Che fine ha fatto il futuro? Note a margine di un saggio di M. Augé

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Che fine ha fatto il futuro? Note a margine di un saggio di M. Augé
Che fine ha fatto il futuro?
Note a margine di un saggio di M. Augé *
di Paolo Emilio Biagini **
Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?
Che cosa ci aspettiamo? E che cosa ci aspetta?
Molti si sentono soltanto confusi. Il terreno vacilla, e non sanno perché e per che cosa. Una
condizione d’angoscia, la loro, che diviene paura se assume più precisi contorni.1
Queste parole, che Ernst Bloch scrisse già sessant’anni fa, rimangono ancora attuali e ritornano alla mente di fronte all’argomento che Marc Augé ha voluto trattare in questo suo ultimo lavoro.
Marc Augé, nato a Poitiers nel 1935, è antropologo ed è stato a lungo Presidente dell’École des Hautes Études en Sciences
Sociales di Parigi. Uno dei suoi lavori precedenti a questo, intitolato Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità,
uscito in Francia nel 1992 e pubblicato in Italia, da Elèuthera
l’anno successivo, lo rese famoso al vasto pubblico. In quel testo Augé individuava alcune trasformazioni intervenute a livello antropologico. Egli le definiva sotto la categoria dell’eccesso,
intesa rispetto al tempo e alla nostra percezione di esso, rispetto
allo spazio, e infine rispetto alla figura dell’ego, dell’individualità. Queste tre caratteristiche davano vita, secondo lui, a quella
*
AUGÉ M., Che fine ha fatto il futuro? Dai nonluoghi al nontempo, Elèuthera, Milano
2009, p. 110.
**
Docente di storia e filosofia.
1
BLOCH E., Il principio speranza, voll. 3, Garzanti, Milano 1994 (1953), vol. I,
p. 5.
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Paolo Emilio Biagini
che definiva la “surmodernità”. Questa condizione surmoderna è quindi caratterizzata dalla sovrabbondanza degli avvenimenti, dalla sovrabbondanza spaziale e dalla sovrabbondanza
dell’individualizzazione degli avvenimenti. 2
La surmodernità a questo punto è produttrice di nonluoghi
che, a differenza dei luoghi antropologici (i quali sono segnati
dalla storia e dalla memoria, e sono creatori di un sociale organico), vanno intesi invece come creatori di una contrattualità
solitaria. Infatti essa non integra in sé i luoghi antichi ma al contrario, questi, nella surmodernità appunto, vengono classificati,
e promossi come “luoghi della memoria”.
I nonluoghi sono i punti di transito, di occupazioni provvisorie, come a dire
le catene alberghiere e le occupazioni abusive, i club di vacanze,
i campi profughi, le bidonville destinate al crollo o ad una perennità putrefatta, in cui si sviluppa una fitta rete di mezzi di trasporto che sono anche spazi abitati, in cui grandi magazzini, distributori automatici e carte di credito riannodano i gesti di un
commercio “muto”, un mondo promesso alla individualità solitaria, al passaggio, al provvisorio e all’effimero. 3
È per questo che lo spazio del nonluogo «non crea né identità singola, né relazione, ma solitudine e similitudine» 4.
2
Cioè della percezione individualizzata degli avvenimenti. Questi sono sempre meno ricondotti ad una loro esistenza oggettiva e sempre più “sentiti” in
forma soggettiva. Confronta a tale proposito il bel saggio di P ERNIOLA M.,
Del sentire, Einaudi, Torino 1992, che anche se un po’ datato non ha perso
ancora nulla della sua lucidità interpretativa.
3
AUGÉ M., Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera,
Milano 1993, p. 73.
4
Ivi, p. 95. Da tener presente anche la lettura che della postmodernità fa
Zygmunt Bauman. In particolare, a tal proposito vedi La solitudine del cittadino
globale, Feltrinelli, Milano 2000.
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L’estensione dei nonluoghi, concludeva in quel testo Augé,
«ha già battuto in velocità la riflessione dei politici, i quali hanno
finito con il non chiedersi più dove vanno, perché sanno sempre meno dove si trovano»5.
Si può dire che è da questo punto che Augé riprende la sua
riflessione sulla “condizione surmoderna”. Lo fa a partire dalla
riflessione sul concetto di futuro.
Può esser utile, afferma l’autore, «riprendere la categoria di
tempo per interrogare nuovamente le false evidenze dell’attuale
ideologia del presente»6. Ideologia che egli poco più sopra affermava essere segnata dalla società dei consumi.
Tale società produce ad esempio un effetto perverso che
consiste nel fatto che venga cancellata impercettibilmente la frontiera tra realtà e finzione, infatti
la televisione opera per lo più nel senso di questa cancellazione,
perché crea un mondo artificiale con persone reali... nel quale si
ritrovano indifferentemente, in una specie di Olimpo catodico,
personalità politiche, stelle del varietà, attori, presentatori, campioni sportivi e altre celebrità. Nei telespettatori nasce pian piano la sensazione che apparire sullo schermo sia la prova ultima
di un’esistenza riuscita.7
È in questo senso che «i media svolgono oggi il ruolo che un
tempo spettava alle cosmologie»8, perché i media
strutturano il nostro tempo quotidiano, stagionale e annuale. La
vita politica, artistica, sportiva non è più concepibile senza l’intromissione dei media, che cambiano la nostra relazione con lo
5
AUGÉ M., op. cit., p. 105.
Ivi, p. 12.
7
Ivi, p. 39.
8
Ivi, p. 40.
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spazio e con il tempo, imponendoci, con la forza delle immagini,
una certa idea del bello, del vero e del bene, e anche una certa
idea dell’abituale, del solito e, a conti fatti, della norma; in altre
parole, un’idea del consumo che continuano a riprodurre essendo essi stessi beni di consumo. Sono totalitari per essenza. La
cosmotecnologia spiega tutto, racconta tutto e si rivolge a tutti.
Come le altre cosmologie, aliena chiunque la prenda alla lettera. 9
È per tale motivo che pensare il tempo diventa oggi, oltre
che una sfida, anche una necessità, perché
ogni cosa ci suggerisce o vuole farci credere che viviamo in un
sistema che si colloca definitivamente fuori della storia. 10
Oggi ci stiamo sempre più abituando a consumare le immagini, le parole, i messaggi. Secondo Augé, che cita J.-P. Vernant,
siamo sempre più schiavi di quella che può esser definita la “ragione retorica”, «la quale non fa altro che giustificare l’esistente
così com’è», mentre «rinunciamo alla parte migliore della tradizione del paganesimo nella versione greca e più precisamente
ateniese: la capacità di introspezione intellettuale, l’attitudine di
spostare i confini, la vocazione a restare nella storia senza immolarsi alle illusioni del sistema»11.
Questa “ragione retorica” non fa altro che divinizzare il presente dando vita ad una ideologia dell’adesso (Life is now) tutta
tesa a rendere inutili e sorpassati gli insegnamenti del passato e
nel contempo ad annullare qualsiasi desiderio di immaginare il
futuro.
L’eterno presente nel quale l’attuale sistema di produzione,
sistema di produzione dello spettacolo e del consumo, ci ha
9
Ivi, p. 41.
Ivi, p. 45.
11
Ivi, p. 71.
10
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gettati, ci impedisce di affrontare un qualsiasi argomento che
possa esser svincolato dalla “presentità” del presente. Tutto rimanda al presente, tutto è relativo al presente, il presente va
prodotto continuamente e continuamente consumato, in un
vortice mediatico che, questo sì, sta diventando sempre più totalitario, nella sua forma e nella sua sostanza. Questa ideologia
del presente paralizza ogni sforzo teso a pensare il diverso, la
diversità. Tutto vuole invece assorbire, inglobare, assumere, rendere omogeneo e uni-forme, proprio nel senso di avere una
forma e una soltanto. Augé sostiene che il presente,
da uno o due decenni, è diventato egemonico. Agli occhi del comune mortale, non deriva più dalla lenta maturazione del passato
e non lascia più trasparire i lineamenti di possibili futuri, ma si
impone come un fatto compiuto, schiacciante, il cui improvviso
emergere offusca il passato e satura l’immaginazione del futuro.12
Di “questo” presente, scriveva già Simone Weil quando affermava:
Il presente è uno di quei periodi in cui svanisce quanto normalmente sembra costituire una ragione di vita e, se non si vuole
sprofondare nello smarrimento o nell’incoscienza, tutto va rimesso in questione. Solo una parte del male di cui soffriamo è da
attribuire al fatto che il trionfo dei movimenti autoritari e nazionalisti distrugge un po’ dovunque la speranza che uomini onesti
avevano riposto nella democrazia e nel pacifismo; esso è ben più
profondo e ben più vasto. Ci si può chiedere se esista un àmbito
della vita pubblica o privata dove le sorgenti stesse dell’attività e
della speranza non siano avvelenate dalle condizioni nelle quali
viviamo. Il lavoro non viene più eseguito con la coscienza orgogliosa di essere utili, ma con il sentimento umiliante e angosciante di possedere un privilegio concesso da un favore passeggero
12
Ivi, p. 88.
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della sorte, un privilegio dal quale si escludono parecchi esseri
umani per il fatto stesso di goderne, in breve un posto. Gli stessi
imprenditori hanno perso quella credenza ingenua in un progresso economico illimitato che faceva loro supporre di avere
una missione. Il progresso tecnico sembra aver fatto fallimento,
poiché ha apportato alle masse, in luogo del benessere, la miseria
fisica e morale in cui le vediamo dibattersi; del resto non sono
più ammesse innovazioni tecniche in nessun campo, o quasi, salvo nelle industrie belliche. Quanto al progresso scientifico, non
si vede bene a che cosa possa servire accatastare ulteriormente
conoscenze su un ammasso già fin troppo vasto per poter essere
abbracciato dal pensiero stesso degli specialisti; e l’esperienza
mostra che i nostri antenati si sono ingannati credendo nella diffusione dei lumi, poiché non si può divulgare fra le masse che
una miserabile caricatura della cultura scientifica moderna, caricatura che, lungi dal formarne la capacità di giudizio, le abitua
alla credulità. L’arte stessa subisce il contraccolpo dello smarrimento generale, che la priva in parte del suo pubblico, e con ciò
stesso lede l’ispirazione. Infine la vita familiare è diventata solo
ansietà, a partire dal momento in cui la società si è chiusa ai
giovani. Proprio quella generazione per la quale l’attesa febbrile
dell’avvenire costituisce la vita intera vegeta in tutto il mondo con
la consapevolezza di non avere alcun avvenire, che per essa non
c’è alcun posto nel nostro universo. Del resto questo male, al giorno d’oggi, se è più acuto per i giovani, è comune a tutta l’umanità.
Viviamo un’epoca priva di avvenire. L’attesa di ciò che verrà non è
più speranza, ma angoscia.13
Una delle caratteristiche dominanti di “questo” presente è
per esempio quella della velocità. Anche a questo riguardo appare senz’altro profetica, oltre che carica di significato per l’oggi, la riflessione sul concetto di Veloziferische che Goethe esponeva, in una lettera del 7 giugno 1825 a Zelter, e cioè che:
13
WEIL S., Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Adelphi, Milano 1994 (1955), p. 11.
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Tutto [...] è ora ultra, tutto trascende irresistibilmente, nel pensiero
come nell’azione. Nessuno si conosce più, nessuno afferra più l’elemento in cui si muove e agisce, la sostanza che elabora. [...] I giovani vengono troppo spesso eccitati e travolti in questo vortice: ricchezza e velocità è ciò che desta la meraviglia del mondo e per cui
ciascuno lotta: ferrovie, battelli a vapore e tutte le possibili facilitazioni nelle comunicazioni sono quello a cui le persone di cultura
tendono, per superarsi e superistruirsi, e proprio con ciò persistono nella loro mediocrità. E questo sarà anche il risultato generale,
che una cultura media diverrà comune. Veramente questo è il secolo di uomini pratici che afferrano tutto al volo, che, data una
loro certa disinvoltura, sentono la loro superiorità sulla massa sebbene essi non siano particolarmente dotati.14
Pare allora che questo, e soltanto questo, possa essere il motivo che fa dire a due autori, quali Edgar Morin e Anne Kern,
negli stessi anni di Postman, che:
La nostra civiltà è malata di velocità. Urge prendere coscienza
della corsa folle, del rischio di impazzire. Occorre frenare, rallentare, per fare avvenire un altro divenire.15
Questa particolare forma del presente venne definita con il
termine “tecnopolio” da Postman già negli anni Novanta del
secolo scorso. Il tecnopolio, secondo tale autore, che si rifà al
pensiero di Aldous Huxley del Brave New World, ha contribuito
a rendere
ogni alternativa non illegale, né immorale e nemmeno impopolare, ma semplicemente invisibile, e quindi irrilevante... ridefinendo i nostri concetti di religione, arte, famiglia, politica, storia,
verità, privatezza, intelligenza, in modo da farli coincidere con le
14
15
Cit. in LÖWITH K., Storia e fede, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 163.
MORIN E.-KERN A.B., Terra-Patria, R. Cortina, Milano 1994, p. 155.
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nuove esigenze. In altre parole, il tecnopolio è la tecnocrazia totalitaria.16
Il tecnopolio, secondo il Postman, ha ingaggiato già da molto tempo una lotta, anzi una vera e propria guerra con la cultura, vincendola.
Ciò per altro lo possono constatare ogni giorno coloro i quali si trovano, per dovere o per necessità, a confrontarsi con il
mondo della cultura, dell’istruzione e dell’educazione. Molto
significativa appare la descrizione di questa situazione, fatta appunto da questo autore.17
Perché il tecnopolio ha vinto questa guerra e si è imposto?
Perché, risponde Postman, si è spezzato quel legame tra infor-
16
POSTMAN N., Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia, Bollati Boringhieri,
Torino 1993 (1992), p. 49.
17
«Nella scuola due grandi tecnologie si scontrano, senza possibilità di compromesso, per conseguire il controllo dei cervelli degli studenti. Da una parte sta il mondo della parola stampata che punta sulla logica, i rapporti di
successione, la storia, l’esposizione, l’obiettività, il distacco e la disciplina.
Dall’altra sta il mondo della televisione, imperniato sulla fantasia, il racconto,
la contemporaneità, la simultaneità, l’intimità, la gratifica immediata e la rapida risposta emotiva. I bambini, quando vanno a scuola, sono già profondamente condizionati dalla televisione. A scuola fanno conoscenza con il mondo della parola stampata e si instaura una specie di guerra psichica, in cui i
feriti sono molti: i bambini che non possono o non vogliono imparare a
leggere, i bambini che non riescono a organizzare il pensiero nemmeno nella
struttura logica di una semplice frase, i bambini che non sono capaci di seguire una lezione o una spiegazione verbale per più di pochi minuti. Sono un
disastro, ma non perché sono stupidi. Sono un disastro perché è in corso una
guerra dei media e loro sono dalla parte sbagliata, almeno per il momento.
Chi può dire come saranno le scuole fra venticinque, cinquant’anni? Allora il
tipo di studente che oggi è considerato un disastro sarà probabilmente giudicato un genio, mentre lo studente che oggi studia con profitto sarà giudicato
un allievo handicappato, lento nei riflessi, troppo distaccato, privo di emozioni, incapace di creare immagini mentali della realtà» (ivi, p. 22).
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mazione e finalità umana. L’informazione è infatti totalmente
indiscriminata, non è diretta a nessuno in particolare, è estremamente veloce e non ha alcun rapporto con nessuna teoria o
significato. Sembra abbia la stessa caratteristica che la tecnica
assume nel pensiero di Emanuele Severino.18 Essa vuole in sostanza soltanto se stessa.
È per questo che, secondo il Postman, l’obiettivo dell’informazione non è
la diminuzione dell’ignoranza, della superstizione e della sofferenza bensì quello di adeguarci ai requisiti delle nuove tecnologie [... perché ...] il tecnopolio è una condizione culturale e
mentale consistente nella deificazione della tecnologia. Il che
significa che la cultura ricerca nella tecnologia la propria giustificazione, trova soddisfazione nella tecnologia e prende ordini
dalla tecnologia.19
Alcune riflessioni di questo autore, nel campo della pedagogia, riflessioni risalenti a circa vent’anni fa, sarebbero per altro
da riprendere ed approfondire.20
18
«Questo infinito incremento è ormai, o ha già incominciato ad essere, il
supremo scopo planetario. Ogni altro scopo è più o meno consapevolmente,
più o meno direttamente subordinato a questo scopo supremo: la crescita
infinita della potenza; che ormai non può più prodursi al di fuori dell’apparato della tecnica. In tale subordinazione consiste la dominazione della tecnica
nel nostro tempo, la sua destinazione al dominio» (S EVERINO E., Il destino della
tecnica, Rizzoli, Milano 1998, p. 11). Il problema della tecnica è uno dei temi
centrali della riflessione di questo filosofo.
19
POSTMAN N., op. cit., p. 70. L’inciso in parentesi quadre è di chi scrive.
20
«Prendiamo ad esempio il campo dell’istruzione. Nel tecnopolio si migliora l’istruzione dei giovani migliorando le cosiddette “tecnologie di apprendimento”. Attualmente si considera necessario introdurre nelle classi i computers, così come un tempo si riteneva necessario portarci la televisione a circuito chiuso e il film. Alla domanda: “Perché dobbiamo farlo?” la risposta è:
“Per rendere l’apprendimento più efficiente e interessante”. Tale risposta è
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Forse è possibile che noi oggi, anche a causa di ciò, si stia
vivendo quella condizione storica che Koselleck aveva intravisto e commentato un quarto di secolo fa, e cioè che
il futuro proprio di questo progresso è caratterizzato da due
momenti: dall’accelerazione con cui ci arriva addosso, e dal fatto
di essere ignoto. Il tempo accelerato, ossia la nostra storia, abbrevia infatti gli spazi di esperienza, li priva della loro stabilità e
in tal modo mette continuamente in gioco nuovi elementi ignoti;
così, a causa della complessità di questi fattori sconosciuti persino il presente si sottrae alla nostra esperienza. 21
A cercare di fare una riflessione sul presente si può infatti
esser d’accordo con ciò che ci ricorda il Koselleck e cioè che
due fenomeni stanno caratterizzando il nostro tempo: un restringimento dell’area dell’esperienza e contemporaneamente un
abbassamento dell’orizzonte delle attese.
Particolarmente significativa è la presenza di queste due condizioni nel mondo della scuola. Lo si rileva continuamente con
le nuove generazioni che paiono vivere sempre più in un mondo nel quale fanno evidente fatica a collocarsi in una dimensione spazio-temporale che non sia quella che il sistema della produzione e del consumo ha già deciso per loro.
Augé, alla fine del suo lavoro, dichiara senza mezzi termini che
considerata pienamente adeguata, visto che nel tecnopolio l’efficienza e l’interesse non hanno bisogno di giustificazione. Ragion per cui di solito non ci
si rende conto del fatto che questa risposta non si riferisce alla domanda:
“Quali sono gli scopi dell’apprendimento?” “Efficienza e interesse” è una
risposta di carattere tecnico, che non riguarda il fine, ma i mezzi, e non lascia
alcuno spazio a considerazioni di filosofia educativa. Anzi, preclude la strada
a tale considerazione in quanto comincia con il chiedersi come, e non perché, dovremmo procedere» (op. cit., p. 157).
21
KOSELLECK R., Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Marietti, Genova 1986, p. 25.
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la vera democrazia passa per una chiara definizione delle relazioni
egualitarie tra tutti gli individui, tra tutti gli uni, chiunque siano, e
tutti gli altri, chiunque siano. Oggi ne siamo ancora ben lontani. 22
Questo concetto della democrazia nelle relazioni egualitarie,
applicato alla cultura, diventa un contenuto-fine. Bloch, nelle
sue tesi sul progresso, ne aveva scritto, definendolo così:
Non è qualcosa di già definito, ma di non ancora manifesto, un
umano concreto-utopistico. Soltanto così il rapporto al presente, che opera in profondità, in relazione al quale i diversi
corsi storici sono ordinati, diventa rappresentabile come una
profondità tanto ampia che in una cronologia riccamente strutturata trovano posto i processi evolutivi di tutto il mondo. Per
l’umano che erompe dall’interno, ultimo, preminente punto
d’arrivo del progresso, tutte quante le culture della terra, insieme al loro sostrato ereditario sono esperimenti e testimonianze
in vario modo importanti. Esse non convergono perciò in una
cultura già presente in qualche luogo, sia pure una cultura “dominante”, di importanza “classica”, che per la sua qualità (pur
sempre soltanto sperimentale) sarebbe “canonica”. Le passate,
presenti e future civiltà convergono soltanto in un umano in
nessun luogo ancora sufficientemente manifesto, ma certo sufficientemente anticipabile. 23
Questa, e soltanto questa, presa di coscienza può riuscire, in
qualche modo, a combattere ciò che ormai appare in tutta evi-
22
AUGÉ M., Che fine, cit., p. 105.
BLOCH E., Sul progresso, Guerini e Associati, Milano 1990 (1963), p. 64. Si
potrebbe riandare con la mente alla famosa frase che Marx scrive a Ruge, e
cioè «apparirà chiaro […] come da tempo il mondo possieda il sogno di una
cosa della quale non ha che da possedere la coscienza, per possederla realmente. Apparirà chiaro come non si tratti di tirare una linea retta tra passato
e futuro, bensì di realizzare i pensieri del passato» (cfr. M ARX K., Un carteggio
del 1843 e altri scritti giovanili, Editori Riuniti, Roma 1954, pp. 40-41).
23
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denza, e cioè che, nonostante tutti gli sforzi nel campo della comunicazione e dell’informazione, l’ignoranza sia in crescita. Tale
aumento è evidente analizzando lo scarto tra i saperi specialistici
di chi li possiede e la cultura media di chi non li possiede.
Da sempre l’uomo ricerca per sé e per il prossimo quel qualcosa che lo possa rendere felice. Quel cosiddetto “Etwas fehlt”24,
ovvero “qualcosa manca” che spinge l’uomo ad andare avanti
per terreni inesplorati alla ricerca del posseduto-perduto. Per
Augé, questo “qualcosa” potrebbe essere sicuramente raggiunto attraverso un atteggiamento atto a
governare in vista del sapere, di assegnarsi il sapere come fine
individuale e collettivo. Quindi, finalmente, di ritornare a un pensiero del tempo...25.
24
25
BLOCH E., Il principio speranza, op. cit., vol. I, p. XXVI.
Cit., p. 110.
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