulazione sembrerebbe doversi
escludere la possibilità aperta con la sopra richiamata Comunicazione del Ministro Turco,
ovvero la possibilità per i Centri di servizio di finanziare direttamente progetti di intervento
a favore delle singole OdV. Ma su questo punto occorre chiarire il senso della previsione
relativa al “sostegno di iniziative territoriali solidali”, che di per sé appare assai poco
chiara. Essa infatti potrebbe essere intesa a recuperare il contenuto della suddetta
Comunicazione, andandosi così di fatto a sovrapporre – tra l’altro - a quanto già devono
svolgere le fondazioni di origine bancaria11; ma forse potrebbe voler significare qualcosa
di più, dato che non può essere esclusa, dalla lettura della formulazione, l’ipotesi che
dette “iniziative territoriali solidali” possano essere promosse anche da parte di soggetti
diversi dalle OdV, quali altri enti del Terzo settore (cooperative, associazioni di promozione
sociale, ecc.) ma anche enti pubblici e, perché no?, enti ed imprese privati.
11 In tal senso v, l’intervento dell’on. Nicchi (Sel) in Commissione Affari sociali della Camera dei deputati
(seduta del 25 febbraio 2015), per la quale “con questa possibilità di intervento diretto si creerebbero delle
sovrapposizioni e delle confusioni che riteniamo sbagliate”.
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Oltre a questo, l’elemento di novità della nuova formulazione appare evidente:
l’attività dei Centri di servizio non sarebbe più indirizzata (soltanto) a vantaggio delle OdV
bensì di tutti gli “enti del terzo settore”. Si tratterebbe, qualora fosse approvata in via
definitiva, di una novità assai significativa, che costringerebbe, per coerenza, anche a
mutare la denominazione di tali Centri (non più di servizio per il volontariato bensì,
appunto, per il Terzo settore) e che dovrebbe coerentemente essere trasferita dalla
legge quadro sul volontariato per essere inserita nella parte generale del futuro codice
riferita a tutti gli enti del Terzo settore. Con tuttavia un ulteriore problema che qui soltanto
si accenna: è giustificabile un’attività di supporto tecnico, formativo e informativo a
vantaggio di enti che operano mediante criteri di imprenditorialità (le cooperative sociali,
forsanche le imprese sociali qualora si ritenessero queste ultime appartenenti al mondo
del Terzo settore) rispetto ad enti che pur svolgendo attività di utilità sociali non
possiedano altri requisiti per essere considerati appartenenti al Terzo settore? A ciò si
aggiunga una considerazione sul piano del merito della scelta del legislatore: estendere
la platea dei destinatari delle attività dei Centri di servizio significa sicuramente
penalizzare il volontariato, che in una logica di sistema della legislazione sul Terzo settore
dovrebbe godere di una posizione privilegiata in quanto strutturalmente più “debole”
rispetto agli altri enti. A tale proposito, pare opportuno suggerire che il legislatore
circoscriva il supporto dei CSV agli enti del Terzo settore - diversi dalle organizzazioni di
volontariato - per le sole attività riguardanti i volontari in essi impegnati.
c) La personalità giuridica dei Centri di servizio.
La seconda previsione contenuta nell’art. 5 del DDL di riforma impone ai Centri di
servizio di “costituirsi in una delle forme previste per gli enti del Terzo settore acquisendo la
personalità giuridica”. Tale previsione sembra superare, con un semplice tratto di penna, il
dibattito relativo alla distinzione tra soggettività giuridica del CSV in quanto tale e
soggettività giuridica dell’ente costituito CSV12: la formulazione infatti impone al CSV in
quanto tale, e non all’ente che ne ha assunto la qualifica, l’acquisizione della soggettività
giuridica. Ciò pone l’interrogativo di come si dovrebbe comportare un’associazione non
12 Su cui v. riassuntivamente il Rapporto di ricerca EURICSE n. 012/15, Natura giuridica e modelli organizzativi
dei centri di servizio per il volontariato, p. 22 ss.
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riconosciuta (ad esempio una OdV) qualora le fosse attribuita la qualifica di CSV: essa
dovrebbe acquisire la personalità giuridica (e questo è fuori discussione), ma non è chiaro
se ciò debba avvenire come tale (ovvero come associazione “originaria”) ovvero come
“Centro di servizio”? In altri termini, l’OdV (o qualsiasi altra organizzazione) che assuma
detta qualifica, deve staccare da sé il CSV per costituirne un ente autonomo (dotato di
personalità giuridica), oppure può mantenere su di sé la doppia qualifica, con l’obbligo
di registrarsi ed acquisendo la personalità giuridica? A noi pare che la formulazione della
disposizione, considerata nel suo significato letterale, imponga una scissione tra i due
soggetti; così superando, come si è detto, il dibattito sopra indicato e “trasformando” i
Centri di servizio in entità autonome: il che sarebbe coerente anche con la previsione
che detti CSV non debbano essere più “gestiti” dalle OdV (come è attualmente) bensì
semplicemente da queste “promossi”. Ed una volta che tale “promozione” si sia realizzata
mediante la costituzione del centro, quest’ultimo dovrà avere la propria autonomia,
coerentemente con il riconoscimento della personalità giuridica. Va anche avvertito –
ma ciò è di tutta evidenza – che la nuova formulazione legislativa impone il superamento
del DM del 1997 nella parte in cui prevede che l’ente-CSV possa essere (soltanto) o una
OdV ovvero un’entità giuridica costituita da OdV e con presenza maggioritaria di esse
(art. 3, comma 3, lett. a) e b)): i CSV potranno infatti avere la forma di associazione
(riconosciuta) ed anche di fondazione e di società (come già viene riconosciuto in base
alla normativa vigente13), senza che sia più necessario per essi né la qualifica di OdV né
tantomeno la presenza maggioritaria delle stesse organizzazioni, a condizione che siano
costituiti in una delle forme previste per gli enti del Terzo settore.
d) Le forme di finanziamento dei centri di servizio.
Il terzo aspetto dell’articolo in esame riguarda le forme di finanziamento: nel punto 3
della lett. e) si stabilisce infatti che “al loro finanziamento si provveda stabilmente,
attraverso una programmazione triennale, con le risorse previste dall’articolo 15 della
legge 11 agosto 1991, n. 266, e che, qualora si utilizzino risorse diverse, le medesime siano
comprese in una contabilità separata”. Quanto all’ammontare delle somme dovute dalle
13 Rapporto di ricerca EURICSE n. 012/15, cit., p. 28.
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fondazioni di origine bancaria nulla cambierebbe: il rinvio operato all’art. 15 della legge
n. 266 del 1991 intende mantenerne l’impianto ed il conseguente criterio di individuazione
delle somme. I cambiamenti riguarderebbero invece due aspetti: la programmazione
triennale e la previsione di una contabilità separata per l’utilizzo di risorse diverse rispetto a
quelle di cui alla legge sul volontariato. Come sembra evidente, le due previsioni si
riferiscono a soggetti diversi: la seconda sicuramente ai CSV (i quali quindi dovranno
tenere una doppia contabilità: la prima riferita alle somme loro destinate dagli organismi
regionali e nazionali di cui si dirà; la seconda alimentata da eventuali altre entrate),
mentre la prima sembra riguardare in prima battuta gli organismi di gestione (e,
conseguentemente, le fondazioni di origine bancaria), e di riflesso, gli stessi CSV. Il
superamento di una logica annuale di attribuzione delle risorse a vantaggio di un
intervento sulla base di una programmazione triennale (attribuzione di risorse non significa
necessariamente trasferimento: questo può avvenire anche in tempi diversi, e
prevedibilmente sulla base di un programma annuale coerente con la programmazione
triennale) mira infatti a coinvolgere tutti gli attori nel processo programmatorio: i CSV
dovranno predisporre infatti programmi triennali delle attività che si propongono di
realizzare; le fondazioni dovranno prevedere uno stanziamento su base triennale; gli
organismi di gestione dovranno approvare i programmi triennali presentati dai CSV e sulla
base di essi attribuire le risorse. Il che ovviamente può comportare qualche problema in
sede applicativa: le fondazioni, infatti, dovranno operare una previsione delle somme da
mettere a disposizione anche per gli anni successivi alla gestione in corso (dovendo dare
una sorta di pronostico sulle risorse effettivamente disponibili); la verifica dell’attività svolta
dai CSV dovrebbe essere completata alla fine del triennio di riferimento, ma con la
possibilità di intervenire qualora al termine del primo anno o successivamente il
programma non sia stato rispettato, e così via.
e) Gli organismi di controllo dei centri di servizio e la loro articolazione
territoriale.
Il quarto punto preso in considerazione dal DDL di riforma riguarda quegli organismi
non espressamente previsti dalla legge quadro del 1991, ma introdotti dal DM del 1991 e
confermati da quello del 1997. Nell’attuale dizione essi sono definiti, come si è detto,
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“Comitati di gestione” dall’art. 2 del DM del 1997, mentre la formulazione della novella
legislativa parla di “organismi regionali e nazionali” cui verrebbe affidato “il controllo delle
attività e della gestione” dei CSV. Un primo dubbio interpretativo riguarda la coincidenza
– o meno – tra i due riferimenti: detto in altri termini, detti “organismi regionali e nazionali”
corrispondono agli attuali Co.Ge. o vanno ritenuti come una diversa entità? Il dubbio è
alimentato dalla relazione del sen. Lepri (relatore in I Commissione Affari costituzionali del
Senato del DDL di riforma), nella quale si legge che detti organismi di controllo sono
“destinati ad assumere anche i compiti e le funzioni degli attuali Co.Ge.”: il che
sembrerebbe supporre una diversa consistenza dei due organismi, con quelli “nuovi” che
dovrebbero configurarsi diversamente dai primi ed assorbirne le relative funzioni (oltre,
evidentemente, a svolgerne altre). Al di là di tale profilo, che tuttavia potrebbe essere
superato dall’analisi delle relative funzioni e delle norme regolanti l’organizzazione, merita
sottolineare che detti organismi verrebbero significativamente ad essere previsti e
disciplinati a livello di legislazione ordinaria: mentre allo stato degli atti, come si è detto, la
loro previsione è limitata ad una fonte di livello secondario quale il decreto ministeriale.
Ciò varrebbe indubbiamente a rafforzarne il ruolo ed i relativi poteri, facendone parte
integrante del sistema di realizzazione della finalità cui la legge è ispirata.
Il secondo aspetto che merita considerare riguarda la natura territoriale di detti
organismi, con riferimento alla previsione che li indica come “regionali e nazionali”. Ciò
dovrebbe aprire ad un superamento della situazione attuale: nella quale, come noto, i
Co.Ge. hanno carattere regionale. Tale evoluzione può risultare dirompente, ed è al
momento di difficile previsione. Astrattamente parlando, si possono immaginare due
ipotetiche soluzioni. La prima induce a supporre un sistema di tipo piramidale, con un
livello nazionale sovraordinato (non necessariamente in termini gerarchici, ma almeno
con poteri di coordinamento) ed un livello regionale sostanzialmente analogo a quello
attuale (con solo qualche eventuale intervento di accorpamento delle realtà regionali
più piccole e omogenee). Se così fosse, il risultato sarebbe di un evidente aumento della
complessità del sistema, i cui benefici peraltro non appaiono di immediata evidenza;
forse si potrebbe ritenere che in tal modo sia possibile perseguire una maggiore
omogeneità nei comportamenti dei Co.Ge.: ma certo ciò potrà dipendere dagli effettivi
poteri attribuiti all’organismo nazionale nei confronti di quelli regionali. L’altra possibilità è
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di un modello di tipo reticolare, nel quale cioè organismi nazionali e regionali svolgano le
medesime attività in relazione a destinatari diversi (ovvero a CSV diversi): ciò dovrebbe
presupporre che anche i CSV si organizzino sia su scala nazionale che regionale (nel DDL
non vi è alcuna indicazione circa la natura esclusivamente regionale di essi). In tal modo
l’organismo nazionale di controllo dovrebbe trasferire i fondi ai CSV nazionali e verificarne
l’operato; quelli regionali continuerebbero, come ora, ad operare nei confronti dei CSV
del proprio territorio. Se ciò fosse, bisognerebbe definire in che modo saranno alimentati i
fondi a disposizione del livello nazionale, ed in quale misura dunque le fondazioni
dovranno trasferire quanto dovuto al livello nazionale ed a quello regionale. Pare a chi
scrive che, complessivamente valutando, la prima soluzione appaia assolutamente
preferibile, se proprio si intende seguire la strada di un doppio livello di organi di controllo
su base territoriale.
f) Le funzioni degli organismi di controllo.
La successiva previsione normativa riguarda le funzioni che verrebbero attribuite a
detti organismi: in particolare, di provvedere “al controllo delle attività e della gestione”
dei CSV.
Tale previsione rafforza indubbiamente la posizione, il ruolo e le responsabilità di
detti organismi, sia rispetto alla legge vigente (nella quale, lo si ricorda, nulla si dice circa
tali organismi), ma anche con riguardo ai decreti ministeriali richiamati. Operando un
raffronto con quanto in essi previsto, si osserva che nel DDL non è espressamente
attribuita a tali organismi la decisione circa l’istituzione dei CSV: nondimeno ci pare che
quella funzione debba essere confermata, anche perché strettamente connessa
all’attività di controllo, oltre che non attribuita ad altri soggetti (né sarebbe facilmente
ipotizzabile a chi possa essere attribuita in alternativa). In tal caso andrebbero
confermati, in quanto logicamente connessi, i compiti di istituzione dell’elenco regionale
e di cancellazione da essi dei CSV risultanti deficitari a seguito dei controlli svolti (con tutte
le funzioni a ciò correlate che si sono indicate in precedenza).
Circa gli altri compiti, il DM del 1997 attribuisce ai Co.Ge., come si è detto, due
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funzioni: la nomina di un membro degli organi deliberativi e di un membro degli organi di
controllo dei CSV; nonché la verifica della regolarità dei rendiconti approvati dai CSV. A
tali compiti, il DDL sostituirebbe una previsione di carattere più generale (e notevolmente
più ampia), vale a dire il “controllo delle attività e della gestione”. Valutiamo innanzitutto
se la nuova previsione assorbe interamente la precedente. E’ evidente, al riguardo, che i
poteri di nomina indicati sono finalizzati alla realizzazione di forme di controllo: in quanto
tali essi, potrebbero essere mantenuti, sebbene possa risultare maggiormente rispettoso
del principio della separazione di ruoli tra controllori e controllati che ai Co.Ge. sia
attribuito il compito di nominare un membro (o anche più) dell’organo di controllo dei
CSV, piuttosto che essere coinvolto nella responsabilità della gestione amministrativa dei
CSV stessi. E’ bensì vero, al riguardo, che negli organi di amministrazione dei CSV il Co.Ge.
dovrebbe comunque nominare un soggetto terzo, vale a dire non appartenente al
Co.Ge. stesso (come avviene, già oggi, nella prassi di alcune realtà), a garanzia della
opportuna distinzione tra amministrazione e controllo (si veda, a tal proposito, quanto
sostenuto supra).
Circa poi la verifica della regolarità dei rendiconti, non pare dubbio che essa debba
essere senz’altro ricompresa nell’ambito del controllo sulla gestione dei CSV.
Per quanto attiene alle “nuove” funzioni che verrebbero attribuite agli organismi di
controllo, occorre operare qualche precisazione. Un recente studio, basato sulla
situazione normativa in essere, concludeva nel senso che “la vigente normativa statale
non attribuisce ai Co.Ge. alcun potere di valutazione del merito (…) delle attività dei
CSV”, in quanto “i CSV sono gestiti da OdV e non già dai Co.Ge. o da altri soggetti 14”.
Stando a tale linea ricostruttiva, siccome nel DDL i CSV non sarebbero più “gestiti” da
OdV, se ne dovrebbe trarre la conseguenza opposta, o perlomeno che non vi è alcuna
preclusione al potere dei COGE di valutazione del merito delle attività dei CSV. Se poi si
aggiunge che agli stessi organismi verrebbe attribuita una funzione di “controllo delle
attività”, forse la conclusione dovrebbe essere opposta. Tuttavia si ritiene necessario, in
una materia delicata come questa, non agire sulla base di una logica contrappositiva e
“avvocatesca”, bensì ragionare con equilibrio al fine di individuare la soluzione più
14 Rapporto di ricerca EURICSE n. 012/15, cit., p. 18.
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bilanciata e rispettose delle diverse istanze. Per questa ragione ci pare che il criterio da
perseguire sia quello della distinzione più netta e chiara possibile tra “gestione” e
“controllo”: da un lato, attribuendo la gestione ai CSV, da intendersi come possibilità di
scegliere le soluzioni ritenute più opportune ed adeguate al perseguimento delle finalità
generali della legge e specifiche del sistema di cui all’art. 15, coerentemente con la
programmazione (triennale, come previsto dal DDL, che poi verrà verosimilmente
articolata su base annuale) elaborata ed approvata dagli stessi CSV. Al contempo, pare
necessario che detta gestione sia attentamente valutata e controllata: senza che tale
controllo investa il merito della discrezionalità attribuita al CSV, ma con l’attenzione a che
l’attività posta in essere corrisponda non soltanto ai requisiti di legge, ma anche alle
previsioni
contenute
nel
documento
di
programmazione.
Come
realizzare
concretamente ed efficacemente tale equilibrio non è possibile in questa sede
specificare: e tuttavia è evidente – almeno ci pare – che il controllo “dell’attività e della
gestione” non possa operarsi soltanto in sede di bilancio consuntivo.
g) I costi di funzionamento degli organismi di controllo.
L’ultimo aspetto da sottolineare, relativamente al testo di riforma, riguarda i costi e le
spese di funzionamento di detti organismi nazionali e regionali: la loro costituzione deve
essere infatti ispirata a “criteri di efficienza e di contenimento dei costi di funzionamento, i
quali non possono essere posti a carico delle risorse di cui all’art. 15 legge n. 266 del
1991”.
Attualmente, i costi di funzionamento del Co.Ge., sul piano normativo, sono
disciplinati dal D.M. 8 ottobre 1997 (art. 2, c.4), con la formula criptica: “nella misura
strettamente necessaria”. Dare un contenuto normativo a questa espressione, appare
difficile, specialmente se si considera che l’art. 2, c.3 prevede la gratuità dell’incarico di
membro del Co.Ge., fatto salvo il rimborso delle spese. Sul piano normativo, la circolare
Ossicini del 1996, prevede, fra l’altro, che sia opportuno prevedere e vincolare «un
importo non superiore al 10% delle entrate di ciascun Centro derivanti dai trasferimenti dal
Fondo regionale in argomento, ferma restando per i singoli Centri di servizio la possibilità di
riacquistare la piena disponibilità delle somme così vincolate e non utilizzate per la
copertura pro-quota delle spese del Comitato di gestione in ciascun esercizio».
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Anche su questo piano ha operato una significativa intesa ha disciplinato questo
tema, individuando per il triennio 2013-2015 una assegnazione complessiva per la spesa di
funzionamento dei Co.Ge. di 2,1 milioni di Euro, di cui 190.000 Euro circa per i rimborsi ai
266 componenti, 80.000 Euro di imposte e 98.000 Euro di contributo per il funzionamento
della Consulta nazionale.
Sul primo aspetto della proposta normativa, quindi, vi è poco da dire: si tratta di una
previsione contenente un obiettivo che, forse, dovrebbe essere perseguito in base a
principi generali dell’ordinamento, e cioè anche in assenza di una specifica previsione.
Tuttavia, repetita iuvant, e perciò ben venga l’invito del legislatore ad essere efficienti ed
utilizzare bene le risorse: invito che dovrebbe intendersi rivolto alle regioni (per gli
organismi a base regionale) e forse al Governo (per quelli nazionali), nonché alle
fondazioni di origine bancaria.
Più interessante è invece l’altro punto, che esclude la possibilità di porre a carico
delle risorse spettanti ex art. 15 i costi di funzionamento di detti organismi. L’evidente
conseguenza di tale previsione dovrebbe essere che detti costi siano posti a carico di
“altro”, e può immaginarsi che il legislatore intenda questo “altro” proveniente dalle
fondazioni di origine bancaria (è difficile infatti immaginare, nell’attuale contesto
economico, che i costi vengano imputati agli enti regionali o locali, sebbene ciò non sia
da escludere in linea teorica e di coerenza sistematica). Proviamo dunque a valutare le
conseguenze di questa ipotesi.
In primo luogo, una logica ed immediata conseguenza sarebbe l’aumento delle
risorse che le fondazioni devono mettere a disposizione di questo sistema: in ciò si
ritornerebbe parzialmente indietro rispetto agli effetti prodotti dal decreto Visco. In
secondo luogo, se sono le fondazioni a dover sostenere interamente le spese, al di fuori
del budget già destinato per il sistema, è verosimile ritenere che ad esse debba essere
consentito decidere le modalità di funzionamento degli organi ed anche il loro numero
(nonché la scelta se prevedere la partecipazione a titolo gratuito o a titolo oneroso).
Vi sarebbe poi un aspetto da considerare: i costi di gestione dei CSV rimarrebbero
nel perimetro dei fondi ex art. 15, quelli dei Co.Ge. no. Sarebbe razionale tale
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differenziazione? In fondo, i due organismi costituiscono un unico sistema, ed entrambi
operano per il perseguimento del medesimo obiettivo: qualora fosse approvato in questa
versione il DDL di riforma ai CSV sarebbe assicurata una copertura dei costi di
funzionamento certa in quanto imposta dalla legge, mentre per gli organismi di controllo
la decisione sull’an e sul quantum della copertura delle spese sarebbe di volta in volta
rimessa alla discrezionalità dei soggetti finanziatori. Se poi questi fossero (unicamente) le
fondazioni bancarie, i relativi costi andrebbero sottratti alle altre destinazioni cui queste
sono tenute in base ai rispettivi statuti. A tale riguardo occorre ricordare che il decreto
legislativo 17 maggio 1999 n. 153, emanato sulla base della delega conferita al governo
con l. 23 dicembre 1998 n. 461, prevede, all’art. 8, una puntuale previsione circa la
destinazione del reddito delle fondazioni. In forza di detta previsione, detto reddito è
destinato, «secondo il seguente ordine»:
a) alle spese di funzionamento;
b) agli oneri fiscali;
c) alla riserva obbligatoria;
d) ai settori rilevanti, per almeno il cinquanta per cento del reddito residuo;
e) ad eventuali altri fini statutari, al reinvestimento del reddito o a accantonamenti e
riserve facoltativi previsti dallo statuto o dall’autorità di vigilanza;
f) alle erogazioni previste da specifiche norme di legge.
Tale puntuale previsione pose un profilo di compatibilità con l’art. 15 della legge n.
266/91: secondo quest’ultima la quota di un quindicesimo deve infatti essere calcolata
sostanzialmente sull’intero (salve le spese di funzionamento e la riserva obbligatoria); per il
decreto legislativo, invece, occorre seguire l’ordine riportato. Pertanto, le erogazioni
previste da specifiche norme di legge (tra le quali quella della legge sul volontariato)
devono effettuarsi sulla differenza tra il reddito complessivo e tutte le varie voci prima
elencate. Sui tale profilo va anche ricordato come la sentenza del Tar Lazio, sez. III, 13
aprile 2005, ha affermato che in tal modo la legge “ha inteso privilegiare i settori rilevanti,
non a caso inseriti nell’art. 2 della legge (natura e scopi delle fondazioni) rispetto alle
organizzazioni di volontariato trattate all’art. 3 (modalità di perseguimento degli scopi
statutari)”.
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La decisione del Tar deve pertanto essere considerata in relazione al punto in questione:
giacché con la previsione del DDL, come si è detto, i costi di funzionamento dei futuri
Co.Ge. dovranno essere dedotti dalle altre voci, con conseguente contraddizione
rispetto a quel criterio indicato nella sentenza del giudice amministrativo.
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VI. IN CONCLUSIONE
Il presente rapporto ha cercato di ricostruire, attraverso la disciplina organizzativa
prevista e le funzioni attribuite, il ruolo e la collocazione istituzionale dei Comitati di
gestione, regolati da fonti – sin qui almeno – di rango secondario, sulla base dei
presupposti indicati dall’art. 15 della legge n. 266 del 1991. E’ stata analizzata la ricca e
rilevante giurisprudenza costituzionale che si è formata sul punto, nel contesto più
generale della disciplina giuridica dell’attività di volontariato, per cercare di definire con
compiutezza il quadro regolatorio vigente. Si è inoltre dato conto della situazione
operativa del sistema costituito dai comitati di gestione e dai centri di servizio per il
volontariato: un sistema, come si è rilevato, dagli equilibri assai delicati ma il cui buon
funzionamento è garanzia per la corretta gestione dei fondi che la legge quadro richiede
di mettere a disposizione delle organizzazioni di volontariato. In altri termini, possiamo dire
che il complessivo sistema mira a rendere efficace l’intento solidaristico che ha ispirato il
legislatore del 1991, valorizzando l’apporto delle fondazioni di origine bancaria a
vantaggio di quelle organizzazioni che hanno nella gratuità dell’impegno a vantaggio di
altri la cifra della loro identità.
Il quadro ha fatto emergere la fondamentale dimensione “relazionale” dei comitati
di gestione, che potremmo definire come i “soggetti del dialogo” fra i diversi attori del
sistema indicato. Attori che sono costituiti, in primo luogo, dagli enti finanziatori dei fondi
speciali, i quali gestiscono risorse economiche dovendole utilizzare a fini di utilità sociale,
perseguendo scopi di "interesse pubblico e di utilità sociale preminentemente nei settori
della ricerca scientifica, dell'istruzione, dell'arte e della sanità" (come ricordato anche
dalla Corte costituzionale). E’, quest’ultimo, un aspetto che merita di essere richiamato: i
fondi che le fondazioni di origine bancaria trasferiscono, in forza della legge, ai comitati di
gestione e per il loro tramite ai centri di servizio per il volontariato, sono fondi che non
vengono destinati ad altri scopi di interesse pubblico e di utilità sociale. E ciò per una
scelta compiuta dal legislatore, il quale ha evidentemente ritenuto preminente le finalità
perseguite con quelle più generalmente previste, ma che proprio per questo richiede un
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attento monitoraggio del corretto utilizzo di detti fondi, in quanto le finalità delle
fondazioni consiste nell’operare – con tutti i fondi a loro disposizione – per il
perseguimento di finalità di interesse generale.
Il secondo soggetto del dialogo in questione è costituito dai Centri di servizio,
terminali dell’azione dei Co.Ge. e loro interlocutori privilegiati nel disegno normativo. Il
Rapporto ha sottolineato la delicatezza e l’importanza dei rapporti tra i due organismi,
insieme alla necessità di definire regole chiare che consentano il mantenimento di
rapporti di piena collaborazione e di efficacia nell’azione.
Ma non può dimenticarsi anche la relazione tra i comitati di gestione e gli enti
territoriali: questi ultimi contribuiscono infatti alla costituzione dei Co.Ge. e, al contempo,
sono i soggetti di interlocuzione necessaria per quanto riguarda gli interventi da realizzare
sul territorio, in una prospettiva di progettualità sociale che dovrebbe costituire la base
per un efficace intervento sociale.
Per queste ragioni abbiamo voluto sottolineare, nel presente rapporto, il ruolo che si
è definito “relazionale” e “dinamico” dei Co. Ge., considerati come sistema in sé e come
parte di un sistema più ampio.
Proprio per tale alta funzione, tale sistema più ampio richiede di essere esaminato
con attenzione, attesa la sua configurazione in evoluzione: e ciò non soltanto in ragione
delle frequenti variazioni del quadro normativo “esterno” (ma ovviamente incidente
anche sul sistema indicato), quanto anche – e forse soprattutto - per consentire ai
soggetti che ne sono protagonisti di rendersi adeguati ai cambiamenti istituzionali e
sociali, e quindi di rimanere fedeli alla loro ragion d’essere. Per tali ragioni l’analisi è stata
condotta con riguardo all’evoluzione giuridica e storica degli istituti, come anche alla sua
configurazione attuale; sia infine con riguardo alle prospettive che si potrebbero aprire
con l’approvazione del disegno di legge governativo.
A quest’ultimo riguardo, il momento che stiamo vivendo può rivelarsi di estrema
importanza e di particolare delicatezza. Opportunamente, infatti, il legislatore sta
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intervenendo su tutta la materia del Terzo settore, operando per giungere ad una
revisione organica della relativa disciplina: revisione che è stata da tempo invocata e la
cui esigenza appare indifferibile. All’interno di tale disegno riformatore, realizzato con
l’A.C. 2617, approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati ed attualmente
all’attenzione del Senato della Repubblica, il legislatore intende ridefinire anche il ruolo e
le funzioni dei centri di servizio per il volontariato ed il sistema dei relativi controlli, come si
è cercato di analizzare in questa sede.
Il testo attuale contiene sicuramente alcuni aspetti positivi e la sua approvazione
potrà costituire – per quanto riguarda i profili qui esaminati – un significativo
miglioramento del funzionamento e dell’operatività di tutto il sistema. Nondimeno,
permangono alcuni aspetti che dovranno costituire oggetto di ulteriore attenzione e
riformulazione, e la cui positiva soluzione consentirà di chiarire alcuni nodi problematici
ancora irrisolti.
L’auspicio è che il lavoro del Senato, prima in Commissione e successivamente in
Assemblea, possa offrire al legislatore delegato gli elementi essenziali perché tutto il
sistema possa positivamente orientarsi e consolidarsi in senso virtuoso, a vantaggio di
quelle finalità che i padri e le madri della legge n. 266 del 1991 indicarono con grande
lungimiranza.
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APPENDICE
La giurisprudenza costituzionale rilevante
Sentenza n. 75 del 1992
Nella sentenza n. 75 del 1992 si rinvengono alcune importanti affermazioni della
Corte circa la “collocazione” che ha il volontariato nel sistema costituzionale.
La sentenza n. 75 del 1992 nasce da ricorsi delle Province autonome di Bolzano e
Trento, che la Corte riunisce in quanto prospettano questioni identiche o connesse, le
quali concernono soprattutto parametri costituzionali ricavabili dallo Statuto speciale. Nel
dichiarare infondate le questioni, la Corte ricostruisce il ruolo e i fondamenti costituzionali
del volontariato. Essa afferma che «il volontariato costituisce […] un paradigma
dell'azione sociale riferibile a singoli individui o ad associazioni di più individui », e quindi
non può essere considerato una materia. Per la Corte, «il volontariato […] è […] la più
diretta realizzazione del principio di solidarietà sociale». Data la rilevanza e la centralità
che il volontariato ha nell’assetto costituzionale, al legislatore statale è chiesto
principalmente di assicurare una certa uniformità su tutto il territorio nazionale, innanzi
tutto con riguardo ai requisiti essenziali attinenti ai caratteri strutturali, all'autonomia
interna e alla trasparenza delle organizzazioni di volontariato, la cui ricorrenza è
configurata come condizione necessaria perché tali organizzazioni possano beneficiare
delle agevolazioni e delle strutture di servizio o di sostegno previste dalla legge medesima.
Con riguardo allo specifico tema del finanziamento del volontariato, la Corte,
trattando l’art. 10, comma 2, lettera e) della legge, dice che aspetti indefettibili della
disciplina pubblica del volontariato sono le forme di finanziamento e gli interventi di
sostegno, poiché, in loro mancanza, risulterebbero frustrati i valori costituzionali sottesi al
riconoscimento e allo sviluppo del volontariato.
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In relazione al peculiare tipo di finanziamento previsto dall’art. 15 della legge, la
Corte spiega che, attraverso il meccanismo previsto, il legislatore ha prefigurato una
soluzione organizzativa che, tendendo a salvaguardare l'autonomia delle attività di
volontariato, anche in relazione a condizionamenti derivanti dalla gestione pubblica dei
servizi di sostegno a favore delle stesse attività, individua nella costituzione dei fondi
speciali presso le regioni o le province autonome «non già una funzione conferita o
demandata a tali enti autonomi, ma, più semplicemente, la collocazione e la operatività
spaziale dei fondi medesimi: le regioni e le province autonome, in altri termini, denotano
nelle disposizioni impugnate l'ambito territoriale in relazione al quale quei fondi vanno
costituiti e resi operanti». Pertanto, la quota di risorse che gli enti individuati dall’art. 15
devono erogare sono funzionali alla salvaguardia dell’autonomia del volontariato. Alla
luce di ciò, le Regioni non possono lamentare violazioni di loro prerogative. La materia
interessata è quella (statale) dell’ordinamento degli istituti di credito, e non quella
(regionale o provinciale) dell’assistenza e beneficenza pubblica. Pertanto, anche la
previsione del decreto attuativo del Ministro del Tesoro non viola la Costituzione.
Sentenza n. 355 del 1992
La sentenza n. 355 del 1992 decide un conflitto di attribuzione sorto a seguito del
ricorso della Regione Lombardia e delle Province autonome di Trento e di Bolzano contro
il decreto ministeriale 21 novembre 1991 “Modalità per la costituzione dei fondi speciali
per il volontariato presso le Regioni”.
La Corte accoglie le censure formulate nei confronti dell’art. 6 del decreto, il quale
stabilisce che "le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e Bolzano
disciplinano con proprio provvedimento, tenendo conto delle rispettive realtà locali,
quanto previsto nei precedenti articoli 2, 3, 4 e 5, nel rispetto dei principi contenuti nella
legge n. 266 del 1991 e dei criteri risultanti dalle norme del presente decreto". La Corte
ravvisa una violazione del principio di legalità sostanziale e sottolinea che, con un
semplice atto amministrativo privo di qualsiasi base legislativa, si demanda alle Province
stesse la disciplina di determinati oggetti (segnatamente: l'istituzione e la gestione di fondi
speciali, l'organizzazione, i compiti e le modalità di funzionamento dei centri di servizio),
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producendo
così
un'illegittima
interferenza
nei
confronti
delle
competenze
costituzionalmente riconosciute all'autonomia delle ricorrenti. Invece, viene respinta la
censura proposta avverso l’art. 2 del decreto, nella parte in cui, nell'istituire presso ogni
regione (o provincia autonoma) un fondo speciale nel quale sono contabilizzati gli importi
segnalati dagli enti e dalle casse di risparmio indicati nel primo comma dell'art. 1 dello
stesso decreto, dispone che tali somme costituiscono patrimonio separato avente
speciale destinazione, di pertinenza degli stessi enti e casse. Infatti, il decreto impugnato è
coerente col sistema stabilito dal legislatore, in cui, non c'è spazio per poteri di disciplina o
di disposizione delle regioni o delle province autonome o per esigenze di coordinamento
della finanza statale con quella regionale.
Viene, tuttavia, considerato invasivo delle competenze delle Province autonome
l’art. 2, secondo comma, del decreto impugnato, nella parte in cui, nel definire la
composizione del comitato di gestione dei fondi speciali, designa direttamente gli organi
regionali o provinciali che vi partecipano o che sono tenuti a nominare ulteriori
rappresentanti. Infatti, lo Stato non può individuare gli organi o gli uffici regionali o
provinciali da includere nella composizione di altri organi - pur se sottoposti alle
competenze statali - ma dovrà lasciare che siano le regioni o le province autonome a
designare le rappresentanze di propria competenza o a individuare i propri organi o uffici
destinati a rappresentare l'ente di appartenenza.
Non sono accolte, invece, le censure nei confronti dell’art.3 (che esclude le
province autonome dalla disciplina della costituzione e del funzionamento dei centri di
servizio), nonché dell’art. 1, primo comma e dell’art. 5, in quanto queste disposizioni
concernono i circuiti che si instaurano tra enti creditizi, fondi speciali, comitati di gestione
e organizzazioni di volontariato, da cui le Province autonome (e le regioni ) sono state
legittimamente escluse.
Non viola le competenze delle Province nemmeno l’art. 4, che pone le finalità
generali in vista del raggiungimento delle quali opereranno i centri di servizio, in quanto il
perseguimento di tali finalità sarà soggetto alla disciplina statale ovvero a quella
regionale (o provinciale) a seconda che le attività di volontariato poste in essere
ineriranno a materie riservate allo Stato ovvero a quelle attribuite alle regioni (o alle
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province autonome).
Sentenza n. 500 del 1993
La pronuncia n. 500 del 1993 decide alcune questioni di legittimità costituzionale
gravanti sull’art. 15 della legge-quadro sul volontariato, e, in particolare, sia sul primo che
sul secondo comma. La Corte individua tre gruppi di profili di incostituzionalità.
Il primo gruppo comprende gli artt. 2 e 3 della Costituzione. Le censure sono
molteplici. Tra le altre, si ricordano quelle relative alla violazione del principio di
autonomia del movimento del volontariato nei suoi rapporti con lo Stato e gli enti locali, e
a varie discriminazioni tra enti.
La Corte sottolinea che il principio di solidarietà sociale costituisce un modo per
concorrere alla realizzazione del principio di eguaglianza sostanziale, da un lato, e, dall’altro,
mira ad ottenere - anche dai cittadini- la collaborazione per conseguire essenziali beni
comuni quali la ricerca scientifica, la promozione artistica e culturale, nonché la sanità (cons.
in dir., 5). Dunque, la Corte dichiara la necessità di una collaborazione da parte di tutti i
soggetti, pubblici e privati, appartenenti alla Repubblica. Le critiche emerse nei confronti di
diversi aspetti dell’assetto normativo (in particolare con riguardo alla giustificazione e alle
funzioni delle strutture intermedie, alla composizione in numero pari del comitato di gestione e
all’esigenza di rivedere la composizione a seguito della sentenza C. cost. n. 35 del 1992)
mettono in luce lacune o incongruenze della normativa, le quali, però, non rendono la legge
incostituzionale per irragionevolezza (cons. in dir., 6). Piuttosto, la Corte costituzionale richiama
la sentenza n. 75 del 1992, in cui aveva fatto riferimento alla necessità di forme di
finanziamento e di interventi di sostegno da prevedere a favore delle organizzazioni di
volontariato, per realizzare i valori costituzionali sottesi al volontariato stesso: «onde
l'importanza della norma denunziata»27.
Per quanto riguarda la “segmentazione ingiustificata nell'ambito della stessa
categoria degli enti creditizi”, la Corte afferma che essa non è stata operata dalla norma
che costituisce oggetto formale del giudizio, ma da fonti non coinvolte nella questione28.
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La Corte precisa anche che gli enti pubblici conferenti di cui all’art. 15, comma 1° hanno
perduto la originaria natura creditizia, in quanto tale attività è stata per intero trasferita
alla s.p.a., e non perseguono più scopi di lucro, ma solo fini di interesse pubblico e di
utilità sociale.
Il secondo gruppo di questioni riguarda gli art. 24, 41 e 47 Cost. In particolare, si
denunzia la violazione degli articoli 41 e 47 della Costituzione perché, imponendo la
costituzione di fondi speciali come patrimoni separati, si sarebbe realizzata una
irragionevole intrusione dei pubblici poteri sul libero assetto imprenditoriale di enti che,
anche se pubblici, operano nel sistema di mercato del risparmio e del credito.
Anche con riferimento a questo gruppo di censure, la Corte perviene ad una
decisione di infondatezza. Essa prende le mosse da una differenziazione degli enti in
questione rispetto alle IPAB, la cui autonomia la Corte stessa aveva ritenuto pienamente
valorizzata negli statuti. La situazione degli enti che vengono in rilievo nella decisione in
commento appare alla Corte sostanzialmente diversa, perché la legge, rivolgendosi agli
enti creditizi che avevano per antica tradizione statutaria anche scopi di beneficenza ed
assistenza, ha offerto loro la libertà di mantenere l’attività di impresa creditizia,
semplicemente trasformandosi in s.p.a. Per la Corte, gli enti conferenti, invece, privati
dello scopo di lucro, manterrebbero una iniziativa economica meramente strumentale
alle originarie finalità di assistenza e di tutela delle categorie sociali più deboli" (art. 12 del
decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 356)»29. Pertanto, la legge ha rispettato
– secondo la Corte – l’autonomia decisionale e statutaria degli enti. Inoltre, la Corte
rileva che le somme di cui alla disposizione impugnata sono contabilizzate presso fondi
amministrati da un comitato composto in maggioranza da rappresentanti degli enti
finanziatori, i quali possono destinarle, per il 50% al fondo della regione dove hanno sede
legale, e per l'altro 50% ad altri fondi liberamente scelti. Pertanto, per la Corte risulta
infondata la censura relativa all'art.24 della Costituzione, sia perché i soggetti interessati
hanno
avuto
e
avranno
ampia
possibilità
di
difendersi
contro
la
sospettata
incostituzionalità della legge, sia perché la dedotta menomazione consiste in realtà in un
effetto della libera scelta del mutamento della natura dell'ente. Infondata è anche la
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denunziata violazione dell'art. 41, dal momento che l'iniziativa economica di dette
fondazioni è consentita come strumentale al perseguimento dei "fini sociali", che lo stesso
art. 41 richiama; pure infondata è la censura relativa all'art. 47, non risultando lese la
tutela del risparmio e la disciplina del credito, che non risentono contraccolpi per le
limitate elargizioni, anche perché trattasi di somme comunque non destinate alle attività
creditizie.
Il terzo gruppo di questioni fa riferimento agli art. 53, 81 e 97 Cost.
In particolare, la disposizione impugnata -obbligando ad inserire negli statuti degli
enti il dovere di destinare senza libertà di scelta una determinata quota dei proventi a
certi beneficiari e con precise modalità - maschererebbe un prelievo sugli utili di esercizio,
di sostanziale natura di tributo di scopo, senza rispettare il principio di eguaglianza dei
cittadini e delle persone giuridiche di fronte al carico tributario, senza indici
concretamente rivelatori di capacità contributiva; si prevederebbe una gestione fuori
bilancio, con violazione delle relative garanzie e dei principi di unità, universalità,
veridicità e globalità del bilancio dello Stato.
La Corte rigetta anche queste censure, ricordando che non tutte le prestazioni
patrimoniali obbligatorie hanno natura tributaria, in quanto ve ne possono essere alcune
che non passano attraverso bilanci pubblici, o che consistono in oneri dipendenti
dall’effettuazione di scelte. La Corte ha riconosciuto che la legge avrebbe potuto
prescrivere specifici controlli anche sull'attività di questi comitati di gestione , oltre che
eventuali facoltà di ricorsi, ma questi profili esulano dall'ambito della presente questione
di costituzionalità.
Da queste considerazioni finali della Corte si evince il ruolo fondamentale e delicato
dei comitati di gestione, che devono verificare che la destinazione delle risorse alle
organizzazioni di volontariato tramite i centri di servizio vada a buon fine. La previsione di
organi quali i comitati di gestione può considerarsi qualificabile, anzi, come “doverosa”,
costituendo attuazione e garanzia di funzionamento del supporto finanziario al mondo
del volontariato, che il legislatore predispone al fine di realizzare gli ineludibili principi di
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solidarietà sociale ed eguaglianza sostanziale.
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