east 46_Un prete sulla via di Damasco

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DOSSIER L’INVERNO ARABO
Un prete sulla
via di Damasco
Padre Paolo si considera cittadino del mondo.
Ha appena compiuto un viaggio in Giordania.
Prima è stato in Egitto e in molti Paesi europei.
Conduce un talk show su Orient Tv, emittente
satellitare rivoluzionaria.
Romano, 58 anni, sacerdote, ha vissuto in Siria
fino a quando il governo di Bashar el-Assad ha
emesso un decreto di espulsione.
di Antonio Picasso
“V
i raccontano che l’unica soluzione
per frenare il terrorismo in Siria sia
Bashar el-Assad. Questa è una men-
zogna!”
“Mi accusano di essere una banderuola.
Perché prima ero con gli Assad, mentre
adesso faccio il rivoluzionario”.
È vero? Prima era allineato con il regime?
“Bisogna fare un passo molto indietro. Io
sono arrivato in Siria nel 1982 (anno in cui
padre Paolo scopre e inizia il restauro del monastero siro-cattolico di Deir Mar Mussa, trasformandolo in un centro di ritiro spirituale e
dialogo interreligioso, ndr). Erano gli anni
della Guerra fredda e promuovere la testimonianza cristiana in Siria significava farlo oltre
la cortina di ferro. Effettivamente, in passato
non mi sono esposto. Ritenevo essenziale essere in Siria per portarvi un messaggio di
pace. A Damasco allora regnava Hafez elAssad, il padre dell’attuale presidente. La
censura era davvero stretta. Inoltre, durante
quel primo periodo ero concentrato sul restauro del monastero e non potevo fare altro.
Chi mi accolse laggiù mi fece notare che in
Siria anche i muri hanno orecchie e bocca.
Quindi era meglio tacere. Per questo scelsi la
strada prima del silenzio e poi della cautela.
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L’importante era essere comunque lì. Portando un messaggio cristiano in un Paese alleato del blocco sovietico.”
Poi però le cose sono cambiate.
“È stato con la morte di Hafez e la successione di suo figlio Bashar. Su di lui avevamo
riposto le speranze per le riforme. Noi siriani
(ormai padre Paolo si sente e si percepisce per
scelta siriano d’adozione, ndr) lo salutammo
come il traghettatore provvidenziale della
Siria verso la democrazia matura.”
Ma questi presupposti c’erano veramente?
“Per molti aspetti sì. L’iniziale libertà di
stampa e il risveglio della coscienza civile, soprattutto da parte dei giovani, rappresentarono segnali concreti per un cambio di rotta.
Ovvio che non si potesse pretendere di cambiare il Paese dall’oggi al domani. Però il dibattito politico cominciava ad avere sostanza.
Si parlava di ambiente, inquinamento, ma soprattutto di confronto confessionale.
La Siria pluralistica e armonica non è stata
inventata dagli Assad. È così da secoli. All’interno di questo mosaico di fedi, la nostra cristianità è a sua volta testimonianza di un
pluralismo ecclesiale autentico e antico.”
Padre Paolo, lei vede nelle Chiese di tutto
il Medio Oriente, non solo in quelle siriane,
un frazionamento virtuoso. Ma i cristiani in
Siria la pensano come lei?
“Tra le alte sfere ecclesiastiche locali, c’è
chi ha chiesto la mia testa. E sono proprio loro
che vedono in Assad l’unica soluzione.”
Per quale motivo?
“I patriarchi (le guide istituzionali grecoortodossa, melchita e siriaca, ndr) hanno individuato nella famiglia Assad una protezione
come quella garantita loro dalla Francia in
epoca coloniale.”
Temono il ripetersi del disastro iracheno.
Nel 2003, la caduta di Saddam Hussein ha
fatto da stura allo scontro confessionale.
Sono paure fondate le loro?
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DOSSIER
BRYAN DENTON/THE NEW YORK TIMES//CONTRASTO
SIRIA
“La volontà di persecuzione non è propria
dei ribelli siriani. D’altra parte i rischi sono ben
vivi. Io stesso, quando sono entrato clandestinamente nel Paese, ho visto i miliziani ceceni
per la strada. Attenzione, a me non sta bene
che si arrivi a centomila morti tra gli alawiti e
tra i cristiani (le due etnie fedelissime del regime, ndr) alla fine degli scontri. Ecco quindi
necessario uno sforzo comune. Perché la morte
dei giovani siriani non risulti inutile.”
Lei ammette che il pericolo dello scontro
confessionale c’è?
numero 46 marzo/aprile 2013
“Bisogna fare un distinguo tra l’elemento qaedista, esplicitamente anti-cristiano, e il mainstream della rivoluzione. Ma l’ho già detto: è
vergognoso che in Occidente venga raccontata
solo una parte della crisi siriana. Cioè la prima.”
Nel senso che i ribelli combattono per una
causa giusta.
“I ribelli, i rivoluzionari, altro non sono
che giovani siriani qualunque che hanno
scelto di morire per non perdere la dignità.
Sono scesi in piazza per chiedere libertà e diritti. Solo per questo.”
\ Padre dall’Oglio
arriva in Siria in
occasione del restauro
del monastero sirocattolico di Dier Mar
Mussa che trasformerà
poi in un centro
spirituale.
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BRYAN DENTON/THE NEW YORK TIMES//CONTRASTO
DOSSIER L’INVERNO ARABO
Siria
Indicatori politici
AREA: 185.180 Km2
POPOLAZIONE: 22.530.746
massimo
rischio
RELIGIONE:
Musulmana sunnita 74%,
altri musulmani (alawiti e drusi) 16%,
Cristiana 10%.
FORMA DI GOVERNO: repubblica sotto un regime autoritario
SUFFRAGIO:
Universale (18 anni)
CAPO DI STATO:
Bashar al-ASAD (Luglio 2000)
50
minimo
rischio
0
$ 43,2 mld (nominale, stima 2013)
INFLAZIONE:
34,7% (stima 2013)
89
89
Corruzione
Indipendenza
della giustizia
144
109
su 176 Paesi
su 144 Paesi
CAPO DI GOVERNO: Wael al-HALQI (Agosto 2012)
PIL:
Political Risk & Country Analysis - UniCredit
Sicurezza
22,3 anni
90
Efficacia governativa
ETÀ MEDIA:
100
Stabilità politica
\ Beirut, 18 giugno
2012. Paolo dall’Oglio
nel monastero gesuita
di St. Joseph.
Il rischio politico è fortemente
deteriorato a causa dei disordini
iniziati a marzo 2011.
Valori di riferimento: primo paese
Norvegia, ultimo paese Somalia
Qualità
della burocrazia
minimo
rischio
3
massimo
rischio
EIU, ONU, WB,WEF, Heritage Foundation, Transparency International, Global Peace Index
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SIRIA
DOSSIER
 Testimonianza da Damasco
L
a mia è una storia come tante a
Damasco. Mi hanno arrestato
nel 2011 all’inizio della rivolta.
Avevo partecipato alla prima
manifestazione contro il regime,
nel suk al Hamidiyya.
Il vecchio suk di Damasco, quello che
tutti i turisti conoscono, pieno di negozi
di spezie, tappeti, stoffe e venditori di
succo di melograno. Ora è vuoto.
Mi hanno arrestato quattro giorni dopo la
manifestazione, sono venuti a prendermi
a casa di mia sorella. Ero andato lì per
festeggiare il giorno della mamma, ma
gli uomini del Mukkhabbarat (servizi
segreti) hanno buttato giù la porta a
calci, sapevano che ero lì, mi hanno
imbavagliato e portato via davanti agli
occhi della mia famiglia.
Mi hanno portato a Tartus, la prigione
dove portano tutti i detenuti politici.
Mi hanno legato le mani dietro la schiena
e bendato. Prima ero seduto su una sedia
e loro mi picchiavano, poi mi hanno
lasciato per terra, e mi hanno gettato
addosso una coperta.
Volevano sapere nomi e volevano farmi
confessare piani sovversivi.
Sono un giornalista e forse la mia
professione li ha resi più gentili.
Non ho subito torture insopportabili
come altri miei amici.
Mi hanno rilasciato 26 giorni dopo, il 26
aprile 2011.
Quando sono tornato a casa tutti hanno
pianto dalla gioia, ma poi ci siamo
guardati in silenzio.
Sapevano che ora nulla sarebbe stato più
come prima.
Nel 2011 pensavamo di vincere, ci
aspettavamo un aiuto dall’estero, ci
aspettavamo che il regime crollasse,
come in Tunisia, come in Egitto, ma non è
PAOLO PELLEGRIN/MAGNUM PHOTOS/CONTRASTO
Ballare
a Damasco
successo. I nostri vicini e tutto il
quartiere all’inizio erano pieni di
compassione, la gente si confidava, si
aiutava, c’era una silenziosa intesa.
Appena arrivavano i soldati, le porte
delle case si aprivano, affinché trovasse
rifugio chi si doveva nascondere.
Jamila, la mia vicina, un’insegnante.
Ha ospitato per settimane una famiglia di
profughi da Homs.
“Mi hanno fatto pena e poi dobbiamo
aiutarci tra di noi...” mi aveva detto
all’inizio. Alcune settimane più tardi ho
incontrato Jamila, dimagrita, le rughe
sulla fronte erano scavate... “Non potevo
più tenerli a casa, li ho dovuti mandare
via...” mi confessa. Jamila ha perso il
proprio lavoro, sfamare una famiglia di
cinque persone era troppo. Ha dovuto
confessare al padre e a se stessa che
quando gli aveva offerto una casa, non
aveva tenuto conto dei costi economici.
Non era più in grado di sostenere la
propria generosità. La sconfitta l’aveva
piegata. Le sono venute due rughe
profonde sulla fronte che le ricordavano
di non essere riuscita a rispettare le
proprie aspettative.
Ora Jamila è triste.
In autobus, la gente a Damasco
chiacchierava ad alta voce, da un anno
parlano tutti sottovoce. Hanno paura. Le
spie del governo sono ovunque, hanno il
volto del nostro vicino, del panettiere
sotto casa, del farmacista.
Gli uomini camminano veloci, ormai non
nascondono i kalashnikov, le pistole.
Forse sono guerriglieri, forse shabbiya
(uomini di Assad), forse poliziotti, o forse
solo uomini impauriti.
Tutti hanno paura ma nessuno ne parla.
I cristiani si parlano tra di loro, hanno
paura dei sunniti, gli alawiti si
nascondono. Tra noi amici proviamo a
ricordare a noi stessi e agli altri che non
dobbiamo perdere la nostra umanità, la
nostra forza.
Noi non siamo la nostra collera. Gli uomini
della guerriglia hanno tutti visto morire
un loro compagno, un loro amico, un
soldato. I lutti creano rabbia e la rabbia
diventa vendetta. In occasione del giorno
del Natale cristiano abbiamo appeso le
foto dei martiri su un albero di natale, e
l’abbiamo chiamato l’albero della libertà.
Era un albero pieno di fotografie di sunniti.
Forse le parole aiutano a riconquistare la
nostra libertà, non lo so ancora. La sera
tutti ci chiudiamo in casa e si comunica
su Facebook su Twitter, guardiamo le
foto, i video delle manifestazioni, della
guerra, dei morti.
Ci chiediamo “Vai a ballare domani?” Vuol
dire. “Domani vai alla manifestazione?”
Ma ormai sono sempre meno i balli
organizzati. Ormai è guerra.
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DOSSIER L’INVERNO ARABO
Lei parla di uno sforzo comune per il bene
della Siria…
“Io parlo di uno sforzo per risolvere una
crisi che riguarda la Siria, ma anche tutti noi.
Quanto è accaduto finora invece nasce dall’omissione di soccorso da parte della comunità internazionale.”
Anche da parte della Chiesa?
“Il silenzio assordante della diplomazia vaticana è la cosa più grave che potesse capitare
ai cristiani locali.”
A suo giudizio quali sono gli interlocutori
con i quali si dovrebbe aprire un confronto?
“L’attenzione va concentrata sulla Russia e
sull’Iran. Bisogna rilanciare l’iniziativa diplomatica e umanitaria, avendo a mente un progetto federale che possa garantire alle
minoranze la loro futura partecipazione alla
ricostruzione del Paese, ma soprattutto la loro
sicurezza.”
Torniamo alla Chiesa. Lei parla di inoperosità da parte di Roma e di allineamento per
quanto riguarda invece i patriarchi siriani. È
possibile superare questi ostacoli?
“Vede, ho più volte sottolineato il grande
 Le otto chiese
S
ono otto le chiese cristiane
presenti in Siria: Armena
(cattolica e ortodossa), caldea,
greco-cattolica, greco-ortodossa e
siro-cattolica e siro-ortodossa,
latini, che fanno direttamente capo
a Roma, e i maroniti,
tradizionalmente legati al Libano.
Dei 22milioni di cittadini siriani, i
cristiani sono circa il 16%. Ma si
tratta di una stima da prendere con
beneficio di inventario. Non
soltanto a causa dell’odierno stato
di conflitto, che sta destabilizzando
i già precari equilibri etnicoconfessionali del Paese.
difetto delle Chiese mediorientali. Vale a dire
l’avanzata età dei loro leader. Molti dei patriarchi hanno più di ottanta anni, inevitabilmente compromessi con gli Assad.
Il ricambio generazionale al vertice delle
istituzioni ecclesiastiche, definendo un limite
di età, sarebbe un passo avanti. L’Occidente
dovrebbe dare il buon esempio. Ottant’anni
per tutti.”
Disordini sociali
ra
vi
1°
S
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Fin
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or
Business Environment
ia
Indicatori sociali
1°
N
In generale è difficile tracciare una
panoramica del cristianesimo
siriano. Nei secoli si sono
avvicendati momenti di pacifica
convivenza ad altri di dura
repressione da parte della
maggioranza musulmana.
La Siria è la terra di Paolo di Tarso,
l’apostolo delle genti. Nella
moschea degli Omayyadi, a
Damasco, sono custodite le
spoglie di San Giovanni Battista.
Spoglie peraltro venerate dagli
stessi musulmani.
L’intreccio tra cristianesimo e
Islam in Siria è antico di secoli.
minimo
rischio
4
144
massimo
rischio
Facilità nel
concludere affari
su 185 Paesi
(1° Singapore, 185° Rep. Centrafricana)
Continua la guerra civile.
Maggiori difficoltà:
accesso al credito,
rispetto dei contratti
Popolazione in carcere
105
119
110
molto
basso
132
176
(ogni 100.000 abitanti)
135° Yemen
142° Algeria
Distribuzione
della ricchezza
Tasso di
alfabetizzazione
(indice Gini)
83%
179° Eritrea
187° Congo
72
190° Qatar,
Arabia Saudita,
Vanuatu
Sviluppo umano
% di seggi
Libertà di stampa
occupati da donne
nei Parlamenti nazionali
Disparità di genere
molto
alto
1
Fuga di cervelli
35,8
1° Seyshelles (19)
Ultimo Comore (64,3)
98
Competitività
globale
su 144 Paesi
(1° Svizzera, 144° Burundi )
Abbonamenti
a telefoni cellulari
63 (ogni 100 persone)
Saldo migratorio (netto)
Utenti di internet
-55.877
22,4 (ogni 100 persone)
139
Libertà
economica
su 179 Paesi
(1° Hong Kong, 179° Corea del Nord)
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