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Titolo originale: La cátedra de la calavera
Copyright © Margarita Torres, 2010
© Ediciones Planeta Madrid, 2010
Traduzione dallo spagnolo di Fabio Bernabei
Prima edizione ebook: luglio 2013
© 2013 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-5668-5
www.newtoncompton.com
Edizione elettronica realizzata da Gag srl
Margarita Torres
Il cardinale nero
Newton Compton editori
A mia madre
Nell’anno del Signore 1509, la legittima sovrana di Castiglia e León, donna Giovanna, si annientò
nel dolore in seguito alla morte del marito. Le ambizioni del padre, don Ferdinando d’Aragona, non
conoscevano ormai confini nella Penisola iberica, dopo la conquista di Granada e l’espulsione degli
ebrei nel 1492. La vita della città di Salamanca ruotava intorno alla sua università. Perla della Corona,
crogiolo della nuova cultura che cominciava a forgiarsi in Europa, patria comune d’ogni sorta di
cupidigia e brama, laboratorio religioso che rasentava talora l’eresia, il più grande bordello della
Spagna dell’epoca. Solo la vigilanza dei cani di Dio, i Domini canes, gli inquisitori domenicani,
vegliava per mantenere accesa la flebile e convulsa fiamma della virtù, in un’epoca di cambiamenti…
1
In principium erat
Lo strano rumore lo mise in allerta. A quanto sembrava, qualcuno girava ancora per il patio delle
Scuole maggiori, ma non poteva essere, non a mezzanotte, non quel giorno in cui tutti i demoni se ne
andavano liberi per Salamanca. Eppure quella strana sensazione allo stomaco persisteva intatta… Fra’
Bartolomé sospirò.
«Sciocchezze, povero vecchio che non sei altro, immagini ombre dove c’è mera assenza di luce»,
si biasimò. «A forza di guardar le stelle, finisci per incespicare nelle tue stesse paure».
Di nuovo, si sentì qualcuno aggirarsi furtivo lì vicino. Sembrava rumore di passi, a dire il vero,
sebbene solo l’immaginazione potesse ipotizzare qualche presenza, con quel vento che fischiava forte
tra le fessure e i tuoni che annunciavano un temporale. A disagio, l’anziano cattedratico di Astronomia
si immerse di nuovo nei suoi doveri. C’era ancora molto da fare. Rannicchiato nel saio, osservò il
mucchio di carte polverose che si ergeva dinanzi al suo sguardo, sul tavolo dove lavorava invece di
riposare.
Era così freddo che le dita rugose del frate parevano artigli, tanta era la difficoltà di muoverle
sulle pergamene e sulle carte che maneggiava. Era più di una settimana che vi si dedicava. Il rettore
Maldonado gli aveva raccomandato la massima discrezione dieci giorni addietro, quando gli aveva
ordinato di accorrere al suo cospetto.
«Fra’ Bartolomé», aveva iniziato, «il re don Ferdinando mi prega di aprire di nuovo l’arca di
mastro Cristoforo Colombo. Ci chiede di tornare a studiare le carte geografiche che il navigatore
aveva presentato al Consiglio reale poco prima di partire per le Indie orientali, le stesse che
assicuravano la certezza delle sue previsioni. Le vicende delle Indie lo inquietano, in particolar modo
dalla morte della moglie, la regina donna Isabella».
«Non capisco per quale motivo», bofonchiò il frate. «Sapete bene che Castiglia e Portogallo hanno
concordato la spartizione delle terre d’Occidente, nel mare Oceano, due anni dopo l’arrivo
dell’ammiraglio Colombo sull’isola Hispaniola».
«Colombo serbava ancora numerose informazioni segrete. Dal 1492, l’arca che le contiene è
sigillata per ordine espresso dei sovrani. Ora, però, siete chiamato a studiare le carte per verificare
l’opportunità di intraprendere nuove spedizioni. Mi raccomando, siate prudente e mantenete il segreto,
perché se alle orecchie dei portoghesi giungesse la notizia che disponiamo di un vantaggio del
genere…».
«…potrebbe scatenarsi una guerra con il Portogallo», lo interruppe fra’ Bartolomé. «La verità di
mastro Colombo non verrà mai alla luce, il che non significa che non ne siamo al corrente: era solo un
profittatore», si disse il docente di Astronomia.
Dieci giorni dopo quella conversazione privata, segreta, fra’ Bartolomé brontolava di notte le
stesse parole, come se invece che alla flebile luce delle candele, si rivolgesse di nuovo al rettore
Maldonado. Ma era solo, in compagnia di vecchie carte, illuminato da fiammelle tremolanti per il
soffio dei suoi sbuffi.
Ripassò svelto il racconto del viaggio di Alfonso Sánchez de Huelva, la testimonianza di Colombo,
le sue annotazioni, la lettera firmata con quel suo strano anagramma, «Christo Ferens», “portatore di
Cristo”, e la carta geografica. Lo scudo portoghese gli ricordava con insistenza che la pergamena
apparteneva ai lusitani, non alla Castiglia, e che non avrebbe dovuto trovarsi tra le sue mani, bensì a
Lisbona. Ma ormai era tardi per tali inutili riflessioni e lui, un povero frate di Salamanca, non avrebbe
osato immischiarsi in simili questioni di Stato, dunque si risolse a procedere nello studio minuzioso
della documentazione, ragionando a voce alta per farsi compagnia.
«Un’iscrizione in arabo, un’altra in latino, la rosa dei venti nello stile di Cresques, l’illustre
cartografo. Ecco le Canarie, Capo Bojador, le rotte portoghesi, il Catai… la Coda del Drago?», si
stupì.
Il cattedratico di Astronomia volle prendersi il tempo necessario per fare tutto a dovere. Alla sua
età la vista risentiva dello sforzo e portare avanti uno studio del genere gli era di gran peso, invece di
rallegrarlo. Sapeva che mancavano delle tavole per comporre l’intero mappamondo, e che gli avevano
consegnato solo le due tracciate sulla pergamena che teneva tra le mani.
«Tutti questi segreti, tutti questi segreti… Maledetto Rodrigo Maldonado, perché non mi lasci
accedere all’intero contenuto e studiare la documentazione nel suo insieme? No, l’onnipotente
padrone dell’Università di Salamanca diffida del vecchio professore, gli porge prima una briciola, poi
un’altra, ogni volta che apre questa bara di legno», protestò mentre girava e rigirava la carta
geografica, finché non riuscì a decifrarne le parti scritte.
Guardò di sbieco l’arca chiusa a chiave lì accanto. La stessa che il rettore conservava con zelo e
non gli aveva mai voluto consegnare.
«Pazienza, non c’è bisogno di aprire il vaso di Pandora per sapere che ho un tesoro tra le mani.
L’artefice di questa meraviglia conosceva di certo le opere di al-Juarismi, gli apporti di Henricus
Martellus e aveva davanti agli occhi l’atlante perduto di Cresques, la copia segreta custodita dalla
Corona del Portogallo. Colombo, a chi l’hai rubata questa perla?».
In mezzo a tanta solitudine, fra’ Bartolomé si era ormai abituato alle lunghe disquisizioni con se
stesso. Esponeva una tesi, la confutava, replicava e finiva per riconoscere di avere sempre ragione, in
un modo o nell’altro. Solo che quei nomi e quella carta non sarebbero dovuti esistere. All’altro
estremo del mare delle Tenebre, a sinistra della rappresentazione di Portogallo e Castiglia, figurava
l’Oceano e le isole scoperte da Colombo nei suoi viaggi. All’estremo Sud rispetto a quelle, un profilo
di terre sconosciute con una legenda in portoghese: “Coda del Drago”.
«Quale minuzia nel tracciato! È a chi ha perlustrato per primo queste coste che si deve la gloria,
non a te, genovese. Fammi scoprire il tuo nome, amico. Forse lo hai lasciato scritto tra le lettere e le
carte chiuse ancora lì dentro?». Accennò allo scrigno con un grugnito.
Una folata di vento aprì la porta della stanza. La luce delle candele si spense, l’ambiente piombò
nell’oscurità totale. Solo com’era, nella sagrestia della cappella delle Scuole maggiori, l’anziano
docente si alzò. Con prudenza, tastò i bordi del tavolo e, appoggiandosi, cercò di trovare nell’armadio
vicino un cero e qualcosa per dare fuoco allo stoppino. D’un tratto, il cielo sembrò rispondere alle sue
suppliche: da lontano, vide accendersi una candela che gli veniva incontro.
«Ditemi, vostra paternità, fra’ Bartolomé, voi che siete cattedratico di Astronomia ed esperto
conoscitore di diverse arti», gli disse una voce maschile. «Forse non avete il coraggio di accettare che
mastro Colombo e gli uomini che lo precedettero conoscevano bene quelle terre? Per caso non vi siete
reso conto che Ferdinando d’Aragona desidera solo impadronirsene? Credo che il rettore vi debba
molte risposte…».
Sentì un brivido lungo la schiena quando riconobbe il compagno di stanza. Arretrò di qualche
passo, intimorito.
«Chi vi ha lasciato entrare?», intimò.
«Lo stesso che avrebbe dovuto proteggervi», rispose l’altro dall’ombra, mentre avanzava verso
l’anziano. «Del resto si sa, con una cospicua borsa di monete e il nome giusto, perfino i guardiani si
abbandonano volentieri al sonno».
«Che cosa volete? Da quanto tempo siete qui dentro?».
In silenzio, l’uomo illuminò il tavolo e i documenti che vi erano sparsi, abbracciandoli con un
gesto. Quindi lasciò che la luce rivelasse il suo volto torvo, di dure fattezze.
«Il tempo sufficiente per ascoltare le vostre riflessioni, fra’ Bartolomé, e cogliere, grazie a vostra
paternità, l’importanza di questa carta geografica e dell’arca da cui proviene. Se debbo esser sincero,
credevo che Rodrigo Maldonado avesse di voi una considerazione più alta, che vi avrebbe messo in
mano l’intero tesoro segreto che custodisce con tanto scrupolo. A quanto sembra, mi sbagliavo.
Servirà ancora un po’ di tempo per decifrare tali documenti».
«A cosa vi riferite?»
«È troppo difficile da afferrare? E vi chiamano pure cattedratico?», lo derise ironico.
L’intruso appoggiò la candela sul tavolo. Raccolse la pergamena e tutte le carte sulle quali era al
lavoro l’anziano docente mentre spostava l’arca con il piede.
«Fermo! Non ve lo permetterò!», gli gridò con audacia il frate, che gli si parò dinanzi per
impedirgli di arrivare alla porta.
«Contavo proprio su questo, padre».
L’ultima cosa che videro gli occhi del vecchio cattedratico fu la lama scintillante della spada che
lo decapitò. Il ladro pulì l’arma con l’abito della vittima e la rinfoderò, quindi si diede a piegare con
delicatezza la carta e il resto della refurtiva e soffiò sulla candela per spegnerla. L’arca non era troppo
pesante, così la prese tra le braccia. Conosceva fin troppo bene il percorso per il patio delle Scuole
maggiori, del resto vi passava tutti i giorni da anni. Il buio lo fece inciampare sul corpo della vittima e
dovette appoggiarsi da qualche parte per non finire a terra e rischiare di mandare in pezzi il prezioso
tesoro che stringeva a sé. Maledisse i suoi passi maldestri, quando si accorse della mano destra
impregnata di sangue. La scrollò in aria, disgustato dal contatto con il cadavere. In quel momento,
un’idea macabra gli attraversò la mente. Ne sorrise divertito. Si abbassò di nuovo sul morto, bagnò le
dita nel collo mozzato di fra’ Bartolomé e, come guidato dal pennello del Diavolo, tracciò un “victor”
sulla parete esterna della sagrestia. Infine svanì nella tempesta.
2
Testa o croce?
Si era ripromesso mille volte di non voltarsi indietro, ma non poté impedire di mandare in
frantumi un proposito tanto buono quando il cavallo si fermò di colpo nei pressi del ruscello di
Mozárbez, barcollando spossato. Il cavaliere riuscì a stento a reggersi sulla sella, sfinito anche lui,
come se una forza oscura avesse strappato a entrambi le energie. Era la fine del suo viaggio. Per lo
meno, se non avessero riposato. Tra mille imprecazioni, smontò da cavallo, tolse le briglie all’animale
e mosse qualche passo in avanti per sciogliere le gambe, intorpidite dallo sfregamento continuo della
sella.
«Bevi tranquillo, non ti darò fastidio», mormorò liberando il cavallo.
Mentre l’animale appagava la sete e riprendeva fiato, il cavaliere crollò sulla riva. Non gli
importava della durezza dei sassi del fiumiciattolo che sentiva piantarglisi sulla schiena, né
dell’umidità del terreno zuppo d’acqua per la pioggia leggera che adesso, sotto un cielo di nembi
grigi, minacciava di trasformarsi in diluvio. Aveva bisogno di fermarsi, riposare, dormire il tempo
sufficiente a recuperare le forze, a qualunque costo. Anche per una sola notte, se non per il resto della
vita. Era disposto perfino a uccidere pur di ottenere l’agognato riposo. Cos’altro aveva da perdere, se
già non gli restava più nulla al momento della partenza?
Chiuse gli occhi. Nella mente cominciarono a fluttuare i ricordi di quei tre giorni maledetti, nei
quali si era alimentato solo di inquietudine, di fretta e dell’angoscia che qualcuno potesse vederlo di
notte o mentre riposava in una delle tante locande incrociate, accompagnato solo dalla paura.
Non era mai stato uno coraggioso. Ancora meno in circostanze come quella, quando le strade
potevano trasformarsi in pericolo per chi, come lui, non aveva ancora compiuto i diciassette anni e
non aveva mai viaggiato senza scorta. Attorno al fuoco si raccontavano mille storie di assassini pronti
a scannare le vittime sprovvedute per rubare loro qualche moneta, di uomini e donne senza cuore,
capaci di strappare gli organi ai bambini e poi rivenderli a buon prezzo ai guaritori: commerciavano
con la disperazione dei ricchi ammalati, disposti a pagare caro pur di avere qualche ora di vita in più.
Così indifeso, era facile preda di qualsiasi farabutto. Si spostava di fretta, portando con sé un fagotto
che lasciava presagire un contenuto di un certo valore e un coraggio esile quanto il suo corpo.
Pioveva con veemenza crescente. Dapprima fu una carezza, poi venne giù tutta l’acqua del cielo.
Gli zoccoli dell’animale gli colpirono forte gli stivali, a rammentargli che mancava ancora un bel
tratto di strada, poco più di due leghe, per arrivare a destinazione. Solo allora avrebbe potuto liberarsi
di tutta la merda che portava sulle sue povere spalle. Aprì la bisaccia che pendeva dalla sella.
All’interno, danzavano ancora i resti del pane e formaggio divorati durante la fuga. Rovistò fino a
trovare un borsellino. Custodiva la vecchia moneta dell’epoca dei mori, che il padre gli aveva regalato
quando era alto non più di un braccio. Ci giocherellò un po’ tra le dita e sorrise al cavallo.
«Scegli… testa o croce?».
Lanciò in aria il tondo di bronzo e trattenne il respiro.
Due leghe e sarebbe stato di nuovo libero. Due sole leghe. Scelse testa, mentre seguiva il volo con
lo sguardo. La moneta cadde di fianco, tra l’erba bagnata. Niente. Non c’era altra risposta che un
futuro tutto da scrivere, un futuro di libertà e pericoli. Scoppiò a ridere. Rise dell’imbrunire, della
pioggia, di Dio, dei propri fantasmi, e sferrò un calcio alla moneta, che finì i suoi giorni in fondo al
ruscello. Montò di nuovo a cavallo e diede di sprone in direzione di Salamanca.
«Allora sarò io a decidere. Vuoi prenderti la mia vita? Vieni a cercarmi, demonio!». Sputò alle sue
spalle e partì di gran carriera.
3
Un rifugio sicuro per un pellegrino scomodo
«Maledetto! Se non chiudi il becco e non la smetti di torturarci con le tue suppliche, la mia signora
darà ordine di farti randellare», urlò dallo spioncino del portone la vecchia domestica. «Non è questa
l’ora di disturbare la gente rispettabile. Via di qui, accattone!».
«Per carità, signora, aiutatemi!», implorò di nuovo la voce sfiancata, con le forze che venivano
meno.
Luisa de Medrano si coprì le orecchie. Se quel folle che batteva alla sua porta dalla mezzanotte
seguitava a forzare il destino, avrebbe finito per mettere in atto la minaccia della governante e far
cacciare a suon di botte il mendicante, che aveva l’impudenza di guastare la pace di una famiglia
onorata. Guardò di nascosto da dietro le finestre. L’aspetto del miserabile sembrava ispirato a un
sermone di padre García: allampanato, bagnato fradicio, stivali logori, cappello a tesa calato giù per la
troppa pioggia, spada alla cintola e, alla sua destra, un ronzino annoiato dalla lunga attesa.
Provò pietà per l’animale. In quella notte gelida di metà gennaio, carica come poche di fulmini e
tuoni, perfino le bestie avevano diritto a un rifugio e a un po’ di sostentamento. Tuttavia, con i tempi
che correvano, nessuno si sentiva abbastanza al sicuro per aprire la porta a uno sconosciuto: due
studenti morti nell’ultima rissa scatenata dalle elezioni per la cattedra, inservienti malmenati per aver
fatto il passo più lungo della gamba e lucrato a spese dei padroni, per non parlare dei truffatori e
fanfaroni di infimo grado che erano soliti affogare nel vino le proprie sventure e finivano per
inzaccherare di vomito gli androni aperti e i sedili di pietra addossati all’esterno degli antichi palazzi.
No. Prima di farlo entrare, doveva vedergli il volto. Dell’uomo, va da sé, perché non diffidava certo
del cavallo. Luisa chiese a un servitore di portarle un oggetto contundente ma non mortale, da
scagliare dall’alto sull’individuo che la teneva sveglia a quell’ora di notte. Armò la mano destra con la
pietra, aprì la finestra, mirò all’uomo macilento e la lanciò con tale destrezza che dalla gola del
mendicante uscì un «ahi!» che le suonò femminile, e alcune parole di dubbio gusto mentre alzava il
viso per guardarla in faccia colmo di livore.
Un brivido gelido le corse lungo la schiena. La dolcezza di quel volto le risultava familiare. Ma
chi era? Dove l’aveva visto prima di allora? Corse alle scale, strappò una candela dalle mani di
un’inserviente e ordinò di aprire il portone d’ingresso. Contornata dall’arco a tutto sesto, come un
personaggio di una tragedia greca, attendeva una ragazza dal volto allungato, impettita per quanto un
po’ malconcia e zuppa di pioggia, che si gettò d’istinto fra le braccia di Luisa, bagnandola tutta.
«Sono tua cugina, Isabel de Vargas», singhiozzò stringendosi timorosa alla padrona di casa,
anfitriona suo malgrado.
Di fronte alla parente che le si abbandonava tra le braccia, Luisa non fece domande: le spalancò le
porte di casa e del cuore. Non le passò per la testa di redarguire la ragazza per l’aspetto trascurato,
sudicio, e per il lezzo che emanava, né volle indagare sulle ragioni che l’avevano condotta così
all’improvviso a Salamanca. Bastò uno sguardo di Isabel per comprendere: solo una causa oltremodo
grave poteva strapparla dal grembo materno e trascinarla in un’autentica impresa come il viaggio da
Altobar fino alla città universitaria, in un’epoca tanto densa di pericoli per una gentildonna, lungo una
strada popolata di manigoldi, falsi pellegrini, ladri e locandieri pronti a vendere l’onore dei propri
ospiti per guadagnare qualche misero maravedì. L’immaginazione di Luisa viaggiò così veloce che,
senza nemmeno parlare, la invitò a entrare e ripararsi dal temporale, come se non fosse già
irrimediabilmente bagnata. Una volta nell’atrio, le diede un bacio e si staccò un poco dal corpo
tremante della giovane.
«La piccola Isabel, poverina!». Le accarezzò il viso con tenerezza. «Sono passati più di dieci anni
dall’ultima volta che ci siamo viste, ricordi?».
Isabel annuì. La madre, Beatriz de Medrano, l’aveva portata a Salamanca quando era ancora
piccola, per farle conoscere la sua famiglia. I Medrano appartenevano a una delle casate più in vista
della città. Non a caso avevano dato all’università nomi di lustro accademico, come quello del padre
di Luisa, o quello della dama, cui era stato concesso di impartire lezioni di retorica, in sostituzione
dell’illustre don Antonio de Nebrija.
Il professore aveva preso a benvolere la giovane Medrano, in parte per l’affetto verso il genitore,
ma soprattutto perché era stato conquistato dal suo immenso talento per tutte le discipline. Entrambi
condividevano un sogno: sbaragliare la barbarie ormai padrona della Spagna per mezzo delle idee
innovatrici apprese dal cattedratico all’Università di Bologna, le stesse che, a poco a poco, aveva
assorbito anche Luisa grazie ai suoi insegnamenti e a quelli dei docenti italiani giunti alla città del
fiume Tormes per la presenza di Nebrija, le stesse che cominciavano a diffondersi con il significativo
nome di “umanesimo”. Nuovi modelli di pensiero arrivati dall’Europa per prendere le redini di una
Spagna ancora in via di formazione, timorosa dei cambiamenti, codarda dinanzi ai progressi, arretrata
quanto alle idee, figlia di ottocento anni di lotta contro i mori.
Il docente si era recato al cospetto della regina donna Isabella per illustrare la necessità di fissare,
attraverso una grammatica e un dizionario di pregio, la lingua nazionale, che sarebbe diventata la
“compagna dell’impero” sorto dalle ceneri di Granada e dall’impresa dell’ammiraglio Colombo nelle
Indie. La sovrana ne accettò le proposte, sostenne con determinazione il cattedratico, diede impulso
alla formazione culturale a Salamanca e promosse il potere di Nebrija all’interno dell’università, la
più antica e importante dei suoi regni. La perla più pregiata della Corona agli occhi sensibili di una
donna amante della cultura e assetata di conoscenza, che una mareggiata politica finì però per
scagliare contro il faraglione del trono di Castiglia.
Isabella non era una semplice regina, come Elio Antonio de Nebrija era molto più di un semplice
professore di retorica o un amante della lingua degli antenati. La sovrana portava sulle spalle tutto il
peso di territori complessi, di uomini ostici, avvezzi a decidere vita, morte e patrimonio con un gesto
o una parola, come quelle che a suo tempo si trovò ad ascoltare dall’arcivescovo Carrillo: «Io ho
strappato donna Isabella dal filatoio, io la riporterò a tessere alla rocca».
Forse fu a causa di questo disprezzo latente per la sua persona che la sovrana dedicò la propria
esistenza a formare donne erudite, a potenziare l’Università di Salamanca per rendere accessibile al
maggior numero di persone possibile l’ascesa al potere attraverso il servizio prestato alla Corona. Fu
così che a Salamanca emersero giuristi, teologi, insegnanti provenienti da famiglie meno pretenziose e
arroganti di quelle che ne mettevano in discussione la preparazione. La regina assicurava protezione a
chi spiccava per rettitudine, livello culturale, lealtà e assennatezza, valori senz’altro superiori alla
genealogia o alla capacità di sgozzare il nemico in battaglia. Con la sua riforma, donna Isabella si
augurava che qualsiasi donna o uomo meritevoli arrivassero a occupare il posto più adeguato alle
proprie qualità, sia a corte sia all’interno dell’università.
Ecco perché quando Nebrija si presentò dinanzi alla signora di Castiglia durante l’assedio di
Granada, i due stabilirono un accordo segreto, senza pergamene, sigilli o firme protocollari: il
professore avrebbe goduto di tutto il suo sostegno, Salamanca sarebbe divenuta il centro delle sue
riforme e non avrebbe esitato a encomiare il merito delle donne di talento che, come nel caso della
sovrana, nobiltà e clero volevano riportare a tessere alla rocca.
Don Antonio scoprì prima Beatriz Galindo, detta la Latina, destinata a diventare l’educatrice delle
figlie di don Ferdinando e donna Isabella. Quindi fu il turno della giovanissima Luisa de Medrano,
argilla raffinata con la quale modellare una nuova Atena a sua immagine e somiglianza. Il professore
l’aveva già scelta da mesi come sua sostituta quando il monarca di Aragona sollecitò i servigi del
docente quale cronista di corte. Un grande onore che obbligò Luisa a dar prova delle proprie capacità
su quelle degli uomini che ambivano allo stesso posto, sebbene questo non impedisse comunque che i
mediocri la mettessero in discussione anche quando lo ebbe ottenuto, invidiosi dei meriti di una
fanciulla qualunque. D’altro canto, come ricorda Eschilo: «Non è felice l’uomo, o la donna, che
nessuno invidia».
Una gioia riservata a pochi, certo non a Isabel de Vargas, considerata l’amarezza che tradiva il suo
volto. Luisa le porse la mano destra e la cugina vi si afferrò con gratitudine: era la prima
manifestazione di affetto da giorni e giorni. Isabel prese un po’ d’aria e abbracciò con lo sguardo
l’edificio che aveva di fronte. Dopo tanti anni, lo ricordava appena, il vecchio palazzo dei Medrano,
con la facciata in pietra grezza, le inferriate alle otto finestre e il blasone di medie dimensioni sul
quale spiccava lo stemma gentilizio del nobile lignaggio. Entrate nell’atrio, due inservienti si
occuparono di dare ricovero prima al cavallo, quindi alla signora.
Si stupì che alcune stanze le apparissero familiari. Ricordava le loro ampie dimensioni, e il
minuscolo patio ai piedi dell’imponente edificio in cui si trovava adesso. Sul fondo, se ne apriva
un’altro, con le stalle, il forno, la cantina e le abitazioni della servitù. Ai due lati, la cucina e gli
alloggi dei nobili, al piano superiore le camere da letto. La memoria è spesso infida e menzognera, si
disse la ragazza mentre seguiva i passi della cugina.
Luisa ordinò che si disponesse tutto il necessario perché Isabel potesse ristorarsi: una tinozza con
acqua calda, qualche telo per asciugarsi, indumenti puliti, una stanza. Quindi ordinò che fosse portata
una brocca di vino e miele per ritemprare il corpo e lo spirito della giovane. Isabel si tolse la giubba,
la camicia, gli stivali, la calzamaglia e infine la biancheria e le strette strisce di tela che le
nascondevano il seno. Senza pudore per le sue nudità, si immerse adagio nella tinozza, l’acqua fino al
collo. Chiuse gli occhi e accettò con piacere la bevanda che le veniva offerta.
In compagnia della cugina, e davanti al focolare che riscaldava la sala principale del palazzo,
Isabel si sentì rinfrancata e cominciò a raccontarle le traversie vissute nella settimana appena
trascorsa. Tanta era la stanchezza, però, che pensieri e ricordi le si mescolavano nella mente e si
affacciavano confusi sulle labbra.
«Mi dispiace per le tue sventure», la interruppe Luisa, «ma ora dimmi: cos’è che ti ha portata fin
qui?».
La giovane chinò la testa in un moto di vergogna.
«Dal tuo silenzio deduco che mio zio Pedro è all’oscuro di questa visita, non è vero?»
«Se mi scoprisse, mi ucciderebbe su due piedi. Anzi, mi obbligherebbe a sposare qualche zotico».
«Credo che tu mi debba una buona spiegazione», mormorò Luisa, interessata al racconto che
cominciava a presagire.
4
La vera storia di Isabel de Vargas
La vera storia di Isabel de Vargas fu ben diversa fin dall’inizio. Qualche giorno prima
dell’improvvisa fuga a Salamanca, la ragazza attendeva l’arrivo del promesso sposo nel castello di
Altobar, fulcro della signoria avita. Era una fortezza prossima alla frontiera con il Portogallo, a poche
leghe da Fuentes de Oñoro, da dove i suoi antenati avevano vigilato sui diritti territoriali prima dei re
di León, poi di quelli di Castiglia e León, tanto vicina al nemico che spesso rimanevano scottati nel
fervore rovente della contesa.
Tale circostanza impresse nei sogni di don Pedro de Vargas l’anelito a ritornare a corte, una
vecchia ambizione che gli si agitava in testa fin dai tempi ormai remoti della guerra di Granada.
Aveva rischiato molto, ma alla fine la ricompensa si ridusse al mero ricordo, a qualche cantare di
frontiera che celebrava il suo nome e a due pacche sulla spalla dopo l’impresa eroica della quale fu
protagonista insieme a Hernán Pérez del Pulgar, due anni prima della caduta del sultano Boabdil.
Una notte, quindici cavalieri fecero il solenne giuramento di beffare le difese di Granada e
penetrare nella città. L’obiettivo era di piantare nel portone della moschea una pergamena con un
messaggio dello stesso Pérez del Pulgar: «Ave Maria. Siate testimone della conquista che compio in
nome dei sovrani, e del mio impegno al riscatto della Vergine Maria, tuttora prigioniera tra gli
infedeli». Senza farsi scoprire dal nemico, il manipolo di intrepidi diede fuoco alla dogana cittadina.
Inseguiti dagli abitanti di Granada, riuscirono a fuggire per un soffio. Hernán raccolse tutti gli onori,
Pedro una bella coltellata sul torace che non lo uccise per miracolo ma che lo condannò a tornare alla
terra dei suoi avi con il solo compenso di un qualche premio futuro e del diritto a essere sepolto, al
pari dei suoi compagni, nella cattedrale costruita in seguito sulle rovine della moschea. Semmai, dopo
la morte, sarebbe stato più onorevole essere premiato dal cielo che da una lastra di marmo con
l’incisione del nome e dell’arme.
Il congedo dalla città di Granada si limitò, dunque, al baciamano, al dono di sete, pietre preziose e
monete del bottino, oltre che a qualche terreno arido concesso dai monarchi cattolici giusto per
arrotondare con pietre e capre il suo patrimonio, calato considerevolmente per i costi di mantenimento
della milizia nell’assedio all’ultimo regno dei mori di Spagna. Spese elevate che il ruolo di baluardo
della frontiera portoghese comportò anche negli anni a venire e che lo costrinsero a dedicarsi al
riequilibrio delle finanze, piuttosto che andare a corte per reclamare maggiori compensi, che per altro
arrivarono solo con la ricca eredità della moglie, Beatriz de Medrano. Fu solo grazie alla morte del
suocero che riuscì a risanare il suo malandato bilancio.
Don Pedro aveva sempre desiderato un figlio maschio. E magari fu per supplire a questa
mancanza, o forse per autentica passione, che Isabel amava andare a cavallo con il padre, praticare
l’arte della spada al mattino o uscire a caccia con il genitore e gli altri familiari. In cambio, accettava
volentieri di studiare il latino e leggere con la madre quelle opere da quattro soldi che, all’insaputa del
padre, le inviavano da Salamanca e che, a detta delle malelingue, facevano uscire di senno le donne,
poco avvezze a certi argomenti, senz’altro più consoni ai maschi.
Tuttavia, come affermava il castellano di Altobar, la prima a impazzire fu la stessa regina Isabella
di Castiglia, talmente devota alle lingue degli antichi e alla loro storia che avrebbe potuto discutere
con i migliori maestri e i più dotti cattedratici di logica e teologia perfino all’Università di Salamanca.
Invece, ogni volta che Isabel acconsentiva a indossare abiti maschili e a montare con un sol balzo lo
stallone regalatole dal padre per il compleanno, don Pedro si sentiva inorgoglire, consapevole che
parte della sua stirpe si era trasfusa nel cuore ardito di quella ragazza, capace di lottare con fierezza e
di cacciare come lo stesso re Ferdinando, esperta di cavalli quanto il migliore dei cavalieri, e con una
mano destra tanto ferma che una sua stoccata era in grado di abbattere qualsiasi guardia. E adesso, per
una burla del destino, proprio la figlia aveva in mano la chiave per accedere alla corte. E non
intendeva certo perdere l’occasione.
Le mani poggiate sul grembo, Luisa de Medrano ascoltava con partecipazione la storia della
propria famiglia dalle labbra della cugina. La quale, prima a suon di balbettii, poi sempre più
furiosamente, si lasciò sfuggire quasi in un sibilo il nome del promesso sposo.
«Suero Vermúdez, signore di uno squallido villaggio di nome Tilonga, che dubito sia perfino
riportato sulle carte geografiche. E tutto questo per quale motivo? Denaro in cambio di un impegno.
Una promessa, sì», rispose Isabel alla tacita domanda della cugina, «ma non mia. No, non sono stata io
a prendere un impegno del genere, figuriamoci poi per quel… quel… saccente di infima categoria. Al
mercato degli schiavi un pegno del genere non varrebbe nemmeno una pelle di coniglio usata»,
commentò con un sorriso.
«Be’, puoi sempre trattare e liberartene», scherzò Luisa.
Isabel, invece, passò dal riso al pianto.
«La famiglia di quel mezzo uomo ha giocato le proprie carte come si deve e ha conquistato la
volontà di mio padre promettendogli la carica di commendatore di Santiago. La felicità di sua figlia
non valeva poi molto…».
Davanti alla voce strozzata della cugina, Luisa si alzò per cingerle la spalla con il braccio. Attese
che la giovane smettesse di tremare, quindi tentò di approfondire la questione.
«A ogni modo, mia cara cugina, anche se non lo conosci a dovere, magari dovresti fermarti a
ponderare la situazione. Se si tratta di un casato così potente…».
«Potente?», la interruppe Isabel. «Sì, certo, per fare a pezzi la mia vita. Comunque, non ho nessuna
intenzione di unirmi in matrimonio a Suero Vermúdez, né a chiunque altro cerchi solo una moglie di
nobiltà comprovata e sangue privo di contaminazione ebrea, conversa o mora».
Luisa Medrano inarcò le sopracciglia.
«Quindi è una famiglia radicata nella Chiesa?»
«Il nipote dell’inquisitore frate Juan Ruiz del Monte». La cugina ebbe un brivido, ma non lo lasciò
trapelare dal volto. «Mio padre lo conobbe ai tempi dell’assedio di Granada».
Così come Medrano, sebbene le gesta che cementarono la sua fama nacquero da circostanze ben
diverse da quelle di un cavaliere di spada, fondate sui tribunali del Sant’Uffizio durante la grande
persecuzione contro gli ebrei conversi, prima dell’espulsione del 1492. Tra le voci che circolarono
sulla notte del terrore, qualcuno raccontava che durante un autodafé a Jaén si spinse a condannare due
uomini e sei donne, pur sapendoli tutti innocenti. I primi solo perché un tempo erano stati ebrei, le
seconde per la vedovanza di vecchia data e l’invidia di certe vicine, che avevano accusato le povere
donne di stregoneria. E in quel luogo turpe li condannò tutti al rogo e ordinò di riesumare le ossa degli
avi per gettarle sul fuoco purificatore dei peccati dei figli.
Isabel ricordò il momento in cui sua madre, donna Beatriz, si presentò nella stanza del castello
dove lei attendeva l’arrivo del promesso sposo. Sembrava uscita da un dipinto d’altri tempi, tanto
regale e altero era il suo portamento. Sul petto spiccava la grossa collana che le aveva donato la
defunta regina Isabella di Castiglia il giorno delle nozze: una catena d’oro a maglie pesanti che le
pendeva dal collo fino al grembo, sfregando sulla veste di broccato vermiglio che qualche giorno
addietro le cognate le avevano mandato dalla corte. Il capo era ornato da un velo di trama vaporosa e
fili dorati che le copriva i capelli, già brizzolati, raccolti in una treccia. «Come sei bella», sospirò la
madre quando la vide abbigliata con una veste di broccato di velluto e seta verde dall’ampia scollatura
quadrata, che le metteva in risalto la bellezza delle spalle, coperta da una gorgiera delicata. Le
maniche aperte permettevano di intravedere gli sbuffi della camicia, di una tonalità opaca e con
ricami raffinati. Una collana di due giri di perle dalla quale pendeva un piccolo gioiello a forma di
croce seguiva la delicata linea del seno.
«La mia povera mamma si era impegnata a fondo per rendergli tutti gli onori che reputava
necessari», continuò a narrare la ragazza. «Dal castello pendevano vessilli e arazzi pregiati, il
vasellame moresco conquistato da mio padre a Granada fu pulito e lucidato per il banchetto. E poi…
arrivò lui. Viso butterato, due occhietti pallidi, diciamo suini, miope, labbra sottili, collo da pollo,
capelli laidi, salute cagionevole: un cafone borioso con pretese da signore. Eloquio privo di spessore,
da teologo provinciale, magniloquente e fatuo».
Sempre più interessata al racconto della cugina, Luisa appoggiò il viso sulle punte delle dita,
attenta a ogni singola parola.
«E che cosa gli hai detto quando ti si è avvicinato?», le domandò curiosa.
«Che se la metà delle gesta che narrava corrispondeva al vero, il nostro desco era onorato da un
miles gloriosus di calzamaglia stretta, vigore spuntato e logore mutande».
Luisa soffocò una risata con un attacco di tosse repentino e assai opportuno.
«E lui, che cosa ha risposto?»
«Che, secondo gli insegnamenti del padre, prima di essere montate, le giumente andavano domate
con la frusta, per evitare che prendessero cattive abitudini. Se non imparavano con la forza, allora il
castigo andava irrigidito fino a piegarle… o a ucciderle. Proprio come con le mogli riottose, perché in
fondo le donne servono anche loro per le stesse cose: venire montate e partorire».
Sentendosi a disagio, Isabel cambiò posizione. Quel ricordo la disgustava ogni giorno di più.
«Gli risposi che per montare bisogna prima essere un buon cavaliere, di gambe forti e fianchi
solidi, capace di resistere allo sforzo senza poi patirne le conseguenze. Invece, dall’esilità che
emanava la sua persona, avrei giurato che in più di un’occasione a essere cavalcato fosse stato proprio
lui. Feci per alzarmi dalla tavola, quando quell’animale di Suero mi disse che, nel momento in cui
fossi diventata sua moglie, avremmo ripreso la conversazione in presenza di ben altro commensale. E
fece schioccare le mani per imitare il suono della frusta».
Luisa ebbe un sussulto. Parole tanto dure corrispondevano purtroppo alla triste realtà di tante
donne. Erano obbligate ad accettare il marito scelto dai vertici del casato, e la loro opinione non
contava quasi nulla. Erano fin dalla nascita moneta di scambio con la quale negoziare il beneficio più
vantaggioso per la loro stirpe, l’onore del cognome, della rete di parentele e poteri che questo
raggruppava, al fine di difendere la purezza del proprio sangue. Le donne servivano per contrattare
alleanze, portare doti ed eredità e dare progenie al marito, padrone assoluto del loro corpo, che egli
esigeva per soddisfare le proprie necessità.
«Fuggii da Altobar quella sera stessa. Mia madre mi diede tutti i suoi gioielli, denaro a
sufficienza, indumenti maschili e un consiglio: “Cerca rifugio in casa di mia nipote, Luisa de
Medrano, finché non troviamo una soluzione a questa disgustosa faccenda”. E allora eccomi qui,
cugina».
Anche dopo aver narrato le sue sventure, Isabel ancora tremava. Luisa le porse dell’altro vino.
Sapeva bene come funzionava quel meccanismo, che in fin dei conti non era molto diverso dalla
propria esperienza, salvo che per i pericoli corsi da Isabel e il travestimento di cui si era servita.
Anche lei si era rifiutata di unirsi in matrimonio con una borsa di denaro sotto forma di marito,
malgrado le pressioni del padre che non riusciva davvero a capire la passione della figlia per le lettere
o per l’insegnamento con penna e parola. La medesima passione che alla fine l’aveva spinta ad
accettare senza indugio la sostituzione temporanea di Antonio de Nebrija.
«Nella nostra società la donna serve solo a mantenere vivo un casato, oppure a lavorare come le
bestie nei campi. Tuo padre e il mio ci hanno dato la possibilità di sognare un mondo diverso. La
regina Isabella ha tentato di trasformarlo, ma non ha ottenuto nulla».
«Eppure anche adesso ci governa una donna: Giovanna…», sussurrò Isabel.
Luisa sorrise del candore della cugina.
«A dire il vero, non so a cosa possa servire una sovrana che non riesce nemmeno a governare il
proprio cuore, e donna Giovanna ne ha già fatto dono a un uomo, insieme all’intelletto. Ormai è
incapace di amministrare. Frattanto il padre, il monarca don Ferdinando d’Aragona, e l’inquisitore
Cisneros si disputano la volontà di una donna che non vuole occupare il trono per cui tanto aveva
lottato sua madre».
Isabel annuì e si verso ancora un po’ di vino. La vista cominciava a offuscarsi, i mobili a ballarle
davanti agli occhi, ma almeno poteva dimenticare per qualche ora le sue sventure.
«Ma che cosa dovrei fare?», domandò con voce tanto bassa che Luisa riuscì a sentirla a stento.
«Dipende dai tuoi desideri, mia cara cugina».
«Scomparire».
«Un convento».
«Non voglio prendere i voti».
«Se non vuoi sposarti né farti suora, che cos’è che desideri davvero?»
«Perché, una donna non può scegliere un destino diverso da questi?»
«Una volta poteva. La regina Isabella ha cercato di cambiare questo stato di cose, ci ha addirittura
consentito di accedere all’istruzione, di seguire le lezioni di alcuni docenti di Salamanca, primo fra
tutti il cattedratico Nebrija».
«È che non ci ascolta nessuno!», mormorò la ragazza, ormai vicina a piangere.
«Temo di no», sospirò Luisa chiudendo gli occhi.
Quante volte lei stessa si era fatta quelle domande, tra lacrime silenziose ascoltate solo dalla notte.
«E tu, invece?», insistette con pertinacia Isabel, poco incline a cedere di fronte a un destino tanto
miserevole.
«A cosa alludi?», svicolò Luisa.
«Non sei sposata né promessa a qualcuno e tieni lezioni all’università».
La cugina spostò altrove lo sguardo. Da qualche tempo la corteggiava Fadrique Enríquez, un
giovane studente di Diritto, nipote ed erede dell’ammiraglio di Castiglia. Un partito cui anelavano
tutte le dame di corte. Enríquez era un uomo gentile, in grado di apprezzarla per la sua natura, non per
quello che mostrava. Una persona degna d’amore, certo. Un segreto, quello del giovane corteggiatore,
che le ricadeva sulle spalle con tutto il suo peso, e che lei si trascinava dietro nell’incapacità di
scegliere tra dare ascolto al cuore o piuttosto dimostrare il proprio valore a chiunque mettesse in
discussione la preferenza accordatale da Nebrija a scapito di altri. Al momento prevaleva la seconda
scelta, e per qualche mese il povero Fadrique aveva accettato di levare l’assedio a una fortezza tanto
solida, giusto il tempo necessario a Luisa per valutare la proposta.
«Ho sacrificato molto per arrivare fin qui. Credi forse che non aspiri anche io a trovare un uomo
con cui dividere la mia vita? Che non desideri figli da crescere con amore? Che non sogni di amare e
che per questo mi nasconda dietro ai libri?»
«Mi dispiace», mormorò Isabel, imbarazzata. «Spero perdonerai le mie turpi maniere».
«Non ti preoccupare. In fondo tutte e due, in un modo o nell’altro, abbiamo un aspetto mascolino:
tu per gli indumenti che indossi, io perché svolgo una professione da uomini. Siamo condannate
entrambe all’inferno. Almeno, ci faremo compagnia», scherzò Luisa.
Isabel scoppiò a ridere, per la prima volta da giorni.
«Sono arrivata a Salamanca per fuggire da una sicura condanna, non mi importa di accelerare il
passo verso gli inferi pur di sottrarmi al nobilissimo signore di Tilonga. Forse potrei partire per il
Portogallo e mettermi a servizio del re di quelle terre. Mio padre afferma che la mia spada è ben
capace di incutere timore».
Luisa si unì alle risate della cugina. Con un moto di affetto sincero, strinse le mani di Isabel tra le
sue. La fissò negli occhi e percepì tutta la forza che si celava dietro quel suo sguardo profondo,
candido.
«Vi sono altre possibilità, ma comportano tutte una buona dose di rischio o di disprezzo. Oggi, ad
esempio, mi sono lasciata ingannare dal tuo aspetto. Sembravi un giovane hidalgo appena giunto in
città, pronto a divorare la vita o a esserne ingoiato. Conserva per il futuro quel coraggio che mi hai
dimostrato, qualsiasi decisione tu scelga di prendere. Adesso aprimi il cuore e dimmi: cos’è che
desideri davvero?».
Per un istante, la mente di Isabel tornò alla casa natale, ad Altobar. I ricordi si mescolarono con
l’immagine del padre che gareggiava con lei in una folle corsa a cavallo. Della madre, donna Beatriz,
che ogni sera, prima di andare a letto, le insegnava a leggere i classici latini alla luce di una candela.
Del maestro d’armi di don Pedro, che elogiava la sua destrezza con la spada. «Vorrei essere un uomo»,
desiderava risponderle, ma preferì tacere per prudenza. E alla fine disse:
«Mi piacerebbe studiare, come te. Mia madre mi ha riempito la borsa di denaro e pietre preziose.
Ho di che mantenermi per un paio d’anni, o anche di più con il tuo aiuto».
«Sei uscita di senno? L’università?»
«Sì».
«Ma sei una donna!».
«Anche tu. E non molto più grande di me».
«Il mio caso è diverso. Io ho studiato tra queste pareti e i maschi che dirigono l’università mi
consentono di muovermi in uno scenario di menzogne solo perché prima di me vi ha insegnato mio
padre, e Nebrija mi ha scelta per sostituirlo per qualche mese. Quando concluderà il suo periodo di
servizio alla corte del re don Ferdinando, nessuno ricorderà più il mio nome, se non con un sorriso di
commiserazione tra le labbra. “Povera Luisa de Medrano”, dirà qualcuno. “Del resto, cosa pretendeva:
un incarico riservato agli uomini?”».
«Allora insegnami a diventare uno studente».
«In sottana?», rise la cugina.
Isabel gonfiò fiera il petto, come un paladino della frontiera: «Con giubba e spada!».
Luisa si alzò, infastidita. Mosse qualche passo, si soffermò con lo sguardo sulle fiamme del
focolare e, dinanzi a quel crepitare, cominciò a plasmare una folle soluzione.
«Sei pazza come la regina Giovanna», sospirò rassegnata. «D’accordo, puoi fermarti qui finché
non troveremo un rimedio alle tue sventure. Ti insegnerò tutto ciò che so, se è questo che desideri, se
il tuo sommo desiderio è davvero quello di studiare».
I graziosi lineamenti di Isabel si illuminarono di colpo.
«Accetto».
Ignorava ancora, Luisa de Medrano, quanto si sarebbe pentita di quella offerta d’aiuto.
5
Ogni giorno moriamo, ogni giorno cambiamo
Quando la governante del dottor Rodrigo Maldonado entrò nell’ufficio del suo signore, lo trovò
intento a lavorare con il cancelliere, come ogni pomeriggio. Era solito, invero, amministrare
l’università dalla propria residenza, che il duttile umorismo degli abitanti di Salamanca aveva finito
per denominare Casa delle conchiglie. Al fondo del curioso soprannome vi era la facciata principale,
decorata con più di trecento gusci di capesante, un elemento araldico che rivelava, a chi fosse in grado
di decifrare il codice, che il proprietario apparteneva all’antico Ordine di Santiago.
Quando vide Eldemira de Avilés, il rettore poggiò la penna sul tavolo, badando a non spargere
l’inchiostro sulla carta. La governante sapeva fin troppo bene che Maldonado non gradiva essere
disturbato, se non per cause di forza maggiore. E questa lo era senz’altro, a giudicare dall’espressione
di Eldemira, più aspra del solito. Tutto lasciava pensare a un’incombenza complicata.
«Che diavolo succede, Eldemira?», strepitò.
La donna serrò i pochi denti che le rimanevano, si passò la mano sugli indumenti per mettersi in
ordine e si drizzò, seccata dal tono usato da don Rodrigo. Come osava trattarla in quel modo, quel
converso miracolato? Forse si considerava migliore di lei solo perché godeva della benevolenza dei
re? L’amicizia di un monarca è volubile, aria fugace che carezza il volto o lo fustiga impietosa. Ciò
che invece non alterava la volontà del sovrano non erano titoli o ricchezze colossali, ma la purezza del
sangue, la possibilità di mostrare un’ascendenza scevra di macchia ebrea, conversa o mora. Era questa
la grande differenza tra il padrone e la governante. Eldemira annoverava tra i propri avi illustri
discendenti di don Pelayo, re delle Asturie, per quanto la sua famiglia fosse stata sempre spiantata.
Quanto a Rodrigo Maldonado e a tutta la sua alterigia, tendeva a cambiare discorso quando si sfiorava
la genealogia dei suoi progenitori o il ricordo delle loro gesta, tranne quando si trattava di quella della
moglie, una Pimentel del casato dei conti di Benavente. Insomma, tra ricchezza e amicizie influenti un
converso riusciva comunque a prendere in moglie una nobile. Soprattutto se possedeva un
atteggiamento aggraziato, portamento e maniere da cavaliere d’altri tempi e lignaggio conosciuto,
come era il caso del rettore. Eldemira si dispose ad annunciare al signore e al cancelliere, il dottor Del
Palacio, il motivo del disturbo.
«Don Rodrigo, un domenicano di nome frate Álvaro de San Emiliano vorrebbe vedervi», informò
in tono pomposo. «Dice di recare un messaggio urgente per voi da parte del cardinal Cisneros».
«E allora fallo passare, stolta!», gridò nervoso il rettore.
Con l’agilità di un topo, un fraticello si introdusse silenzioso accanto alla governante. La donna
socchiuse la porta simulando discrezione, accostò l’orecchio al legno e si preparò ad accertare che
cosa succedesse di tanto misterioso all’interno della stanza perché il potente rettore dell’Università di
Salamanca e il cancelliere prendessero a gridare anche contro quel povero frate. Dal tono imperioso
del signore riuscì a carpire con una certa nitidezza una serie di insulti feroci, un paio di pugni battuti
sul tavolo e l’urlo di commiato con cui don Rodrigo finì per liberarsi dell’intruso, il quale si affrettò a
sottrarsi alle ire del rettore per poi trovarsi faccia a faccia con l’indiscreta domestica. Eldemira finse
di infastidirsi per quel contatto e, con un tono di voce talmente autoritario da gelare il sangue nelle
vene, e che solo lei riusciva ad assumere a dispetto della sua bassa statura, ordinò a una delle giovani
al suo servizio di accompagnare il frate all’uscita, mentre lei attendeva sulla porta come un cerbero in
sottana. Di lì a qualche istante, tornò alla carica.
«E adesso che diavolo vuoi, donna? Non vedi che sono occupato con il dottor Del Palacio?»
«La vostra congiunta, Luisa de Medrano, chiede di essere ricevuta, come ogni settimana, ma se
preferite che la congedi…».
Rodrigo Maldonado sospirò, stufo, stanco, irritato, imbarazzato, con una discreta voglia di
strangolare la governante. Velleità, questa, che si faceva sempre più frequente; cosa che lo
preoccupava. Eldemira svolgeva il proprio dovere, certo, e sua moglie, ormai defunta, riponeva totale
fiducia in lei. Ma non gli piaceva quel suo modo di parlargli, né il disprezzo con cui si rivolgeva al
resto degli inservienti al servizio della casa, neanche fosse la regina di Castiglia. Prima o poi avrebbe
dovuto farle una bella rampogna. Nel frattempo, la visita di Luisa lo avrebbe aiutato ad attenuare la
collera e a calmarlo.
«Prego!», bofonchiò alzandosi per andare ad accoglierla.
Accanto al viso di Eldemira comparve l’inconfondibile e grazioso volto della giovanissima Luisa
de Medrano. Non poteva esserci più contrasto tra le due donne: una era dolce, dallo sguardo luminoso
e intelligente, le maniere cortesi, i gesti gentili e un eloquio ameno. L’altra era una vecchia pettegola
del Nord, un pezzo di legno sussiegoso cui si associava alla perfezione la massima del “mi piego ma
non mi spezzo” e che spiegava a dovere come mai tanti uomini preferissero ritirarsi in un monastero,
piuttosto che condividere la propria vita con un’arpia del genere.
«Vieni pure, mia cara».
«Non voglio disturbarvi, zio», rispose al rettore in tono familiare.
La giovane spostò lo sguardo sul cancelliere. Non aveva confidenza con l’uomo, così si chinò in
avanti in una delicata riverenza a quella colonna cattedratica dal portamento distinto, sobrio e
dignitoso. Non c’era nell’Università di Salamanca uomo più rispettato di Del Palacio, di pari onore
forgiato con impegno e dedizione. L’integrità morale e due dottorati – in Diritto civile e Medicina –
ne avallavano le qualità accademiche, senza contare quella religiosa, che si dava per scontata
considerato il suo status di sacerdote.
La sua carica accademica, la seconda per importanza dopo quella del rettore, gli consentiva di
conferire o negare titoli universitari, giudicare e risolvere contese giudiziarie e rispondere della
propria condotta solo dinanzi al papa di Roma. Poteva addirittura scomunicare chiunque avesse a che
fare, in un modo o nell’altro, con l’università. Un potere che, in ultima analisi, gli consentiva di
vincolare pressoché l’intera popolazione di Salamanca.
«La tua presenza è in grado di rendere gradita anche una giornata difficile come questa», sospirò
Maldonado.
«Qualche alterco tra studenti?», indagò Luisa. «Alle Scuole mi hanno riferito che l’ultima
votazione in cattedra è stata caratterizzata da più di una coltellata».
Il rettore scosse la testa.
«Bisognerebbe cambiare sistema. È assurdo e senza dubbio irriverente che una decisione tanto
importante sia affidata ai voti degli studenti, capaci di vendere l’anima al diavolo per un gruzzolo
sostanzioso».
«E la offrono anche a buon prezzo».
«Una buona bevuta, a quanto mi hanno detto», commentò divertito il cancelliere.
I due uomini più potenti dell’Università di Salamanca scoppiarono entrambi a ridere.
«Magari fosse solo questo», intervenne di nuovo Del Palacio. «Non hai saputo che cosa è successo
ieri?»
«A cosa vi riferite, don José?»
«Fra’ Bartolomé, il cattedratico di Astronomia. Due giorni fa è stato assassinato alle Scuole
maggiori».
Lo stupore per la notizia fece indietreggiare Luisa.
«Impossibile», disse rifiutandosi di accettarlo. «Avantieri siamo rimasti insieme tutto il
giorno…».
Maldonado le rivolse un sorriso velato di tristezza.
«Sappiamo del rapporto sincero che vi univa, dell’affetto che provava per te. Mi dispiace davvero,
ma così stanno le cose».
«È venuto in visita a casa mia», spiegò Luisa, incapace di accettare la notizia, di trattenere le
lacrime. «Ha parlato senza posa di una questione che aveva tra le mani e che a suo dire poteva
cambiare il corso della storia…».
Il rettore e il cancelliere si scambiarono uno sguardo. Un gesto che non passò inosservato agli
occhi della giovane.
«Chi è stato?»
«I miei ufficiali giudiziari hanno già avviato le indagini sulla morte del professore. L’assassino ha
avuto anche il pessimo gusto di segnare la parete con un victor. Sembra che cercasse qualcosa».
Luisa impallidì di colpo. Dovette sedersi per non svenire.
«Ma cosa?»
«Di impossessarsi delle sue scoperte?», azzardò Maldonado.
«Fra’ Bartolomé le condivideva a stento», mormorò Luisa.
«Con te sì, a quanto sembra».
«Che cosa volete dire?»
«Che potresti trovarti in pericolo, mia cara», l’ammonì il cancelliere. «Per tua sicurezza, dovresti
abbandonare la cattedra e allontanarti da Salamanca».
Luisa trasalì. Se avesse lasciato l’incarico, lo avrebbe perduto per sempre. No, non avrebbe mai
accettato di fuggire per paura.
«Pensaci bene. Si avvicinano tempi duri per tutti», insistette Del Palacio.
«Non vi seguo, cancelliere».
«Arrivi in un momento complicato, Luisa», intervenne Maldonado. «Tra qualche settimana mi
ritroverò sulla groppa una rogna non da poco: un inquisitore. Immagino che venendo qui avrai
incrociato il suo emissario. Un cane selvaggio, inviato per tendermi un agguato e azzannarmi al primo
passo falso. Da quando ha istituito l’università di Alcalà, Cisneros vuole la mia testa come trofeo, ne
sono a conoscenza già da tempo. Siamo accomunati entrambi dallo stesso interesse per la conoscenza:
il mio secondo libertà, il suo sotto il rigido controllo delle proprie regole. Vuole avere ai suoi piedi sia
Alcalà che Salamanca, e uno di noi due è dunque di troppo». Sorrise pensieroso. «Vediamo se indovini
l’ultima trovata». Accartocciò la lettera tra le forti dita.
«No…», rispose Luisa con ritrosia.
«Vuole te. L’unica persona che gli interessa in questo momento sei tu o, per amor di precisione, tu
rappresenti la strada per troncare la mia e strangolare l’università finché non si pieghi alle sue
riforme. Cisneros pretende che gli dia spiegazioni dettagliate sulla tua nomina, e che accetti uno dei
suoi favoriti quale garante della morigeratezza cristiana e come guardiano della sua ipocrita moralità.
Ed ecco allora la nomina di questo personaggio a ispettore reale o riformatore. A breve sentirai anche
tu il suo fiato sul collo».
«L’università non ha mai avuto una carica del genere, che io ricordi».
«Hai ragione. Donna Isabella e suo marito hanno sempre avuto a cuore la libertà dell’università.
La sovrana aspirava a fare dell’ateneo un punto di forza dei suoi regni, capace di superare perfino il
prestigio di Bologna, come ben sai, un cuore pulsante dal quale irrorare di sangue nuovo tutte le
istituzioni della corte. Molti attendono pazienti che commettiamo un errore per tornare alle vecchie
consuetudini dei nostri avi, quando sulla voce dei saggi in materia di giustizia e dei dotti di scienze
umane si levavano quelle dei grandi del regno e del clero. La scomparsa di donna Isabella ci lascia
nelle mani di questo invadente di Cisneros, almeno finché egli rimarrà tutore della regina Giovanna e
governerà la Castiglia in suo nome. Maledizione! Quanto rimpiango don Ferdinando! Se l’aragonese
tornasse a occuparsi di questo branco di stolti, più di uno sceglierebbe subito l’esilio».
Maldonado colpì il legno solido dello scrittoio, tanto forte da far scricchiolare le ossa della mano.
Luisa ne conosceva bene il carattere e tentò di calmarlo, ma il rettore non cercava conforto, ma una
buona spada e il giusto pretesto per giustificare una morte, se non qualche studente desideroso di
compiacerlo, disposto a pestare come si deve l’inquisitore domenicano che volevano piazzargli sul
groppone.
«Può anche darsi che sia una brava persona. Sapete già di chi si tratta?»
«Juan Ruiz del Monte, signore di Candrín. Dio del cielo! Non so nemmeno dove sia questo
posto…».
Il cuore di Luisa cominciò a battere nervoso. La coincidenza era solo frutto del caso? Che ci
faceva a Salamanca?
«Nelle Asturie», rispose a bassa voce. «Ma ditemi, sapete altro sul suo conto?»
«Non molto. Un personaggio oscuro, di cognome e maggiorasco1 poco comuni», prese la parola il
cancelliere. «Un meschino arrampicatore sociale che è riuscito a laurearsi presso il Sant’Uffizio. Un
inquisitore avvezzo a estirpare le erbacce dalle terre di Granada e a porgere all’Onnipotente anime a
sufficienza perché si dedichi a separare i giusti dai peccatori. Un compito che svolge con tale premura
che non distingue i colpevoli dagli innocenti. L’ho incrociato già due volte a corte, e posso affermare
di non aver mai visto un tipo altrettanto subdolo e vile. Né un calcolatore più scaltro. Se il mio destino
fosse nelle sue mani, ti assicuro che questa testa sarebbe già finita alla forca in plaza del Azogue.
Cotidie morimur, cotidie commutamur».
«Ogni giorno moriamo, ogni giorno cambiamo», tradusse Luisa a bassa voce.
Se qualche innocente avesse dovuto ardere sulla pira dell’odio di frate Juan Ruiz del Monte,
sarebbe stata sua cugina, Isabel de Vargas. La donna che ne aveva sfidato l’autorità respingendo il suo
unico nipote ed erede. Luisa avvertì un nodo alla gola. Vedendola impallidire, il cancelliere le si
accostò e le prese la mano.
«Ti senti bene, cara?».
1 Antico istituto giuridico spagnolo. Il primogenito ereditava l’intero patrimonio familiare, che in tal modo era tutelato e non andava
disperso. I fratelli minori, o cadetti, non potevano contrarre matrimonio ed erano destinati alla carriera ecclesiastica o militare (n.d.t.).
6
La fortuna arride agli audaci… e ai pazzi
Durante quei primi due giorni a Salamanca, Isabel provò a dimenticare le sue afflizioni girando
per le strade della città in compagnia di Catalina, la governante di fiducia dei Medrano, aquila severa
che vegliava sulle buone maniere e sull’onore propri di una dama, bloccando sul nascere qualcuna
delle sue folli pretese di curiosare qui e lì, che avrebbero comportato più di un grattacapo. Ma a nulla
servirono i rimproveri di Catalina né gli ammonimenti di Luisa: Isabel de Vargas voleva scoprire il
mondo con i propri occhi, divorarlo, per la prima volta nella sua vita affamata di libertà.
Camminarono senza requie per le vie e le piazze della città, dove incrociarono studenti di un’età
compresa tra i quattordici e i venticinque anni. Molti hidalgo, alcuni nuovi ricchi – discendenti da
generazioni di avi che avevano piegato la schiena sulla terra –, non pochi frati e chierici, lavandaie,
governanti, commercianti, artigiani, erbivendoli e macellai, osti di aspetto malevolo, domenicani,
francescani, benedettini, illustri cattedratici, teologi, grammatici, giuristi, medici e astronomi. Tutti
trovavano dimora in una Salamanca tanto lontana dal suo mondo che, ogni ora in più che trascorreva
lì, la ragazza aveva l’impressione che un miracolo l’avesse rapita al cielo sul carro del profeta Elia.
E più Isabel conosceva il mondo universitario, più sentiva di ammirare l’ingegno della cugina.
Quello dell’ateneo non era solo un mondo maschile, ma una fortezza preclusa a qualsiasi persona
estranea a usi, intrighi, maneggi fraudolenti e interessi vari vòlti a occupare cattedre e impartire corsi
universitari. Solo di rado i migliori occupavano i posti che meritavano, se privi di protezione
altolocata o di potente lignaggio.
Al mattino Luisa de Medrano si alzava presto. Le sue lezioni cominciavano alle sette e mezzo in
inverno e un’ora prima, così le aveva spiegato, in estate. Alle cinque del pomeriggio tutti i giovani
sgusciavano via dalle aule delle Scuole maggiori. La vita scorreva impetuosa per la città e a poco a
poco la sua marea finì per ingoiare anche Isabel, conquistata dalla magia della conoscenza.
Due giorni dopo il suo arrivo, però, quella gioia doveva già spegnersi. Luisa era appena tornata
dalla visita di cortesia al rettore Maldonado. Affannata e priva di energie, non riusciva nemmeno ad
articolare le parole, mentre il respiro incostante le alzava e abbassava il petto, le guance erano
infiammate. Catalina le porse un po’ d’acqua e una sedia perché si riavesse.
«Lasciaci sole, per favore», furono le prime parole della signora una volta recuperato il fiato.
La governante obbedì senza dire nulla. Non appena la porta assicurò la riservatezza delle due
donne, Luisa afferrò inquieta le mani della cugina.
«Che succede? Così mi spaventi».
«Vieni, siedi qui vicino», la invitò Luisa. «Dio si prende gioco di te, non c’è dubbio».
«A cosa alludi?»
«Ruiz del Monte si stabilirà a Salamanca per un paio di mesi. Me lo ha appena comunicato il
rettore».
Isabel sentì un brivido correrle lungo la schiena.
«Se scopre che alloggio in casa tua, mi ucciderà. Peggio ancora, mi costringerà a sposare il
nipote…».
Luisa annuì in silenzio. La situazione non ammetteva toni garbati.
«Devi fuggire, altrimenti appena arriva ci rinchiuderanno a tutte e due».