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PARADISE NOW
Sito: www.luckyred.it/minisiti/paradise/index.html
Anno: 2004
Data di uscita: 14/10/2005
Durata: 90
Origine: FRANCIA - GERMANIA - OLANDA
Genere: DRAMMATICO
Produzione: AUGUSTUS FILM, RAZOR FILM, LUMEN FILM
Distribuzione: LUCKY RED (2005)
Regia: HANY ABU-ASSAD
Attori:
KAIS NASHEF
SAID
ALI SULIMAN
KHALED
LUBNA AZABAL
SUHA
AMER HLEHEL
JAMAL
ASHRAF BARHOUM
ABU-KAREM
MOHAMMAD BUSTAMI
ABU-SALIM
HIAM ABBASS
MADRE DI SAID
AHMAD FARES
MOHAMMAD KOSA
FOTOGRAFO
OLIVIER MEIDINGER
ABU-SHABAAB
Soggetto: HANY ABU-ASSAD - BERO BEYER - PIERRE HODGSON
Sceneggiatura: HANY ABU-ASSAD - BERO BEYER - PIERRE HODGSON
Fotografia: ANTOINE HEBERLE'
Musiche: JINA SUMEDI
Montaggio: SANDOR VOS
Scenografia: OLIVIER MEIDINGER
Costumi: WALID MAW'ED
Trama:
Due giovani palestinesi, Khaled e Said, amici fin da piccoli, sono stati reclutati come kamikaze. Si dovranno far esplodere il
giorno dopo a Tel Aviv. I due decidono di trascorrere quella che sanno essere la loro ultima notte di vita, insieme alle proprie
famiglie. Possono stare con le persone che amano, ma non devono assolutamente rivelare nulla, né far capire qualsiasi
particolare della loro missione. Il giorno dopo si congedano dalle famiglie e si fanno attaccare al corpo i congegni esplosivi e
si preparano al momento decisivo. Ma qualcosa non va come nei piani e i due amici si perdono di vista. Soli nella città,
dovranno fare i conti con i propri ideali, con la paura e affrontare la morte da soli...
Critica:
"Difficile trovare soggetto più incandescente di quello affrontato da 'Paradise Now', del palestinese Hany Abu-Assad. Al
cinema è sempre questione di distanza e con i martiri di Allah è facile scivolare nell'ironia facile, nel ricatto socio-politico o
nel dibattito sceneggiato. (...) Intanto scopriamo che nei videostore si affittano cassette con i proclami dei martiri, ma anche le
ultime parole dei traditori (più richieste, dunque più care...). Entriamo nella quotidianità assurda delle famiglie palestinesi e
degli attentatori. Insomma ci affacciamo sopra un abisso vertiginoso. Magari un film solo non basta a sondarlo. Ma
l'essenziale era cominciare." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 15 febbraio 2005)
A Nablus, sulla striscia di Gaza, la vita di Khaled (Ali Suleiman) e Said (Kais Nashef), amici da quando avevano otto anni,
procede lentamente e tristemente. Quando giungerà il loro momento - sono stati scelti per compiere un attentato kamikaze ad
Israele - i due ragazzi palestinesi decideranno di affrontarlo a testa alta. I preparativi, la video-testimonianza del martire, la
vera e propria "ultima cena" e il pericoloso passaggio del confine: qualcosa va storto, i due si disperdono. Inizieranno così a
riflettere su quello che stava per accadere. E su quello che dovranno fare. Insignito a Berlino 2005 del Premio "Amnesty
International" e candidato per la Palestina quale Miglior Film Straniero ai prossimi Oscar, Paradise Now di Hany Abu Assad è
un'opera che, come sostiene lo stesso regista, vuole esporsi per illustrare le ragioni di una causa e non, più semplicemente, di
un Paese: l'occupazione israeliana, il controllo dei confini dove convivono due nazioni e la conseguente disperazione di chi
(magnificamente nascosta/esposta dagli occhi del protagonista, Said), costretto ad un'immobilità segregata, prende in
considerazione l'idea del suicidio-omicidio quale unica via all'utopica liberazione. Miraggio che, come ben illustra il
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personaggio chiave dell'intera vicenda (Suha, figlia di un eroe della resistenza palestinese interpretata dalla
belga/francese/marocchina Lubna Azabal,), potrebbe passare per altre strade. Niente da nascondere - Caché (di Michael
Haneke, con Daniel Auteil, Juliette Binoche) Georges Laurent (Daniel Auteil), intellettuale borghese, conduce in televisione
una rubrica culturale di buon successo. Sposato con Anne (Juliette Binoche) e padre dell'adolescente Pierrot (Lester
Makedonsky), l'uomo comincerà a ricevere alcune videocassette anonime che riproducono insignificanti momenti della sua
vita: l'immagine fissa sulla porta di casa, il suo arrivo in auto… (Valerio Sammarco, Il Tempo - 17/10/2005)
Appartiene a quel stretto numero di film, Paradise now di HanyAbu-Assad, dove riesce difficile concentrarsi sulla forma
linguistica: tanta è la forza con cui situazioni mai viste su uno schermo afferrano la tua attenzione, senza permetterle di
allentarsi fino all’ultima immagine. Detto in poche righe, il soggetto è insufficiente a far capire la grande novità della
prospettiva adottata dai regista palestinese. Due giovani di Nablus, Salde Khaled, sono scelti per compiere un attentato suicida
in Israele. Benché minuziosamente preparato, il piano incontra un intoppo: costretti alla fuga, i due kamikaze si aggirano per
le strade, bombe umane incapaci ad autodisinnescarsi. La novità non è rappresentata tanto dai contenuti (la dialettica tra
ideologia del martirio e opzioni di pace, i mutamenti cui sono soggetti i personaggi), quanto piuttosto da una macchina da
presa piazzata “all’interno” del terrorismo palestinese, con l’effetto di mostrarci come persone in carne, ossa e sentimenti
coloro che ci fa comodo percepire solo come minacciose astrazioni. E spiazzante, e angoscia, sentire un uomo giovane, bello,
di sentimenti delicati dichiarare che non esistono alternative al terrorismo finché la situazione nei Territori resta quella che è;
non per fanatismo, né per istinto suicida, ma perché in quella condizione si sente “prigioniero” e “già morto”. Poi, se ti
soffermi anche sul linguaggio, constati che è sobrio, fatto di campi lunghi, mai melodrammatico. Il modo più corretto ed
efficace e per rappresentare una situazione troppo tragica per aver bisogno di sottolineature. (Roberto Nepoti, La Repubblica 17/10/2005)
Due amici d’infanzia, Khaled e Said, fanno la vita che possono a Nablus, tra disoccupazione e check point. Ma i due miti
ragazzi sono anche due aspiranti kamikaze, e lo scopriamo quando vengono prescelti per una missione suicida in Israele. Il
racconto segue il loro presumibile ultimo giorno di vita, con tutti i preparativi per l’attentato e vari intoppi. Regge e
appassiona, ed è diretto con una mano sicura, con qualche vezzo da cinema internazionale d’autore (il montaggio finale e
l’ultima inquadratura, un dialogo sul cinema che c’entra poco). La robustezza comunicativa però va a scapito
dell’approfondimento, e non si cerchi riflessione sulle immagini. Ma l’intento era quello di rendere credibile un percorso, e il
film ci riesce anzitutto attraverso una costruzione forte dei personaggi, le cui dinamiche, chiare e semplici, offrono varie
chiavi d’accesso e di identificazione allo spettatore europeo (soprattutto attraverso la figura di Suha, ragazza borghese
cresciuta in Francia). Dal punto di vista politico e da quello spettacolare, un’operazione non facile, che riesce a comunicare
l’atmosfera della vita nelle colonie avvalendosi della forza vera del set: pare sia infatti il primo lungometraggio a soggetto
girato a Nablus. (Emiliano Morreale, Film TV - 26/10/2005)
Paradise Now è stato per anni sinonimo di liberazione per lo spettacolo del Living Theatre. Ora il senso è cambiato. Il regista
palestinese Hany Abu-Assad forse neppure sa dell’omonimia. La liberazione si è trasformata in promessa e paradiso ottenuto
attraverso attentati kamikaze. Questo è il destino di Khaled e Said, raggiunti dalla sacra chiamata. E il film li segue, passo
passo. Dalle giornate inconcludenti agli attentati, attraverso il rituale. Non possono dire nulla in famiglia e sono spiati, devono
registrare una rivendicazione, si devono purificare tagliando barba e capelli, sino a essere rivestiti per l’occasione. Ora sono
strumenti di morte, Il cinema non aveva ancora saputo raccontare quella realtà devastante, Assad ci riesce, anche con
sarcasmo inquietante, e spiega: «Il film parla dell’amicizia e di come le scelte che facciamo siano influenzate dall’ambiente e
dalle circostanze. Quando quelle circostanze diventano estreme, allora lo diventano anche le nostre scelte. Quando le
circostanze sono l’occupazione, l’umiliazione e la disperazione, il risultato può essere l’assassinio e il suicidio». (Antonello
Catacchio, Ciak - 12/10/2005)
Hanno due belle facce da poveri, Khaled e Saìd. Sono giovani, allegri in superficie come è d’obbligo a 20 anni, lavorano da un
carrozziere, e la sera tornano nelle loro case-tana piene di fratelli e sorelle e mamme che cucinano per tutti. Saìd è senza
padre, Khaled ha un padre invalido. Il padre di Said è stato ucciso pera ché «collaborazionista». Al padre di Khaled i soldati
israeliani hanno tagliato una gamba, per punizione. Prima gli hanno chiesto «Quale gamba preferisci tenere?». Lui ha risposto:
la sinistra. Il figlio soffre più per quella risposta che per l’orrore della tortura: «lo me le sarei fatte tagliare tutte e due, pur di
non essere umiliato».
Vivono a Nablus, Khaled e Said. Non hanno mai visto altro che quella terra contestata, dalla quale non possono uscire
liberamente. Non conoscono altro che l’odio, la vendetta, la vergogna della propria debolezza, il desiderio di riscatto,
l’ingiustizia, il bisogno di reagire all’ingiustizia. Professano una fede assoluta in un Dio che nominano continuamente, in frasi
rituali, un Dio a cui esprimono la loro gratitudine in ogni occasione, da cui si aspettano l’unica sicurezza possibile, l’unica
serenità, l’unica promessa di sollievo da una vita quotidiana massacrata dall’ansia, dalla paura. «Dio Io vuole», «Grazie a
Dio», «Con l’aiuto di Dio», «A Dio piacendo», sono l’intercalare di ogni dialogo.
Una sera come tante, tornando dal lavoro, Said e Khaled vengono avvicinati da Jamal, che non è un ragazzino come loro, ma
un adulto, impegnato nella lotta di liberazione, una sorta di capo. Jamal annuncia a Said e a Kahled che sono stati prescelti,
per un’ azione suicida. Non fra sei mesi, non fra un anno: domani. L’ultima sera la passeranno in famiglia, ma non potranno
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dire niente. Madri e fratelli non dovranno capire qual è la ragione di quegli sguardi troppo teneri e troppo lunghi, così
inconsueti, il perché di quel silenzio attento, o di quelle domande strane. La loro esperienza terrena sta per finire. E questo è
terribile e contro natura (sono giovani, uno dei due si sta innamorando), ma avranno la possibilità di accedere, loro che non
sono nulla, addirittura al martirio. É una grande prova e un grande onore.
Sono pronti? La domanda è retorica, il no non esiste. La risposta è rituale: con l’aiuto di Dio. A questo punto Paradise Now,
quarto film di Hani Abu Assad, assume una cadenza drammatica: i due ragazzi vengono imbottiti di esplosivo, ogni tentativo
di disinnescare il meccanismo li farebbe saltare in aria, dovranno stare attenti, dovranno essere rapidi, per non morire
inutilmente, dovranno esplodere con le loro cinture mortali a Tel Aviv, in uno spazio e in un tempo che garantiscano il
massimo numero possibile di vittime, meglio se militari.
Le istruzioni sono precise. La preparazione prevede un’ottima cena, una seduta dal barbiere, una vestizione: quando i corpi
magri dei due ragazzi sono costretti a indossare due seri abiti a giacca con tanto di cravatta, l’impressione è di un
travestimento. I capelli cortissimi, la barba rasata, il collo lungo che esce goffo dal colletto della camicia, gli occhi smarriti, i
gesti impacciati, più che eroi, Khaled e Said, sembrano pronti per un colloquio di lavoro o vestiti a festa per una cerimonia di
cui non sono entusiasti.
La tragedia procede con un passo da commedia: il video in cui ciascuno dei martiri deve leggere il suo proclama e, a seguire,
dare l’addio alla famiglia, deve essere rifatto perché la telecamera non ha registrato, il martire si sottopone a un secondo ciak,
e già questo riduce la solennità, ma non basta, mentre dedica la sua morte a Dio, gli altri (tutti, anche il suo collega aspirante al
martirio) si mettono a mangiare un panino. Alla fine, invece di poche sentite parole, la mamma riceverà «post mortem» dal
figlio l’indicazione di un negozio, dove i filtri per l’acqua costano meno. «Mi ero dimenticato di dirglielo», si scusa, il giovane
aspirante martire. E il film tocca uno dei suoi momenti più strazianti e intensi. La verità delle piccole cose, i dettagli della
povertà, l’atmosfera claustrofobica di Nablus (Paradise now è il primo film girato nella città palestinese), schiacciata in una
valle lunga e stretta, sovrastata dalle montagne da cui israeliani armati esercitano un costante controllo, il rancore represso ad
ogni passaggio di check point, la sensazione che tutto possa saltare in aria da un momento all’altro: non c’è servizio
giornalistico che possa evocare tutto questo. Abu-Assad, giustamente e coraggiosamente, ha deciso di girare in pellicola
invece di ascoltare chi gli consigliava una piccola troupe e la scelta del video digitale, per essere più rapido e leggero date le
condizioni (girare in una città occupata). Voleva fare un film che non potesse essere confuso con le immagini scialle dei
telegiornali, ché ormai tutti guardiamo distrattamente. Aveva ragione di volere un film ed è riuscito a farlo. Paradise now è un
film e un bel film. Con la forza del cinema racconta senza giudicare, il che, sulla questione palestinese è necessario. Hanno
torto tutti, lì: gli israeliani che non vogliono riconoscere i diritti dei loro vicini, i palestinesi che rispondono all’occupazione
con il terrorismo, strumento inaccettabile sempre, qualunque sia la motivazione. La sospensione del giudizio, privilegio
assolutodell’arte, non è, comunque, il solo vantaggio che la scelta della forma ha guadagnato ai contenuti dell’ opera di AbuAssad. C’è di più: c’è comprensione, capacita di approfondimento e compassione in Paradise Now. E la compassione è un
bene di prima necessita, in questi tempi dolorosi. Non bisogna mai smettere di provare pietà, oggi. Anche per i tanti (troppi)
Khaled e Saìd, mandati a morire, imbottiti di tritolo e nutriti di rancore, istigati alla vendetta e intontiti con la religione.
Quando uno dei due chiederà al «superiore» che lì sta portando al macello «Come sarà. . . dopo?». La risposta ha un tono
burocratico che confligge con il contenuto fiabesco. «Scenderanno due angeli a prendervi».
Le cose poi non andranno esattamente secondo le previsioni, e di questo è bene tacere, perché il film ha una bella tenuta
drammatica, sarebbe peccato sciuparla. Ma gli occhi di Said quando pensa che sta guardando la sua bella ragazza per l’ultima
volta sono destinati a restare. A piantarsi nella nostra anima e nella nostra memoria. Said è un kamikaze malgrado sé stesso.
Non ha nessuna libidine negativa, la vita, la sua piccola vita di ragazzo timido e sbruffoncello (sarebbe piaciuto a Pasolini) se
la vivrebbe molto volentieri. E l’ambiente in cui e cresciuto che lo condiziona, è condizionato all’odio, al rancore.
Deve riscattare suo padre che ha collaborato con gli israeliani ed è stato giustiziato per questo. Deve vendicare un eroe ucciso
e un bambino massacrato. Deve portare il suo carico di morte, perché è una cultura di morte quella in cui è stato educato.
Quando la ragazza che gli piace (la bravissima Lubna Azabal di Exils in concorso a Cannes) gli chiede se è mai stato al
cinema, la risposta è agghiacciante. «Una volta, quando siamo andati a bruciarne uno, in Israele». A Nablus di sale
cinematografiche, non ce ne sono. (Lidia Ravera, L'Unità - 13/10/2005)
"Più apertamente politico è 'Paradise Now' del palestinese emigrato Hany Abu-Assad, che ha il fegato di affrontare il
retroterra privato di due amici d'infanzia prescelti per immolarsi come kamikaze. Prima d'imbottirsi d'esplosivo e valicare la
frontiera con destinazione Tel Aviv, Khaled e Said trascorrono con i familiari inconsapevoli quella che dovrebbe essere
l'ultima sera della loro vita: è il momento migliore del film, grazie al ben imbastito contrasto tra la toccante normalità dei
rapporti quotidiani e il tormento segreto di una scelta estrema in parte voluta in parte subita. Poi il racconto s'inaridisce e, al di
là degli astuti colpi di scena, il manicheismo cacciato dalla porta cinematografica rientra dalla finestra dell'ideologia." (Valerio
Caprara, 'Il Mattino', 15 febbraio 2005)
Khaled e Said, ventenni qualunque di Nablus, sono amici fin dall'infanzia. Il primo è un impulsivo scavezza collo, il secondo
è più riflessivo e serio. Stanno sempre insieme, insieme lavorano come meccanici in un'officina e insieme hanno deciso di
farsi saltare come kamikaze. La loro missione gli viene comunicata solo la sera prima ("Sei felice? E' un grande onore") e da
quel momento non vengono mai lasciati soli. Nessuno deve sapere o sospettare. Il giorno dopo iniziano i riti purificatori dei
corpi che saranno rivestiti con i giubbotti esplosivi, si vedono la registrazione dell'ultimo messaggio a chi resta (e che
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verranno poi venduti insieme ai filmati dei collaborazionisti uccisi), l'ultima cena, e poi la paura, l'esaltazione di chi si sente
già eroe, l'errore e la fuga. A dispetto dell'argomento "Paradise Now" non è un film politico (per questo ha ottenuto anche il
patrocinio di Amnesty International), non si schiera, non giustifica, né spiega. A Nablus tutti sbagliano: coloro che incendiano
il cinema pensando di fare un torto ai propri avversari, gli israeliani che tengono segregate la popolazione all'interno della città
ma soprattutto coloro che uccidono e si uccidono, credendo di servire ad una causa, pensando di diventare degli eroi,
indottrinati da persone che mangiano senza rispetto mentre i "martiri" leggono le loro ultime volontà. Ma quando ai Kamikaze
si da un'alternativa, la consapevolezza che ci possano essere altre forme di lotta, la abbracciano, felici di non dover morire. La
forza del film è nel suo non essere ricattatorio, nel colpire allo stomaco attraverso la storia che racconta senza usare
facilimezzi per commuovere ma nel descrivere la realtà senza retorica. Lo stile di riprese è molto occidentale, con una grande
accuratezza nella composizione della scena e nel ritmo del film, si vede che il regista Hany Abu-Assad, che è nato a Nazareth
43 anni fa da tempo vive in Danimarca, tanto che la scena dell'ultima cena è presa direttamente dell'iconografia cristiana.
Molto bravi ed intensi anche i due giovani attori Kais Nashef e Ali Suleiman che provengono dal circuito teatrale palestinese.
(Elisa Giulidori - FilmChips 14/10/2005)
Nella filmografia sul Medio Oriente ecco un eccezionale film palestinese di Hany Abu-Assad girato prima dello sgombero dei
coloni. La liberazione che ci porterà al paradiso del titolo da Living Theatre è nel sacrificio della vita dei kamikaze, mistica e
follia. Il film segue quasi in tempo reale le ultime ore di due di loro che diventano strumenti di morte: la preparazione, il
segreto, la purificazione. L'autore cerca di mantenere perfino un filo di ironia, spiega più che giustificare, apre la porta di un
territorio dove il confine tra vita e morte è labile, come quello tra finzione e documento. La storia prende alla gola,allo
stomaco, al cuore, al cervello. E' difficile rimanere insensibili anche di fronte a un atto criminale e politicamente
controproducente: ci interessano i dubbi e i pensieri di due giovani impossibilitati ad essere normali. (Maurizio Porro Corriere della Sera 14/10/2005)
Palestinese di etnia, israeliano di passaporto e olandese di residenza, nel conflitto senza fine che insanguina il medio oriente il
regista Hany Abu-Assad si è considerato abbastanza al di sopra delle parti per fare (parole sue) «un film dove non ci sono
buoni né cattivi». Il risultato è che «Paradise Now», pur applaudito e premiato alla Berlinale, provoca gli attacchi contrastanti
di chi lo considera giustificazionista del terrorismo e di chi lo condanna come un tradimento della causa. Ma Abu-Assad cerca
solo di rispondere a un quesito inquietante: cosa agisce nella testa di una persona normale che decide di diventare un
bombarolo suicida? Siamo di fronte a uno sforzo serio per interpretare il mondo dei «martiri» visto dall'interno. Said (Kais
Neshif) e Khaled (Ali Suliman) sono stati scelti in segreto per farsi esplodere tra la folla di Tel Aviv. Mentre Suha (Lubna
Azabel), figlia a sua volta di un martire, non nasconde la propria contrarietà, i due giovani ritualmente si preparano. La tragica
situazione non esclude tratti da commedia, come quando Khaled deve ripetere il suo proclama testamentario perché la
macchina da presa si è inceppata; e in tale occasione apprendiamo che questi video noleggiati o venduti trovano una vasta
clientela. Per una serie di coincidenze l'operazione va storta, separati dal caso i due complici si cercano invano l'uno di qua e
l'altro di là in una tragicommedia degli equivoci, l'organizzazione si mette in allarme temendo un tradimento di Said che
invece paradossalmente si fortifica sempre più nella sua decisione... Girato a Nablus fra una sparatoria e l'altra (sei tecnici
della coproduzione tedesca hanno abbandonato il set ritenendo assurdo rischiare la vita per un film), «Paradise Now», nel
fondere la forza del documento con l'attrattiva dell'opera di fantasia, è da non perdere. Nessuno che lo abbia visto, leggendo
l'ennesima notizia di una strage in Israele, potrà evitare di ricordare il primissimo piano finale dell'occhio dell'attentatore
prima che succeda (o no?) l'esplosione annunciata. (Alessandra Levantesi- La Stampa 14/10/2005)
Per capire meglio «la passione di vita» che fa esplodere Roberto Benigni in mille versi, dovrebbe essere visto
contemporaneamente anche questo dramma prosaico sulla passione di morte che fa esplodere un kamikaze che usa
diversamente la glicerina. I kamikaze, chi, perché, come, quando. Con alcuni «se» e alcuni «ma». Se Paradise now,
coproduzione franco-tedesca diretta da Hany Abu-Assad (Rana's wedding e Ford Transit), palestinese d'Olanda, troverà un
distributore in Israele, si darà un incentivo pubblico alla stampa delle copie, alla promozione del film, alla discussione tra
cugini. Il film (scritto prima dell'11 settembre) racconta le 24 ore che precedono un attentato suicida su un autobus di
Gerusalemme pieno, e non solo di soldati. E che gli «eroi», due amici d'infanzia, Khaled e Said, ventenni qualunque di
Nablus, meccanici, non privi di senso dell'umorismo, e di una umanità a tutto tondo, quando sono chiamati all'azione
dall'anonima martiri «islamici», non hanno esitazioni, né turbamenti. Vanno. «Qui è l'inferno». E far saltare in aria l'inferno ha
un certo fascino macabramente laico per chi è costretto a immaginare il paradiso solo dentro la propria testa. Così questi due
psycho-serial-killer fanno il video richiesto con la dichiarazione d'intento dell'azione (in vendita poi a 3 euro nel bazar), si
vestono come Le Iene, si rasano, si riempiono di tritolo, fanno «l'ultima cena» (in senso iconografico e cristiano stretto), non
pregano neppure, e si butterebbero, come bombe volanti, contro gli invasori. Se non che... Certo alcuni israeliani (per soldi, e
perché il genere umano è incarognito) li aiutano a passar ilmuro. Quel muro alla cui costruzione, a leggere Avraham
Yehoshua sulla Stampa di ieri, contribuì non solo la sagacia diabolica di Ariel Sharon, ma perfino la sinistra laburista,
pacifista e perversamente non promiscua, di Tel Aviv... Certo il film, molto radiofonico, ha già spiegato, per filo e per segno,
le ragioni politiche e emotive della strategia della disperazione (e anche l'uso politico che Hamas e il governo di Israele ne
fanno, per accentuare gli estremismi religiosi opposti e la repressione). Ma succede qualche cosa di miracolosamente razionale
che interrompe una delle due azioni suicida. L'altra prosegue per questioni d'onore. Il padre del kamikaze è stato assassinato
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per collaborazionismo. Il figlio deve lavare quell'onta di famiglia (fosse il protagonista di Private, Mohamed Bakri, non lo
farebbe e spiegherebbe ai suoi figli scandalizzati la violenza superiore della non violenza). Forse Israele condivide, e userà a
sua volta, le attenuanti generiche alle azioni criminali derivanti dall'«onore da tutelare»? (Silvana Silvestri - il Manifesto
14/10/2005)
Primo film sugli attentatori suicidi palestinesi, Paradise Now («Paradiso ora») di Hany Abu-Assad è un tipico film da Festival
(nella fattispecie, Berlino): aspro nel tema, basso nel costo, alto nelle mire, scarso negli esiti. Era meglio, allora, lo schierato
ma umoristico Intervento divino di Elie Suleiman, premiato tre anni fa a Cannes; ma era molto peggio l'ipocrita Private di
Saverio Costanzo, premiato un anno fa a Locarno. Paradise Now rasenta l'incubo dell'attentato, ma non lo mostra. Abu-Assad
è infatti interessato non all'immolazione, ma all'emulazione fra chi è pronto a morire pur d'uccidere: sono infatti dueamici
(Hais Nashef e Ali Suliman) a passare i reticolati a Nablus, nella Cisgiordania occupata, diretti a Tel Aviv. La loro missione
fallisce; quando ritentano, solo uno - il cui padre fu ucciso perché spia degli israeliani - la porta a termine. Per lui il movente è
moral-politico, non mistico-religioso. Eppure nessuno, nemmeno il regista, nota che la vittoria dei palestinesi s'avvicina non
con l'odio, ma con l'amore: concependo ogni notte centinaia di bambini. Gli israeliani - come gli italiani - non ne sono più
capaci. il Giornale Nuovo (14/10/2005)
Ventiquatt’ore di due kamikaze, due ragazzi di Nablus, amici da quand’erano bambini, vissuti sempre chiusi dietro una rete,
senza poter sognare altro se non il paradiso, perché nient’altro per loro sembra essere possibile. Said e Khaled non sembrano
nemmeno arrabbiati, ma rassegnati. Il regista Hany Abu-Assad fa sì un film politico, ma prima di tutto racconta due ragazzi
normali, non dei freddi e spietati assassini ma la quotidianità monotona e senza via d’uscita di due ragazzi che fanno una
scelta più grande di loro, salvo poi rendersene drammaticamente conto, ognuno a suo modo. Said fa in tempo ad assaporare la
promessa di un amore, forse, per Suha. Sua madre fa appena in tempo ad intuire.
Suha (interpretata da Lubna Azabal, vista a Cannes in Exils), figlia di un famoso martire palestinese, all’affermazione
ammirata di Said per suo padre risponde: “avrei preferito che fosse ancora vivo invece di essere fiera di lui”. Questo il punto
di vista della ragazza, e del regista: bisogna lottare su questa terra perché ci sia giustizia su questa terra, il paradiso non esiste.
Eppure per molti sembra l’unico appiglio.
Abu-Assad ci svela un mondo, certamente drammatico, senza però far leva sul sentimentalismo, quanto sull’umanità dei
personaggi e delle situazioni, sulla “normalità” distorta ma reale della vita nei territori, sui personaggi di contorno, piccoli
uomini e cattivi maestri; gioca anche con l’assurdo e il grottesco, basta vedere la sequenza in cui i due ragazzi vengono ripresi
mentre leggono il loro testamento: momento assolutamente drammatico proprio perché quasi ridicolo, visto il contesto. Girato
a Nablus, una città-fortezza diroccata in mezzo al deserto, Paradise Now, a differenza dei film precedenti di Abu-Assad,
Rana’s Wedding e Ford Transit, non ha quasi nulla del documentario, pur trattando di una situazione reale utilizza con
intelligenza le potenzialità del cinema e, per certi aspetti, anche del western, in quei campi lunghi polverosi, nell’assurdo
vagare dei due kamikaze, nella disperazione consapevole e silenziosa di Said, con la cintura esplosiva innescata in mezzo alla
gente, e nel crescendo finale.
Il regista sembra avere in mente la bella lezione di No Man’s Land, seppure si ritrovi nella necessità di parlare a un pubblico
occidentale immerso nel luogo comune e nell’attualità televisiva, che in realtà sa assai poco di Nablus, dell’Intifada, di martiri
e di kamikaze. Paradise Now è un film delicato, che cerca di far capire attraverso una normalità che non è la nostra; punta
all’empatia, e attraverso questa alla riflessione. (www.fice.it)
Note:
- GOLDEN GLOBE 2006 COME MIGLIOR FILM STRANIERO.
- NOMINATION OSCAR 2006: MIGLIOR FILM STRANIERO.
-BERLIN INTERNATIONAL FILM FESTIVAL 2005
Won Amnesty International Film Prize: Hany Abu-Assad
Won Blue Angel: Hany Abu-Assad
Won Reader Jury of the "Berliner Morgenpost": Hany Abu-Assad
Nominated Golden Berlin Bear: Hany Abu-Assad
-BROADCAST FILM CRITICS ASSOCIATION AWARDS 2006
Nominated BFCA Award Best Foreign-Language Film
-EUROPEAN FILM AWARDS 2005
Won European Film Award Best Screenwriter: Hany Abu-Assad, Bero Beyer
-GERMAN FILM AWARDS 2006
Nominated Film Award in Gold Best Screenplay: Hany Abu-Assad, Bero Beyer
Nominated Outstanding Feature Film: Gerhard Meixner, Roman Paul
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-NEDERLANDS FILM FESTIVAL 2005
Won Golden Calf Best Editing: Sander Vos
Won Best Film: Bero Beyer
Nominated Dutch Film Critics Award: Hany Abu-Assad
Nominated Golden Calf Best Director: Hany Abu-Assad
Nominated Best Screenplay of a Feature Film: Hany Abu-Assad, Bero Beyer
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