Omar-Nuovo, Novembre 2008 - Anno XI
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Omar-Nuovo, Novembre 2008 - Anno XI
Novembre 2008 - Anno XI Spedizione in abbonamento postale 70% - DC/DCI - Novara OMAR o v o nu per iodico di cultura e di vita dell’insieme omar ista (I.T.I. Omar, Associazione Omaristi, Fondazione Omar) seguito de “l’OMAR” fondato nel 1963 da Luigi Buscaglia 22 SOMMARIO OMAR nuovo periodico di cultura e di vita dell’insieme omarista (I.T.I. Omar, Associazione Omaristi, Fondazione Omar) seguito de “l’OMAR” fondato nel 1963 da Luigi Buscaglia “OMAR nuovo” n. 22 Novembre 2008 - Anno XI Direttore responsabile Dorino Tuniz Direttore Marco Parsini Comitato di Redazione Stefano Accomazzi, Silvano Andorno, Valeriano Dell’Era, Giampietro Morreale, Franco Pianca, Francesco Romano Segretario di Redazione Franco La Sala Proprietaria Associazione Omaristi Direzione, Redazione, Amministrazione baluardo La Marmora, 12 - Novara telefono e fax 0321 33209 www.itiomar.net [email protected] Iscrizione del Tribunale di Novara al n. 2/98 del Registro della Stampa Periodica Le opinioni degli Autori non impegnano la Direzione Questo fascicolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. Studi e informazioni culturali A. MONFROGLIO – Assoluto e relativo nella fisica e nell’universo: le costanti universali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . M. RICCI – La catalisi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . G. MUSETTI – La nascita delle telecomunicazioni: Meucci e gli altri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . G. PIERI – Il caso TiO2 (prima parte) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . B. CATANIA – Storia del pianoforte (seconda parte) . . . . . . . . . L. PEZZOLLA PAGANIN – Gli Egizi a tavola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . R. RAMELLA – Aneddoti di lavoro (terza parte) . . . . . . . . . . . . . . A. MOSSINI E M. PARSINI – Erminio Malagutti, celebre liutaio del nostro tempo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . G. ROMANO – “Tra l’udire e l’ascoltare c’è di mezzo…” e “I tesori del mare” (poesie) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Istituto Tecnico Industriale Omar Diplomati nel 2008 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Premio poesia “Città di Borgomanero” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ancora premi e riconoscimenti alla prof. Annamaria Balossini 3 » » 5 8 » » » » » 14 18 23 28 30 » 34 » 38 » » » 39 41 41 Associazione Omaristi Assemblea ordinaria del 18-5-2008 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . B. CATANIA – “Le leggi del cambiamento” (conferenza del 31-5-2008) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 42 » 44 Notizie dall’industria Caleffi S.p.A. - Legionella ed impianti Nuove soluzioni tecniche (seconda puntata) Gruppo compatto multifunzionale Legioflow . . . . . . . . » 45 Fondazione Omar Economia L. MANFREDINI E S. BARON – Abolizione dell’ICI sull’abitazione principale. Novità del D.L. 27-5-2008 . . » 49 Fondazione Tera AA.VV. – Riflessioni sugli aspetti psicologici in oncologia (recensione) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 51 Spigolature Giochi matematici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 52 La rivista non è in vendita Spedizione in abbonamento postale 70% - DC/DCI Novara Nuova Tipografia S. Gaudenzio S.r.l. Novara La rivista è leggibile in internet all’indirizzo: www.itiomar.it/pubblica/associazione.shtm Prezzi per la pubblicità: una pagina in bianco e nero € 260,00; mezza pagina in bianco e nero € 155,00; a colori: una pagina € 390,00; mezza pagina € 285,00 n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI OMAR 1 nuovo Via Avogadro, 4 Telefono 0321 338211 - Fax 0321 338338 indirizzo internet: www.no.camcom.it Questo fascicolo… Il primo numero di questa nuova serie di “Omar nuovo” (febbraio 1998) è stato inaugurato con l’articolo del prof. Angelo Monfroglio, in collaborazione con Giovanni Boglio, “L’intelligenza artificiale, le reti neuronali e le applicazioni”. Dopo un lungo periodo di latitanza (e di malattia), il prof. Monfroglio torna a farsi vivo e a collaborare con la nostra rivista con l’articolo “Assoluto e relativo nella fisica e nell’universo: le costanti universali”, breve, ma di spessore scientifico. Il dott. Marco Ricci, ricercatore dell’Istituto Donegani, presenta “La catalisi”, un fenomeno “tanto bizzarro quanto importante” nelle reazioni chimiche. Partendo dall’illustrazione delle marmitte catalitiche, l’A. passa agli enzimi, catalizzatori biologici estremamente efficienti e fondamentali in molti aspetti della nostra vita. Viene pure evidenziata l’importanza della catalisi anche in termini economici. Si riporta il testo della gustosa conferenza “La nascita delle telecomunicazioni: Meucci e gli altri” tenuta dal dott. Giuliano Musetti durante l’assemblea dell’Associazione Omaristi del 18-5-2008. “Il caso TiO2”, dell’ing. Giovanni Pieri, è la descrizione di un caso, accaduto in un importante ente di ricerca novarese, di una ricerca impostata con criteri organizzativi moderni e coronata da successo scientifico e tecnico (nonostante qualche “errore di percorso”), cui ha fatto seguito un insuccesso industriale dovuto a sfiducia preconcetta, ad inazione, insomma ad incapacità imprenditoriale. In altre parole, è la storia di successi esaltanti e di profonde frustrazioni. Si conclude, con la seconda parte, la “Storia del pianoforte” dell’ing. Basilio Catania, arricchita con un esauriente glossario. L’impronta “musicale” di questo numero della rivista viene accentuata dall’articolo di Amedeo Mossini e Marco Parsini su “Erminio Malagutti, celebre liutaio del nostro tempo”. La nostra egittologa per elezione, la prof.a Laura Pezzolla Paganin, ci accompagna alla tavola degli antichi egizi a “gustare” i loro cibi. Gli aneddoti di lavoro del p. i. Renato Ramella in questa terza puntata si rifanno alla campagna di ricerca del petrolio in Marocco e Tunisia dal 1964 al 1967. n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI OMAR 3 nuovo Studi e informazioni culturali Assoluto e relativo nella fisica e nell’universo: le costanti universali Angelo Monfroglio La relatività speciale utilizza una costante uguale a a l – v c 2 2 Sommario Vengono ricordate le principali costanti universali della fisica (e dell’universo) e si accenna alla teoria della relatività e al legame fra le costanti della fisica e della matematica. Si esaminano: relatività di Galileo; costante c di Einstein, formula E = mc 2, relatività ristretta e generale; costante h di Planck; costante g di Newton; costante N di Avogadro; costante K di Boltzman; costante 1 / 137 di struttura fine degli edifici atomici. Abstract Universal constants in the Physics and in the Universe are described and the relationship with the mathematical constants is mentioned. Assoluto e relativo sono le due facce di quelle pagine del libro dell’universo e della fisica che lo studia: un libro che, come affermava Galileo, è scritto con il linguaggio della matematica. Vogliamo partire, come s’usa fare, con una storiella nota. C’era un ragazzo …, uno studente un po’ svogliato come qualche nostro Omarista. Si chiamava Alberto e gli avevano regalato una bussola. A molti ragazzi regalano, regalavano, una bussola: un regalo abbastanza insignificante. Ma quel ragazzo rimase a guardare l’ago stupefatto perché in ogni luogo e ora segnava il Nord, quasi esatto. Il ragazzo studiava fisica e si rendeva conto sempre più di quanto molto fosse relativo, a partire appunto dalla relatività di Galileo, valida per il moto rettilineo e uniforme. Lo spazio, il tempo non gli sembravano entità assolute e allora si domandava: “Esiste nell’universo della Fisica qualcosa che sia veramente assoluto, universale, invariante?”. Dimenticavo di dirvi che quel ragazzo era tedesco e si chiamava Albert, Albert Einstein. E Einstein scoprì che c’era quella costante universale, essa si indica oggi con c minuscolo ed è, come tutti sanno, la velocità della luce, o, meglio, la velocità di propagazione delle onde elettromagnetiche. Le costante c, nel vuoto ed in assenza di campi magnetici, vale circa 300.000 chilometri al secondo: un valore enorme, ma, questo è essenziale, un valore finito e, forse, non superabile da onde che trasportano messaggi (parole, suoni, immagini, dati, video, ecc.). dove v è la velocità del moto del corpo. La costante entra nelle formule che prevedono la contrazione dello spazio e la dilatazione del tempo (oltre all’aumento della massa) 1 in sistemi di riferimento in moto fra loro e anche la legge di composizione delle velocità relative di due sistemi di riferimento: essa prevede che in ogni caso, se anche si incrociano, ad esempio, due treni ad alta velocità, o due particelle in un acceleratore lineare, la velocità fra loro non supererà quella della luce c. Einstein, nel 1905, pubblicò tre lavori fondamentali per la fisica: quello sulla relatività speciale o ristretta ai corpi senza accelerazione, uno sul moto browniano e quello sull’energia del fotone e = h · f dove e è l’energia, f la frequenza emessa e h = 6,6260 · 10–34 joule secondo, la costante di Planck, che gli valse il premio Nobel nel 1914. Singolarmente, Einstein con quest’ultimo lavoro iniziava quella meccanica quantistica che, poi, sempre avrebbe avversato fino alla morte, sostenendo che “Dio non gioca a dadi”, cioè la fisica non può essere basata sulle probabilità. Invece, la fisica quantistica, oltre a discretizzare il mondo (i valori delle grandezze sono multipli di “quanti”), si basa sul principio di indeterminazione di W. Heisenberg: non si possono misurare con esattezza nello stesso instante posizione e quantità di moto e le misure sono sempre relative al misuratore e misurando si modifica ciò che si misura. Nella seconda metà del diciannovesimo secolo lo scozzese James C. Maxwell aveva mirabilmente unificato elettrostatica e magnetismo nelle due sue celebri equazioni dell’elettromagnetismo: le cariche fisse generano campi elettrici, quelle in movimento campi magnetici; correnti elettriche muovono cariche, cariche in movimento inducono campi, ecc. Si vedano i volumi della Fisica di Berkeley a cura di Purcell. Successivamente, tre delle quattro forze fondamentali: forte (nel nucleo), elettromagnetica e debo- 1 Il fattore di dilatazione del tempo l – v c 2 2 è lo stesso che esprime la contrazione dello spazio e l’aumento della massa. n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI OMAR 5 nuovo le, sarebbero state unificate (anche con il contributo del Nobel italiano Carlo Rubbia). Tuttavia, nonostante gli sforzi dei ricercatori e i grossi finanziamenti, la forza gravitazionale rimane a sé stante. Allora consideriamo la costante g di gravitazione universale e la legge di Newton F = g (m1 · m2 ) / (d1 – d2 ) 2 dove (d1 – d2) è la distanza fra due masse (puntiformi). Ricordiamo pure la legge della dinamica F = m · a. Newton, e Einstein con la teoria della relatività generale applicabile a corpi in moto qualsiasi, unificano la massa inerziale e quella gravitazione e, cosa ancor più sorprendente, Einstein unifica massa e energia nella celeberrima equazione E = m · c 2. Questa relazione spiega l’enorme energia racchiusa in un nocciolo di materia: se questa è uranio o polonio diventa una pila atomica di Fermi o la bomba atomica 2. La teoria dell’elettrone (la cui carica e è unità di misura di tutte le cariche elettriche ed è dell’ordine di 10–19 Coulomb) di Enrico Fermi ci fornisce il modo di calcolare la lunghezza d’onda della luce dei LED, ad esempio all’arseniuro di gallio. Ricordiamo anche la relazione tra lunghezza d’onda e frequenza λ = c / f, dove c è, naturalmente, la velocità di propagazione delle onde elettromagnetiche. Nel semiconduttore silicio la banda di emissione è circa 0,7 elettronvolt (eV). Se parliamo di semiconduttori, chip, di computer, dobbiamo ricordare un’altra costante, quella N di Avogadro che ci dà quanti atomi sono contenuti in un centimetro cubo di materia: circa 6 · 10 23. E allora, fino a quale punto può spingersi la miniaturizzazione dell’elettronica allo stato solido? Quanti transistor riuscirà l’Intel a ficcare in un microprocessore dell’ultima generazione? La risposta è che si arriverà al massimo a 10 21 perché un transistor ha bisogno di almeno 100 atomi. Oggi siamo a 10 11: ci aspettano ancora tanti anni di successo della microelettronica. 2 La fisica classica può considerarsi il caso limite della fisica della relatività ristretta nel quale le velocità siano trascurabili rispetto a quelle della luce. La fisica della relatività ristretta può considerarsi il caso limite della fisica della relatività generale nel quale siano trascurabili gli effetti gravitazionali. Tanto nella fisica classica che nella fisica della relatività ristretta vale il principio galileiano di relatività che afferma la formulabilità delle leggi fisiche in modo indipendente dal sistema di riferimento, purché si tratti di sistemi in moto rettilineo e uniforme fra di loro. La teoria della relatività generale non può ancora essere considerata come una verità “passata in giudicato” (come si può invece dire della relatività ristretta), anche se ormai è fuori di dubbio che essa enunci alcuni importantissimi e rivoluzionari principi che sono senz’altro da ritenersi veri. 6 OMAR nuovo n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI Abbiamo, all’inizio, ricordato l’affermazione di Galileo Galilei sull’importanza della Matematica come linguaggio della Fisica e dell’Universo. Come non ricordare, allora, le mitiche costanti (numeri trascendenti) dell’aritmetica: π (pi-greco) = 3.14159… ed e = 2,71828… (base dei logaritmi neperiani o naturali); e anche il numero ϕ = 1,618… quoziente fra diagonale e lato di un pentagono regolare o anche rapporto aureo limite del rapporto fra due numeri (n + 1) ed n della serie di Fibonacci (Leonardo da Pisa) che è il canone della bellezza (la cornice perfetta ha la base b = ϕ h, dove h è l’altezza) 3. Un altro limite, questa volta della fisica, è lo zero assoluto circa uguale a –273,15 gradi Celsius. Una costante notevole è 10 10: ci sono circa 10 miliardi di galassie, ognuna con circa 10 miliardi di stelle; ci sono circa 10 miliardi (cioè 10 10) neuroni nel nostro cervello, ognuno collegato in media con 10 · 1000 altri neuroni; ci sono oltre 1000 miliardi di pagine Web in Internet, ecc. Ci resta ora da citare la costante K di Boltzmann, rapporto tra la costante R dei gas perfetti e il numero N di Avogadro (compare nella formula p · v = K · T, dove T è la temperatura in gradi Kelvin rispetto al sopra citato zero assoluto). Infine, la più esotica delle costanti universali, la costante di struttura fine degli edifici atomici: una costante adimensionale che vale 1 / 137,03599 ed è pari a e 2 / 4 π · ε0 · h · c dove ε0 è la permettività nel vuoto 4. Questo numero, sintesi di costanti universali, determina la forza dell’interazione elettromagnetica, governa cioè la forza con cui una particella carica interagisce con un campo elettromagnetico. La scorsa primavera il giovane astronomo Adam Riess ha misurato con accuratezza un’altra costante universale: la costante di Hubble che misura la rapidità con cui si espande il nostro universo. Cercate in Internet (il nostro sito è www.itiomar.it) altre notizie. Mentre finisco di scrivere (31 agosto 2008) a Novara ci sono 35 gradi Celsius e fa troppo caldo per continuare. Buona lettura e arrivederci all’Omar. 3 ϕ deriva da Fidia che utilizzò questo rapporto per la razionalizzazione di statue e templi. 4 La costante dielettrica nel vuoto prende il nome di permettività dielettrica nel vuoto e vale ε0 = 1c 2 μ0 ≈ 8,8541878176 F/m dove c è la velocità della luce nel vuoto e μ0 è la permeabilità magnetica nel vuoto. Essa si misura in farad (F) al metro. Negli altri mezzi si indica con ε ed è posta uguale a ε = ε0 · εr dove εr viene chiamata permettività elettrica relativa (costante dielettrica relativa) ed è un numero adimensionale sempre maggiore di 1. Bibliografia Riconoscimenti M. G. BOWLER, Special Relativity, Oxford University, 1986, Pergamon Press J. A. WHEELER, A Journey into Gravity and Spacetime, Princeton University, 1990, Scientific American Libray E. KEIN, Sette volte la rivoluzione, I grandi della fisica contemporanea, Scienza e idee, collana diretta da Giulio Giorello, 2006, Raffaello Cortina Editore J. A MBORN , J. J UKIEWICZ e R ENATE L OLL , Uno sguardo sullo Spazio-tempo, Le Scienze, settembre 2008 E. M. PURCELL, Elettrostatica, La Fisica di Berkeley, Zanichelli Ed. E. M. PURCELL, Elettromagnetismo, La Fisica di Berkeley, Zanichelli Ed. Sono grato al dottor Marco Parsini, direttore della rivista “Omar nuovo”, per l’invito a scrivere questo articolo, per i suggerimenti, le discussioni all’Omar e l’amicizia. n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI OMAR 7 nuovo Studi e informazioni culturali La catalisi* Marco Ricci Eni S.p.A. – Centro Ricerche per le Energie Non Convenzionali “Istituto ENI Guido Donegani” Via Fauser, 4 – 28100 Novara La catalisi è un fenomeno, tanto bizzarro quanto importante, che consiste nella proprietà di molte sostanze di accelerare la velocità di una reazione chimica, anche di milioni o miliardi di volte, senza essere consumate o alterate. I fenomeni catalitici giocano un ruolo fondamentale in molti aspetti della nostra vita di ogni giorno. Per questo motivo ne verranno esaminati alcuni aspetti generali prendendo lo spunto da una loro applicazione ben nota: la marmitta catalitica. La marmitta catalitica Alla base dell’invenzione e dello sviluppo delle marmitte catalitiche sta il problema dell’inquinamento atmosferico causato dagli scarichi degli autoveicoli. Tutti gli autoveicoli commerciali (con l’esclusione di qualche prototipo elettrico o a idrogeno) si muovono grazie all’energia fornita da un motore a scoppio che, a sua volta, la ricava facendo bruciare un combustibile. I combustibili utilizzati sono, per lo più, derivati dal petrolio e sono miscele di varie sostanze, la maggior parte delle quali sono costituite solo da idrogeno e carbonio e, per questo motivo, sono chiamate idrocarburi. Da qui in avanti si farà riferimento solo al più semplice di essi, il metano, anche se ben poche sono le auto che “vanno” a metano e anche se non è proprio corretto considerarlo un derivato del petrolio. Ma le considerazioni che saranno sviluppate resterebbero perfettamente valide anche nel caso degli altri idrocarburi: solo si complicherebbero un po’ le formule. La combustione di un idrocarburo (sia che venga bruciata una latta di benzina all’aria aperta, sia che essa venga bruciata nelle condizioni molto più controllate di un motore a scoppio ben regolato) consiste semplicemente nella sua reazione con l’ossigeno a dare, in condizioni normali, anidride carbonica ed acqua, oltre a liberare del calore che costituisce poi l’energia che muove l’autovettura. * Conferenza tenuta al Club Donegani il 3-3-2008 8 OMAR nuovo n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI La molecola del metano è costituita da un atomo di carbonio circondato da 4 atomi di idrogeno e quindi la sua formula è CH4. L’ossigeno, a sua volta, è presente nell’aria sotto forma di molecole, ognuna costituita da due atomi uguali. Una molecola di metano si combina con due di ossigeno e dà luogo a una molecola di anidride carbonica (formata da un atomo di carbonio e due di ossigeno, CO2) e due di acqua: CH4 + 2 O2 → CO2 + 2 H2O Ora, se le cose stessero veramente così, andrebbe tutto abbastanza bene: a parte l’acqua, l’unico prodotto della reazione è l’anidride carbonica che, sebbene abbia probabilmente un ruolo importante nell’attuale processo di riscaldamento globale, non è però molto tossica e tutti la produciamo in continuazione con il nostro metabolismo, rilasciandola poi nell’ambiente attraverso la respirazione. Nei motori a scoppio, tuttavia, la combustione non avviene sempre in maniera così ideale. Innanzi tutto, una piccola percentuale dell’idrocarburo alimentato nel motore finisce sempre dentro qualche microscopica crepa nelle pareti del cilindro o nel sottilissimo strato che le separa dal pistone. In entrambi i casi, può capitare che essa non sia raggiunta dalla fiamma e riesca così ad attraversare indenne la camera di scoppio, senza bruciare e finendo nei gas di scarico insieme all’acqua e all’anidride carbonica. Inoltre, succede di regola che, per una piccola parte del combustibile, la reazione con ossigeno risulti, in qualche modo, incompleta così che, insieme all’anidride carbonica, si forma una piccola quantità di ossido di carbonio (CO) che, rispetto all’anidride carbonica, è molto più velenoso: CH4 + 3/2 O2 → CO + 2 H2O Occorre infine considerare che per bruciare il combustibile non si usa ossigeno puro ma si sfrutta quello contenuto nell’aria che però è costituita soprattutto (per quasi l’80%) da azoto. Parecchio azoto viene dunque alimentato nella camera di scoppio. Fortunatamente, esso è un gas piuttosto inerte e non è semplice farlo reagire con altre sostanze così che, in gran parte, esce inalterato dal motore, va a diluirne i gas di scarico e se ne ritorna tranquillamente nell’atmosfera da cui l’avevamo prelevato. Tuttavia, anche l’inerzia dell’azoto ha un suo limite e, alle elevate temperature che si riscontrano in un motore, inevitabilmente un po’ se ne combina con l’ossigeno formando l’ossido: N2 + O2 → 2 NO Dunque, è facile rendersi conto che, nei gas di scarico del motore, vanno a finire, oltre ai prodotti normali (acqua e anidride carbonica) anche gas indesiderati e inquinanti che sono, sostanzialmente costituiti da vapori di idrocarburi incombusti, da ossido di carbonio e da ossido di azoto. Le prime due categorie di inquinanti, gli idrocarburi e l’ossido di carbonio, sono sostanze che non hanno reagito, o non hanno reagito abbastanza, con l’ossigeno: in riferimento ai prodotti normali della combustione, diremo che sono poco ossidate. L’ossido di azoto, al contrario, deriva dal fatto che un po’ di azoto ha reagito fin troppo: è, quindi, un prodotto “troppo ossidato”. Ora, sarebbe molto comodo se gli inquinanti “troppo ossidati” reagissero con quelli “poco ossidati” per rimettere un po’ a posto le cose e far tornare tutto nella norma, ad esempio tramite reazioni come: 2 NO + 2 CO → N2 + 2 CO2 4 NO + CH4 → 2 N2 + 2 H2O + CO2 Reazioni come quelle scritte sono, effettivamente, possibili ma non avvengono nei gas di scarico perché sono reazioni lente. Fra i vari parametri che caratterizzano le innumerevoli reazioni chimiche possibili c’è, infatti, anche la loro velocità. Non è certamente questa la sede adatta per affrontare il problema della definizione e della misura delle velocità di reazione: basterà sapere che, in qualche modo, essa dà un’idea del tempo necessario perché due reagenti a contatto fra di loro diano origine ai prodotti della loro reazione. Le velocità delle reazioni chimiche possono essere molto diverse da caso a caso. Alcune reazioni sono velocissime e liberano la loro energia in tempi brevissimi: basti pensare all’esplosione di una carica di dinamite. Altre sono invece così lente che, a tutti i fini pratici, si può semplicemente considerare che non avvengano. Questo è proprio il caso delle reazioni sopra citate, reazioni che sarebbe desiderabile che avvenissero nei gas di scarico, ma che non hanno a disposizione il tempo che sarebbe loro necessario. Fortunatamente esiste (anzi, come vedremo, è diffusissimo) un bizzarro fenomeno che fa sì che la velocità di una reazione possa aumentare, anche di milioni o miliardi di volte, in presenza di una sostanza che, nel corso della reazione, non viene consumata. Questo fenomeno prende il nome di catalisi, mentre la sostanza che produce questo effetto senza essere alterata o consumata è indicata come catalizzatore. Proprio questo è il lavoro svolto dalla marmitta catalitica. Le reazioni desiderate che senza di essa sarebbero troppo lente per avere luogo prima che gli inquinanti vengano rilasciati nell’atmosfera, in presenza del catalizzatore sono così veloci da essere quasi complete in circa un secondo, che è il tempo caratteristico trascorso dai gas di scarico a contatto con esso, prima di abbandonare la marmitta ed essere rilasciati nell’atmosfera. Così, l’ossido di carbonio e gli idrocarburi residui vengono ossidati ad anidride carbonica e, allo stesso tempo, gli ossidi di azoto sono trasformati in azoto: 2 NO + 2 CO → N2 + 2 CO2 4 NO + CH4 → 2 N2 + 2 H2O + CO2 2 CO + O2 → 2 CO2 Si tratta, dunque, di tre azioni diverse e per questo motivo i catalizzatori in grado di compierle tutte e tre sono chiamati, almeno in inglese, a tre vie. Ma di cosa sono fatti questi magici catalizzatori che tanto contribuiscono a salvaguardare la qualità dell’aria che respiriamo? E come funzionano? La risposta alla prima domanda è, per certi versi, sorprendente. Gli elementi presenti in natura sono circa una novantina, solo pochi dei quali, però, si incontrano abbastanza spesso nella vita di tutti i giorni da essere conosciuti da tutti: idrogeno, carbonio, azoto, ossigeno, ferro, rame, mercurio, e così via. La maggior parte degli elementi sono, invece, dei metalli più o meno rari dei quali si ignora, spesso, perfino il nome. Proprio molti di questi metalli, apparentemente di scarso interesse, costituiscono invece formidabili catalizzatori per moltissime reazioni chimiche, anche assai diverse fra loro. Le reazioni che noi vorremmo fossero catalizzate nella nostra marmitta non fanno eccezione e, anche per loro, i migliori catalizzatori sono metalli rari e preziosi (il rodio, il palladio e il platino) e gli ossidi di altri metalli certamente meno preziosi ma non meno negletti, come il cerio e lo zirconio. Assai più difficile è rispondere alla domanda sul meccanismo di azione dei catalizzatori. Ogni reazione chimica consiste nella trasformazione di alcuni reagenti in uno o più prodotti. Da un punto di vista energetico, perché la reazione abbia luogo spontaneamente è necessario che l’energia dei prodotti sia minore di quella dei reagenti ma, in ogni caso, la reazione avviene attraverso stati intermedi la cui energia è maggiore sia di quella dei reagenti, sia di quella dei prodotti. Essa può pertanto essere paragonata allo scavalcamento di un colle che separa due valli. Dapprima occorre faticare per salire fino al passo poi, una volta raggiuntolo, il percorso è tutto in discesa e non richiede più energia. In generale, due valli attigue sono collegate da più colli e non è n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI OMAR 9 nuovo energy activation energy activation energy uncatalysed reaction catalysed reaction time detto che il più comodo sia anche quello più basso. Ci potrebbe essere, infatti, un colle a quota inferiore che richiederebbe meno energia per essere raggiunto e, in definitiva, meno tempo per essere valicato. Ma se il cammino risultasse difficile da individuare, per sfruttarne i vantaggi sarebbe necessario ricorrere all’aiuto di una guida alpina che farebbe risparmiare tempo ed energie e, al termine della traversata, sarebbe pronta per tornare indietro e guidare un’altra comitiva. Questo è esattamente il lavoro del catalizzatore: tramite interazioni di vario genere con le molecole che partecipano a una reazione chimica, esso fa sì che questa possa procedere secondo un cammino che richiede minore energia e, in definitiva, meno tempo. E, al termine della reazione, esso sarà ancora intatto e pronto a riprendere il suo lavoro. I catalizzatori naturali Naturalmente la catalisi esisteva sulla Terra non solo prima dell’invenzione delle marmitte catalitiche, ma anche prima che l’uomo la scoprisse. In effetti, quasi tutte le complicatissime reazioni chimiche che avvengono in un organismo vivente, sia esso il più semplice dei batteri o uno dei miei figli, e che gli consentono di sopravvivere, avvengono alle giuste velocità grazie alla presenza di tutta una serie di catalizzatori biologici, estremamente efficienti, che chiamiamo enzimi. Gli enzimi sono diffusissimi e l’uomo ha imparato a servirsene molto prima di scoprire cosa fossero. Così, sono reazioni catalizzate da enzimi la lievitazione del pane, la cagliatura del latte (utilizzata nella preparazione dei formaggi), la fermentazione alcolica (utilizzata per produrre il vino o la birra) e quella acetica (utilizzata, invece, per trasformare il vino in aceto). Tuttavia, la natura di questi catalizzatori biologici è rimasta a lungo misteriosa finché un biochimico americano, James Sumner, non cominciò un lungo lavoro allo scopo di prepararne uno con elevata purezza e in forma cristallina e poterne, infine, determinarne la natura. Nel 1926, Sumner riuscì finalmente a ottenere dei cristalli di ureasi, un enzima che aveva estratto da una leguminosa del suo paese, e a dimostrare che apparte- 10 OMAR nuovo n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI James Sumner (1887-1955) neva alla classe delle proteine, molecole giganti costituite da una successione di centinaia o migliaia di mattoni più semplici, gli amminoacidi, che a loro volta sono di una ventina di tipi differenti. Come tutte le proteine, anche gli enzimi sono composti per lo più da carbonio, idrogeno, ossigeno e azoto (e da un po’ di zolfo), tutti elementi molto più comuni dei costosi metalli che abbiamo visto impiegare nelle marmitte catalitiche. Tuttavia, alcuni enzimi contengono anch’essi piccole quantità di metalli, spesso ben noti (come il ferro o lo zinco) ma, a volte, anche relativamente esotici, come il vanadio o il molibdeno. Anzi, anche l’ureasi (che pure aveva permesso di chiarire che gli enzimi erano costituiti per lo più da carbonio, idrogeno, ossigeno e azoto) contiene un metallo e neppure dei più comuni: il nichel. A dire il vero, lo stesso Sumner si era chiesto se il suo enzima non potesse contenere qualche metallo, solo che aveva rivolto la sua attenzione solo a un paio fra i metalli più diffusi: il ferro e il manganese. Non avendoli trovati, aveva concluso che l’ureasi non conteneva metalli. Al nichel, invece, non aveva proprio pensato ma, del resto, nessun altro ci avrebbe pensato fino al 1975 quando si scoprì che l’ureasi era, appunto, un enzima a nichel. Sumner, l’uomo che ha permesso di chiarire la natura degli enzimi, doveva possedere un carattere piuttosto singolare. A scuola era annoiato da qualunque materia che non fosse chimica o fisica. Amava, invece, la caccia tanto che, in un incidente occorsogli durante una battuta di caccia alle oche, perse un braccio all’età di 17 anni. Questo non gli impedì di coltivare parecchi sport, compresi il tennis e lo sci, né di laurearsi in chimica e affrontare, con un miscuglio di ottimismo e presunzione, un’impresa mai riuscita prima e che molti ritenevano impossibile: isolare e purificare un enzima. Con incredibile caparbietà, proseguì la sua ricerca per 9 anni fino al giorno in cui, con una telefonata ormai famosa, poté annunciare alla moglie di aver cristallizzato il primo enzima. Ma la sua scoperta fu ignorata o, peggio, non creduta. Morì a 68 anni dopo aver avuto 3 mogli, 6 figli e un premio Nobel attribuitogli solo 20 anni dopo la sua scoperta. Gli enzimi sono catalizzatori quasi perfetti. Ad esempio, lavorano a temperature bassissime (basta maniera relativamente semplice. E poi, la chimica è una disciplina in continua e rapida evoluzione e la capacità di sintetizzare molecole complesse è in progressivo aumento e proprio la sintesi di una di queste porfirine, la tetrafenilporfirina, costituisce un buon esempio di questa evoluzione. Nei primi tentativi degli anni ’40 del Novecento, si ottenevano rese del 9%: si era, cioè, capaci di trasformare solo il 9% delle materie prime nella molecola desiderata. Furono necessari 26 anni per arrivare a raddoppiare questo valore. Poi, però, ne sono bastati 20 per raddoppiarlo ancora finché, nel 1995, fu pubblicata una resa del 68%. L’importanza economica della catalisi Giacomo Fauser (1892-1971) pensare agli enzimi dei microrganismi che vivono in Antartide), molto inferiori a quelle di alcune centinaia di gradi che sono necessarie per far funzionare una marmitta catalitica. Questa loro efficienza, però, non è sorprendente, perché l’evoluzione ha avuto a disposizione 3 miliardi di anni per selezionare enzimi sempre migliori. Così, i chimici hanno avuto un’idea quanto mai ambiziosa: ispirarsi agli enzimi per sviluppare catalizzatori artificiali migliori degli attuali e forse, in un futuro non lontano, proprio lo studio e l’imitazione degli enzimi saranno alla base del progetto e dello sviluppo di catalizzatori sempre più efficienti. Peraltro, qualche successo in questa direzione si è già avuto. Ad esempio, l’ossidazione di un gran numero di molecole organiche è catalizzata, negli organismi viventi, da una famiglia di enzimi noti come citocromi P-450. Questi servono, ad esempio, per degradare molte tossine inavvertitamente introdotte nell’organismo: ossidandole, le rendono più solubili in acqua e ne favoriscono l’eliminazione mediante le urine. Da qualche decennio, poi, i P-450 hanno un nuovo compito: quello di degradare allo stesso modo i farmaci che abbiamo assunto e che non sono stati trattenuti dagli organi bersaglio. Al centro della molecola di questi enzimi c’è il responsabile della loro attività catalitica: un atomo di ferro circondato da una struttura organica chiamata porfirina. L’insieme ferro-porfirina è lo stesso contenuto nell’emoglobina e che conferisce al sangue il suo caratteristico colore rosso. Con piccole variazioni, la stessa struttura è stata utilizzata dalla natura per legare anche altri metalli, come il magnesio nella clorofilla delle piante verdi, il cobalto nella vitamina B12 e, di nuovo, il nichel in una strana molecola utilizzata, da microrganismi assai primitivi, per produrre metano. Ma anche i chimici sono capaci di preparare strutture simili e di legarle a un gran numero di metalli. Queste metallo-porfirine artificiali, contenenti per lo più manganese o ferro, sono poi state utilizzate, negli ultimi 25 anni, per catalizzare un gran numero di reazioni di ossidazione di molecole organiche di vario tipo. Si tratta di strutture abbastanza complesse, tipicamente costituite da un numero di atomi compreso fra gli 80 e i 120. Eppure, nonostante questa loro complessità, parecchie porfirine si preparano in I catalizzatori trovano impieghi imponenti in tre settori principali: nell’industria chimica, in quella petrolifera e nel controllo delle emissioni inquinanti in atmosfera. L’industria chimica impiega un gran numero di catalizzatori diversi per preparare tutta una serie di sostanze di larghissimo consumo, come la maggior parte delle gomme e delle materie plastiche, ma anche per sviluppare nuovi processi produttivi, sempre più efficienti e con un impatto sull’ambiente circostante che diminuisce di anno in anno. Che la produzione dell’industria chimica sia complessivamente imponente, è facile da immaginare. Più difficile è immaginare quanto lo sia, ma qualche dato può venirci in aiuto. Si stima che la sola produzione di materiali polimerici (plastiche, gomme e fibre sintetiche) superi i 150 milioni di tonnellate annue, una quantità sufficiente per riempire, fino all’ultimo spalto dell’anello più alto, parecchie decine di grandi stadi di calcio. L’industria petrolifera, dal canto suo, utilizza i catalizzatori nelle sue raffinerie, per trasformare il petrolio in tutte le materie prime dell’industria chimica moderna ma anche, e soprattutto, per produrre quantità enormi di combustibili utilizzati per far viaggiare auto, navi e aerei. Il controllo delle emissioni è l’ultimo nato fra i grandi utilizzi della catalisi. È stato, infatti, introdotto abbastanza recentemente: nel 1975 negli Stati Uniti e nel 1986 in Europa. Esso ha tuttavia acquistato rapidamente una grandissima importanza e, oggi, il valore delle marmitte catalitiche che sono vendute ogni anno è superiore a quello di ogni altra classe di catalizzatori. Forse il dato che meglio dà un’idea dell’importanza della catalisi e del modo in cui essa permea oggi un gran numero di settori produttivi è una stima, tratta dal celebre Rapporto Pimentel, secondo cui, nel 1987, il 20% del prodotto interno lordo degli USA (che in quell’anno è stato di 4500 miliardi di dollari) fosse generato da attività che, in qualche modo, dipendevano da processi catalitici. La città di Novara ha giocato un ruolo non trascurabile nella storia dello sviluppo dei processi catalitici industriali. Questo è accaduto a seguito del successo conseguito da Giacomo Fauser nello sviluppare un nuovo processo per la sintesi dell’ammoniaca, la materia prima che è alla base di tutti i fertilizzanti sintetici utilizzati in agricoltura, oltre che di innumerevoli altri prodotti compresi il nylon, le fi- n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI OMAR 11 nuovo bre acriliche e molti intermedi per l’industria farmaceutica. Gli studi di Fauser hanno poi dato origine a tutta una serie di attività produttive e di ricerca non più centrate esclusivamente sulla catalisi. Esse, nonostante la persistente crisi del settore chimico nazionale, sono ancora insediate sullo storico sito nel quartiere di Sant’Agabio e impiegano tuttora, fra varie realtà e ragioni sociali e compreso un po’ d’indotto, circa un migliaio di persone. Considerazioni sull’opportunità di sostenere i costi ambientali connessi con lo sviluppo industriale I dati sull’importanza economica della chimica e delle attività ad essa collegate inducono inevitabilmente a qualche riflessione sulle conseguenze dello sviluppo dell’industria in generale, e dell’industria chimica in particolare. Oggi, infatti, assistiamo a un vero e proprio paradosso. Da un lato, gli abitanti dei paesi industrializzati godono dei benefici della scienza e della tecnica che fanno sì che essi vivano meglio e più a lungo. Dall’altro lato, quelle stesse persone hanno perso ogni fiducia nella scienza e non fanno che ricordare i rischi connessi con la diffusione dei campi elettromagnetici o dei telefonini o degli inceneritori o dei gasificatori o degli antiparassitari o dei mangimi sintetici o dei vaccini o di altro ancora. Paradosso nel paradosso, a pagare il prezzo più alto di questa situazione è proprio la chimica che, con ogni probabilità, è la disciplina che più ha contribuito al miglioramento delle condizioni di vita ma che è percepita in maniera esattamente opposta. È innegabile che lo sviluppo industriale abbia costi ambientali tutt’altro che trascurabili. Così, pensare di limitarlo, di definire gli ormai famosi limiti dello sviluppo, costituisce un esercizio non solo lecito ma auspicabile. In queste occasioni, ci si raffigura spesso (come in uno spot televisivo, trasmesso ormai molti anni fa) una scena della vita di tutti i giorni da cui, ad esempio, vengono via via eliminati tutti i manufatti di plastica fino a ritrovarsi seduti su spartani sedili di legno e cuoio a scrivere con penne d’oca e calamai. Un mondo scomodo eppure, in fin dei conti, ancora accettabile: il mondo che i nostri nonni hanno vissuto e che è rimasto l’unico fino a prima della seconda guerra mondiale. Ma la posta in gioco è ben altra e, per illustrarla, mi servirò di alcuni spunti. Carestia La prima riflessione ha per oggetto una parola del vocabolario italiano. Alcuni anni fa, mio figlio maggiore, allora undicenne, mi chiese quale fosse il significato della parola carestia. Lì per lì, lo sgridai per la sua ignoranza ma poi, ben sapendo che aveva un’ottima proprietà di linguaggio e un brillante curriculum scolastico, iniziai a riflettere. Mi apparve allora chiaro che oggi, nei paesi sviluppati, il termine carestia è sostanzialmente estraneo al vocabolario. Non v’è dubbio che la rimozione, ormai perfino linguistica, delle carestie dalla nostra vita sia merito 12 OMAR nuovo n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI della diffusione dei fertilizzanti azotati. Il nostro corpo, infatti, è formato di proteine che, per il 90%, ricaviamo dai prodotti dell’agricoltura o dal bestiame che di essi si ciba. La resa di un terreno è però limitata dalla disponibilità di azoto necessario per produrre le proteine: si stima che, grossolanamente, i processi naturali di utilizzo dell’azoto (quelli che vengono complessivamente chiamati di fissazione dell’azoto) siano sufficienti per soddisfare circa il 50% della richiesta mondiale di proteine. Il resto viene dai fertilizzanti azotati e, in primo luogo, dal più importante di loro: l’urea. Ma la produzione e la diffusione dei fertilizzanti azotati sarebbero state impossibili se non fossero stati messi a punto i vari processi, compreso quello di Fauser, per produrre l’ammoniaca, la materia prima per la loro sintesi. Oggi, la produzione di cibo per quasi i due quinti della popolazione mondiale dipende dalla disponibilità dell’urea, in particolare in molti paesi in via di sviluppo come la Cina o le nazioni del Sud-Est asiatico e dell’Africa mediterranea. Ma anche da noi, l’uso (spesso certamente eccessivo e ingiustificato) dei fertilizzanti e degli antiparassitari è fondamentale per assicurarci ogni anno raccolti abbondanti e variati, più che sufficienti per sfamarci e per farci dimenticare il significato della parola carestia. Pestilenza La seconda riflessione riguarda un altro termine un po’ obsoleto: pestilenza. Se si ha, come abbiamo noi, la fortuna di vivere in un paese che può permettersi un servizio abbastanza efficiente di sanità pubblica e, come vedremo tra pochissimo, una rete idrica con un servizio efficiente e regolare di potabilizzazione dell’acqua, la probabilità di morire per una delle malattie infettive tradizionali è piuttosto bassa. La produzione di farmaci e di vaccini ci sta così facendo dimenticare il significato di un’altra parola che denotava un altro degli incubi dei bei tempi andati. Certo, altre malattie infettive oppongono strenua resistenza e altre ancora alimentano antiche paure: si pensi all’aviaria. Ma confidiamo che la loro sconfitta sia solo questione di tempo. Queste due prime riflessioni sono conseguenza di un articolo apparso, ormai parecchi anni fa, su un autorevolissimo quotidiano nazionale. In esso, un giornalista confondeva chimici con biologi e attribuiva ai primi la responsabilità dello sviluppo di armi batteriologiche, apparentandoli ai cavalieri dell’Apocalisse. Mi sembra che i quattro cavalieri siano tradizionalmente identificati con Fame, Peste, Guerra e Morte. Qualunque cosa pensi quel giornalista, con l’aiuto determinante della chimica, oltre che delle scienze mediche e biologiche, potrebbe essere tecnicamente possibile rendere inoffensivi i primi due: non mi sembra davvero poco. Shangri-La L’ultima riflessione riguarda Shangri-La, la mitica vallata perduta fra le altissime montagne himalayane, i cui abitanti vivrebbero per secoli e secoli. Molte persone sono convinte, certamente in buonissima fede, che in Italia l’aria sia irrespirabile, che l’acqua degli acquedotti sia imbevibile perché avvelenata dal cloro, che le verdure comprate al mercato siano piene di residui tossici di pesticidi e che le difese naturali dei nostri organismi siano minate dall’eccessivo ricorso agli antibiotici. Non hanno tutti i torti e tutti noi, in particolare i più giovani, abbiamo il dovere di far sì che questa situazione migliori. Ma è importante, prima di emettere qualunque giudizio, mantenere serenità e obiettività: nell’idilliaco Nepal, l’aria è sottile, l’acqua non è avvelenata dal cloro, le verdure non hanno residui di pesticidi e le difese naturali dell’organismo non sono continuamente minacciate dagli antibiotici. Eppure l’aspettativa di vita alla nascita era, nel 2005, di 60,1 anni per gli uomini e di 59,5 anni per le donne. Con ogni probabilità, gli indios delle foreste vergini amazzoniche vivono ancor meno. In Italia, i valori corrispondenti erano di 77,6 anni per gli uomini e addirittura 83,2 anni per le donne. Aspettativa di vita media alla nascita Dati 2005 (Encyclopædia Britannica) Nepal Italia Uomini Donne 60,1 anni 77,6 anni 59,5 anni 83,2 anni E proprio questa è la posta in gioco, questo è ciò che si perderebbe rinunciando allo sviluppo: in un paese industrializzato, l’attesa di vita di ogni cittadino è, in media, da 5 fino ad oltre 20 anni più alta rispetto a quella dei cittadini di paesi a economia preindustriale. In media 10, forse 15, anni di vita in più, spesso vissuti in ottima salute, per ognuno di noi, per le persone che più amiamo, per ognuno dei nostri figli: questa è la posta in gioco, non qualche poltrona più o meno comoda o una penna d’oca anziché a sfera. Speriamo di ricordarcelo. Breve profilo dell’autore Marco Ricci è nato a Roma dove si è laureato in chimica presso l’Università “La Sapienza” nel 1979. Dal dicembre dello stesso anno lavora presso l’Istituto Donegani dove si è occupato inizialmente di catalisi omogenea e di ossidazioni selettive con acqua ossigenata, contribuendo alla scoperta di una nuova classe di catalizzatori di ossidazione. Nel 1984 ha svolto attività di ricerca presso il Laboratoire de Chimie de Coordination del C.N.R.S. di Tolosa, in Francia, occupandosi di ossidazioni selettive e di modelli di enzimi redox. Dall’aprile 1992 è responsabile del Dipartimento di Chimica Organica (oggi Chimica Sostenibile) dell’Istituto Donegani che, a partire dal 2006, sta concentrando la propria attenzione sulla produzione di energia da fonti rinnovabili quali le biomasse e l’energia solare. Ha avuto modo di collaborare, in passato, con l’U.N.I.D.O., l’agenzia dell’ONU per lo sviluppo industriale dei paesi in via di sviluppo. Nel 1991 è stato insignito, con altri tre ricercatori dell’Istituto (Rino D’Aloisio, Mario Gambaro e Carlo Venturello), del premio “Oscar Masi” per l’Innovazione Industriale dell’A.I.R.I. (Associazione Italiana per la Ricerca Industriale), in riconoscimento del contributo alla ricerca sulle ossidazioni catalitiche con acqua ossigenata. È autore di 31 brevetti e 46 pubblicazioni scientifiche. n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI OMAR 13 nuovo Studi e informazioni culturali La nascita delle telecomunicazioni: Meucci e gli altri Giuliano Musetti (*) Questo articolo trae spunto dalla conferenza che ho tenuto il 18 maggio 2008 presso il nostro Istituto, con l’obiettivo di commemorare il duecentesimo anniversario della nascita di Antonio Meucci. Ho voluto approfittare di questa occasione, per allargare il tema e ricordare, insieme a Meucci, anche coloro che prima e dopo di lui ci hanno portato alla società della comunicazione e della informazione. È raro il caso in cui un’invenzione appare improvvisamente, senza segnali o prodromi: c’è sempre un ambiente o una comunità più o meno allargata, spesso non consapevole, che ha “covato” l’idea e l’ha aiutata ad affermarsi. Quindi pensiamo ai precursori, che favorirono il realizzarsi delle condizioni che condussero all’invenzione iniziale del telefono e ai successivi inventori, che migliorarono moltissimo l’usabilità del primo “giocattolo”. E non dimentichiamo l’impagabile contributo dei realizzatori: imprenditori e managers che seppero mettere in pratica l’originale “buona idea”, diffonderla, renderla uno strumento disponibile a tutti, contribuendo a cambiare il modo di vivere e di pensare della società. Inoltre, i cambiamenti tecnologici non avvengono da soli, ma sono accompagnati (e inducono) da cambiamenti dei modelli economici, sociali ed etici: cosa che si verifica anche oggi. Pensiamo al cambiamento tecnologico epocale avvenuto tra l’ultimo quarto del ’900 e l’inizio del nuovo millennio. Mi riferisco all’epopea dei Microprocessori, dei Minicomputers, del Personal Computer, della Telefonia Mobile, dei Router, del Software di ennesima generazione, del WEB e del VOIP. Una valanga di tecnologia che ha portato a incredibili miglioramenti: ad esempio, la durata della vita media è aumentata di quindici anni e la qualità della vita è molto migliorata (guardiamo anche solo il livello di inquinamento a Milano: si è ridotto di oltre il 50% in quaranta anni). (*) Dott. Giuliano Musetti omarista, fisico, ex senior vicepresident procurament ITALTEL. 14 OMAR nuovo n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI Allo stesso tempo anche il modo di vivere è cambiato: le certezze incrollabili che accompagnavano un giovane Omarista alla fine degli studi quaranta anni fa, oggi sono sparite senza lasciare traccia. Grande parte di questi cambiamenti sono stati indotti dalla tecnologia, prima sognata dai precursori, poi dimostrata fattibile dagli inventori, quindi realizzata e messa alla portata di tanti da imprenditori e managers. A proposito di realizzazioni, è considerato bello avere una buona idea, ma metterla in pratica è molto più difficile e faticoso: tuttavia è un cammino molto bello, gratificante e utile. In pratica, “qualcosa di buono” nasce dalla volontà e determinazione di qualcuno che vuole vedere realizzata una buona idea: e la buona idea spesso nasce da un sogno. Così le invenzioni interessanti, cioè quelle che portano un miglioramento, sono realizzabili e sono economicamente sostenibili quando sono messe in pratica e diffuse, diventano parte della nostra vita, inducono cambiamenti sociali, economici e talvolta ribaltano i paradigmi (modelli) in uso. Tutti i precursori e gli inventori hanno desiderato di poter realizzare la loro invenzione, ma quasi nessuno ci è riuscito, forse perché l’approccio del sognatore e dell’inventore è troppo diverso da quello del realizzatore e la convivenza dei due aspetti nella stessa persona è molto difficile; ma sia l’inventore che il realizzatore sono figure indispensabili. Anche con le telecomunicazioni, le cose sono andate allo stesso modo. Ma partiamo dall’inizio. Quando si parla di telecomunicazioni si parla di telefono. Siamo nel bicentenario della nascita di Meucci e la tentazione è forte. Commemoriamo Meucci stracciandoci le vesti per lo scippo del brevetto che la perfida Albione (Bell era nato in Scozia) ha perpetrato. E plaudiamo al riconoscimento ultrapostumo della primogenitura dello sfortunato genio italico, ottenuto grazie soprattutto al grande Prof. Basilio Catania (che è stato recentemente anche ospite del nostro Istituto). Ma proviamo a liberarci della zavorra dei luoghi comuni e proviamo a rispondere a una domanda semplice: chi ha inventato il telefono? Gli italiani rispondono: Meucci. Meglio: non tutti gli italiani. Alcuni in Valle d’Aosta rispondono: Manzetti, l’inventore del telefono e del robot pifferaio meccanico, anche lui (dicono) scippato da fetentoni d’oltre oceano. Gli americani rispondono Bell oppure Elisha Grey. I tedeschi controbattono: il prof. Reis; gli inglesi Huges; i francesi Bourseul; i danesi La Cour. E tutti hanno la loro parte di ragione. Se andiamo al di là dell’epica e della retorica nazionale, questo caso dimostra che lo sviluppo di un’invenzione di vasta portata, come quella del telefono, già nell’ottocento era inscindibilmente legata alla capacità dell’inventore di essere imprenditore di sé stesso oppure di saper trovare le risorse e gli imprenditori con la voglia di sostenere le sue scoperte. Ripercorrendo molto sinteticamente un percorso che molti storici della tecnologia hanno un po’ alla volta chiarito, si può dire che le conoscenze elettriche di base necessarie allo sviluppo del telefono, che non sono differenti da quelle utilizzate per il telegrafo, erano già disponibili verso il 1831. Bisognava però concepire l’idea che fosse possibile trasformare e riprodurre la voce e i suoni tramite un segnale elettrico, cosa che fu enunciata teoricamente dal francese Charles Bourseul nel 1854, senza però che egli desse un seguito pratico, neanche di laboratorio, alla sua intuizione. Esperimenti parzialmente riusciti a riprodurre suoni, ma non il discorso articolato, furono opera, nel 1861, del fisico tedesco Johann Reis; egli realizzò un rudimentale “microfono” a diaframma, che vibrando apriva e chiudeva un circuito elettrico, così come aveva suggerito Bourseul. Ma non era questa la strada giusta, perché per riprodurre il suono era necessario realizzare un dispositivo in grado di produrre un segnale continuo. Fu quello che Alexander Graham Bell (18471922, americano di origine scozzese) seppe, o ebbe la fortuna, di poter fare: portando a conclusione una vicenda sicuramente complessa, legata ad un’invenzione in cui ebbero parte molti soggetti. Possiamo tranquillamente affermare, come fa la maggior parte degli storici, che Bell inventò il telefono e che la prima fatidica frase trasmessa per telefono fu il prosaico grido “Mr. Watson, come here. I want you”, che Bell pronunciò verso l’assistente, dopo essersi versato dell’acido sui pantaloni. Fonti non ufficiali riportano una frase molto più colorita: merito o colpa dell’acido, sembra. Lasciamo per una attimo Bell, e torniamo al nostro Meucci. Meucci ebbe una vita che fu un’altalena tra eventi fortunati e sfortunati. Fuggito per motivi politici dall’Italia, trovò a L’Avana un successo imprenditoriale notevolissimo, sostituendo al processo industriale di metallizzazione degli accessori militali, l’elettrodeposizione mediante elettrolisi: riducendo drasticamente la quantità di metallo depositato poté abbattere i costi e offrire prezzi più bassi con profitti più alti. Fanatico dell’elettricità, la applicò alle cure mediche e divenne un ricercato elettroterapeuta. Proprio durante una seduta di elettroterapia su un paziente che soffriva di reumatismi alla testa, nel 1849 colse l’ispirazione del telefono. Mi piace riassumere l’episodio, anche per rendere omaggio allo sconosciuto paziente che gli permise di immaginare che la voce sarebbe potuto essere trasportata da un impianto elettrico. Infatti, il poveretto (in breve capirete perché uso questo aggettivo) veniva curato così: al paziente era chiesto di tenere in ciascuna mano un elettrodo. L’elettrodo della mano destra era isolato, a meno di una linguetta di rame, che avrebbe dovuto portarsi alla bocca, al comando di Meucci. Nulla di male, se non che gli elettrodi facevano capo ad una batteria da 114 (centoquattordici!) volt, asserviti ad un interruttore comandato dal Meucci. Questi, che era distante tre camere dal paziente (come documentano i suoi stessi disegni), iniziò la terapia: diede il comando di inserire la linguetta in bocca e azionò l’interruttore. Immediatamente il paziente si mise ad urlare, ma senza distaccare l’elettrodo dalla bocca. Meucci staccò l’interruttore e le urla cessarono, lasciando spazio a sospiri profondi e pensieri forse un po’ meno profondi. Meucci aveva notato, o percepito, una corrispondenza tra la modulazione delle urla e il passaggio di corrente. Da bravo scienziato riattivò l’interruttore: le urla ripresero, e con le urla la modulazione della corrente. Per dovere scientifico l’interruttore fu attivato e disattivato più volte. Non sappiamo se la terapia sortì effetti positivi verso i reumatismi del paziente, ma dall’esperimento Meucci trasse l’incrollabile convinzione che era possibile trasformare il suono in elettricità. Proseguendo la sperimentazione si convinse, anche a beneficio dei pazienti, che l’esperimento poteva essere replicato a tensioni molto più basse di 114 volt. Le fortune di Meucci continuarono negli Stati Uniti, ove riparò dopo aver lasciato Cuba a causa delle turbolenze politiche e sociali dell’isola: infatti, fece fortuna come industriale produttore di candele steariche che non sgocciolavano cera. Ma l’idea del “telettrofono” (così volle battezzare la sua invenzione) lo ossessionava e riuscì a realizzare un prototipo. Non ebbe fortuna nella realizzazione del progetto: infatti, non seppe trovare finanziatori. Inoltre, il fallimento della fabbrica e un terribile naufragio, che lo lasciò tra la vita e la morte per diversi mesi, non gli diedero la possibilità di chiudere la partita. Così, il 3 marzo 1876, fu depositato a Boston un brevetto a nome di Bell e dei suoi soci finanziatori (G.G. Hubbard, avvocato e suo futuro suocero, e T. Sanders, un commerciante di pellami) per un dispositivo capace di “migliorare la telegrafia”. Bell avrebbe, infatti, continuato a rimarcare: “… tutti gli altri apparecchi telegrafici producono segnali che richiedono di essere tradotti da esperti, e tali strumenti sono perciò estremamente limitati nelle loro applicazioni, ma il telefono parla, e per questa ragione può essere utilizzato per quasi ogni compito nel quale si usi il linguaggio”. È interessante ricordare due vicende che avvennero pochi mesi dopo la data di deposito del brevetto di Bell. Prima di tutto la Western Union, potentissima società telegrafica statunitense, non intuendo o temendo le potenzialità dell’invenzione, si rifiutò di acquistare questo brevetto, che Bell avrebbe ceduto volentieri per 100.000 $ di allora, una cifra interes- n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI OMAR 15 nuovo sante, ma infima, considerando il successo che avrebbe avuto. Bell e i suoi finanziatori, fra cui suo suocero, decisero allora di fare da soli: iniziarono a costruire qualche modesto impianto di collegamento punto a punto (in pratica dei citofoni) e fondarono quella che sarebbe stata la capostipite di un colosso delle telecomunicazioni, la Bell Telephone Company. In secondo luogo, la nuova società decise di non vendere gli apparecchi telefonici, ma di noleggiarli, iniziando una procedura che venne in seguito adottata da tutte le società telefoniche e che è stata a lungo l’unica accettabile per uno sviluppo uniforme delle apparecchiature e dell’utenza. Crescendo la domanda di impianti, i collegamenti punto a punto si dimostrarono subito poco idonei a 16 OMAR nuovo n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI soddisfare le sia pur modeste esigenze dei primi abbonati; si arrivò così, nel gennaio 1878, alla costruzione del primo centralino a otto linee e 21 telefoni, realizzato a New Haven nel Connecticut, nel quale più utenti condividevano ancora la stessa linea. Nel frattempo altri inventori erano comparsi sulla scena, in particolare Thomas A. Edison che, iniziata la sua carriera come telegrafista, diede importanti contributi anche alla telefonia, soprattutto con il perfezionamento del microfono a resistenza variabile (a capsula di carbone). In effetti, i primi apparecchi concepiti da Bell (così come quelli di Meucci) erano degli strumenti per convertire i suoni in elettricità, e viceversa. Infatti, dovevano essere alternativamente usati come trasmettitore e come ricevitore. Questi dispositivi era- no abbastanza adatti a fungere da ricevitori, ma svolgevano molto peggio la funzione di trasmettitori, poiché le deboli correnti elettriche che essi generavano per la pressione della voce su una membrana, in un avvolgimento di filo sottile immerso nel campo magnetico di una calamita, non potevano andare molto lontano. A questo inconveniente si rimediò con l’invenzione del microfono a capsula di carbone, un dispositivo che permetteva di modulare con i suoni la tensione di una batteria, e quindi di immettere sul filo molta più energia. L’invenzione del microfono consentì anche alla Bell di migliorare la qualità dei suoi apparecchi e di realizzare telefoni in cui ricevitore e trasmettitore erano separati, mentre prima, come già accennato, si doveva usare alternativamente lo stesso dispositivo per ascoltare e per parlare. Furono inoltre realizzati dei dispositivi accessori per attuare la chiamata, avvertendo il corrispondente della intenzione di comunicare. Inizialmente si trattava di suonerie azionate dalle stesse pile che alimentavano il telefono, ma presto si passò alle suonerie “polarizzate” funzionanti con la corrente alternata prodotta da un piccolo generatore mosso da una manovella. Altri componenti, come i ganci di commutazione, furono presto introdotti per facilitare l’uso dell’apparecchio. Quando si appendeva la cornetta al gancio i fili della linea erano commutati sulla suoneria, che era così pronta ad avvisare di una chiamata. Appena si rispondeva, alzando la cornetta, i fili erano commutati al circuito microfonico. In sostanza, nella maggior parte degli apparecchi telefonici in uso fin verso la fine dell’800, il microfono ed il ricevitore erano separati, ma già verso il 1890 cominciarono ad apparire telefoni dotati di una cornetta impugnando la quale si portava all’orecchio il ricevitore e contemporaneamente ci si trovava il microfono davanti alla bocca. Il rapido incremento degli utenti (che avvenne soprattutto negli Stati Uniti) pose presto dei grossi problemi nelle centrali di commutazione, che fin verso la fine dell’800 erano quasi tutte manuali, e richiedevano l’impiego di un gran numero di centraliniste. Già nel 1889, comunque, l’americano Almon B. Strowger brevettò un commutatore automatico con selettore rotativo a cento passi, che l’utente poteva attivare mediante un pulsante posto sul suo telefono. È curioso ricordare che Strowger ideò il sistema a commutatore automatico per neutralizzare la concorrenza sleale che l’altro impresario di pompe funebri gli stava facendo (Strowger era un impresario di pompe funebri): infatti, la centralinista della sua città era una parente del concorrente e deviava sul suo apparecchio tutte le chiamate che richiedevano il pietoso servizio. Con questo sistema fu messa in servizio a La Porte (Indiana, USA) nel 1892, la prima centrale automatica, che serviva 75 utenti. Il telefono dotato di un disco per la formazione del numero, che ci è stato familiare fino a pochi anni fa, fu introdotto molto gradualmente dal 1896, dopo l’invenzione del disco combinatore decimale, da parte di Keith e Ericksson. Il sistema telefonico basato su suoneria separata, cornetta, disco combinatore e centrale di commutazione elettromeccanica restò praticamente lo stesso fino agli anni settanta del secolo scorso, quando si iniziò a introdurre l’elettronica. Perciò possiamo affermare che, con l’invenzione del disco combinatore, finisce la prima fase delle telecomunicazioni. Permettetemi di chiudere queste pagine con qualche considerazione che prende spunto dal tema iniziale e forse potrà servire da base per altri approfondimenti. La realizzazione di una buona idea nasce dalla volontà e determinazione di qualcuno che vuole vederla realizzata e la buona idea spesso nasce da un sogno. Perciò dovrebbe essere nostro obiettivo insegnare ai nostri giovani ad organizzarsi e a prepararsi a saper realizzare progetti. Dovremmo insegnare loro a sognare, facendoci carico di offrire gli strumenti per realizzare i loro (i nostri) sogni: quali sono questi strumenti e chi li può o li deve dare? La Scuola dovrebbe dare razionalità, articolata in conoscenza, tecnologia, metodo e pianificazione. La Famiglia dovrebbe dare sicurezza alla sfera emotiva e affettiva, trasmettendo Curiosità, Fantasia, Fiducia, Buon Senso, Solidarietà, Amore. La Società, quindi la Politica, dovrebbe dare sicurezza attraverso Etica e Principi, Regole, Infrastrutture. Lascio questi temi sul tavolo ideale delle persone di buona volontà, che forse vorranno approfondirle e, forse, metterle in pratica. Vi ringrazio per l’attenzione e mando un cordiale abbraccio a tutti gli Omaristi. n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI OMAR 17 nuovo Studi e informazioni culturali Il Caso TiO 2 Come nel principale ente di ricerca della Città di Novara si effettuò la transizione ad una impostazione moderna dell’organizzazione di ricerca e come può succedere che un successo della ricerca non si traduca in azione industriale (parte prima) Giovanni Pieri I - Il progetto TiO2 nasce all’Istituto Guido Donegani tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta, come ricerca di inseguimento alla Du Pont da parte della Montecatini. Nel 1940 Du Pont aveva avviato una produzione di biossido di titanio via cloro, un processo per convertire il tetracloruro di titanio gassoso in biossido di titanio (in simboli: TiO2) pigmentario attraverso una combustione diretta del cloruro con ossigeno. La tecnologia forniva un prodotto nella forma cristallina rutilo, che consente le migliori prestazioni del pigmento. Tra i vari tipi Du Pont l’R 900 era preso dai ricercatori del Donegani come obiettivo verso il quale puntare. II - Cuore dell’impianto Du Pont era il reattore, detto anche bruciatore, per la reazione di combustione fatta avvenire all’interno. La forma del reattore era sommariamente nota dalla letteratura brevettuale: un lungo cilindro verticale, di circa un piede di diametro, alimentato dall’alto con ossigeno preriscaldato ad alta temperatura. Il tetracloruro era alimentato ad una certa altezza attraverso una fenditura circonferenziale. All’incontro dei due gas si accendeva la combustione, sostenuta dall’alta temperatura dell’ossigeno. La combustione progrediva nella parte di reattore sotto la fenditura, dove il pigmento solido si formava come prodotto di combustione. Si sapeva, ma non era chiaro da quali fonti, che Du Pont aveva dovuto tribolare assai per mettere a punto l’impianto e che, una volta trovato l’assetto giusto, non lo aveva mai più cambiato dal 1940. Se ne deduceva che il bruciatore potesse marciare in una condizione sola e che la differenziazione del prodotto in vari tipi fosse poi compiuta nei post-trattamenti, su una base unica prodotta nel reattore. III - Lo spirito con cui questa ricerca veniva condotta all’inizio era quella del “me too”, basato sulla banale considerazione che ciò che è buono da produrre per gli americani è buono anche per Montecatini, con poca considerazione delle economie di scala, della dimensione del mercato accessibile, della forza dei competitori. La mentalità corrente, pur senza ideologizzazioni, era ancora quella autarchica dell’anteguerra, secondo la quale era scontato che autoprodurre fosse più conveniente che comprare. In questo spirito la ricerca era stata onestamente condotta da due laureati: il dottor Piccolo e 18 OMAR nuovo n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI l’ingegner Maiorano. Secondo l’organizzazione dei tempi il chimico lavorava al progetto con il suo laboratorio e con il personale in forza a quello. In quell’ambito doveva creare tutte le competenze necessarie o altrimenti farne a meno. L’approccio interdisciplinare era sconosciuto e la stessa convergenza di forze verso un obiettivo comune non era assolutamente praticata. Nel Donegani di allora la ricerca era svolta da una molteplicità di laboratori, ciascuno equiparato ad un reparto produttivo, ciascuno impegnato su un suo progetto, con poca o nulla interferenza da parte degli altri. L’unica eccezione veniva praticata per il caso in cui nella ricerca ci fosse necessità di progettazione di apparecchiature, con aspetti anche meccanici; in tal caso al chimico veniva affiancato un ingegnere, il quale, pur avendo dignità pari al collega, non aveva laboratorio né personale proprio ed era in posizione di consigliere piuttosto che di responsabile. IV - Il duo Piccolo-Maiorano, sorto in base a tali principi organizzativi, non aveva lavorato male. Non aveva tentato di copiare la tecnologia Du Pont, troppo esotica (si era mai visto un bruciatore radiale?), ma si era attenuto alla tecnologia Cabot, anch’essa nota attraverso i brevetti. Cabot proponeva un ampio reattore rivestito di refrattario, una tipica camera di combustione, con un bruciatore assiale alla sommità. Nel bruciatore venivano fatti bruciare con ossigeno sia il tetracloruro, sia ossido di carbonio, il cui calore di combustione sosteneva la reazione principale, in assenza del preriscaldamento dell’ossigeno. I risultati in parte c’erano: venivano ottenuti prodotti di tipo pigmentario, ma la qualità del mitico R 900 continuava a sfuggire. Un preciso giudizio di merito non è possibile a distanza di tempo, dato l’ambito organizzativo chiuso in cui i fatti si svolgevano, ma sembra di poter dire con una certa sicurezza che dopo un periodo di alcuni anni ci si trovasse in una situazione di stallo: risultati sicuramente incoraggianti, ma non ancora all’altezza di un pieno raggiungimento dell’obiettivo. Soprattutto, esaurita la spinta iniziale, sembra che mancassero le idee su come procedere per ottenere un successo pieno. V - Così più o meno è la situazione quando entra in scena un nuovo personaggio. L’uomo è un giovane dirigente, molto noto sia in Montecatini sia all’esterno. Al Donegani ha diretto la Sezione Geochimica con dinamismo e successo. Il futuro lo avrebbe proiettato ad altissimi livelli sia in ambito nazionale sia internazionale. Umberto Colombo, ché di lui si tratta, viene nominato responsabile della Sezione Chimica Inorganica, un raggruppamento di laboratori che si occupano di svariati argomenti nella chimica a valle delle attività minerarie della Montecatini. Della Sezione fanno parte il dottor Piccolo ed il “suo” progetto TiO2. VI - Colombo vede le cose in grande. Non si sa se, dovendo egli stesso partire da zero, avrebbe scelto di iniziare una ricerca di inseguimento nel campo del biossido di titanio. Dal momento che ne diventa responsabile, però mostra di crederci, non solo con le parole, ma anche con una quantità di fatti. Una cosa è certa: il progetto così com’è per lui è assolutamente inadeguato. Se deve essere portato avanti c’è bisogno di ben altri mezzi. VII - Colombo per prima cosa sovverte l’organizzazione del progetto, basata sul discutibile concetto di “un uomo, un progetto”. È una organizzazione vecchia, sorpassata, “di tipo militare” la chiama lui. È necessario istituire un gruppo di lavoro con competenze differenziate, che possa prendersi cura di tutti gli aspetti chimici, fisici e ingegneristici del progetto. Colombo dà la carica ai suoi uomini. Alcuni di questi, come il professor Sironi, hanno già lavorato con lui alla Sezione Geochimica ed hanno esperienza nella conduzione di progetti complessi e sono già in sintonia con il carattere dinamico di Colombo, che richiede rapidità ed efficacia. Colombo attira nella sua orbita anche personaggi di altri laboratori, ottenendo un impegno da parte di uomini della Sezione Chimica Fisica, come il dottor Lanzavecchia e il dottor Gazzarrini, che portano il contributo dei laboratori meglio strumentati del Donegani. Colombo fa venire il dottor Mancini, uno specialista di pigmenti, dalla Divisione Prodotti per l’Industria (DIPI) a occuparsi del laboratorio di caratterizzazione del pigmento. VIII - Gli ingegneri vengono fatti entrare in massa nel progetto. La sparuta pattuglia degli ingegneri in forza al Donegani si mobilita per disegnare apparecchi e impianti. La Divisione Ricerche (DIRI) aveva peraltro un nutrito gruppo di ingegneri di stanza a Milano, in cui si trovavano non solo esperienza di ingegneria di processo, ma anche competenze specialistiche, come progettazione di bruciatori, matematica applicata, modelli matematici e statistica industriale. Si tratta di persone con consolidata esperienza come l’ingegner Mariani, il professor Cappelli e l’ingegner Bedetti ed anche di brillantissime promesse come Mario Dente e Amilcare Collina. Questa struttura si mobilita ampiamente sul progetto, alcuni di loro vengono trasferiti temporaneamente a Novara per dar man forte agli ingegneri locali. Non è chiaro se questo impegno sia stato richiesto o subito, sta di fatto che allarga a Piergiorgio Gatti, capo del DIRI, la responsabilità del management del progetto. Ad un più alto livello si ripropone la diarchia che lo caratterizzava all’inizio. C’è un’anima chimica, impersonata da Colombo ed un’anima ingegneristica, impersonata da Gatti. Ciascuno con la sua struttura e la sua filosofia. Ma tutto questo non frena il progetto, anzi gli dà maggiore impulso. IX - Dopo aver sovvertito la stantia organizzazione interna, Colombo apre sull’estero. Colombo ha una formazione americana, ha passato un anno al prestigioso MIT di Cambridge (Massachusetts), parla perfettamente l’inglese, viaggia, tratta con disinvoltura in un contesto internazionale, sia industriale, sia accademico, che conosce molto bene. Prende allora come consulente il professor M. W. Thring, del Queen Mary College di Londra. È questi un Solone della combustione, che per primo ha inquadrato teoricamente i fenomeni che si verificano nelle fiamme a causa del confinamento dato dalle pareti della camera di combustione. La teoria che porta il suo nome risale agli anni quaranta. Le sue visite periodiche diventano l’occasione per rivedere da capo a fondo i risultati e le impostazioni del progetto. Nella Sala Consiglio del Donegani si radunano tutti i partecipanti del progetto, ciascuno per presentare a Thring ed agli altri il proprio lavoro. Con la regia di Colombo e lo stimolo delle domande e ossevazioni di Thring si accendono discussioni critiche, a volte feroci. Il vecchio sistema, per il quale ognuno teneva segreti i suoi risultati, li faceva vedere solo al suo capo in un rapporto quasi da confessionale, è ormai un ricordo. Si impara ora raccontare tutto a tutti e a sentire in diretta i commenti su obiettivi e risultati, pronti a rintuzzare le critiche e, se necessario, ad ammettere i propri errori ed a cambiare rotta. X - Colombo però guarda ancora più lontano ed entra nella Flame Research International Foundation (FRIF), un ente di ricerca consortile di base a Ijmuiden in Olanda, ospitato da Hoogovens, la grande fabbrica di acciaio con altiforni e laminatoi. La FRIF è una associazione di aziende pubbliche e private di vari paesi europei, soprattutto francesi, tedesche e inglesi, ma anche belghe e olandesi. Al momento in cui Colombo vi associa la Montecatini, la FRIF ha una storia prestigiosa e vanta alcuni successi strepitosi. Tra tutti brilla il primo modello matematico di una fornace mai realizzato al mondo. Si tratta di un lavoro, sperimentale e teorico insieme, sulla combustione del carbone polverizzato. Era stato costruito un forno sperimentale con flusso a pistone sul quale era stata misurata la cinetica di combustione in funzione del tempo. Successivamente era stato costruito un modello a freddo della fornace reale per misurare in ogni punto il flusso dei gas. Infine, con l’uso combinato dell’espressione cinetica e degli schemi di moto misurati sul modello, era stata calcolata l’efficienza della fornace reale. Il confronto con le efficienze di combustione misurate sperimentalmente aveva decretato il successo di tutta l’operazione. Questo risultato, negli anni cinquanta, tempo in cui i computer erano a disposizione solo di pochissime organizzazioni ha dello sbalorditivo. XI - Ma la FRIF non è solo un centro di cultura che ha svolto ricerche paradigmatiche per i ricercatori del progetto TiO2, ma anche una miniera di dati sperimentali, di metodi, di apparecchi sviluppati originalmente per ogni esigenza di misura nel campo della combustione. Pertanto viene utilizzata da Colombo come sito esterno per dare una formazione specifica ai ricercatori. Anche lo scrivente, come at- n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI OMAR 19 nuovo to di ingresso nel progetto, ha passato un mese di addestramento sul forno pilota della FRIF, eseguendo misure di velocità, temperatura e composizione chimica all’interno delle fiamme. La FRIF consente anche ai ricercatori di farsi una esperienza internazionale, partecipando ai vari “panel” e “steering committees”. Il dottor Cadorin, uno stretto collaboratore di Colombo, tiene le fila di tutto questo. Poiché la Montecatini è l’unica azienda chimica associata alla FRIF (le altre sono principalmente coinvolte nella produzione di energia elettrica), porta una esperienza decisamente unica. Così Colombo oltre che prendere trova anche il tempo di dare qualcosa alla FRIF e promuove l’istituzione del “chemistry panel”, nel quale è centrale la chimica delle fiamme, fino ad allora rimasta indietro rispetto alle scienze fisiche e termotecniche coltivate negli altri “panel”. XII - Al termine di questa fase di riorganizzazione lo spiegamento di laboratori e competenze sul progetto è impressionante: – l’impianto pilota con il bruciatore tipo Cabot al quale lavora ancora l’ingegner Maiorano. Il dottor Piccolo è frattanto passato alla SIR per ragioni facili da immaginare; – il laboratorio di caratterizzazione dei pigmenti che impegna per la quasi totalità il laboratorio di microscopia elettronica; – il laboratorio di cinetica chimica dove viene misurata la cinetica di combustione del tetracloruro di titanio con ossigeno; – l’installazione pilota per lo studio della ossidazione del tetracloruro assistita con arco elettrico; – l’installazione scala pilota per misure della cinetica di accrescimento delle particelle pigmentarie, con un approccio simile a quello della FRIF sul carbone polverizzato; – laboratorio di prove fluidodinamiche dove con modelli trasparenti e con flussi di aria fredda si simula il moto dei fluidi all’interno dei reattori; – il gruppo degli ingegneri di processo impegnati a progettare un nuovo e più efficiente impianto pilota; – il gruppo degli ingegneri impegnato a progettare apparecchi speciali. Tra questi l’ing. Bedetti progetta nuovi e più efficienti bruciatori, in cui i fluidi anziché fluire assialmente sono animati da un moto elicoidale, che nell’esperienza del progettista, confortata in pieno da quella della FRIF, assicurano un miscelamento più efficiente ed una combustione più rapida. Poiché in presenza di cloro ad alta temperatura si hanno dubbi sulla tenuta nel lungo termine dei materiali metallici si progetta anche un bruciatore realizzato completamente in quarzo; – il gruppo degli ingegneri impegnato nella realizzazione di strumenti di misura capaci di funzionare nell’ambiente aggressivo da cloro e carico di finissime particelle di pigmento sospese nel gas di combustione. Tra queste: sonde per misurare la temperatura, la velocità dei fluidi, la velocità di deposizione delle particelle solide, dei coefficienti di scambio termico tra gas di combustione e pareti. A questo punto, con la costituzione di un gruppo di ricercatori di dimensioni ed equipaggiamento 20 OMAR nuovo n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI adeguati i problemi interni del progetto possono essere considerati risolti. XIII - Colombo pone allora mano agli aspetti strategici della ricerca. Evidentemente una ricerca di inseguimento ha tanta più speranza di successo quanto più folto è il gruppo degli inseguitori. Poiché solo Du Pont usa efficacemente la tecnologia via cloro ed è leader del mercato, devono esser in molti a desiderare di entrarne in possesso. Colombo trova un partner nella New Jersey Zinc (NJZ) con la quale stipula un contratto per un progetto congiunto di sviluppo della tecnologia. In base a tale accordo NJZ paga un milione di dollari come biglietto di ingresso per portarsi alla pari con Montecatini, che fino ad allora può dimostrare di avere speso per il progetto due milioni di dollari. Per il futuro le spese sono divise a metà, così come la proprietà dei risultati. Il grosso delle ricerche continuerà a svolgersi a Novara, mentre presso NJZ si svolgeranno solo caratterizzazioni dei pigmenti, compito nel quale loro sono fortissimi. Nel programma viene incluso anche lo studio su scala pilota della produzione del tetracloruro di titanio a partire da ossido di titanio minerale. Questo è uno sviluppo naturale del progetto ed assicura che alla fine il know-how sarà completo dal minerale al pigmento. Il Joint Research Project (JRP) prevede un comitato congiunto che si riunisce ogni tre mesi per sorvegliare l’avanzamento dei lavori. Prevede inoltre che un gruppo di tre americani, due ingegneri ed un supervisore, risieda permanentemente a Novara con funzioni di controllo. XIV - L’accordo del JRP è un colpo da maestro. In un’unica azione si dimezzano le spese di ricerca e si raddoppia il mercato di riferimento per il progetto, riducendo i rischi finanziari e commerciali. Ci si assicura inoltre la conoscenza del prodotto e del mercato di un operatore già attivo. Si completa il ciclo dal minerale al pigmento, riducendo i rischi di insuccesso tecnico. Di importanza sicuramente minore, ma non per questo trascurabile il JRP comporta un rafforzamento del management del progetto, formalizzando il metodo di revisione collettiva degli obiettivi e dei risultati già introdotto da Colombo. XV - Non appena il JRP comincia a funzionare si può finalmente mettere mano all’unico aspetto del progetto finora lasciato immutato: la tecnologia di combustione. La domanda fondamentale, che Colombo pone nei fatti, può essere così esplicitata: se stiamo inseguendo Du Pont, leader tecnologico e di mercato, perché lo facciamo imitando la Cabot? O cercando alternative, ad esempio l’arco elettrico, che promettono complicazioni in vista di non si sa quali vantaggi? Il pragmatismo degli americani della NJZ dà la risposta più ovvia: fa comparire un signore, che pur non dicendo niente di Du Pont, si mostra abbastanza al corrente da poter consigliare in quale direzione andare. “Per esempio, secondo me” dice “con un reattore pilota fatto come questo” ed estrae un foglio A4 schizzato a mano “dovreste ottenere un prodotto pigmentario di sicura soddisfazione”. La decisione di Colombo e del management americano è chiara: il nuovo pilota avrà un reattore corrispondente a quello schema. XVI - Con questa decisione si può dire che la fase di riorganizzazione del progetto, durata all’incirca tra il 1965 e il 1966, sia finita e che a questo punto idealmente si ceda la scena ai ricercatori: l’organizzazione funziona, i mezzi sono tutti a disposizione, è il momento che chi li ha in carico cominci a farli fruttare. Questo passaggio avviene non senza scosse. Gli ingegneri si mettono al lavoro per progettare il nuovo bruciatore. Si mettono a ragionare sullo schizzo che è stato proposto e cercano di trovarci una razionalità, che, se c’è, appare ben nascosta. Quanto appare assai probabile è che il reattore, seguendo pedissequamente lo schizzo, non misceli con sufficiente rapidità e che vada riprogettato a fondo. Con le migliori intenzioni fanno qualcosa che appare sensato, ma che si rivelerà un errore. Il reattore viene ridotto di diametro per facilitare la penetrazione del tetracloruro di titanio nella corrente di ossigeno. Ne risulta qualcosa che assomiglia all’originale ma ne differisce in una quantità di particolari. XVII - Altri fatti disorientano il gruppo di lavoro. Il bruciatore con moto elicoidale, provato nel vecchio pilota dà risultati, se possibile, peggiori di quello assiale. Tentativi ripetuti di migliorare ulteriormente la sua capacità di miscelare i reagenti non danno miglior esito. Frattanto Maiorano continua le prove col suo bruciatore assiale. Stimolato dal clima generale lo modifica in modo che la combustione avvenga in due stadi: nel primo il CO brucia in forte eccesso di ossigeno generando un gas caldo ossidante, che successivamente fa bruciare il tetracloruro di titanio. Tutto ciò diversamente dalla pratica consueta, nella quale per facilitare la miscelazione, si tende a portare in contatto i tre componenti allo stesso momento. Il risultato è un prodotto pigmentario che comincia a somigliare al sospirato R 900. Ma perché le cose vanno meglio quando la scienza dice che dovrebbero andare peggio? Le discussioni sono serrate. In questa fase Colombo si pone come una guida per i molti giovani e ancora inesperti ricercatori cercando di razionalizzare quanto succede. Il suo intento è evitare il disorientamento del gruppo così faticosamente costruito, facendo vedere che ci si può logicamente districare anche attraverso fatti apparentemente contraddittori. XVIII - Questo periodo è segnato da un’alta mortalità dei filoni di ricerca precedentemente avviati. Il bruciatore assiale viene chiuso nonostante i buoni risultati, perché si presume di riprodurli sul bruciatore tipo Du Pont, nel quale la combustione del CO e del tetracloruro di titanio sono separate. La stessa fine fanno i bruciatori con moto elicoidale. Cade nel dimenticatoio il metodo di riscaldamento con arco elettrico. Falliscono le prove cinetiche su scala pilota: per difetto di progettazione il riscaldamento esterno del reattore con flusso a pistone è disuniforme e provoca la rottura del tubo di allumina che costituisce il reattore medesimo. Si rinuncia alle tecniche di misura all’interno del reattore e ad una quantità di altre iniziative sparse in favore di una maggior concentrazione di forze. Anche dove si hanno risultati di buon livello ci si trova ugualmente in situazione di stallo. Questo avviene per le cinetiche di combustione del TiCl4 e per le misure fluido- dinamiche eseguite su modelli a freddo dei reattori con bruciatore a moto assiale ed elicoidale. I risultati ci sono, ma di per sé non hanno una valenza operativa immediata per chi deve mettere a punto il processo. Per esempio nella cinetica di ossidazione l’ordine di reazione dell’ossigeno è 1/2. Che cosa dedurne? Oppure le prove fluidodinamiche mettono in evidenza che un bruciatore a moto elicoidale miscela più rapidamente di uno assiale, ma induce una ricircolazione più intensa nella camera di combustione. Quale dei due comportamenti è migliore e perché? XIX - Il peggio peraltro deve ancora venire. Quando il nuovo pilota tipo Du pont è finalmente costruito e provato si ha un’amara sorpresa. Il prodotto non è pigmentario! Visto al microscopio elettronico risulta fine, uniformemente disperso, ma fine. Come si sa dalla teoria ottica delle particelle pigmentarie esse devono avere un diametro di circa la metà della lunghezza d’onda prevalente nella luce visibile, per diffondere al massimo la luce e sviluppare un bel bianco coprente. Ciò porta ad un diametro di circa 0,22 mm. Ma le particelle che escono dal nuovo reattore sono molto più piccole: il loro diametro medio non supera gli 0,12 mm e di potere coprente non se ne parla. Questo è un problema nuovo per il gruppo di lavoro, infatti con gli altri tipi di bruciatore il problema era semmai l’opposto: non ci si liberava di una consistente frazione di particelle che riuscivano sempre troppo grosse. Anche nel caso che il diametro medio fosse più o meno quello giusto, si trovava sempre una coda di particelle grosse. Ora invece le particelle sono tutte uguali e tutte fini. Volenterosamente gli ingegneri che hanno in carico l’impianto pilota si affannano a cambiare temperature, portate e tutte le condizioni di prova che potrebbero avere un’influenza, ma con scarsi risultati. Le particelle restano irrimediabilmente piccole. C’è da rimanere senza parole. XX - Al primo “JRP Committe Meeting” alla cosa non venne dato peso. L’impianto era stato appena avviato ed un periodo di adattamento era scontato. Ma alla riunione successiva, quando gli americani si accorgono che in tre mesi non si sono fatti progressi, viene giù il mondo. Gli americani, a giudicare da quanto si sente dal corridoio fuori della Sala Consiglio, sostengono con vigore il loro buon diritto a vedere buoni risultati in tempi ragionevoli. Una cosa è chiara: se dopo altri tre mesi le cose non cambiano, si potrà dare l’addio al JRP. La tensione è altissima e se ne tentano di tutte per uscire dall’impasse. Accanto all’impianto pilota lavora molto il laboratorio di misure fluidodinamiche. Nei mesi trascorsi qualcosa si è vagamente intuito. La sensazione è che tutto sia determinato dal modo in cui i reagenti vengono messi in contatto e pertanto si simula il processo di miscelazione su modelli a freddo e si misura la distanza dagli ugelli alla quale il miscelamento può considerarsi completo. Anche questo fattore non sembra poter spiegare niente e conferma il lavoro dei progettisti: la miscelazione è indubbiamente rapidissima. Le discussioni su questo punto sono infinite. n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI OMAR 21 nuovo XXI - La storia del progetto attraversa quella dell’azienda. Mentre si consuma la grave crisi la Montecatini viene incorporata nella Edison. I cambiamenti a livello aziendale si riflettono anche sul progetto. Nell’ingegneria l’ingegner Gatti lascia e viene sostituito dal prof. Paolo Bortolini di provenienza Edison. Bortolini è un grande tecnico ed alla Edison ha costruito ben quattro impianti studiando in proprio la tecnologia, aiutato soltanto da una piccola squadra di collaboratori. La sua esperienza pratica però è in campi diversi da quello delle reazioni ad alta temperatura e vede le cose in modo molto intuitivo. I suoi suggerimenti per ottenere un buon miscelamento sono qualitativi ed ottengono gli stessi risultati insoddisfacenti che ormai da mesi affliggono tutti. Evidentemente anche lui intuisce che il problema sta nel miscelamento, ma vi gira intorno senza trovare una soluzione definitiva. XXII - Chi la trova è Aldo Ducato, giovane e brillante ingegnere responsabile delle prove sull’impianto pilota. Egli inoltre, in stretta collaborazione con il responsabile, segue molto da vicino le prove del laboratorio di fluidodinamica, tentando di interpretare le prove del pilota alla luce di quelle. Lo spirito della FRIF, introdotto da Colombo, in questa collaborazione viene scrupolosamente applicato. È così che ad un certo momento Ducato si rende conto di quale sia il fattore che variando rende le particelle del pigmento piccole o grandi. Lo grida addirittura nel corridoio, il lungo corridoio del Donegani che dagli impianti pilota porta agli uffici. Ha appena visto i risultati di una marcia a portata ridotta, in cui le particelle, senza essere ancora pigmentarie, sono finalmente uscite un bel po’ più grandi. E per l’impazienza di comunicare subito la notizia, da lontano grida al collega delle prove fluidodinamiche: “Ho capito che cosa è! È il tempo di miscelamento!” È chiaro: riducendo la portata sono aumentati i tempi di soggiorno nel reattore ed è anche aumentato il tempo trascorso dai fluidi nella zona in cui si mescolano! Ci si sente finalmente padroni della situazione. Finora avevamo pensato che il miscelamento dovesse essere il più rapido possibile, ora scopriamo che se vogliamo ingrandire le particelle dobbiamo rallentarlo. Mancano solo due settimane al prossimo “JRP Committee Meeting”, ma sono sufficienti a consolidare il risultato ed a portare nella riunione campioni di un buon prodotto pigmentario. È bastato ingrandire il diametro del reattore nella parte dove avviene il miscelamento ed ivi il tempo di soggiorno aumenta abbastanza da fare il risultato. Ci accorgiamo allora dell’errore commesso quando il reattore pilota era stato riprogettato rimpiccolendolo rispetto allo schizzo che ci era stato proposto. Sarebbe bastato non cambiare il diametro ed avrebbe funzionato al primo colpo. Un errore pagato con sei mesi di lavoro a vuoto correndo il rischio di dover chiudere bottega. Alla riunione del JRP gli Americani della NJZ sono apertamente soddisfatti e si complimentano con Colombo per aver fatto un prodotto potenzialmente superiore al tanto decantato R 900. Chiedono addirittura di far venire in Sala Consiglio i ricercatori per esternare loro il compiacimento per l’eccellente lavoro svolto. È una soddisfazione grandissima. (continua) Breve profilo dell’autore Giovanni Pieri, laureato in ingegneria chimica all’Università degli Studi di Pisa, nel 1963 viene assunto al Donegani. Dopo un’esperienza nei processi di combustione industriale sotto la diretta supervisione dell’ing. Giacomo Fauser, viene chiamato dal prof. Umberto Colombo per rafforzare il team di ricercatori del progetto di ricerca di cui dà qui un resoconto in terza persona. Tra i suoi contributi al progetto si trovano la progettazione di impianti di laboratorio per la misura delle cinetiche chimiche e di sonde per misure di temperatura e altre grandezze nei reattori pilota; è però con il laboratorio di prove fluidodinamiche, da lui creato e diretto, che la sua partecipazione al progetto risulta decisiva. Dopo il progetto ha proseguito la sua carriera di ricercatore nel Donegani, di cui nel 1986 è divenuto direttore. Successivamente ha ricoperto la posizione di responsabile delle ricerche per importanti imprese chimiche nazionali. Attualmente opera come consulente ed è membro del CDA della Fondazione Omar. 22 OMAR nuovo n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI Studi e informazioni culturali Storia del pianoforte (*) seconda parte Basilio Catania Il moderno pianoforte da concerto I pianoforti sono stati costruiti in tre tipi fondamentali: il tipo rettangolare o quadrato, ormai obsoleto, il tipo verticale, ed il tipo a coda. Quest’ ultimo è preferito per le esecuzioni concertistiche, mentre gli altri due sono preferiti per le case private. L’estensione normale di un moderno pianoforte è di 7 ottave e una terza, che corrisponde a 88 tasti. Dietro la tastiera 12 si trova il blocco delle caviglie, in legno duro laminato e perforato, che ospita le caviglie per l’accordatura. Tra il blocco delle caviglie e la tavola armonica, che si estende sulla maggior parte della superficie interna dello strumento, è lasciato uno stretto spazio attraverso il quale i martelletti percuotono le corde dal basso verso l’alto. Un ponte di legno duro, incollato alla tavola armonica, trasmette le vibrazioni, provocate dall’urto del martelletto sulla corda, alla tavola armonica medesima, la quale, vibrando a sua volta, amplifica ed arricchisce il suono. Un pesante telaio metallico, fuso in un sol blocco, è posto al di sopra del blocco delle caviglie e della tavola armonica. Le caviglie per l’accordatura si protendono attraverso il lato anteriore del telaio, mentre il lato posteriore porta le punte di attacco, alle quali è collegato l’altro capo delle corde; in questo modo il telaio è in grado di resistere all’enorme tensione delle corde. Lo strumento ha una corda per ogni nota nel registro grave (ottava più bassa), due corde per ogni nota nel registro medio (seconda ottava, dopo la più bassa), e tre corde per nota nel registro acuto. I pianoforti più moderni hanno tre pedali, anche se il pedale mediano è talvolta omesso. Dei tre pedali, il sinistro serve per attenuare, spostando la tastiera col relativo equipaggio verso destra, così che i martelletti del registro medio e acuto percuotano ciascuno una corda in meno; quello centrale (o tonale) modifica l’effetto smorzante nel registro più basso, mantenendo in posizione rialzata gli smorzi dei tasti che sono stati ‘percossi e mantenuti abbassati prima dell’attivazione del pedale; il pedale destro (di risonanza) alza la fascia di tutti gli smorzi dalle corde, consentendo così alle corde di prolungare le loro vibrazioni. (*) Tratto dall’opera di Basilio Catania «Antonio Meucci – L’inventore e il suo tempo - New York 1850-1871», vol. II, Ed. Seat, 1996, pag. 523-539. La tecnologia del pianoforte, oltre ad una conoscenza approfondita della scienza delle costruzioni, richiede un’accurata scelta dei materiali, come le colle, le pelli, i tessuti, i legni ed i metalli. A partire dalla seconda metà dell’ottocento le corde di ferro dolce vennero sostituite da corde di acciaio. Diversi trattati sull’arte di costruzione dei pianoforti furono pubblicati in Germania e in Austria durante la prima metà dell’ottocento. Tra i primi, quello di Andreas Streicher, del 1802, che descriveva la meccanica viennese. Il XIX secolo, con il suo culto del virtuoso e con l’incoraggiamento al possesso del pianoforte, quale status symbol culturale, rappresentò l’epoca d’oro del pianoforte. Le composizioni per pianoforte È già stato detto, come, agli albori dell’era del pianoforte (primi decenni del settecento), grandi musicisti come Johann Sebastian Bach e Georg Friederich Händel ignorarono o non vollero riconoscere il valore del pianoforte. Naturalmente, le cose cambiarono, a partire dalla seconda metà del secolo XVIII, al punto che la maggior parte dei compositori degli anni successivi erano pianisti. Lodovico Giustini sembra esser stato il primo compositore di musica per il nuovo strumento del Cristofori, avendo pubblicato a Firenze “12 Sonate op. 1 per Cimbalo di piano e forte”, nel 1732. Muzio Clementi, Mozart e Haydn furono i primi compositori di musica per pianoforte, che raggiunsero la celebrità. Tuttavia, Clementi fu il primo a sfruttare le caratteristiche strutturali ed i virtuosismi consentiti dal pianoforte, a differenza degli stili di Haydn e di Mozart, legati alla lenta evoluzione, inizialmente legata alla tradizione tastieristica del cembalo e del clavicordo. Clementi, nato a Roma nel 1752, emigrò in Inghilterra nel 1766 e, dal 1773, vi lavorò come maestro cembalista e come insegnante. Nel 1779 pubblicò le Sonate op. 2, seguendo di un anno Mozart che aveva pubblicato la Sonata K 310, nel 1778. Tra Clementi e Mozart vi fu un profondo contrasto, sfortunatamente macchiato dalla invidia e dai pregiudizi di Mozart verso gli italiani. Secondo Rattalino (ved. bibl.) “Per Mozart, come poi per Chopin, il rapporto musica-manotastiera è di 12 La descrizione che segue si riferisce ad un pianoforte a coda. n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI OMAR 23 nuovo completa identificazione. Per Clementi, come poi per Beethoven, il rapporto di identificazione è tra la musica e le corde tese sul telaio, cioè tra la musica e le possibilità sonore del pianoforte”. Comunque, [Rattalino op. cit.] “la civiltà londinese del pianoforte si sviluppa nella direzione impressale da Clementi e Londra diventa centro di aggregazione per i maggiori virtuosi”, e, come detto sopra, rimarrà tale fino ad almeno la metà del XIX secolo. Per un breve periodo, all’inizio del XIX secolo, le possibilità del pianoforte, come serio strumento musicale, furono oscurate dalla bravura, cioè dagli aspetti tecnici; in conseguenza, le composizioni mature per tastiera di Beethoven e di Schubert furono largamente ignorate dal pubblico a favore degli innumerevoli pezzi di virtuosità da concerto di numerosi altri compositori per pianoforte. Ai grandi compositori romantici, guidati da Frédéric Chopin e da Franz Liszt, rimase l’onere di conciliare la bravura con i più alti contenuti musicali. Si può dire che, mentre Beethoven sviluppò la sonorità orchestrale e la varietà del colore musicale, a Schumann, Chopin, e Liszt si deve la creazione della grande musica romantica per pianoforte del XIX secolo. Nel XX secolo il predominio del pianoforte nella musica da concerto cominciò ad essere mitigato da un’evoluzione stilistica, che ha portato gradualmente ad allontanarsi dal cantabile, così come dall’individualismo e dal virtuosismo. La celesta ed il pianoforte a barre di vetro Sinteticamente, la celesta può essere assimilata ad un pianoforte, in cui si sostituiscano alle corde delle barrette di metallo intonate. Se, in luogo delle barrette di metallo, sono usate barrette di cristallo, si ha uno strumento chiamato pianoforte a barre di vetro. Ambedue gli strumenti appartengono, dunque, alla classe degli strumenti a tastiera, del tipo idiofono, a percussione indiretta. La celesta classica, cioè quella brevettata da Auguste Mustel, fabbricante di strumenti musicali a Parigi, nel 1886, conteneva una serie di barrette di acciaio intonate, che venivano percosse da martelletti, con una meccanica analoga a quella della tastiera di un pianoforte. Al di sotto delle barrette intonate vi erano risonatori in legno, in luogo della tavola armonica del pianoforte: La celesta di Mustel aveva un’estensione di 4 ottave, ma oggi se ne costruiscono a 5 ottave (partendo da D02, un’ottava sotto al DO centrale) e la parte è scritta un’ottava sotto i suoni reali. L’aspetto esterno della celesta è quello di un piccolo pianoforte. Il suo suono purissimo, dolce e delicato (spesso definito etereo, da cui il nome celesta), ma nello stesso tempo piuttosto penetrante e acuto, catturò l’immaginazione di Peter Ilich Tchaikovsky, durante una sua visita a Parigi, tanto che, nel 1892, egli 13 Anticamente, nel nord Europa, il termine glockenspiel o carillon, era riferito ad una serie di campane – con un’estensione da due a quattro ottave – appese su una torre ed azionate a distanza da una tastiera. Tale sistema è ancora oggi usato in Olanda ed in Gran Bretagna. 24 OMAR nuovo n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI decise di inserire la celesta in una danza dello Schiaccianoci. Tchaikovsky fu, dunque, il primo importante compositore che utilizzò la celesta di Mustel. Seguirono molti altri compositori che impiegarono la celesta, come strumento d’orchestra, in opere, balletti o pezzi mistici, in cui potevano far risaltare la sue peculiari qualità di suono. Tra essi, Richard Strauss che, nel 1911, la utilizzò nel Der Rosenkavalier, e Béla Bartok, che diede alla celesta una parte importante nella sua Musica per Archi, Percussioni e Celesta, del 1936. Molti strumenti potrebbero essere considerati padri della celesta. Lo stesso Mustel potrebbe essersi ispirato ad un precedente strumento, il dulcitone, costruito circa venti anni prima da lui stesso o da suo padre. Altri antenati (o, comunque, parenti) della celesta sono anzitutto gli strumenti idiofoni a percussione diretta, sia su barrette di legno intonate (xilofoni), come alcuni strumenti africani e del centro America (ad esempio la marimba, antenata del moderno xilofono), sia su barrette di metallo intonate (metallofoni), come il tedesco glockenspiel italianizzato in cariglione o gariglione, dal francese carillon 13. In particolare, il classico glockenspiel è uno strumento contenente una serie di barrette di acciaio, sistemate su un telaio orizzontale, intonate sulla scala cromatica e suonato con due mazzuoli, perciò a percussione diretta. Al di sotto delle barrette di metallo, sono sospesi dei risonatori. In alcune versioni, le barrette potevano essere percosse dal di sotto, per mezzo di una tastiera. Il suo primo, importante, uso in orchestra fu quello del Flauto magico di Mozart (1791), cui seguirono numerosi altri. Il glockenspiel è anche usato, in versione portatile, dalle bande musicali. Un più recente antenato della celesta di Mustel – anch’esso a tastiera – può considerarsi il clavicilindro, ideato, nel 1799, da un fisico tedesco di Wittenberg, Ernest F. Chladni. I tasti di questo strumento spingevano delle barrette di vetro intonate, contro un cilindro rotante, facendo le vibrare in un modo un pò particolare, che produceva suoni continui, sibilanti ed eterei. Tuttavia, anche se utilizzava barrette di cristallo intonate, il clavicilindro non appartiene alla famiglia delle celeste, perché non era uno strumento a percussione, bensì a sfregamento. Strumenti simili alla celesta, realizzati con barrette di cristallo percosse, erano costruiti già alla fine del settecento, cioè intorno ad un secolo prima della celesta di Mustel. Il cristallo doveva essere purissimo, e ad alto tenore di piombo, allo scopo di ottenere una vibrazione del pari purissima. Questi strumenti vennero denominati in vario modo, ad esempio pianoforte a barre di vetro (pianoforte with glass rods, ved. bibl. Harding) oppure, un pò impropriamente, forte piano a corde di vetro (forte piano à cordes de verre, ved. avanti). Un esemplare di questo tipo, datato a fine settecento, di fattura popolare umbra, si trovava in restauro presso Il Laboratorio di Milano, restauratore ufficiale della Teatro alla Scala, al momento della stesura di questa appendice, nel gennaio 1993. Come comunicato allo scrivente dalla Direttrice del laboratorio, signora Rita Trecci Gibelli, tale strumento aveva: “...barrette in cristallo anziché in metallo, ed un aspetto esteriore simile ad un piccolo pianoforte a tavolo, i cui martelli non percuotono corde, bensì delle piastre di cristallo precedentemente intonate. ... La tastiera e la meccanica,., sono simili a quelle di un organo positivo del ’700, ed è priva di smorzi. Il tasto è incernierato al telaio tramite della pelle, ed è attaccato al martello da un filo di ottone che è imperniato in una barra e tenuto sospeso da una molletta. Premendo il tasto, il filo tira il martello, il quale, abbassandosi, percuote la lastra di cristallo. La funzione della molletta è quella di permettere al martello di rialzarsi dopo la percussione quando viene lasciato il tasto. Questo strumento, di origine popolare, è molto raro, in quanto il corpo vibrante è in lastre di cristallo, e tutte le parti che lo compongono risalgono alla fine del ’700. Si differenzia dalla celesta di Mustel oltre che dalla meccanica, anche dall’estensione della tastiera, che in questo caso è di 3 ottave e 3/4. Esistevano altri strumenti di questo tipo, che avevano una minore estensione della tastiera, anche soltanto di 2 ottave e 1/2”. Un altro strumento dello stesso tipo è menzionato in un numero del Journal de Paris del 1785 (ved. bibl.), in cui si dà notizia dell’invenzione di un forte piano à cordes de verre, riferentesi ovviamente ad uno strumento a barrette di cristallo (non a corde, ma con barrette in sostituzione delle corde), inventato in quello stesso anno da un certo Beyer, e denominato glass-chord da M. Franklin dell’Académie des Sciences francese: Journal de Paris N. 322 - Vendredi 18 Novembre 1785, de la Lune le 17, p. 1326 “Arts.- Le Sr Beyer prévient les Amateurs que le forte piano à cordes de verre de son invention, annoncé dans le Journal du 24 Août dernier, qui a mérité le suffrage de l’Académie des Sciences, sous le nom de “glass-chord” que lui a donné M. Franklin, peut etre vu chez lui les Dimanches depuis onze heures jusqu’ à une heure & demie; il sera joué par le Sr Schonk, Maître de clavecin, pendant 15 jours, à commencer de Dimanche prochain.” Si fa notare che una caratteristica vantata dagli strumenti con barrette di metallo o di cristallo, come la celesta ed il fortepiano a barrette di cristallo sopra descritti, era che essi non abbisognavano di periodiche accordature, come i pianoforti normali (a corde). La notizia del Journal de Paris sopra riportata (che pare non sia stata riportata dai testi più accreditati sulla storia degli strumenti musicali) è stata rintracciata e fornita allo scrivente dal prof. Renato Meucci, docente di Storia degli Strumenti Musicali nei Conservatori di Milano e Vicenza. Glossario Barra d’attacco delle corde - Listone di legno duro nel quale sono infisse le punte di ancoraggio delle corde. Caviglia o Pirolo - Caviglia infissa nel piano del somiere (ved.), destinata a regolare l’accordatura delle corde. Estensione - Gamma dei suoni ottenibili da uno strumento, dal più grave al più acuto. Idiofono - Strumento musicale il cui corpo vibrante è costituito dal corpo stesso dello strumento. Sono idiofoni i metallofoni, i cristallofoni e gli xilofoni, nei quali il corpo vibrante è rispettivamente di metallo, di cristallo o di legno. Intervallo - Rapporto di frequenza fra due note. Ottava - Rappresenta l’intervallo fra una qualsiasi nota ed un’altra che abbia una frequenza esattamente doppia o metà rispetto alla prima. Pedale di risonanza - Leva che allontana tutti gli smorzatori dalle corde. Pedale tonale - Leva che allontana gli smorzatori dai soli tasti abbassati. Plettro - Penna inserita all’estremità del salterello (ved.) ed anche: elemento appuntito per pizzicare le corde, ad es. nel mandolino. Registro - Regione dell’estensione della voce o di uno strumento. Salterello (saltarello) - Negli strumenti a corde pizzicate, come il clavicembalo, è un’asticella, azionata da un tasto della tastiera, che sostiene alla sua estremità un plettro, per pizzicare le corde. Maffei chiamò impropriamente saltarello o spegnitojo, lo smorzatore. Scala cromatica - La successione dei dodici semitoni dell’ottava (tasti bianchi e neri del pianoforte, suonati uno dopo l’altro). Scala diatonica – È la successione delle sette note fondamentali; corrisponde alla successione dei soli tasti bianchi del pianoforte. Scappamento - Sistema di ritorno rapido del martelletto in condizioni di riposo, ovvero, nel doppio scappamento, di ritorno in posizione intermedia, dopo la percussione della corda. Smorzatore o smorzo - Elemento che serve per arrestare la vibrazione delle corde dei clavicembali e dei pianoforti o delle barrette delle celeste e di altri strumenti idiofoni. Somiere o Pancone - Tavola di legno in cui sono infisse le caviglie per tendere le corde. Spinetta - Clavicembalo di piccole dimensioni. Telaio - Struttura che sopporta la tensione delle corde. Temperamento equabile - Suddivisione dell’ottava in dodici intervalli eguali e pari a 1,05946. Cronologia ~1300 a.C. - Nella città di Ugarit, in Siria, è usata una notazione musicale su tavolette d’argilla ~540 a.C. - Il filosofo greco Pitagora di Samo scopre le relazioni matematiche fra le note musicali emesse da corde vibranti, in armonia ~250 a.C. - Ctesibio di Alessandria realizza il primo, rudimentale strumento a tastiera della storia, una sorta di organo chiamato hydraulos ~X sec. - In Persia è usato il santir, poi chiamato dulcimer, cetra a percussione diretta ~XIV sec. - È già in uso il clavicembalo, del quale si ignorano le origini ~XV sec. - Sono in uso, in Europa, varie versioni del dulcimer, denominate hackbrett o tympanon. Esiste anche una versione a tastiera, denominata dolce melos. Compare il clavicordo, del quale non si conoscono le origini n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI OMAR 25 nuovo 1529 - Georg Bauer, medico e mineralogo tedesco, di Joachimstal, noto con lo pseudonimo di Agricola, usa il pentagramma nella notazione musicale, nel suo libro: “Musica Instrumentalis”. Tuttavia, esso era stato usato prima di lui, ad esempio nel Roman de Fauvel del 1310 circa 1697 - Pantaleon Hebenstreit costruisce un hackbrett di notevoli dimensioni, che suona con grande abilità. Il re Luigi XIV ribattezza lo strumento pantaleon 1698 - Un costruttore di clavicembali padovano, Bartolomeo Cristofori, comincia a fare, a Firenze, esperimenti su un cembalo a martelletti. Nel 1700 completa il primo prototipo, da lui denominato “gravicembalo col piano, e forte”, che segna l’inizio dell’era del pianoforte 1700 - inizi - Viene adottato il temperamento equabile 1711 - Scipione Maffei illustra il pianoforte di Cristofori nel Giornale de’ Letterati e riferisce che Cristofori aveva già realizzato tre pianoforti 1714 - Hebenstreit è nominato pantaleonista alla corte di Dresda 1716 - Il francese Jean Marius presenta un clavecin à maillet alla Académie des Sciences di Parigi 1717 - Il tedesco Cristoph Gottlieb Schröter presenta un clavicembalo a martelli alla corte di Sassonia 1726 - Il tedesco Gottfried Silbermann costruisce i suoi primi modelli di pianoforte 1726 - Cristofori introduce, in un suo pianoforte, il dispositivo una corda, con comando manuale 1732 - Muore Bartolomeo Cristofori. Lodovico Giustini pubblica a Firenze le “12 Sonate op. I per Cimbalo di piano e forte” 1737 - Domenico Del Mela costruisce il primo pianoforte con cassa in posizione verticale 1744 - Il tedesco Johann Söcher costruisce il primo pianoforte a tavolo, con cassa trasversale 1747 - Johann Sebastian Bach prova a Potsdam un pianoforte di Silbermann, ma non lo trova congeniale 1772 - L’olandese Americus Backers costruisce a Londra un pianoforte col pedale una corda e col pedale di risonanza 1775 - Terminata la guerra dei sette anni, l’artigianato tedesco rinasce con gli Stein di Augusta 1776 - Il tedesco Johann Christoph Zumpe apre a Londra una fabbrica di pianoforti 1777 - Mozart suona ad Augusta su un pianoforte Stein, che ha il comando di sollevamento degli smorzi a ginocchiera 1777 - Sébastien Érard costruisce il suo primo pianoforte a tavolo 1778 - Mozart pubblica la Sonata K 310 per pianoforte 1779 - Clementi pubblica a Londra le Sonate Op. 2 per pianoforte 1780 - Anton Walter apre una fabbrica di pianoforti a Vienna 1781 - Mozart e Clementi suonano a Vienna in presenza dell’imperatore Giuseppe Il 1783 - Lo scozzese John Broadwood brevetta a Londra il meccanismo di movimento dei pedali 1791 - Wolfgang Amedeus Mozart utilizza il glockenspiel nel suo Flauto Magico 26 OMAR nuovo n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI 1799 - Il fisico tedesco Ernest F. Chladni crea uno strumento musicale con barrette di cristallo “sfregate”, da lui chiamato clavicilindro fine ‘700 - Sono in uso strumenti di fattura popolare, simili alla celesta, che utilizzano barrette di cristallo intonate. In particolare, il Journal de Paris del 18 Novembre 1785, annuncia l’invenzione di un forte piano à cordes de verre, chiamato anche glass-chord, da parte di M. Beyer 1800 - Matthias Müller costruisce a Vienna il primo pianoforte verticale, quasi simultaneamente all’inglese John Isaac Hawkins, immigrato a Filadelfia (quest’ultimo usa anche un telaio in ferro) 1802 - Beethoven pubblica a Vienna la Sonata op. 27 n. 2 1802 - Andreas Streicher pubblica un trattato che descrive l’arte di costruzione del pianoforte ed illustra la meccanica viennese 1808 - James Shudi Broadwood comincia ad inserire barre metalliche nel telaio del pianoforte 1810 - Sébastien Érard introduce il pedale d’arpa a doppia azione 1820 - Liszt esordisce come pianista a Sopron 1821 - Sébastien Érard brevetta il doppio scappamento 1825 - Alpheus Babcock brevetta a Boston un (piccolo) telaio interamente metallico e fuso in un solo blocco, per pianoforti a tavolo 1825 - Il tedesco Heinrich Engelhard Steinweg fonda a Seesen la ditta da cui deriverà l’americana Steinway & Sons 1826 - Heinrich Pape brevetta la copertura in feltro del martelletto 1830 - Parigi diviene la capitale del pianoforte, in tutti i sensi, rimanendo tale per un ventennio 1849 - Gran parte della famiglia Steinweg emigra negli Stati Uniti e cambia il nome in Steinway 1853 - Viene fondata a New York la Steinway & Sons 1855 - I pianoforti della Steinway & Sons vincono il primo premio alla Esposizione di New York 1856 - Friedrich Wilhelm Karl Bechstein fonda l’omonima rinomata fabbrica di pianoforti 1857 – È brevettato il processo Bessemer per la produzione dell’acciaio. Dopo molti anni, esso permetterà di realizzare grandi fusioni monoblocco, come i telai cupola iron frame degli Steinway 1859 - La Steinway applica l’incrocio delle corde sul grancoda 1860 - Il costruttore Julius Ferdinand Blüthner di Lipsia, diviene noto a livello mondiale 1863 - Il musicista inglese Eric Fenby inventa un dispositivo - da lui chiamato fonografo - capace di trascrivere la musica, mentre è suonata al pianoforte o con altro strumento. Alcuni anni più tardi, Fenby aiuta il compositore Frederick Delius, cieco e paralizzato, a scrivere la sua musica 1863 - Lo scienziato tedesco Hermann L. F. von Helmholtz, amico di Karl Friedrich Theodor Steinweg, pubblica il famoso trattato di acustica Die Lehre von den Tonempfindungen 1865 - Appena giunto dalla Germania, Karl Friederich Theodor Steinweg si pone alla testa della Steinway, con idee innovatrici di grande contenuto scientifico ~1866 - Auguste Mustel (o suo padre) costruisce il dulcitone, antenato della celesta 1867 - I nuovi pianoforti Steinway hanno un grande successo all’esposizione universale di Parigi 1872 - Theodor Steinway brevetta il telaio metallico del grancoda, fuso in un sol blocco 1874 - Theodor Steinway brevetta il pedale tonale 1877 - La Steinway & Sons apre una filiale a Londra 1880 - La Steinway & Sons apre una fabbrica ad Amburgo 1886 - A Parigi, il fabbricante di strumenti musicali Auguste Mustel brevetta la celesta 1887 - A Marsiglia, un meccanico appassionato di musica, Augustin Lajarrige inventa un dispositivo automatico, per pianoforte, per voltare le pagine dello spartito 1892 - Peter Ilich Tchiaikovsky impiega la celesta in una danza dello Schiaccianoci 1897 - Edwin S. Votey della Farrand & Votey Organ Co. di Detroit, Michigan, brevetta la pianola. La musica è registrata mediante una serie di perforazioni su un rotolo di carta, che passa sopra una barra tastatrice, mentre dispositivi pneumatici azionano i martelletti del piano. Il sistema è controllato da pedali e leve, che consentono all’operatore di variare il tempo ed il volume della musica 1911 - Richard Strauss utilizza la celesta nel Der Rosenkavalier 1936 - Béla Bartok, dà alla celesta una parte importante nella sua Musica per Archi, Percussioni e Celesta. Bibliografia AUTORI VARI, La collezione di strumenti musicali del Museo Teatrale alla Scala - studio, restauro e restituzione, Edizioni Il Laboratorio, Milano, 1991 BOYER, C. B., A History of Mathematics, John Wiley & Sons, New York, 1968 FABBRI, M., L’Alba del pianoforte (in “Dal Clavicembalo al pianoforte”), v. Festival Pianistico Internazionale A. Benedetti Michelangeli, 1968, F. Apollonio & c., Brescia, 1968 The New Grolier Electronic Encyclopedia, on Compact Disc, 1991 Edition, Grolier Electionic Publishing, Inc. Danbury, CT, USA. Harding, R. E. M., The PianoForte - Its History Traced to The Great Exhibition of 1851, Heckscher & Co., London, 2nd Edition, 1989 LESCHIUTTA, S., Cembalo, Spinetta e Virginale, Edizioni Bèrben, 1983. Och, L., Bartolomeo Cristofori, Scipione Maffei e la prima descrizione del “gravicembalo col piano e forte”, Il Flauto Dolce, N. 1415, Apr.-Ott. 1986 PLOETZ, K., Enciclopedia della Storia (Dal 4000 a.C. a oggi), A. Mondadori/Storia Illustrata, Milano, 1962-65 RATTALINO, P., Storia del Pianoforte, Edizioni Il Saggiatore, Arnoldo Mondadori, Milano, 1988 Journal de Paris, Arts [Forte piano à cordes de verre], Journal de Paris, N. 322, Vendredi 18 Novembre 1785, de la Lune le 17, p.1326 RIGHINI, P., Lessico di Acustica e Tecnica Musicale, Edizioni G. Zanibon, Padova, 1987. The Random House Encyclopedia Electronic Edition on floppy discs 1990, Microlytics, Inc. Pittsford, NY, USA Time Table of History, on Compact Disc, The Software Toolworks, 60 Leveroni Court, Novato, CA (USA), 1991 TRECCI GIBELLI, M. R., La celesta ed il pianoforte di Meucci, Comunicazione privata all’autore, Milano, 15 gennaio 1993. n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI OMAR 27 nuovo Studi e informazioni culturali Gli egizi a tavola numero notevole di alimenti che nel Nuovo Regno potevano raggiungere la ragguardevole cifra di 50 varietà diverse. La pasta di pane, unita all’acqua, veniva utilizzata anche per la produzione della birra, che per il ceUn esempio di quello che poteva essere un pasto to meno abbiente rappresentava la bevanda più difpreparato per una famiglia nobile è stato portato alfusa. Il liquido ottenuto dopo la fermentazione venila luce a Saqqara, in una tomba risalente alla II diva filtrato e addizionato di spezie, polpa di datteri, nastia. In stoviglie di natura diversa (ceramica, alazafferano ecc., per cui la bevanda così ottenuta era bastro e diorite) a seconda dell’uso a cui erano dedolce e non amara come quella odierna a cui viene stinate, erano contenuti cibi vari: minestra di orzo aggiunto il luppolo. I datteri aggiunti conferivano un macinato, quaglie cotte, reni cotti, stufato di piccioaroma particolare e aumentavano il tenore di zucne, pesce bollito, costate di manzo, pani triangolari cheri, acceleravano la fermentazione e alzavano il di frumento, dolci rotondi, composta di frutta, bacgrado alcolico. che fresche e pezzi di formaggio. Come bevande Prima di consumare la birra era necessario filerano presenti vino e birra. trarla nuovamente per eliminare i residui solidi rimaFin dai tempi predinastici i cereali hanno costituisti e spesso si sorbiva succhiandola con una canto la base dell’alimentazione egizia, per cui il pane nuccia. veniva consumato da tutti gli strati della popolazioCome il pane, anche la birra veniva prodotta in ne. Inizialmente, la macinatura, setacciatura, impanumerose varietà: un papiro medico ne elenca 17. sto e cottura venivano effettuate dalle donne nelOltre al pane e alla birra, l’alimentazione coml’ambito familiare o da personale specializzato nelle prendeva legumi, ortaggi, frutta, carne e pesce. Residenze reali o nelle grandi organizzazioni temI legumi erano particolarmente apprezzati e veniplari. Solo agli inizi del Nuovo Regno vennero mesvano preparati piatti a base di fagioli, ceci, lenticchie se in funzione delle vere e proprie panetterie al sere piselli. vizio di numerosi clienti. Aglio e cipolle erano consumati in quantità perI metodi di cottura e le forme che il pane assunse ché si riteneva avessero proprietà terapeutiche. Venel corso dei secoli sono estrenivano anche utilizzati porri, cemamente vari: nell’Antico Retrioli, e una varietà di lattuga che gno, grossi e spessi vasi di terpoteva raggiungere un metro di racotta, spalmati di grasso all’inaltezza e che si pensava posseterno, venivano riempiti di pasta desse proprietà afrodisiache. lievitata che coceva grazie al Tra i frutti più apprezzati sono calore accumulato dal recipiente da annoverarsi i datteri che vepreventivamente scaldato, opnivano consumati freschi o trapure la pasta, variamente mosformati in vino e in polpa dolcidellata, veniva introdotta in forni ficante. Anche i frutti della palaperti superiormente e riscaldama argun (Medemia argun), ogti al disotto della grata di cottura. gi estinta in Egitto, e della palma Le forme preferite durante dum (Hyphæne thebaica) avel’Antico e Medio Regno sono vano largo impiego nell’alimenmolto numerose: pane bianco tazione giornaliera. I frutti del conico, gallette, focacce spesse giuggiolo venivano consumati con fagioli bolliti o verdure, sfofreschi o lasciati fermentare per glie sottili e croccanti, focacce ottenere un vino. Anche i fichi morbide, pagnotte tonde, quaavevano un consumo notevole drate, triangolari, semicircolari, grazie al loro contenuto zucchea ciambella piatta e pani lunghi rino; i fichi del sicomoro, invece, e sottili come grissini. Il pane erano utilizzati per la preparapoteva essere preparato con zione di medicamenti. cereali diversi a cui potevano L’uva, oltre che per la vinifiessere aggiunti miele, frutta, uocazione, era considerata una Donna che prepara la birra va e burro ottenendo così un leccornia molto costosa e veni Laura Pezzolla Paganin 28 OMAR nuovo n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI Il pasticcere va consumata fresca e essiccata come uva passa. Il melograno, l’anguria, la persea, l’olivo, il susino, il noce e il carrubo sono alberi introdotti in Egitto durante o dopo il II Periodo Intermedio, per cui i loro frutti compaiono nelle tombe a partire dal Nuovo Regno. Anche le spezie erano molto usate nella preparazione dei cibi. Sono stati trovati anice, cannella, coriandolo, cumino, aneto, finocchio, fieno greco, maggiorana, senape e timo. Il consumo di carne variava a seconda del ceto. Le classi meno abbienti mangiavano carne solo in occasione di particolari festività, mentre nobili e clero la consumavano con regolarità. Simulacro di oca Principessa Nefertiabet alla tavola delle offerte La carne bovina era prerogativa della corte e dei sacerdoti, mentre il resto della popolazione utilizzava principalmente carni suine, ovine e caprine. Altra carne veniva fornita dalla selvaggina che veniva abbattuta durante le battute di caccia della nobiltà: venivano cacciate gazzelle, stambecchi, orici, antilopi ecc. Anche i volatili selvatici e domestici rappresentavano una voce importante nella lista delle vivande: quaglie, oche, anitre e gru venivano allevate e ingrassate prima di essere cucinate. Le pitture tombali ci mostrano come veniva cotta la carne: bollita, stufata e arrostita. Erodoto ci informa inoltre che “gli uccelli piccoli venivano messi in salamoia e mangiati crudi, mentre quelli più grossi erano arrostiti o bolliti”. Il pesce rappresentava un importante apporto proteico per i più poveri. Il Nilo era particolarmente ricco di specie commestibili che venivano cucinate allo spiedo, arrosto o sotto forma di zuppa. Poiché il pesce si deteriora facilmente, veniva essiccato o conservato in salamoia anche per l’esportazione. Era però vietato consumare alcune specie di pesci connessi al mito di Osiride e perciò ritenuti sacri, tanto che in alcune città venivano anche adorati. Per questo motivo ai sacerdoti era proibito consumare qualsiasi tipo di pesce. Il latte prodotto da bovini, ovini e caprini veniva consumato a tutte le età e i prodotti caseari come burro e formaggi erano utilizzati soprattutto dai contadini e dai pastori. Come condimenti venivano usati sia grassi animali che vegetali. Sono stati elencati 21 nomi di oli tra cui quello di moringa (Moringa pterygosperma) che essendo inodore e insapore si prestava a un maggiore utilizzo in cucina per friggere carni e verdure. Come dolcificanti venivano utilizzati miele e datteri, ma il primo, a causa del suo alto costo, era principalmente consumato dal sovrano e dalla Corte. Anche il sale era largamente usato, anche se ritenuto impuro, poiché l’abbondante sudorazione provocava la perdita di una grande quantità di sali. Presso il popolo si consumavano due pasti al giorno, all’alba e al tramonto e uno spuntino a metà giornata. Nelle case dei più abbienti erano molto frequenti i banchetti, costituiti da numerose portate e allietati da musiche e danze. Spesso, durante i banchetti, i commensali eccedevano sia nel mangiare che nel bere, per cui diverse pitture tombali ci mostrano convitati che vomitano o sono ubriachi. Prima e dopo i pasti era uso comune lavarsi le mani e sciacquarsi la bocca con natron come disinfettante. Anche se l’alimentazione dei ricchi era molto varia e abbondante, quella giornaliera di un operaio del Nuovo Regno non era poi così povera: 2 kg di pane, 2 mazzi di verdura e un pezzo di carne arrosto. Quanto descritto precedentemente è però da considerarsi relativo ai periodi di prosperità, quando il potere centrale era forte e poteva fare fronte ai periodi di carestia che interessavano periodicamente l’Egitto. n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI OMAR 29 nuovo Studi e informazioni culturali Aneddoti di lavoro Campagne sismiche Marocco 1964 - Tunisia 1965-66-67(terza parte) Renato Ramella (*) A settembre ’64, dopo la Sicilia, sono partito ancora per il Marocco. Il gruppo guidato da Pedroni stava completando una campagna sugli altipiani iniziata dall’ing. Anselmo. Si operava in una zona a nord verso i confini con l’Algeria. Le città più vicine erano Berguent e Tendrara raggiungibili col treno da Casablanca. Il lavoro si svolgeva regolarmente senza particolari difficoltà. La cucina, gestita da un buon cuoco tunisino, era ottima. C’erano persino i dolcetti freschi tutti i giorni per la colazione. Era talmente buona la cucina che la gente si sentiva quasi nauseata. È nata così l’idea di allestire l’attrezzatura per la grigliata. Pedroni ha tagliato un fusto di benzina e messo a punto il sistema. Molte sere, appena uscito il cuoco dalla cucina per recarsi alla sua tenda, abbiamo iniziato la sarabanda. Si coceva di tutto. Cipolle, fave, funghi porcini comperati lungo la strada dai ragazzini, conigli selvatici appena catturati, tutto serviva a passare una serata in modo diverso. Il cuoco non ci ha mai perdonato! Finalmente, finito il programma è arrivato il giorno della partenza per l’Italia. Sono tornato a casa dopo cento giorni e con due giorni di ritardo sulla nascita del mio primo figlio Vittorio. Dopo una settimana è arrivato il grande freddo sugli altipiani del Marocco e nella zona dove noi abbiamo operato ci sono stati diversi morti per assideramento. (*) Renato Ramella, diplomato perito elettrotecnico all’Omar nel 1956 viene assunto all’Agip Mineraria. Dopo un’esperienza in Italia viene mandato in Marocco come osservatore geofisico e successivamente in Tunisia e in Algeria. Ha seguito numerosi corsi di geologia, tecniche di elaborazione digitale, studio delle lingue francese e inglese, elaborazione e interpretazione dati sismici. Di geofisica del petrolio si è occupato, come supervisore internazionale, sino alla pensione, nel ’97, e ancora per tre anni come consulente. 30 OMAR nuovo n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI La Tunisia Avendo in corso un contratto biennale sono stato mandato in Tunisia in attesa che si allestisse la spedizione verso sud. Dopo una permanenza di un mesetto a Tunisi e una visita al gruppo di El Borma guidato da ing. Anselmo, con osservatore De Luchi, sono partito per Gabes dove ho trovato, in un deposito, molti mezzi per la nuova spedizione. Avevo anche a disposizione la roulotte dormitorio. Per circa cinquanta giorni, aiutato da un tunisino, ho riparato con cura centinaia di cavi e geofoni controllandone la polarità. Dopo un primo pasto in un ristorante del posto ho avuto una forte dissenteria. È stato così che ho deciso di farmi da mangiare da solo. Nel magazzino recintato da alte mura c’era un camino e della legna. Il mio aiutante, prima di andare a mangiare, mi preparava il fuoco e faceva maturare la brace. Io uscivo al mattino e andavo a comperarmi dei filettini di bue eccezionali, oppure prendevo la campagnola e andavo lungo la spiaggia a prendere direttamente il pesce appena tirato dalle reti. Non avendo attrezzi da cucina sono vissuto praticamente 50 giorni mangiando frutta, pesce e carne alla griglia e uova sbattute con lo zucchero. Ho perso sei chili ma mi sentivo in forma perfetta. Intanto a Tunisi era arrivato Pedroni che sarebbe stato il nuovo capogruppo. Sono così arrivato vicino a Pasqua e un tunisino mi ha offerto delle rane a poco prezzo. In quella zona, evidentemente c’erano dei canali e le rane abbondavano. Ho telefonato subito a Pedroni informandolo dell’acquisto e questi mi ha detto con entusiasmo che avrebbe fatto quei settecento chilometri per venire a mangiare le rane. Mi sono fatto prestare una padella da un geometra che abitava a Gabes e mi sono messo con cura a pulire le rane preservando i fegatini. Avrebbe dovuto essere un successo. Arrivato il giorno di Pasqua mi sono messo con entusiasmo a friggere le rane impanate. Ne è uscita una zuppiera stracolma. A mezzogiorno il Pedroni mi ha fatto comunicare che per un impegno improvviso non poteva venire. Mi sono “strafogato” di rane impanate. Alla fine ne ho dovuto buttare qualcuna. Finalmente è giunto il momento di iniziare le prime prove nella zona di Ben Gardane, ai confini con la Libia. Al campo è arrivato tra gli altri anche Zecchini con l’incarico di valutare le varie prove e deci- Deserto tunisino. Esplosioni per rilevamento di giacimenti petroliferi. dere quale fosse il tipo migliore di stendimento. Abbiamo provato con due catene di geofoni, con quattro catene e con sei. Alla fine della giornata siamo stati presi dallo sconforto. Le prove con maggior numero di geofoni risultavano le più scadenti. Preso dal dubbio mi sono messo a controllare la polarità dei sismografi. Finalmente ho scoperto che tutti quelli provenienti dalla Libia, mandati alla chiusura del gruppo dell’ing. Magaldi, erano stati riparati, sì, ma senza curarsi della polarità. Un vero disastro! Abbiamo dovuto rispedirli tutti a Milano per le riparazioni del caso. E così è iniziata la nuova avventura in Tunisia. Capogruppo Pedroni, vice il solito Gildo Da Rold, topografi Sergio Rossi e Vatteroni, aiuto osservatore Bastianelli, perforatori Marci, Losa e altri, meccanico Lombardo. Dopo alcuni mesi vicino alla costa è arrivato l’ordine di trasferimento in una zona a sud ovest di El Borma, al di fuori delle sabbie, in località Montesseur. La solita carovana di camion e roulottes che percorrevano lentamente quelle piste sterrate e polverose e ogni tanto un mezzo bisognoso di soccorso. Io, col registratore, sempre in coda a chiudere il gruppo. Arrivato nella zona prestabilita vedo Gildo venirmi incontro disperato. Il gruppo elettrogeno non funzionava, con tutte le conseguenze del caso. In quel periodo Gildo aveva le mansioni di capogruppo ed era preoccupato non solo per i viveri, ma anche per il personale, che dopo un lunghissimo viaggio aveva bisogno di un po’ di ristoro. Eravamo in piena estate e la temperatura era altissima. E così ho dovuto mettermi a riparare il gruppo elettrogeno. Per fortuna si trattava di un guasto elettrico e in breve ho trovato la causa e sistemato tutto in tempo per organizzare il campo e prepararci per la notte. Un nuovo meccanico, appena arrivato dall’Italia, è rimasto talmente impressionato da quel viaggio e dalla mancanza di acqua fresca e condizionamento che ha deciso di tornare immediatamente in Italia. La zona di lavoro, al di fuori delle dune, era abbastanza facile e abbiamo lavorato tranquillamente sino alla fine dell’autunno. Durante l’inverno, di notte era veramente freddo, ma quando spuntava il sole la temperatura diventava subito gradevole. Ci si vestiva a cipolla, sino a spogliarci quasi completamente verso mezzogiorno. Una mattina al risveglio abbiamo trovato gelate le tubature dell’acqua. Ci è voluto un po’ di tempo per sistemare tutto. Poi è arrivato il momento di inoltrarci nelle sabbie nel Permis du Sud nel triangolo Tunisino che confina con la Libia e l’Algeria. Al gruppo era arrivato l’ing. Tocco in sostituzione di Gildo e Pedroni, rientrati in Italia per fine contratto. Ing. Anselmo promosso capo missione a Tunisi per il coordinamento dell’attività geofisica delle due squadre operanti in deserto. Dopo la solita ricognizione per localizzare la nuova postazione in mezzo alle sabbie, finalmente il capogruppo ha deciso di piazzare il campo su una piccola altura. Avremmo così potuto usufruire della eventuale brezza di aria fresca serale! Il pozzo per l’acqua è stato fatto a circa 500 metri in una zona bassa e questo era già un notevole disagio. n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI OMAR 31 nuovo Poi è arrivato il turno di recupero dell’ing. Tocco e io come osservatore avevo l’incarico di vice party manager. Un bel mattino, dopo una forte bufera di vento, ci siamo svegliati con alcune roulottes semi ribaltate. Anche la pista era stata interrotta e abbiamo incominciato a sentire la mancanza di rifornimenti. Dopo aver concordato con Tunisi abbiamo trasferito il campo più a nord, in una zona più pianeggiante e meno lontana da una pista per ricevere agevolmente viveri, benzina e dinamite. Mi sono guardato bene dal mettere il campo su una duna. Le rose del deserto Più a sud del nostro campo, una cinquantina di chilometri, c’era un vasto giacimento di rose del deserto. Un giorno è arrivato da Tunisi l’ordine di procurare un po’ di rose per fare degli omaggi a una delegazione di parlamentari italiani in visita in Tunisia. Io mi sono preso l’incarico di procurare le rose. Siamo partiti verso sud con una autobotte a pianale con le sponde e un gippone Alfa Romeo. Arrivati in zona abbiamo riempito il fondo del pianale con la sabbia e incominciato a caricare le più belle rose. Terminato il carico ho fatto ripartire la botte con l’autista e due manovali e mi sono intrattenuto ancora un po’ con il mio operaio tentando di trovare ancora qualche bella rosa per me. Improvvisamente è arrivato il temporale seguito da una fortissima grandinata, cosa mai vista in deserto. In poco tempo si è formato uno strato di grandine, di circa 15 cm, che ha ricoperto completamente la pista. Devo dire che per un po’ di tempo 32 OMAR nuovo n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI ho temuto di non ritrovare più la pista per tornare al campo. Anche il mio assistente, uomo di deserto, ha avuto difficoltà ad orientarsi. Poi, finalmente, tutto si è risolto per il meglio e siamo rientrati felicemente. A proposito di rose del deserto, in quel periodo è successo un grave incidente. La zona nei dintorni di El Borma era da molto tempo frequentata e le rose migliori erano diventate introvabili. Un tecnico del settore, nell’intento di ricercare qualche rosa, ha scavato un tunnel sotto una duna che purtroppo ha ceduto e lo ha sepolto. Quando lo hanno trovato era già deceduto. Una grave disgrazia, che ci ha molto impressionato perché il personaggio era molto conosciuto al campo. La benzina sporca Qualche volta è capitato di avere difficoltà con la benzina. Abbiamo in seguito scoperto che gli autisti addetti al rifornimento del carburante estraevano ogni tanto della benzina dalle cisterne e completavano il pieno con l’acqua dei pozzi. A me è capitato un paio di volte di restare bloccato in pieno deserto con i condotti della benzina pieni di sabbia e acqua. In quel periodo usavo una ex ambulanza militare per trasportare nei viaggi di andata e ritorno gli addetti al registratore. Il rimedio consisteva nel collegare una tanica di benzina, collocata in alto e sostenuta da un operaio, con un tubo direttamente al carburatore. Si riusciva così lentamente a rientrare al campo prima che facesse notte. Poi i meccanici dovevano smontare tutto e fare la pulizia generale del circuito di alimentazione. Il guasto al registratore del secondo gruppo Intanto era arrivato un altro gruppo per estendere i rilievi a una cinquantina di chilometri a sud est della nostra area. Non mi ricordo se il capogruppo fosse Torelli o Calciati. So che l’osservatore era Oppici, aiutato dal giovane Gianmarioli. Dopo un periodo di lavoro è arrivato il turno di riposo di Oppici. Appena partito l’osservatore sono incominciati i guai per il giovane aiutante. Il registratore aveva dei problemi e non si poteva rilevare. Il giovane era disperato e Tunisi era in agitazione. Sono stato quindi invitato a dare una mano per non fermare l’attività produttiva. Arrivato sul posto non c’è voluto molto a scoprire che il guasto era stato provocato volutamente. Era stato messo un pezzo di carta davanti al galvanometro che tracciava il time break. Evidentemente Oppici aveva voluto mettere alla prova il suo giovane assistente. Lo scherzo è venuto a costare un paio di giorni di produzione. È ovvio che abbiamo insabbiato tutto per non creare dei problemi. Lo scoppio notturno Dopo un po’ di tempo abbiamo deciso di dare una punizione al secondo gruppo. Rientrato Oppici dal riposo e venuto il periodo del suo turno di gestione della squadra abbiamo pensato di fargli uno scherzo. Di notte ci siamo avvicinati al campo e quando tutti dormivano abbiamo fatto scoppiare a poca distanza una carica di dinamite. Immaginatevi l’effetto in piena notte in mezzo al deserto e con il deposito dell’esplosivo poco lontano! La piscina Intanto era stato perforato un pozzo non molto lontano dal nostro campo. A quei tempi non c’era tutta la burocrazia dei tempi moderni. A volte si iniziava la perforazione ancora prima che andasse via il gruppo sismico. Purtroppo il pozzo era sterile per quanto riguardava il petrolio, ma, a cinquecento metri di profondità, era stato trovato un giacimento di acqua salmastra. Tubato e abbandonato il pozzo sono state lasciate le saracinesche per eventualmente estrarre l’acqua. Quando ci siamo accorti che c’era la possibilità di avere l’acqua abbiamo subito pensato di ricavare una piscina. Alla sera si costruiva con un trattore una grossa vasca di sabbia e in poco tempo un forte getto di acqua molto argillosa, ma, calda e gradevole, ci consentiva di fare delle piacevoli nuotate in pieno deserto. Il giorno dopo si doveva ricostruire tutto da capo perché il vento aveva distrutto i bordi della piscina. Ma così si trascorreva in allegria il tempo libero nel deserto e si dimenticava la lontananza da casa. Le piste nella sabbia Per rilevare le nostre linee si dovevano attraversare molte dune. Avevamo a disposizione dei trattori che giornalmente tracciavano le piste per i nostri percorsi. Capitava spesso di uscire al mattino senza problemi, ma, al ritorno, dopo una giornata di vento forte, molte volte abbiamo trovato sulla pista delle grosse buche impercorribili. A quel punto si calavano tutti gli uomini dai camion e, dopo aver riempito le buche di sabbia con le mani, si riprendeva tranquillamente il percorso verso il campo. L’harissa Il personale locale consumava moltissima harissa o pasta di peperoncino piccante. La mettevano su tutti gli alimenti. Per loro era indispensabile, io non la potevo sopportare. Un giorno la preziosa droga, che arrivava in scatolette sotto forma di salsa, è venuta a mancare. In quel periodo ero io il responsabile del campo. Venendo a perdurare la mancanza hanno deciso di mettersi in sciopero, l’unica volta che mi è capitato in tanti anni. Io, per tentare una mediazione, sono andato in cucina ad assaggiare la loro pasta. Era talmente forte di pepe, usato in alternativa all’harissa, che mi sono sentito soffocare. Per loro invece era troppo dolce. Sono stato costretto a far arrivare immediatamente la droga con un mezzo mandato appositamente in deserto. I problemi del contratto Terminato il contratto di due anni, mi hanno proposto un nuovo contratto. Da Milano è arrivato un tizio dell’ufficio personale, uno dei soliti parassiti che amavano farsi belli con la direzione a scapito di chi lavorava veramente, con una proposta che non mi è piaciuta molto. Io ero già un po’ nervoso perché ero partito con un contratto biennale dal Marocco mentre gli altri erano arrivati con contratti nuovi e più aggiornati e guadagnavano più di me. Durante la discussione l’ho cacciato fuori dalla roulotte ufficio; in quel periodo facevo funzioni di capogruppo. Alla fine della giornata il tizio è tornato e mi ha proposto un contratto più ragionevole e vantaggioso che purtroppo è durato solo sei mesi. Dopo un certo periodo anche l’ing. Tocco è andato via e al gruppo è arrivato Salvaderi che ha continuato la gestione sino alla fine, quando siamo rientrati nel ’67. E cosi sono trascorsi quasi tre anni in deserto, con periodi di lavoro di settanta giorni e ventuno in Italia pagati. A marzo ’67, intanto, durante un turno di riposo questa volta, era arrivato anche Paolo, secondo figlio. Da quel momento è iniziata la crisi delle squadre sismiche Agip e io ho concluso la mia attività di campagna come osservatore geofisico. n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI OMAR 33 nuovo Studi e informazioni culturali Erminio Malagutti celebre liutaio del nostro tempo Amedeo Mossini e Marco Parsini Ricordi personali Ho avuto il piacere di conoscere personalmente Malagutti Erminio; piccolo ometto dinamico e con occhi vivacissimi; parlata tipica della bassa mantovana, nonostante i lunghi anni trascorsi a Milano. Con lui potevi parlare di tutto, oltre che di liuteria, ed era bellissimo udirlo quando intercalava in certe sue frasi, dei vocaboli, tipo “ schirlinzito, bagai “ e altri che ho purtroppo dimenticato. Ho conosciuto Erminio in quanto egli e mio padre avevano frequentato le elementari come compagni di banco ed avevano trascorso assieme la prima gioventù. Di lì a poco, a causa dei noti avvenimenti che propiziavano a scatenarsi in Europa e che avrebbero coinvolto tutto il mondo, si persero di vista, per reincontrarsi nuovamente a metà degli anni 60. Fu un incontro del quale non ricordo molto, ricordo solo che piangevano entrambi e che parlavano nel loro dialetto mantovano. In seguito, periodicamente, mio padre ed io andavamo a trovare Erminio presso il suo laboratorio di via Pantano a Milano, sotto la Torre Velasca, e ci fermavamo qualche ora: loro due a chiacchierare del loro passato, della guerra, della fame, della prigionia e del lager in cui mio padre era stato internato; io a guardare i violini in costruzione, quelli già costruiti; gli attrezzi e le forme utilizzate, le tavolette di legno e quei barattoli pieni di sostanze misteriose. Siccome sin da piccolo sono stato attratto dal fascino del legno, da cui l’uomo, lavorandolo aveva tratto di tutto, frequentai per diversi anni la sua bottega, in compagnia di mio padre e moltissime altre volte da solo. Presso la sua bottega ebbi modo di conoscere Accardo, Ughi, Rostropovich, e molti altri spendidi musicisti. Ho visto e ho potuto toccare strumenti “mitici”: dagli Stradivari ai Maggini, dagli Amati ai Montagnana, dai Guarnieri ai Testore ecc... Ho visto alcuni di questi strumenti “aperti” per necessità di riparazioni particolari, ho assistito a disquisizioni tecnico-teoriche tra Erminio ed i loro possessori e, sulla base di queste esperienze, ho maturato la convinzione che Malagutti era veramente un grande liutaio. Dico grande, perché Erminio, oltre ad essere un 34 OMAR nuovo n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI eccezionale costruttore, conosceva a menadito le caratteristiche degli strumenti antichi, italiani o di scuola italiana e quelli stranieri (francesi e soprattutto tedeschi); li riconosceva dal colore delle vernici, dal colore del sottofondo, dal metodo di costruzione, dai particolari di scolpitura del riccio e dalla filettatura. Alla stessa stregua conosceva benissimo gli strumenti Italiani dell’800 e ’900 che, come un sommellier, addirittura a prima vista, o dopo alcune sommarie ispezioni, attribuiva a colpo sicuro al liutaio costruttore. Erminio infatti mi raccontava che nella sua prima gioventù lavorò presso un’ebanisteria e successivamente iniziò a lavorare come garzone presso il laboratorio artigiano dei fratelli Guastalla. Tale attività liutaria, intrapresa sin da ragazzo, lo coinvolse e lo affascinò a tal punto che essa divenne la sua vita e ne fece un’arte sublime sino alla sua scomparsa. Solitamente, tutti i sabati, la bottega di Malagutti era meta dei violinisti: dai dilettanti ai grandi concertisti; ma soprattutto era meta e punto di ritrovo dei commercianti di antichi e vecchi violini italiani. Questi commercianti provenivano da tutto il mondo ed in particolare dai paesi asiatici e dall’America e mi rimase impresso che tutti parlavano un italiano in maniera più che discreta. In questi frangenti, Erminio indossava un candido camice e “pontificava” dall’alto della sua grandissima esperienza, dispensando pareri e suggerimenti a tutti coloro che gli sottoponevano degli strumenti da vendere, da barattare con altri, da acquistare per conto di ignoti acquirenti o più semplicemente da riparare. Erminio infatti era conosciuto a livello internazionale, oltre che grande liutaio, come grandissimo esperto della liuteria italiana ed in particolare di quella antica. Come è infatti noto, i violini italiani sono i più richiesti ed i più quotati sul mercato mondiale. Tra l’altro Malagutti era anche un collezionista, possedeva infatti un discreto numero di antichi stru- menti cremonesi, bresciani, veneziani, piemontesi, napoletani e milanesi. Frequentando il suo laboratorio per alcuni anni e avendo sempre dimostrato il mio grande interesse per la sua arte, si instaurò tra di noi un buon affiatamento che man mano si consolidò in stima e amicizia vera. Tale aspetto fece sì che Erminio, pian piano, mi mise al corrente di alcuni suoi “segreti di bottega”: dalla scelta del legno alla preparazione delle vernici; dai metodi costruttivi ad altre piccole astuzie che facilitano la tecnica liuteria, ecc.. Il legno necessario alla costruzione dei suoi strumenti, rappresentava per Erminio, un aspetto fondamentale al cui reperimento aveva da sempre provveduto personalmente. Era questo un suo vanto in quanto il legno, soprattutto l’abete della tavola armonica, come minimo doveva possedere una stagionatura naturale di 15 anni. Le tavolette (spicchi) di abete ed acero, unitamente ai blocchetti sempre di acero, da cui si ricavano il manico e le fasce, erano infatti stoccati presso il suo laboratorio e catalogati: con data di acquisto e per qualità di venatura: fitta o meno fitta per l’abete, per qualità e bellezza di marezzatura per l’acero. Sulla base di questi aspetti, suddivideva ulteriormente il legname in “reparti”, come lui espressamente li chiamava, e, ad ogni “reparto“, faceva corrispondere il prezzo che avrebbe richiesto per lo strumento da costruire. Diceva Erminio, che il legno utilizzabile in liuteria (fatta eccezione per l’abete, insostituibile nella costruzione delle tavole armoniche di tutti gli strumenti a corda, compresa la cassa armonica dei pianoforti) può ritenersi tutto adatto e, a questo riguardo, citava che Stradivari stesso utilizzò per i fondi e le fasce di parecchi suoi strumenti, il pioppo e il salice e che altri grandissimi liutai del passato utilizzarono legno di noce, di pero, ecc. L’importante diceva, è tenere conto della “durezza o grana” del tipo di legno da contrapporre al legno di abete, e nel caso di legno abbastanza “dolce” e “morbido”, lasciare spessori maggiori rispetto a quelli canonici. La stagionatura del legno che si utilizzerà per la costruzione di un nuovo strumento, diceva Malagutti, è di fondamentale importanza ai fini della resa sonora dello strumento. Essa deve avvenire in modo naturale, in ambiente ventilato e possibilmente senza troppa escursione termica; solitamente in locali in penombra non riscaldati, avendo avuto cura, prima di riporre a stagionare il legno, di immergere ogni estremità degli spicchi o delle tavolette, in cera fusa, in modo tale che questa vada ad occludere parzialmente i cribri vascolari delle fibre legnose, riducendo sensibilmente la naturale disidratazione e, in questo modo, evitare che le tavolette o gli spicchi, subiscano delle eventuali crepe dovute ad una troppo rapida evaporazione di acqua, che renderebbero inutilizzabili questi legni. Nel retrobottega di Malagutti vi era infatti una scaffalatura in cui erano riposte con cura decine e decine di tavolette di abete e di acero; blocchetti da cui ricavare manici di violini e viole, listelli per la rea- lizzazione delle fasce, tastiere di ebano grezze. Era sicuramente un bell’immobilizzo di capitale, considerato che mediamente questo legno sostava in laboratorio circa 15 anni, e che già all’acquisto era molto caro. Come ogni liutaio, anche Erminio faceva da sè le sue vernici e, come tutti i liutai che si rispettano, le formulazioni erano gelosamente tenute segrete. Nella letteratura liutaria, qualche autore ha riportato formule varie per la preparazione di vernici a spirito o ad olio. «Riguardo a queste ricette scritte – diceva Malagutti – credo che nessun liutaio le abbia mai utilizzate così come sono formulate, ognuno di noi, me compreso, se le personalizza: le vernici che io preparo sono esclusivamente a base di resine naturali e così pure i colori che utilizzo». Gli ingredienti consistono principalmente in: gommalacca, sandracca, gomma elemi, gomma gutta, mastice persiano, benzoino, damar, coppale, incenso e canfora diluiti in alcool etilico a 98°, o in olio di lino cotto, a seconda di preparazione di vernici a spirito o vernici ad olio, sulla base di formulazioni personali. I colori utilizzati sono invece: zafferano, curcuma, distillato di legno di campeggio, sangue di drago (resina prodotta dalla pianta di Dracaena Dracus). Mi ricordo, a questo proposito, che Malagutti mi diceva che queste vernici diventavano migliori con l’invecchiamento e che lui stesso, prima di utilizzarle, le faceva riposare per almeno 2-3 anni. Riguardo la costruzione degli strumenti, Erminio Malagutti mi confidò che all’inizio della sua attività, aveva utilizzato il metodo di costruzione “cremonese”, cioè l’utilizzo della forma interna attorno alla quale viene assemblato lo strumento. Questo sistema però, non riusciva a soddisfarlo appieno in quanto lo strumento non era perfettamente simmetrico; vi era, anche se impercettibile, una difformità della parte destra da quella sinistra e la cosa non lo gratificava, anche se la resa sonora era ottima. La sua innata tendenza alla perfezione, lo fece avvicinare al sistema di costruzione detto alla “francese”, con l’utilizzo cioè della mezza forma esterna; tale modo di lavorare, anche se aborrito dai liutai di scuola cremonese, gli fece raggiungere l’apice della perfezione dei suoi strumenti. Il metodo di costruzione alla francese fu quindi ritenuto da Malagutti il migliore e nonostante le feroci critiche che continuamente gli venivano mosse dai colleghi italiani “puristi” del metodo cremonese, venne da lui adottato definitivamente sino alla sua scomparsa. n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI OMAR 35 nuovo La costruzione di un violino era per Erminio una grande emozione, come se fosse il primo, che lo assorbiva e lo concentrava profondamente. Lo ho osservato molte volte intento a scolpire fondi e tavole armoniche, manici con chiocciole stupende, predisporre gli intagli per l’inserimento dei filetti, fare le sguscie, ecc.. Le sue mani erano agilissime all’uso di sgorbie, scalpelli, piallette e rasiere che venivano manovrate, essendo ambidestro, con uguale maestria sia con la mano destra quanto con la sinistra. Era affascinante vedere come da quei pezzi di legno e da quelle tavolette si potessero produrre tanti ricciolini di legno che andavano a ricoprire pian piano il pavimento della sua bottega. L’apogeo della costruzione era raggiunto quando lo strumento era finalmente verniciato: circa 30 mani di vernice (una al giorno), l’ultima delle quali era sostanzialmente la “brillantatura”. Essa consisteva nell’utilizzare il tampone appena umido di alcool etilico 98° ed alcune gocce di olio paglierino, con movimenti circolari velocissimi, su tutte le superfici esterne dello strumento sino a che esse risultavano brillantissime e sulle quali era possibile specchiarsi. Quando il violino era finito, montato con corde, ponticello e anima, non era raro vedere Erminio con gli occhi leggermente arrossati e umidi; era quella la sua vita e la sua squisita arte; arte purtroppo che non ha potuto trasmettere ad altri non avendo mai avuto o voluto allievi nella sua bottega. Erminio Malagutti costruì soprattutto violini, viole e pochi violoncelli (per il grande impegno ed il notevole tempo di lavoro che occorreva). Un violoncello, come mi disse Erminio, lo costruì tra gli anni 70/80 per il parroco di un comune del borgomanerese, musicista dilettante che lo aveva pagato attorno a 8.000.000 delle vecchie lire. Nei primi anni 80, in considerazione del fatto che i suoi violoncelli erano ricercati e che egli era abbastanza restio a costruirne per i motivi precedentemente riportati, si decise a contattare il parroco, offrendogli in cambio del violoncello acquistato, un buon violoncello francese di inizio 900 oltre ad una somma di 30.000.000 delle vecchie lire. Purtroppo il parroco non accettò mai lo scambio ed egli fu costretto a dover costruire un nuovo violoncello. Ritengo personalmente sia molto significativo questo fatto: sta infatti a dimostrare quanto un violoncello Malagutti fosse già quotato in quegli anni e quanto possa essere quotato ora. Aver avuto modo di conoscere Malagutti nella sua piena maturità artistica, per me, indegno e me- 36 OMAR nuovo n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI diocre liutaio a livello amatoriale, è stata un’esperienza unica, irripetibile. Innanzitutto per l’umiltà e per il valore umano che gli erano propri e che erano alla base della sua vita sia privata che professionale; secondariamente perché l’enorme esperienza diretta, acquisita in una vita dedicata esclusivamente alla liuteria, facevano di lui una pietra angolare, un caposaldo di riferimento cui hanno ricorso in moltissimi da ogni parte del mondo. Erminio amava veramente il suo lavoro, viveva per i suoi violini, sfiorandoli ed accarezzandoli dolcemente, quasi fossero le curve sinuose dei fianchi di una bella donna. Era gelosissimo dei suoi strumenti e, come mi confidava, se non fosse stato per il fatto di dover “tirare fuori il pane” non ne avrebbe venduto nemmeno uno. La proprietà degli strumenti sarebbe rimasta solo sua, però li avrebbe dati da suonare in prestito a tutti i musicisti, perché diceva, sarebbe stato un sacrilegio non farli suonare; era come possedere delle Ferrari e tenerle perennemente in garage. Non sono mai riuscito a sapere quanti strumenti fece complessivamente Malagutti; tranne un’indicazione di circa 20 violoncelli costruiti, egli, su questo argomento ha sempre discretamente sorvolato. Amedeo Mossini Erminio Malagutti nacque a Guastalla (MN) il 205-1914. Era di stirpe contadina: il padre e il nonno lavoravano la terra. Fin da piccolo aveva un’innata passione per la liuteria. Da ragazzo frequentava una scuola di musica, dimostrando un talento eccezionale e facendo 30 km al giorno in bicicletta. Frequentava pure la bottega di un liutaio vicino a Suzzara. A 14 anni si costruì il primo violino, lo mostrò al suo maestro liutaio e questi non lo volle più in bottega. “Impari troppo alla svelta … finirai per togliermi il lavoro” gli disse e lo cacciò. Nel 1936 emigrò a Milano per fare il liutaio, senza una lira in tasca né un laboratorio per lavorare. I primi tempi furono durissimi: per mangiare andava alla mensa dei poveri, dai francescani; per riposarsi usava una panchina davanti al castello sforzesco. È forse per queste difficoltà iniziali, per la pazienza che occorre per imparare un’arte come quella della liuteria, che Erminio Malagutti non aveva discepoli né allievi. Tristemente pensava che la sua arte sarebbe scomparsa con lui. Si sposò il 21-4-1939; dal matrimonio nacque una figlia. Malagutti lavorò per tre quarti di secolo, fin dopo i 90 anni, similmente ad Antonio Stradivari (16431737) che fu in attività fino alla morte, a 93 anni. Produsse violini, viole e violoncelli, ma soprattutto violini. Difficilmente lavorava su commissione: preferiva lasciarsi guidare dall’estro del momento. Non era disposto a vendere tutto quello che creava. Sosteneva che “ogni strumento è un’opera d’arte unica e irripetibile, che ha una sua personalità e un suo carattere”. Per fare un violino gli occorrevano dai 20 ai 30 giorni, lavorando intensamente. Per fare un violoncello, anche il doppio. Ma soprattutto – sosteneva – “sono necessarie costanza e moltissima pazienza e bisogna avere nel sangue l’amore e la passione per quello che si fa ed io ho avuto questo dono”. Nel suo laboratorio in via Pantano 11 a Milano, a piano terreno, oltre ai più prestigiosi artisti (Salvatore Accardo, Uto Ughi, Rostropovic) arrivavano anche numerose scolaresche in visite d’istruzione. Ai giovani studenti, Erminio Malagutti, prima di illustrare le fasi di costruzione di un violino, voleva subito sfatare leggende e luoghi comuni. “La bravura di Stradivari è in gran parte una leggenda. I suoi erano sì degli ottimi violini, ma quelli moderni sono migliori. Sono stati i grandi liutai dell’’800 che hanno reso superlativi i violini degli Amati, dei Guarneri, di Stradivari e Guadagnini, rifacendoli in parte”. Spiegava Malagutti che questi celeberrimi strumenti erano nati con il manico inchiodato alla cassa con due o tre chiodi e più corto. Si può immaginare come questi chiodi falsassero la propagazione delle vibrazioni sonore nel legno e nella cassa armonica. Ora i chiodi sono spariti, sostituiti da colle. Anche il manico è stato allungato e inclinato rispetto alla cassa. Fu Niccolò Paganini (1782-1840) il primo a volere il manico in questo modo. Pure la tastiera è cambiata: i violini dell’epoca della musica barocca l’avevano visibilmente più corta. Sfatate queste leggende e luoghi comuni, Erminio Malagutti passava a spiegare pazientemente come viene costruito un violino. La prima fase è quella della cassa armonica che si ricava dal legno usando delle apposite sagome. Una volta sgrossati i due piatti, superiore e inferiore, si rinforzano con un filetto che si inserisce a pochi millimetri dal bordo e si procede a curvare, fissare e levigare le fasce laterali. Poi si applica il manico incassandolo, come già detto, in posizione inclinata rispetto alla cassa. Espletati ancora alcuni particolari, si passa alla verniciatura, operazione che da sola impegna un mese intero. Malagutti usava molte vernici, tutte naturali, la maggior parte provenienti dall’Oriente. Usava anche molti tipi di legno; diluendo, per esempio, della polvere di sandalo nell’alcool otteneva delle tonalità di rosso stupende. Viene spontaneo chiedersi perché i più prestigiosi e costosi violini (Amati, Guarneri, Stradivari, Guadagnini …) sono stati costruiti nel ’600 e ’700. Tante ipotesi sono state fatte in merito alla stagionatura del legno, alle vernici, alle proporzioni. Una teoria alquanto recente e molto accreditata colloca quel periodo nel cuore della cosiddetta “piccola glaciazione”, durata alcuni secoli, durante i quali, per le temperature sensibilmente basse, gli alberi crescevano faticosamente, con raggi midollari contratti e anelli annuali più vicini e compatti, il che finiva per giovare al fenomeno della risonanza acustica del legno. Per quanto riguarda le vernici, recenti ricerche 1 Tratto dall’articolo di Luca Frigerio “In ricordo di Erminio Malagutti – La voce del violino – Omaggio a un maestro liutaio” leggibile in internet. hanno dimostrato che sono sì importanti, ma non quanto si credeva fino a qualche tempo fa. Ai visitatori del suo laboratorio Erminio Malagutti mostrava con orgoglio i numerosi premi internazionali e nazionali vinti e le foto che lo ritraggono accanto a musicisti famosi. Su una scansia, accanto agli attrezzi di lavoro disposti con religioso ordine (pialle, lime, bulini …), troneggiava una fotografia di Gino Bartali: erano amici e coetanei. Appena poteva, Erminio Malagutti seguiva il campione nelle sue gare e quando si incontravano era sempre una grande festa. Una volta si presentò a Malagutti un giovane violinista, alquanto timido, accompagnato dai genitori, per avere un giudizio sul suo strumento: non ne era contento, sentiva l’esigenza di qualcosa di più, di meglio 1. Il liutaio esaminò il violino con attenzione, tastandolo, provandolo, ascoltandone il suono e le vibrazioni, rimanendo a lungo in silenzio. Quando, infine, parlò disse che quel violino andava benissimo. “Ragazzo mio, ci puoi fare tutti i concerti che vuoi”, cercò di rassicurarlo. Strano discorso – può sembrare a noi – che andava contro lo stesso interesse del liutaio … Ma così era la cristallina etica professionale di Erminio Malagutti. Con pazienza e passione spiegò al giovane violinista che cosa fare e che cosa non fare e qualche “trucco” del mestiere. Il giovane ascoltava, senza troppa convinzione: non è facile dar retta ai vecchi … Chissà se anche Uto Ughi, quando andava da Malagutti accompagnato dal padre, diversi anni prima, aveva quella stessa aria ostinata … Dal laboratorio in via Pantano 11, sotto la Torre Velasca, a Milano, sono usciti violini oggi considerati in tutto il mondo autentici pezzi da collezione, strumenti straordinari, dal suono forte, espressivo, capolavori contesi dai migliori concertisti del mondo. Perfetti. Nell’orchestra della Scala negli anni 80 i Malagutti erano una decina; ora sono molto meno perché tanti fortunati possessori sono andati in pensione tenendosi bene stretto il loro strumento. Si narra che nell’ambiente scaligero fu fatto questo esperimento: un violinista doveva suonare un brano musicale sia su uno Stradivari, sia su un Malagutti. Degli esperti dovevano indovinare quale violino era stato impiegato. Ebbene, la maggior parte prese il Malagutti per lo Stradivari. In Italia (e non solo) la capitale della liuteria è Cremona, con la sua scuola da sempre celebre. Tuttavia, i violini Malagutti sono sempre stati valutati ad un prezzo medio 4 o 5 volte superiore al prezzo medio dei cremonesi. Erminio Malagutti morì vedovo a Cambiasca (VB), in una casa di riposo, il 13.8.2006. Poco prima della sua scomparsa, ricevette dalla Città di Milano l’“Ambrogino d’Oro”, prestigioso riconoscimento, tardivo quanto doveroso. Ora Erminio Malagutti non c’è più, ma i suoi violini continuano a suonare. Per Lui e per noi. Si ringrazia il maestro Roberto Politi (Conservatorio Guido Cantelli e Orchestra Carlo Coccia di Novara) per la collaborazione. n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI OMAR 37 nuovo Studi e informazioni culturali - Poesie “Tra l’udire e l’ascoltare c’è di mezzo...” e “I tesori del mare” Giuseppe Romano Tra l’udire e l’ascoltare c’è di mezzo… Sovente confusione si suol fare sul concetto di udire ed ascoltare. L’udito, come gli altri sensi innato, a udir suoni e rumori è destinato. Ma son tante le massime mordaci sull’orecchio, pungenti ed efficaci: “Duro d’orecchio”, “Orecchio da mercante”, “Tutt’orecchi in modo sconcertante”, “Orecchiabile”, “Avere buon orecchio”, “Orecchiante”, “Metter pulce nell’orecchio”. L’ascolto, invece, non è affatto innato, ma è un sistema assai più sofisticato. Può essere acquisito e migliorato se di temperamento uno è dotato. Per migliorar prontezza ed attenzione s’impartisce all’ascolto “educazione”, per arguir la corretta informazione, schivando l’insidiosa confusione, per evitar frodi e buggerature, con immancabili incavolature. Per l’esibizion di un personaggio c’è “l’indice di ascolto” per sondaggio; se, per esteso, lo è di “gradimento” diviene, per l’attore, “un gran tormento”. Poiché nel leggere o nell’ascoltare l’opinione di ognuno può variare: per la disposizione del momento dovuta a preconcetto o sentimento, per giudicar con imparzialità ci vuol disinteresse e anche lealtà. 38 OMAR nuovo n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI I tesori del mare Dal mare oltre due terzi son bagnate le superfici emerse ed abitate. Ammaliati dalle di lui bellezze, sovente ne scordiamo le ricchezze. Molti tesori si trovano in mare: ingente è la risorsa alimentare, vive nelle acque correnti o in laguna, di pesci variopinti una fortuna. Non solo cibo ci fornisce il mare, son tanti altri i prodotti da citare; in “Ventimila leghe sotto i mari” Verne azzardava che, per molti affari, “il mare è” – previsioni da profeta – “la fabbrica più grande del pianeta”. Così: coralli e perle ornamentali, le conchiglie di forme disuguali, opere di molluschi che, in natura, costruiscono la loro architettura… L’enorme varietà di formazione è adatta ad una bella collezione, perché toccan la nostra fantasia le lor forme di grande bizzarria. Le ostriche alle rocce abbarbicate da madreperle paiono argentate, vongole, cozze e ricci da gustare son tutti frutti dello stesso mare. Resti di navi antiche naufragate, per onde violente o mareggiate, cariche di gioielli o blocchi d’oro, da sole costituiscono un tesoro. In conclusione: sali minerali, cloro e cloruro di sodio, ambientali, elementi inorganici e talora la silice, le spugne ed altro ancora. Istituto Tecnico Industriale Omar Diplomati dell’Istituto Omar nel 2008 CHIMICA Sezione 5 CA AMODIO MARCO – Trecate BOLLINI LORIS – Trecate BRUSTIO MARCO – Galliate BURGIO GOMEZ PABLO JESUS – Novara CACCIATORE ELISA – Trecate CAROSIO MATTEO – Cameri CASTELLI SABRINA – Novara CATALDI DEVID – Romentino CATELLAN MASSIMILIANO GIANNI – Romentino CONDELLO DOMENICO – Novara DE BENEDICTIS MATTIA – Cerano DOSDEGANI ANDREA – Vespolate LANIA GIUSEPPE – Parona MARIANI STEFANO – Cameri PATRUNO ANTONY – Trecate RAINERI ANNALISA – Garbagna Novarese RIZZO THOMAS – Novara SARTORI ALESSANDRO MICHEL – Galliate SERRA MARCO ANTONIO – Romentino Sezione 5 CB ANSUINI MARCO – Novara BOVIO GABRIELE – Bellinzago Novarese CANTONI DAVIDE – Tornaco COMAZZI ALBERTO – Sozzago CURCIO NICOLAS – Bellinzago Novarese DE GIROLAMO VALERIA – Galliate DESTRO DARIO – Novara GERBINO MATTEO – Tornaco GUENZI FABIO – Novara MANCANO CESARE – Novara MARCHIO GIUSEPPE – Novara MIRACOLO MATTEO – Trecate NORESI SIMONE – Carpignano Sesia NOSOTTI FEDERICO – Bellinzago Novarese PEROTTI ALESSIO – Marano Ticino PROVENZANO ALESSIO – Novara PROVENZANO DANILO – Novara RODA ALESSIO – Garbagna Novarese ROVELLI ALESSANDRO – Novara STACCHETTI DAVIDE – Novara TESSARO DANIEL – Novara TRAVAGLIA ALBERTO – Serravalle Sesia URLI DANILO – Novara BONANNO SERAFINO LORIS – Novara BORSOTTI DIEGO MARIA – Oleggio BUZZI MATTEO – Novara CERVINI CHIARA – Galliate DEAGOSTINI MARCO – Ghemme DE MARCO RAFFAELE – Galliate DI NOCERA ANTONIO – Novara GINO ALESSANDRO – Novara GUERRA JOSE EDUARDO – Novara LAZZARONI RICCARDO – Cameri LIBERINI FEDERICO – Bellinzago Novarese NUVOLONI MATTEO – Cameri RAPISARDA DANIELE ALFIO – Trecate ROSSI RICCARDO – Briona TORRETTA ROBERTO – Vanzaghello TREVISAN DAVIDE – Vespolate ELETTROTECNICA E AUTOMAZIONE Sezione 5 EA BAGGIO SIMONE – Grignasco BOSETTI MARCO – Vespolate CAMMARASANA SIMONE – S. Pietro Mosezzo CAMPANA VINCENZO – Romagnano Sesia FINOTTI FABIO – Novara FRASSINI MATTIA – Novara GAETTI MARCO – Momo GOBERJA ADRIAN – Galliate GRECO MATTEO – Novara SPADUZZI FABIO – Novara TAMBORINO VALERIO – Novara Sezione 5 EB BELDÌ LUCA – Momo LA VECCHIA SIMONE – Novara MANCIN ALEX – Oleggio MIGLIO LUCA – Bellinzago Novarese PASSERO DANILO – Trecate PEZZULLO RICCARDO – Cerano PIZZO STEFANO – Novara QUAZZINO ALESSIO – Bellinzago Novarese SCHIAVONE MARCO – Novara SYED RAFAH – Momo TRAPANI STEFANO – Novara VANDONI SIMONE – Caltignaga ELETTRONICA E TELECOMUNICAZIONI MECCANICA Sezione 5 MA AGWAZIA FABIO – Novara BALESTRA MARCO – Romagnano Sesia Sezione 5 TA APOSTOLO DAVIDE – Bellinzago Novarese BIGLIARDI STEFANO – Novara D’AIELLO SIMONE – S. Nazzaro Sesia n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI OMAR 39 nuovo FERRARA MARCO GIOVANNI – Novara GARAVAGLIA ANDREA – Robecchetto con Induno GIRARDI MICHELE – Bellinzago Novarese MARIAZZI DARIO – Momo MOSCA SIMONE – Cameri NIGRO CLAUDIO – Sizzano POPA ALEXANDRU – Novara RIGAMONTI FEDERICO – Novara RUMI MATTEO – Novara UCCELLATORI LUCA – Novara Sezione 5 TB ALLUVI STEFANO – Castano Primo AMATO MASSIMO ANTONIO – Novara BIANCO MICHELE – Cameri BORRINI PAOLO – Cameri BOSSI LUCA – Trecate BOTTINI MANUEL – Suno FORTINA ANDREA – Oleggio LINARELLO SIMONE – Caeri MANCINI VITTORIO – Oleggio MONTAGNOLI STEFANO PIETRO – Novara PORTA RICCARDO – Novara RECCHIA ANDREA – Novara VANOLI STEFANO MICHELE – Novara VENDITTI LORENZO – Novara VESCI STEFANO – Cameri Esterni ALBERA STEFANO – Oleggio BASSANI DARIO – Novara CHIARINOTTI MARCO – Oleggio DELGRANDE CLAUDIO – Novara DI MARCO LUIGI – Oleggio FALCONE ROSARIO – Novara FRANCO FEDERICO – Boffalora s. Ticino IANNELLI GIOVANNI – Oleggio LOI ROBERTO – Novara LORÈ ALBERTO – Novara PANCOTTO YARI – Arborea RAGNI GIORGIO – Cameri SALERNO FRANCESCO – Novara SANTAGATA ANDREA – Trecate SCABIN MIRKO – Trecate VANOLA CRISTIANO – Boffalora s. Ticino VILLANI BORIS – Novara DISTRIBUZIONE DELLE VOTAZIONI DEI DIPLOMATI 60 61 - 70 71 - 80 81 - 90 91 - 99 100 LODE Interni Esterni 10 – 50 10 25 3 15 3 7 – 4 1 1 – TOTALE 10 60 28 18 7 5 1 40 OMAR nuovo n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI Istituto Tecnico Industriale Omar Premio di poesia “Città di Borgomanero” Lo studente Filippo Alzati della 2ª C (nel passato anno scolastico) si è onorevolmente classificato al quarto posto, su oltre 500 concorrenti, nel Quattordicesimo premio Città di Borgomanero – dedicato a Valter Mignone – riservato agli studenti delle Province di Novara, di Verbania e di Vercelli, organizzato dal Comune di Borgomanero e dal Centro Culturale Don Bernini, con il patrocinio della Provincia di Novara. Filippo Alzati ha presentato la lirica seguente “Il rosso del Sole” La pioggia che incessante continua a cadere laverà via ogni cosa … Odio, tristezza, rimorso e persino le colpe. Il rosso non è più il colore del sangue, ma quello del sole che sorge, un sole che solo i vivi potranno vedere e che li condurrà verso una nuova speranza per il domani. Ancora premi e riconoscimenti alla prof. Annamaria Balossini Domenica, 6 settembre u.s., alla “Fabbrica” di Villadossola, si è tenuta la cerimonia di premiazione del 9° Concorso di poesia dialettale “Armando Tami”, esteso quest’anno per la prima volta non solo alla provincia di Verbania, ma anche a quella di Novara. La prof.ssa Annamaria Balossini, docente di Lettere dell’Istituto Omar, ha conseguito il 2° premio con la poesia”Cont on but de fior”, poesia dialettale novarese in grafia piemontese. La giuria, composta dal Presidente, Gianfranco Bianchetti, dai docenti, proff.: Silvano Ragozza ed Elena Wetzel-Weber, dal Presidente dell’Academia dal Rison, dott. Gianfranco Pavesi, dal giornalista de La Stampa, Pietro Benacchio, e da Renato Ponta dell’Associazione “Libriamoci”, ha onorato la collega con medaglia d’oro e attestato di partecipazione. Cont on but dë fior Profum d’armàndola bianch sperlà e dël pom granà ël giusc ciross. Con una gemma di fiore Profumo di mandorlo bianco sperlato e del melograno il sapore rosso. Cont on but dë fior ti sè marcà su na scòrsa ’d cheur on piombin d’Amor. Con una gemma di fiore hai inciso sulla corteccia del cuore un sigillo d’Amore. E ’l sò lusor l’è lì sarà denta la miola d’òr, tacà sù. E il suo splendore è lì racchiuso dentro l’anima, appeso. Giusc ciross – Giusc è, ovviamente, il succo; per ciross (polvere rossa di mattoni), oltre che al colore (ross), in questo caso possiamo forse cogliere anche un riferimento al ‘frantumarsi’ in minuti chicchi, quasi un simbolico polverizzarsi, proprio del contenuto del pom granà. Miola d’òr – Midollo d’oro: ciò che esiste, quindi, di più intimo e prezioso. Lunedì, 6 ottobre, presso la Sala Consiliare della Provincia di Novara, è stata presentata l’antologia “Documenti di viaggio. Dodici poeti novaresi”, curata dal prof. Gianni Marchetti, ed edita da Torino Poesia. I poeti presenti nell’antologia sono: Roberto Bacchetta, Eleonora Bellini, Annamaria Balossini, Giorgio Caione, Bruna Dell’Agnese, Leonardo Di Bari, Aldo Ferraris, Federico Italiano, Giuliano Ladolfi, Gianni Marchetti, Andrea Temporelli, Davide Vanotti. n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI OMAR 41 nuovo Associazione Omaristi Assemblea ordinaria del 18 maggio 2008 Nella S. Messa in suffragio degli omaristi defunti, presso il Santuario di Maria Ausiliatrice, sono stati ricordati: Pietro Anadone, Luciano Fantini, Angelo Passerini, Giacomino Ribecchi, Mario Rosati, Mario Sempio, Bruno Sibilla, Mario Signorelli, Pietro Vandone, Pietro Paolo Zanazzo. Il presidente neoeletto dott. Stefano Bonetti ha voluto dare una nota innovativa e di colore all’assemblea – pur mantenendosi nella linea tradizionale – proiettando il filmato “Ricordi dell’Omar dal 1953 al 1958” da lui ottenuto utilizzando vecchi fotogrammi in cui imperversa il prof. Verni. Il successo è stato notevole. Nella sua relazione Bonetti ha richiamato gli obiettivi statutari ed assembleari dell’Associazione, i problemi attuali, la necessità del sostegno all’Associazione, punti che possono essere così riassunti. Scopi prioritari previsti dallo Statuto sono: – l’aiuto ai neodiplomati all’inserimento nel mondo del lavoro o alla prosecuzione degli studi in università; – la premiazione dei migliori neodiplomati di ogni anno scolastico; – il promuovere lo sviluppo della cultura tecnico/scientifica come motore principale di ogni attività d’impresa; – la pubblicazione della nostra rivista di cultura diffusa in scuole, enti pubblici, autorità, imprese e professionisti locali; – la promozione e la valorizzazione del nome dell’Istituto Omar in tutte le sedi opportune. La nuova Assemblea avrà come obiettivo: – L’espletamento di tutte le attività tradizionali ed inalienabili. Esse rappresentano già la realizzazione di alcuni obiettivi della nostra associazione (lettura e approvazione del bilancio, la premiazione dei migliori diplomati e quella dei veterani che festeggiano il 50ennio di diploma). – L’introduzione di un relatore qualificato allo svolgimento di un tema che abbia attinenza con la realtà. Quest’anno ricorre il 200° anno dalla nascita di Meucci. La scelta operata, se da una parte costringerà gli ospiti istituzionali presenti a limitare i loro interventi a pochi minuti, dall’altra aumenterà il contenuto culturale dell’assemblea. Problemi attuali: – Il 70% degli studenti ha almeno un debito formativo; – Il 62% ha il debito formativo in matematica; – Gli alunni hanno, mediamente, 4 debiti formativi. – Il voto minimo deve essere 4/10 42 OMAR nuovo n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI – Assegnare il 6/10 (18/30 ecc.) politico senza collegamento alla specifica preparazione. – Autorità: quell’insieme di qualità proprie di un’istituzione o di una singola persona alle quali gli individui si assoggettano volontariamente per realizzare determinti scopi comuni. – Autorevolezza: sta a significare grande autorità e prestigio (ad es. un personaggio, uno scienziato…) – Severità Sostengono l’Associazione: ITI Omar, quote associative, Fondazione Omar, Fondazione BPN per il territorio, Camera di Commercio di Novara, Aziende/Enti che fanno pubblicità sulla nostra rivista. Negli ultimi 5 anni hanno fatto pubblicità: Caleffi, Comoli Ferrari & C., Elabora Software, Fontaneto, Nuova lnoxtecnica, Počkaj - Costruzioni Elettromeccaniche, Pomini, L. F. - Tecnologie Integrate, Tecnomeccanica, Tosi F.lli - Produzione Minuterie Metalliche. Infine, il presidente ha informato che la nostra associazione è da sempre legata, a doppio filo, al Club Donegani e pubblichiamo sulla nostra rivista il calendario annuale delle sue conferenze. Esse seguono sempre due percorsi: uno scientifico e l’altro storico. I relatori sono persone molto qualificate e competenti. Abbiamo anche l’onore annoverare tra i nostri associati il presidente in carica del Club Donegani, dott. Francesco Traina. Inoltre, il prossimo 31 maggio ci sarà un’importante conferenza/lezione dell’ing. Basilio Catania dal titolo “Le leggi del cambiamento”. L’ing. Catania è uno scienziato di fama internazionale, un’autorità nel campo della fisica informatica e delle telecomunicazioni. Tutti sono invitati a partecipare. Il Prof. Giovanni Battista Cattaneo, dirigente scolastico dell’Istituto, evidenzia l’alta considerazione in cui è tenuto l’Omar, i cui neodiplomati non sono in numero sufficiente per soddisfare le richieste delle aziende. L’Istituto dispone di una banca dati sempre più vasta ed esauriente per le richieste aziendali. Si complimenta con l’Associazione Omaristi per la sua efficienza, per il legame affettivo tra scuola e soci e per la sua longevità, forse unica in Italia (compirà il secolo di vita nel 2011). Cattaneo ha infine informato che l’ultima fase di ristrutturazione dell’Istituto è stata finanziata ed i lavori (verso il viale Ferrucci e la vecchia sala macchine) avranno inizio alla fine dell’anno in corso e dureranno un anno o poco più. Il presidente della Fondazione Omar, ing. Francesco Ticozzi, ha fornito ragguagli sulla gestione dei beni della Fondazione (azienda agricola Cineroli di Biandrate) e sui vincoli che limitano le disponibilità finanziarie. Il premio della Fondazione di 2000 euro al migliore omarista continua ad essere sistematicamente conferito ogni anno. Un rapido accenno è stato fatto a diverse iniziative, ancora allo stato embrionale. La dettagliata relazione di bilancio dell’Associazione, esposta dal tesoriere dott. Fernando Dulio, si può riassumere in poche cifre: nel 2007 le entrate sono state euro 9.707,02 e le uscite euro 10.078,11 (di cui euro 6.952,40 per la stampa della rivista “Omar nuovo”); la residua liquidità finale (tenendo conto anche della liquidità iniziale) risulta euro 16.807,84. È preoccupante il sistematico fenomeno degli ultimi anni di costante erosione della disponibilità finanziaria. Il testo della piacevole e dotta conferenza del dott. Giuliano Musetti “Nascita delle telecomunicazioni: Meucci e gli altri” è riportato in altra parte di questo fascicolo. PREMIAZIONI Come negli anni precedenti, le premiazioni sono state sponsorizzate dalla Camera di Commercio di Novara che ha offerto le medaglie. Il presidente della C.C.I.A.A. ing. Gianfredo Comazzi, nell’impossibilità di presenziare, è stato rappresentato dall’ing. Sandro Porzio. Premiazione dei migliori diplomati del 2007 Una segnalazione particolare ha avuto Angelo Morreale, diplomato con 100 e lode e con premio del Ministero della Pubblica Istruzione. Altri cinque diplomati hanno conseguito 100/100. Complessivamente sono stati premiati: Dip. Elettronica e Telecomunicazioni: Angelo Morreale, Roberto Albertini Dip. Chimica: Simone Busseni, Fabio Bovio, Danilo Del Prete, Mattia Rondena, Riccardo Preda, Fabio Seiti Dip. Meccanica: Matteo Morazzone Solo Angelo Morreale e Riccardo Preda erano presenti. Premiazione dei periti al 50° anno di diploma Elettrotecnici: Albertinazzi Luigi, Avezzano Giorgio, Bacco Giovanni, Borsotti Giampiero, Boscarini Giancarlo, Bosoni Marco, Brega Raffaele, Buccelloni Giuliano, Chillini Teresio, Ottobrini Giuseppe, Pescarolo Giovanni, Rossi Elio, Tempesti Ezio Maria, Volpi Spagnolini Aldo, Zocchi Giancarlo, Boccadelli n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI OMAR 43 nuovo Fiorenzo, Caprino Guido Luigi, Petterino Giuseppe, Ricca Carlantonio, Rossanigo Carlino, Spinelli Romano, Valle Antonio. Meccanici: Boldrini Angelo, Bonetti Stefano, Bongianino Serafino, Codini Giovanni, Colli Bruno, Felia Pietro, Ferrari Carlo, Ferrero Luigi, Franchino Riccardo, Goretti Giuseppe, Portigliotti Tarcisio. Aeronautici: Falcetta Giovanni, Panigoni Gianfranco, Signorelli Giampietro, Vettori Mario. * * * La giornata si è conclusa con un rinfresco presso l’Istituto ed il pranzo sociale in un ristorante a Novara. Le leggi del cambiamento Conferenza Sabato 31 maggio 2008, nella Sala Videoconferenze 1 dell’Istituto Omar, con la collaborazione del medesimo Istituto e della Fondazione Omar, si è tenuta la conferenza “Le leggi del cambiamento”. Relatore uno scienziato d’eccezione: l’ing. Basilio Catania. La conferenza si è riallacciata alla serie di tre articoli apparsi sulla rivista “Omar nuovo” dal titolo “I molti aspetti dell’informazione”, nei quali è stato evidenziato il ruolo dell’informazione nelle varie fasi evolutive dell’universo, ed ha avuto lo scopo di elucidare la relazione tra informazione (più in generale, teoria dell’informazione), fisica quantistica e termo- 44 OMAR nuovo n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI dinamica, in una visione unitaria delle tre branche della scienza, collegate tra di loro dalla struttura cognitiva dell’osservatore. È stata dimostrata, in particolare, la relazione fra azione ed informazione, A = hI, scoperta dall’autore nel 1987. Sono state, infine, prese in considerazione modalità di acquisizione della conoscenza diverse da quelle strettamente legate all’osservazione booleana del mondo esterno, proprie della modalità operativa sintetica dell’emisfero cerebrale destro, e basate sul concetto di informazione negativa o neg-informazione. Notizie dall’industria Legionella ed impianti. Nuove soluzioni tecniche (seconda puntata) Gruppo compatto multifunzione Legioflow Caleffi S.p.A. Fontaneto d’Agogna (NO) S.R. 229 n. 25 °C 75 Ustione totale 70 65 Ustione parziale Legionella-pericolo scottature 60 Negli impianti di produzione di acqua calda per uso sanitario con accumulo, per poter prevenire la proliferazione del pericoloso batterio Legionella, è necessario accumulare l’acqua calda ad una temperatura minima di 60°C. A questa temperatura si ha la certezza di inibire totalmente la proliferazione del batterio. A questa temperatura, tuttavia, l’acqua non è utilizzabile direttamente. Come evidenziato dal grafico e dalla tabella riportati, temperature maggiori di 50°C possono provocare ustioni in modo molto rapido. Per esempio, a 55°C si ha ustione parziale in circa 30 secondi, mentre a 60°C si ha ustione parziale in circa 5 secondi. Questi tempi, in media, si riducono alla metà in caso di bambini od anziani. A fronte di tutto ciò, è quindi necessario installare un miscelatore termostatico che sia in grado di: – ridurre la temperatura al punto di utilizzo ad un valore più basso rispetto a quello di accumulo ed utilizzabile dall’utenza sanitaria. – mantenere costante la temperatura di utilizzo al variare delle condizioni di temperatura e pressione in ingresso. – impedire alla temperatura dell’acqua in uscita di raggiungere valori superiori a 50°C. – avere una sicurezza antiscottatura in caso di mancanza accidentale dell’acqua fredda in ingresso. Disinfezione termica Per poter avere la maggior sicurezza che non ci sia proliferazione della Legionella, tutti i tratti della rete devono essere sottoposti al trattamento di disinfezione termica. Anche per il tratto di rete a valle del miscelatore, fino al rubinetto d’utenza, deve essere possibile eseguire il flussaggio a temperatura superiore ai 60°C. Occorre perciò by-passare il miscelatore termostatico, tarato a valori inferiori, ed azionare una opportuna valvola che permetta di alimentare i rubinetti direttamente con l’acqua calda proveniente dalla rete di distribuzione. 55 Condizioni di sicurezza. Tempo di esposizione massimo ad una determinata temperatura 50 45 0,1 1 10 100 1.000 10.000 Secondi Temperatura Adulti Bambini 0-5 anni 70 °C 65 °C 60 °C 55 °C 50 °C 1s 2s 5s 30 s 5 min — 0,5 s 1s 10 s 2,5 min Applicazioni Il gruppo di controllo temperatura e disinfezione termica viene tipicamente utilizzato negli impianti al servizio di, ospedali, case di cura, centri sportivi e commerciali, alberghi, campeggi e collegi. In queste strutture ad utilizzo collettivo, è quanto mai necessario il controllo e la prevenzione della Legionellosi in modo programmato, con la possibilità di effettuare la disinfezione termica fino al rubinetto d’utenza in caso di necessità. n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI OMAR 45 nuovo Componenti caratteristici Schema idraulico • Valvola flussaggio chiusa 10 1 12 • Valvola acqua fredda aperta OFF MX MI CA CAL CALEFFI CO COLD T COLD 1 2 3 4 5 6 7 8 9 Funzionamento con disinfezione termica 1) Miscelatore termostatico antiscottatura, regolabile con blocco antimanomissione della regolazione temperatura 2) Valvola automatica di flussaggio per disinfezione termica, per by-pass miscelatore e contemporanea intercettazione ingresso acqua fredda 3) Valvole di intercettazione a sfera con filtri e ritegni incorporati agli ingressi acqua fredda e calda 4) Kit di derivazione per circuito acqua fredda 5) Collettore di distribuzione con valvole di intercettazione incorporate con volantino di manovra per circuito acqua calda 6) Collettore di distribuzione con valvole di intercettazione incorporate con volantino di manovra per circuito acqua fredda 7) Staffe di sostegno in acciaio inox 8) Ammortizzatore di colpo d’ariete serie 525 (accessorio) 9) Cassetta di contenimento ventilata, in materiale plastico 10) Timer con chiave di consenso programmabile cod. 600200 (accessorio) • Valvola flussaggio chiusa • Valvola acqua fredda aperta ON T Disinfezione termica Le temperature ed i corrispondenti tempi di disinfezione della rete devono essere scelti in funzione del tipo di impianto e della relativa destinazione d’uso. Alla luce di quanto richiesto dalla legislazione mondiale più evoluta in merito, indicativamente si possono adottare i seguenti criteri: T = 70°C per 10 minuti T = 65°C per 15 minuti T = 60°C per 30 minuti Dopo aver azionato l’interruttore di comando della valvola di flussaggio (circa 210 s), si devono aprire i rubinetti di utenza per effettuare la loro disinfezione termica con l’acqua calda della rete di distribuzione. I tempi di apertura dei rubinetti e la frequenza della loro disinfezione devono essere scelti in base alle modalità di conduzione dell’impianto ed alle norme applicabili. 46 OMAR nuovo n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI Principio di funzionamento Miscelatore Il miscelatore termostatico miscela l’acqua calda e fredda in ingresso in modo tale da mantenere costante la temperatura regolata dell’acqua miscelata in uscita. Un elemento termostatico (1) è completamente immerso nel condotto dell’acqua miscelata. Esso si contrae od espande causando il movimento di un otturatore che controlla il passaggio di acqua calda o fredda in ingresso. Se ci sono variazioni di temperatura o pressione in ingresso, l’elemento interno reagisce automaticamente ripristinando il valore della temperatura regolata in uscita. 3 2 MISCELATA L 1 FREDDA Valvola di flussaggio La valvola di flussaggio ad azionamento manuale od automatico con comando elettrotermico, permette il passaggio dell’acqua calda direttamente verso l’uscita del gruppo. Mediante l’asta di comando con doppio otturatore (2), effettua l’apertura della via di by-pass sull’ingresso acqua calda al miscelatore e la contemporanea intercettazione dell’ingresso acqua fredda. In questo modo si evita che, durante l’operazione di flussaggio con i rubinetti aperti, possa esserci miscelazione tra l’acqua calda e fredda e riduzione della temperatura dell’acqua inviata per la disinfezione termica. 4 5 FREDDA CALDA Transitorio termico Temperature consigliate Durante il transitorio, a seguito di brusche variazioni di pressione, temperatura o di portata, la temperatura aumenta rispetto al set iniziale e tale aumento deve essere di durata limitata per garantire le prestazioni di sicurezza. Data la particolare destinazione d’uso di questo tipo di miscelatori, riportiamo una tabella indicativa delle temperature massime dell’acqua in uscita dai rubinetti per evitare scottature. T(°C) < 0,5 s - max 60°C < 3 s - max Apparecchio Tmax Bidet Doccia / Lavabo Vasca da bagno 38°C 41°C 44°C 55°C 2K 2K TTemperatura iniziale Innalzamento temperatura Periodo di stabilizzazione Condizioni stabili TTempo (s) n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI OMAR 47 nuovo Schemi esplicativi 1 12 48 OMAR nuovo n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI 1 12 Fondazione Omar Abolizione dell’ICI sull’abitazione principale. Novità del D.L. 27-5-2008 Associazione Italiana Dottori Commercialisti Studio Associato Manfredini & Baron 1 Premessa L’art. 1 del DL 27.5.2008 n. 93, entrato in vigore il 29.5.2008, ha abolito l’ICI dovuta sugli immobili adibiti ad abitazione principale, ad eccezione degli immobili “di pregio”. Inoltre, in generale, l’abolizione dell’ICI sull’abitazione principale si estende: – alle eventuali pertinenze; – alle unità immobiliari assimilate all’abitazione principale. 2 Decorrenza dell’abolizione L’abolizione dell’ICI sull’abitazione principale decorre dal 2008, quindi con effetto già dal versamento in scadenza il 16.6.2008. I soggetti beneficiari dell’abolizione non devono tenere conto di quanto indicato negli eventuali bollettini di versamento ricevuti, elaborati sulla base della disciplina precedentemente in vigore. 103,29 euro, che può essere elevata dai singoli Comuni fino a 258,23 euro; – in alternativa, la riduzione fino al 50% dell’imposta dovuta, se prevista dal Comune. 3.2 Pertinenze dell’abitazione principale In generale, l’abolizione dall’ICI si estende alle pertinenze dell’abitazione principale, anche se distintamente accatastate (es. box, garage, cantine). Tuttavia, i Comuni hanno il potere di delimitare, con proprio regolamento, il numero e le tipologie delle unità immobiliari considerate pertinenze dell’abitazione principale. Ad esempio, un Comune potrebbe deliberare che le pertinenze riconosciute sono solo quelle classificate nella categoria catastale C/6 (autorimesse) per un numero massimo di tre unità, un altro Comune potrebbe invece stabilire che le pertinenze da considerare tali possono essere soltanto due. L’estensione dell’esclusione dall’ICI delle pertinenze dell’abitazione principale dipende quindi da quanto disposto dal regolamento comunale di riferimento. 3.3 Unità immobiliari assimilate all’abitazione principale L’esclusione dall’ICI si applica anche in relazione ad alcune tipologie di unità immobiliari assimilate all’abitazione principale, per legge o in base a quanto stabilito dal regolamento comunale. 3 Ambito applicativo dell’abolizione Ai fini dell’esclusione dall’ICI, per “abitazione principale” s’intende l’unità immobiliare adibita a dimora abituale del soggetto che la possiede a titolo di proprietà, usufrutto o altro diritto reale, che si presume essere quella in cui ha la residenza anagrafica, salvo prova contraria (è quel che accade, ad esempio, nel caso in cui il contribuente dimori in un Comune diverso da quello di residenza per motivi di lavoro o nel caso di trasferimento di fatto del domicilio non ancora recepito dall’anagrafe). 3.1 Esclusione delle abitazioni “di pregio” L’abolizione dell’ICI non riguarda le abitazioni principali iscritte in Catasto nelle seguenti categorie: – A1 (abitazioni di tipo signorile); – A8 (abitazioni in ville); – A9 (castelli, palazzi di eminenti pregi artistici o storici). Per tali immobili si continuerà ad applicare: – la detrazione per l’abitazione principale di 3.3.1 Abitazioni concesse in uso gratuito a parenti I Comuni, in sede regolamentare, possono assimilare all’abitazione principale le unità immobiliari concesse in uso gratuito a parenti in linea retta o collaterale, stabilendo il grado di parentela. In tal caso, l’esclusione dall’ICI si applica se l’assimilazione è prevista da un regolamento comunale vigente al 29.5.2008 e nei limiti di tale previsione. Ad esempio, il Comune A potrebbe aver assimilato all’abitazione principale solo le unità immobiliari concesse in uso gratuito ai figli, il Comune B a tutti i parenti in linea retta (es. figli, genitori e nonni), il Comune C anche a parenti in linea collaterale (es. zii e cugini), il Comune D, invece, potrebbe non aver deliberato alcuna assimilazione. Per poter beneficiare dell’esclusione dall’ICI occorre quindi verificare quanto stabilito dal singolo Comune. 3.3.2 Abitazioni di proprietà di soggetti ricoverati in via permanente I Comuni possono considerare direttamente adibita ad abitazione principale l’unità immobiliare pos- n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI OMAR 49 nuovo seduta a titolo di proprietà o di usufrutto da anziani o disabili che hanno acquisito la residenza in istituti di ricovero o sanitari a seguito di ricovero permanente, a condizione che la stessa non risulti locata. Anche in tale caso, pertanto, per poter beneficiare dell’esclusione occorre verificare quanto stabilito dal singolo Comune, sulla base del regolamento vigente al 29.5.2008. 3.3.3 Coniuge separato non assegnatario della ex casa coniugale L’esclusione dall’ICI è estesa al soggetto passivo che, a seguito di un provvedimento di separazione legale, annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, non risulta assegnatario della casa coniugale. L’esclusione si applica a condizione che il soggetto passivo non sia titolare del diritto di proprietà o di altro diritto reale su un immobile destinato ad abitazione e ubicato nello stesso Comune della casa coniugale. 3.3.4 Abitazioni assegnate da cooperative edilizie a proprietà indivisa e IACP Sono espressamente escluse dall’ICI anche: – le unità immobiliari appartenenti alle cooperative edilizie a proprietà indivisa, adibite ad abitazione principale dei soci assegnatari; – gli alloggi regolarmente assegnati dagli IACP (Istituti autonomi per le case popolari). 3.3.5 Immobili posseduti da cittadini italiani non residenti In assenza di un’espressa previsione del DL 93/2008, l’esclusione dall’ICI non sembrerebbe applicabile agli immobili posseduti in Italia, a titolo di proprietà o di usufrutto, da cittadini italiani non residenti, a condizione che non siano locati, anche se sono assimilati per legge alle abitazioni principali. 50 OMAR nuovo n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI Sul punto è comunque necessario un chiarimento ufficiale. 4 Rimborso dell’ICI già versata Il rimborso dell’ICI versata e non dovuta, a seguito dell’abolizione disposta dal DL 93/2008, deve essere richiesto dal contribuente entro il termine di cinque anni dal giorno del versamento, ovvero da quello in cui è stato accertato il diritto alla restituzione, presentando apposita istanza di rimborso all’Ufficio tributi del Comune competente. Il Comune deve provvedere ad effettuare il rimborso dell’imposta non dovuta entro 180 giorni dalla data di presentazione dell’istanza, maggiorata dei previsti interessi. Nell’istanza di rimborso dovranno essere indicati: –i dati identificativi del contribuente e dell’immobile posseduto (indirizzo, dati catastali, percentuale di possesso, ecc.); – la motivazione per la quale il rimborso viene richiesto. Inoltre, è opportuno allegare all’istanza di rimborso i documenti giustificativi (es. fotocopia del bollettino postale o del modello F24). 5 Soggetti che hanno presentato il modello 730/2008 con richiesta di compensazione dell’ICI I contribuenti che hanno già presentato il modello 730/2008 avvalendosi della facoltà di utilizzare l’eventuale credito derivante dalla dichiarazione dei redditi per la compensazione dell’ICI relativa all’abitazione principale, possono, se il pagamento del tributo non è stato ancora effettuato, correggere l’originario modello 730/2008 presentando una dichiarazione integrativa. Se, invece, il pagamento è già stato effettuato, occorre presentare istanza di rimborso, come sopra indicato. Fondazione Tera Riflessione sugli aspetti psicosociali in oncologia (recensione) Autori vari Per la cortesia di Gaudenzio Vanolo, segretario generale della Fondazione Tera di Novara, abbiamo avuto il libro in argomento, primo volume della collana “Comunicare è già curare”. Autori ne sono oncologi, psichiatri, psicologi e bioetici. Gli argomenti affrontati sono quelli della complessa relazione con il paziente oncologico. Vengono presentati concreti esempi di risposte sui quesiti che l’oncologia clinica deve affrontare, come quello della comunicazione della verità, della gestione della sofferenza esistenziale e del dolore mentale del paziente. Sono affrontati anche i temi della qualità della vita in oncologia e nelle cure palliative. Seguono poi testi di clinica di liaison che offrono esempi di aiuto psicologico e psichiatrico al malato oncologico. Il capitolo conclusivo evidenzia come questo tipo di assistenza sia sempre più richiesta dal paziente oncologico e ci offre un esempio di pastorale clinica. Questo primo volume della collana scientifica “Comunicare è già curare” fornisce ai lettori notizie sul progresso degli studi sull’adroterapia, ossia la cura del cancro con protoni e ioni di carbonio, particelle subatomiche costituite dagli “adroni”, cui la Fondazione Tera si dedica da molti anni. n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI OMAR 51 nuovo Spigolature Giochi matematici A cura di Silvano Andorno Problema n. 1 Falso sudoku: completate la griglia disegnata con le cifre da 1 a 9 in modo che ogni casella contenga una cifra diversa e che le quattro operazioni indicate siano esatte. Problema n. 2 Sedia a sdraio: Lo schienale di una sedia a sdraio ruota intorno all’asse AA’. Una barra di sostegno permette di regolarne l’inclinazione. Questa barra BC è attaccata allo schienale in B e ruota attorno a questo punto. Per scegliere l’inclinazione dello schienale, si pone BC in una delle scanalature E1, E2, E3, …. che sono regolarmente distanziate fra loro. Se C è nella scanalatura E3, BC è perpendicolare a AB. Se C è nella scanalatura E1, BC è perpendicolare a AE1. La distanza AE3 è uguale a 50 cm e la barra BC misura 30 cm. È possibile porre la barra BC nella tacca E4? E nella tacca E5? Motivate la risposta. B A C E 1 E 2 E3 E4 E5 A1 A Soluzioni dei problemi apparsi sul numero 21 Soluzione del problema n. 1 Dopo che la decisione di andare ad Atene è stata presa, un amante di Berlino potrà fare osservare che una maggioranza di allievi (13 contro 12) preferiscono Berlino ad Atene. Democraticamente, si cambierà dunque destinazione per Berlino. Ma allora gli amanti di Cordova potranno sostenere che una maggioranza di allievi (13 contro 12) preferiscono Cordova a Berlino. È il ritorno alla scelta iniziale. Queste contestazioni non avranno più fine. Questa situazione di stallo è stata messa in evidenza dal filosofo e matematico Nicolas Condorcet (1743-1794). Soluzione del problema n. 2 Calendario cubico - 0, 1 e 2 devono poter essere associati a tutte le altre cifre. Dovranno essere rappresentati sui due dadi. Restano dunque sei facce libere per le sette cifre restanti. Carla ne verrà a capo disegnando una cifra 9 in modo che, se la gira, si possa leggere 6: infatti 9 e 6 non sono mai utilizzati simultaneamente. 52 OMAR nuovo n. 22 • Novembre 2008 • Anno XI