Presentazione all`edizione Italiana pubblicata

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Presentazione all`edizione Italiana pubblicata
Presentazione dell’edizione italiana
Fra le proposte editoriali recenti, La grande fuga di Angus
Deaton è un libro importante, originale, autorevole e va letto.
In queste pagine cercherò di spiegare perché.
Angus Deaton nasce matematico, studia presso l’Università
di Cambridge, medita di diventare «filosofo della scienza»,
ma alla fine – siamo all’inizio degli anni Sessanta – prende a
frequentare i corsi di economia. Nella sua rievocazione, scrive:
Mi resi conto che l’economia mi si addiceva molto più della matematica. […] Capii che l’economia comprendeva tre aspetti: la teoria,
che illustrava i meccanismi e le vicende del funzionamento del mondo
e indicava come si sarebbero potuti collegare i vari aspetti; i fatti, che
avrebbero potuto essere interpretati mediante la teoria, che avrebbero
potuto contraddirla, oppure generare solo disorientamento; la scrittura
(il cui apporto è molto sottostimato in economia) che poteva spiegare i
meccanismi in modo da renderli convincenti, o esporre gli insegnamenti
derivanti dalla combinazione dei fatti con la teoria1.
La fuga dalla matematica per abbracciare l’economia fu
una scelta azzeccata. A Cambridge Deaton entra alla corte di
sir John Richard Nicholas Stone (1913-1991), futuro premio
Nobel per l’economia, e con Stone comincia a lavorare. Da
allora, e sono passati ormai più di quattro decenni, Deaton
contribuisce alla letteratura scientifica con una montagna di
articoli e testi scientifici, straordinariamente ben scritti, profondi, densi, spesso occasione di notti insonni per gli studenti
aspiranti economisti.
Angus Deaton, Puzzles and Paradoxes. A Life in Applied Economics,
in Michael Szenberg e Lall B. Ramrattan (a cura di), Eminent Economists.
Their Life and Work Philosophies, Cambridge, Cambridge University Press,
vol. II, 2014, p. 85, corsivo mio.
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Pochi, alla luce di questa premessa, possono sospettare
che dalla penna del professor Deaton sia uscito un testo tanto
accessibile e piacevole da leggere quanto ricco di contenuti
qual è La grande fuga.
Al centro del libro è l’evoluzione plurisecolare del benessere del mondo.
Credo che ciascuno di noi – ossia, ciascuna delle persone tanto
fortunate da essere nate nei paesi «giusti» – abbia l’obbligo morale di
contribuire a ridurre la povertà e la cattiva salute nel mondo. Quelli
che sono fuggiti – o quantomeno le persone oggi libere grazie alle lotte
di coloro che le hanno precedute – hanno il dovere di soccorrere chi
è rimasto prigioniero (infra, pp. 35-36).
È questo lo spirito che anima Deaton: vuole spiegare cosa è
accaduto (la doppia fuga dalla morte prematura e dalla miseria
del passato); chi ne ha beneficiato (non tutti i popoli sono
riusciti a prendere parte alla fuga); perché alcuni sono riusciti
mentre altri hanno fallito. Alla fine, affronta anche il tema più
difficile, quello che riguarda il futuro: le minacce al benessere
acquisito, le speranze di difenderlo, gli sforzi per condividerlo
con coloro che ancora vivono prigionieri del passato.
Sul piano della leggibilità, com’è noto la contrapposizione
fra «stile» e «contenuti» è una falsa contrapposizione – l’impianto teorico ed empirico di un testo scientifico e lo stile
con cui il testo è scritto sono una cosa sola, «come il tuorlo
e l’albume nelle uova strapazzate»2. Deaton, che non scrive
rivolgendosi soltanto agli esperti della materia, ne è pienamente consapevole e mostra di conoscere e praticare la «retorica
dell’economia». Il lettore lo scoprirà, credo con piacevole
sorpresa, fin dalle prime pagine.
Al tratto stilistico, si aggiunge il respiro storico, dovuto
all’influenza di Simon Kuznets (1901-1985), economista premiato col Nobel per gli studi sullo sviluppo economico di
lungo periodo. Come Kuznets, Deaton cerca costantemente di
calare il dato nel contesto storico da cui nasce. I dati non sono
dati: «Da dove vengono i numeri che compaiono nei dati?», si
chiede nelle pagine dedicate all’analisi delle statistiche vitali (i
tassi di mortalità e di natalità, per esempio). «Come veniamo
2
Deirdre N. McCloskey, The Rhetoric of Economics, Madison, University
of Wisconsin Press; 19982, p. 10.
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a conoscenza di questi dati?», si domanda discutendo di tassi
di cambio.
Ammettere che i dati possano essere incerti non alimenta
uno scetticismo indiscriminato: i dati, per quanto manipolabili
e interpretabili, non consentono di affermare tutto e il contrario di tutto. Leggendo La grande fuga, il lettore acquisisce
accortezza, si predispone a un atteggiamento critico, si allena a
tenere alta la guardia contro la fallacia di ciò che a prima vista
sembra incontrovertibile. Da questo punto di vista, il lettore
si arricchisce di strumenti critici per affrontare le cronache
economiche: La grande fuga insegna a distinguere la pula dal
grano, il dato buono da quello cattivo.
Sul piano dei contenuti, il libro pone domande fondamentali alle quali offre, sempre, più di una risposta. L’autore ha
l’abitudine di mostrare facce diverse dello stesso problema,
ma alla fine non si sottrae alle proprie responsabilità, prende
posizione e suggerisce la risposta che appare, teoria e dati alla
mano, più convincente. Questo è fare buona economia, ma
anche buona divulgazione scientifica.
La prima e più importante domanda sottesa al libro riguarda
il modo in cui si concretizza la grande fuga: come ha fatto l’uomo
ad abbandonare il mondo pre-industriale, regno della stagnazione economica e della miseria, e trovare la strada per il mondo
moderno, patria del progresso e della prosperità? Nello spazio
di un capitolo, il primo, Deaton ripercorre un arco temporale
che va dal Neolitico alla Seconda guerra mondiale, e racconta
i progressi registrati sul fronte della salute e della ricchezza.
Il lettore italiano acquista così la prospettiva che gli consente
di apprezzare a) la fortuna di essere nato nel posto giusto e
al momento giusto della Storia, b) il ruolo della conoscenza
(istruzione) e della tecnologia, quali fattori cruciali per spiegare
il successo della fuga e c) il carattere sperequativo del processo
di sviluppo economico. «Il cammino verso un mondo migliore – scrive Deaton – produce differenze; le fughe producono
disuguaglianze»3. La sfida riguarda la capacità della società di
proseguire la fuga e quella di gestire le tensioni che l’innovazione
tecnologica, necessaria alla crescita economica quanto l’acqua lo
è per la vita, genera nel tessuto sociale. Un mondo di differenze
che si ampliano può non essere semplice da governare.
3
Deaton, Puzzles and Paradoxes, cit., p. 89.
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Deaton licenzia il libro mentre è ancora in atto la Grande
recessione – una crisi economica mondiale iniziata nel 2007
e, almeno in Italia, non ancora terminata. Nei momenti di
difficoltà i paesi, al pari delle persone, tendono a ripiegarsi su
se stessi: aumenta l’intolleranza, come pure l’etnocentrismo.
Trovo particolarmente utile, in simili circostanze, alzare lo
sguardo e osservare – seguendo la narrazione di Deaton –
quanto accade non solo in Europa e negli Stati Uniti, ma
anche in Cina, India e Africa. Così facendo si sale di quota,
fino a raggiungere una posizione che consente di scorgere i
lineamenti della geografia del benessere contemporaneo. Da
questa prospettiva si comprende con chiarezza, per esempio,
che la crescita economica non si traduce automaticamente in
un miglioramento della salute della popolazione. Gli italiani
conoscono questo fenomeno perché ha caratterizzato la loro
storia postunitaria4, ma apprendono che la stessa lezione si
applica ancora oggi ad altri paesi del mondo. Se l’obiettivo è
il benessere dei cittadini, diventa necessario guardare oltre il
Prodotto interno lordo. La lezione non è nuova per il lettore
informato, ma fatica a trovare ossigeno nel dibattito politico e
istituzionale del paese. Bene dunque ripeterla e documentarla.
La grande fuga contiene, per citare un ultimo esempio,
una riflessione, non necessariamente condivisibile, s’intende,
sul ruolo degli aiuti internazionali. Come aiutare i popoli che
non sono ancora riusciti a fuggire dalla miseria? Un miliardo,
ma forse più, di persone vive ancora in condizioni di povertà
estrema. Cosa fare? Numerosi autori hanno sostenuto che gli
aiuti internazionali sono uno strumento importantissimo per
contrastare la povertà là dove è più persistente. Molti di noi
avvertono un obbligo morale ad aiutare il prossimo.
Deaton esamina la storia dei paesi che ricevono aiuti e
conclude che questi ultimi non favoriscono la crescita economica: al contrario, contaminano la politica locale, alimentano
la corruzione, indeboliscono le istituzioni, mettono a rischio
la democrazia.
Benché una parte di questi aiuti esterni abbia certamente avuto
effetti positivi – si pensi alla lotta a malattie come l’Hiv/Aids o il vaiolo –,
sono dell’opinione che essi siano per lo più nocivi. Se il loro effetto è,
4
Giovanni Vecchi, In ricchezza e in povertà, Bologna, Il Mulino, 2011.
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come credo, quello di compromettere le opportunità di crescita di un
paese, è irragionevole continuare a erogarli soltanto perché «è nostro
dovere fare qualcosa». Ciò che dovremmo fare è fermarci (infra, p. 36).
Che gli aiuti internazionali non solo falliscano nel loro
scopo, quello di aiutare i popoli che li ricevono, ma che addirittura siano nocivi è una conclusione in grado di suscitare
non solo interesse, ma anche un dibattito appassionante. A
pochi mesi dall’uscita della Grande fuga, Bill Gates non ha
esitato un attimo, per esempio, a criticare questa conclusione
(«un libro eccellente – si legge nel suo blog – con un grande
difetto»), rimproverando Deaton di fare di tutta l’erba un
fascio. I programmi incentrati sulla salute e l’innovazione
agricola sono proprio quelli – sostiene Gates – che aiutano i
poveri a trarre vantaggio dalle innovazioni tecnologiche tanto
lodate da Deaton.
Alla fine, a prescindere dalle diverse posizioni, Deaton
insegna che l’economia è fatta oltre che di modelli, dati e
capacità narrativa, anche di partecipazione e di politica. La
grande fuga ci riporta all’economia politica da cui iniziarono
i lavori, qualche secolo fa, i padri fondatori della disciplina.
What comes next è il titolo originale del poscritto, un testo breve e incisivo. «In effetti – scrive l’autore – negli ultimi
duecentocinquant’anni abbiamo assistito a progressi senza
precedenti. Ma duecentocinquant’anni non sono un periodo di
tempo molto lungo se messo a confronto con la sopravvivenza
plurisecolare di alcune civiltà del passato, certe anch’esse di
essere destinate a durare per sempre» (infra, p. 363). Il tema
al centro delle riflessioni conclusive è dunque quello della
sostenibilità del livello di benessere raggiunto. Esistono forze
interne allo sviluppo economico capaci di metterne a rischio
l’esistenza? Saremo ricchi per sempre?
La posizione di Deaton è ottimista. Il mondo è andato
migliorando e ci sono tutti i presupposti per credere che continuerà a migliorare. La lista dei pericoli è lunga – l’autore non
la nasconde sotto il tappeto – ma prevale, alla fine, l’ottimismo.
«La scienza, indubbiamente, funziona», è una delle ultime frasi
del libro: il futuro proseguirà per il meglio, come sempre è
avvenuto in passato.
È vero, ma arrivati al termine della lettura, un dubbio
sorge, perché la lezione distributiva della Grande fuga l’ab-
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biamo imparata: anche nello scenario più ottimista, quello di
un mondo destinato a migliorare, l’ottimismo o il pessimismo
su ciò che ci attende dipendono fatalmente dalla parte del
mondo in cui si trova il lettore. Lo sviluppo economico non
è un processo uniforme – lo disse Kuznets mezzo secolo fa e
lo ha ribadito Deaton con la sua analisi: tutto dipende dunque
dalle coordinate geo-spaziali del lettore e dalla sua posizione
nella scala sociale.
In altre parole, se è innegabile riconoscere la centralità
della scienza quale fattore propulsivo dello sviluppo, è necessario considerare anche le disuguaglianze che emergono e si
ingenerano durante il processo di crescita. Non si tratta solo e
soltanto delle distanze fra il reddito dei ricchi e quello dei poveri, ma dei mutamenti che trasformano in profondità il tessuto
sociale. Se la scienza non beneficia tutti nella stessa misura, né
nel breve né nel lungo termine, allora gestire il cambiamento
che accompagna l’innovazione tecnologica diventa un fattore
di primissimo piano. Diventa cioè fondamentale la «capacità
sociale» (social capability) di cui parla Moses Abramovitz5,
nel secondo articolo più citato di tutti i tempi del «Journal
of Economic History»: le opportunità tecnologiche, per essere
colte, richiedono adattabilità da parte della società, delle sue
istituzioni, dei suoi cittadini.
Gli economisti, purtroppo, non hanno una ricetta per
creare capacità sociale. La scienza costituisce dunque una condizione necessaria, ma non sufficiente per sposare una visione
di incondizionato ottimismo: la grande fuga, per continuare,
richiede la capacità di gestire gli equilibri che scienza e innovazione alterano. Agli italiani, impegnati da oltre vent’anni a
riavviare i motori della crescita con disuguaglianze economiche
in aumento, è un discorso che interessa molto.
Giovanni Vecchi
5
Moses Abramovitz, Catching Up, Forging Ahead, and Falling Behind,
in «The Journal of Economic History», 46, 1986, n. 2, pp. 385-406.