un successo davvero “favoloso”
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un successo davvero “favoloso”
18 - Trieste Artecultura - dicembre 2014 Noterelle a margine del “Leopardi” di Martone UN SUCCESSO DAVVERO “FAVOLOSO” di Michele De Luca L’accoglienza riservata da giornali e settimanali al film di Mario Martone Il giovane favoloso, dedicato a Giacomo Leopardi e presentato alla “Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia”, sorprende per il quasi unanime ed entusiasta consenso: il film è “bellissimo”, e anche “coraggioso”, “grande”, “uno struggente film sulla giovinezza”, “un grande film sul nostro tempo e su un cinema che può ancora inventare spazi liquidi di resistenza” (sic!...), “un film bello e importante”, “uno dei più straordinari e originali di Martone”, “un film fatto bene, anzi un capolavoro”, “bellissimo, struggente e illuminante”, “uno dei film più importanti realizzati dal cinema italiano negli ultimi anni”, “di grande suggestione formale ed intensa drammaticità”, “ironico, ribelle, inquieto e vagabondo, sfrontato, dirompente”, “importante, piacevole nei dialoghi e profondo”. Si tratta comunque, per lo più, di “dispositivi” di sentenze a cui non fanno seguito le “motivazioni” che supportano questi lapidari giudizi; per il resto - fatta qualche eccezione le recensioni, a una lettura “sinottica”, risultano decisamente conformi, come dei copia-incolla di lacerti di comunicati stampa o stralci di conferenze stampa e interviste; d’altra parte gli inviati dei giornali devono correre da una proiezione all’altra e non si può pretendere di più da loro, né aspettarsi che siano tutti dei “leopardisti”. Negli articoli, poi, si va immediatamente al riassunto di quello che il film racconta, a partire dalle “gabbie” da cui Leopardi vuole fuggire (e che - come dice Martone - “sperimentiamo nella nostra vita: famiglia, scuola, lavoro, società, cultura e politica”; questo delle “gabbie” è un vero “tormentone” che rimbalza nelle recensioni). Quindi viene sottolineato che il Recanatese è “nostro contemporaneo”, è un rivoluzionario, un ribelle, amava la giovinezza e la vita; e poi, i paragoni, con Pasolini, con Mozart, con Schubert, con Kurt Cobain; e, finalmente, un Leopardi lontano dal “nozionismo scolastico, con i suoi luo- ghi comuni”, dai “libri di testo”, libero “dai pesi di un’antica retorica”; e poi, a riprova che il film “ha centrato l’obiettivo”, viene annotato che “è stato accolto con dieci minuti di applausi”. Si leggono, inoltre, banalità, tipo Elio Germano che dice: “Leopardi ci insegna a vivere le nostre illusioni”; il regista: “non è necessario aver letto i versi del poeta, servono solo l’anima e il cuore” (“ànema e core”). Il titolo dell’articolo di Roberto Saviano su L’Espresso del 16 ottobre, giorno dell’uscita del film nelle sale, è Leopardi liberato. Ironico. Appassionato. Rivoluzionario. Finalmente lontano dai luoghi comuni sulla bruttezza e l’infelicità. Ci ha pensato Martone, dopo quasi due secoli di superficialità, a dargli luce con il suo film come “ricercatore di felicità, di verità e di libertà”; Bernardo Bertolucci che, prima di vedere il film, in preda a un “dubbio” tipicamente leopardiano, aveva chiesto a Martone: “Mario, ma come puoi pensare di filmare la poesia?”, all’uscita dalla prima proiezione privata, per pochissimi amici, si è dato da solo la risposta: “Ecco, così si filma la poesia” (v. Curzio Maltese in “La Repubblica”, 2 settembre). Dubbi o riserve esplicite sul film non si colgono nelle recensioni tutte elogiative, di autorevoli critici, come 18 - Trieste Artecultura - dicembre 2014 Escobar (L’Espresso), Paolo Mereghetti (Corriere della Sera) e Paolo D’Agostini (La Repubblica), i quali, rispettivamente, come giudizio finale però danno quattro asterischi su cinque, tre asterischi su quattro e cinque palle su sei; va da se che la parte più interessante di queste recensioni sta forse in quello che non hanno scritto, cioè nei motivi che li hanno indotti a non dare il voto pieno. Certamente più approfondimento si coglie in recensioni non positive. Scrive Federica Polidoro su Artribune: “I dialoghi risultano troppo teatrali e ingessati in alcuni passaggi e le poesie recitate per intero dal protagonista, come nei saggi scolastici di fine anno, esasperano l’aspetto didascalico e falliscono l’intento di rendere il personaggio secondo i mezzi del cinema. Elio Germano è credibile nel ruolo ed è chiaro che si impegna. Ma solo a tratti è all’altezza del compito: il lampo empatico sparisce presto sotto una narrazione piatta e stantia, priva di vita e di genio”. Di “didatticismo accademico”, del resto, il film è stato rimproverato dalla rivista americana di cinema Variety (che ha criticato anche il titolo del film, che in America sarà semplicemente Leopardi) sentenziando: “Il film è troppo didattico e soffre per le troppe 19 - Trieste Artecultura - dicembre 2014 scene che mal si legano tra loro. In patria riceverà la spinta dei critici locali, ma all’estero non uscirà dal circuito dei festival e dalle rassegne di cinema italiano”. Nella classifica sui film presentati a Venezia stilata da Isabelle Reigner per Le Monde, il film è al sesto posto, mentre Henry Barnes Xan Brooks, per The Guardian, lo ignora tra i primi undici, mentre al quinto posto sceglie Pasolini di Abel Ferrara. Al Toronto International Film Festival, la giuria gli ha preferito il film The imitation game di Morten Tyldum, un’altra biografia, dedicata al matematico e crittoanalista britannico Alan Turing. Sul sito www.filmtv.it, Maurri 63, “nonostante le lodi sperticate di buona parte della stampa”, parla di “maniera accademica (del film), troppo leccata, e decisamente finta”; Melvin II sulla rivista online www.mymovies.it (“Il cinema dalla parte del pubblico”) tra l’altro scrive che “la regia di Martone è teatrale, visionaria, onirica, ma lenta e prevedibile non aggiunge un quid creativo e innovativo al prodotto” e che “forse questo progetto doveva avere uno sbocco più televisivo che cinematografico”. Si segnalano anche altri utili contributi come quelli di Ilaria Falcone (Nonsolocinema), Marco Albanese (Stanze di Cinema) e di Luca Illetterati (Le parole e le cose), che ha provocato un ricco dibattito tra i lettori. Ed ecco ora alcune mie annotazioni sul film, un po’ alla rinfusa e con beneficio del “dubbio”; a proposito, c’è una banale “caduta” nel dialogo, laddove Paolina chiede al “grande” fratello: “In cosa consiste il vero?”, e lui risponde: “nel dubbio”; una delle due o tre battute, in tutto, che fanno cascare le braccia, a cui è stata “mortificata” la brava e bella (la sorella del poeta era, invece, decisamente bruttina e non avente nulla di femminile) Isabella Ragonese; un’altra sua battuta è: “Giacomo, come va con lo Zibaldone?”. Mentre forte fu la sua presenza nella vita e negli affetti del fratello, qui completamente trascurata. La sceneggiatura del film – si dice - è stata scrupolosamente ricavata da lettere e testi di Leopardi: viene da chiedersi se lo stesso, fuori dai circoli letterari, nel suo quotidiano, nell’ambito familiare o tra gli amici, parlava come scriveva: cioè, come un “libro stampato”. Il linguista Giuseppe Antonelli ha scritto che neanche per idea: basta, a dircelo, il titolo del suo ultimo libro uscito da Mondadori, inequivocabile: Comunque anche Leopardi diceva le parolacce. E un parlare, diciamo così, non propriamente accademico, lo usava anche in alcune sue lettere; scrivendo al fratello Carlo da Roma, a proposito di alcune ragazze, scriveva: “Qui è come a Recanati, non la danno”. Quanto poi alla deformità e alle malattie di Leopardi (così le elenca, “come in un’enciclopedia degli orrori”, Pietro Citati nel suo appassionante libro Leopardi edito da Mondadori nel 2010: tubercolosi ossea, o “morbo di Pott”, per cui smise di crescere in altezza, che si fermò a un metro e quarantuno centimetri, e si svilupparono due grosse gibbosità sia nella parte anteriore che in quella posteriore del corpo, impotenza, mentre i desideri erotici accrescevano la loro forza, oftalmia, lacrimazione, stitichezza, disturbi all’apparato digerente e al basso ventre, insufficienza respiratoria, reumi di testa, di gola e di petto, emorragia al naso, asma, idropisia, bronchite, dolori addominali, gonfiore delle ginocchia e delle caviglie, versamento pleurico, inattività ghiandolare, acutissima sensazione di freddo d’inverno, per via della debolezza cardiocircolatoria), si può affermare che non abbiano avuto una qualche (significativa) influenza riguardo alla sua infelicità, alla sua poesia e al suo pensiero? Martone dice “il poeta va sottratto una volta e per tutte alla visione retorica che lo dipinge afflitto e triste perché malato”; e Fabio Ferzetti su Il Messaggero (2 settembre): basta con Leopardi “pessimista perché infelice, infelice perché storpio”. Nessun dub19 - Trieste Artecultura - dicembre 2014 bio che avrebbe potuto per lui esserci qualcosa di diverso se fosse stato di ottima salute, bello come il fratello Carlo o prestante e “sciupa femmine” come l’amico Antonio Ranieri? Ma poi, troviamo un’affermazione del regista, che appare contraddittoria, nel resoconto di Titta Fiore (Il Mattino, 2 settembre), quando dice: “La malattia di Giacomo informa la sua opera, diventa parte di lui in un processo di identificazione che mi fa pensare a Proust”. La curiosità e l’attesa erano tutte per un momento che a ragione si immaginava come clou, e cioè quello relativo al suo “canto” più celebre, L’infinito: ci si è trovati davanti ad una scena sconcertante, assolutamente inverosimile, ai limiti del ridicolo, di un Germano/Leopardi che “recita” la poesia (secondo alcuni, in ciò, secondo soltanto a Carmelo Bene …), proprio lì, sull’ermo colle; vi immaginate Pascal, in un biopic a lui dedicato, che davanti ad un canneto esclama: “L’uomo è solo una canna, la più fragile della natura; ma una canna che pensa”? Leopardi non recitava le sue poesie, si limitava a scriverle, nel ricordo. Riascoltando i maggiori attori del nostro teatro, dallo stesso Bene a Gassman, da Albertazzi a Foà, si ha la sensazione di un forte immiserimento di quel flusso di emozioni che i quindici endecasillabi più belli e intensi della nostra letteratura moderna ci riservano invece ad una nostra diretta e assorta “lettura”; mentre per la musica o per il teatro c’è bisogno di chi reciti o chi suoni, la poesia è fatta per essere “letta”, perché non ha bisogno di intermediazioni. E tantomeno di essere “filmata”. Venendo alle incrostazioni, o addirittura alle “ossessioni” scolastiche e ai “luoghi comuni” dei libri di testo da cui Leopardi è stato una volta per tutte “liberato” per essere restituito dal film al suo personaggio veritiero e fino ad ora “inedito”, è tutto da dimostrare (non è affatto una novità che egli fosse assetato di amore, pieno di passione per la vita, ribelle, rivoluzionario, ironico, sarcastico, e si è sostenuta anche la tesi - pensate - di un suo “ottimismo”, già dall’Ottocento, da parte di personaggi come Carducci, De Sanctis o Gentile; v. da ultimo un interessante saggio di Stéphanie Lanfranchi, Maître de Conférences à l’Université Jean Moulin di Lyon, (www.cle.lyon. fr). Alla scuola si possono fare mille 20 - Trieste Artecultura - dicembre 2014 addebiti (perché, ad esempio, l’Iliade e l’Odissea, tra i massimi capolavori letterari di tutti i tempi, si studiavano (non so se ancora) in seconda e terza media? Perché Leopardi, in terza liceo, viene studiato soltanto in “Italiano” come poeta, e non anche in “Filosofia” come uno dei più importanti pensatori dell’Ottocento? Ma in genere a Leopardi, come a Foscolo e a Manzoni, venivano (non so se ancora) dedicate un paio di settimane ciascuno tra lezioni e interrogazioni: che cosa si poteva (si può) approfondire di più? Va detto che la scuola non ha la possibilità e forse nemmeno il compito di soddisfare in modo esaustivo una domanda di cultura, ma di farla nascere e crescere (affidandosi all’impegno e alla sensibilità di bravi professori; e qui ha un ruolo determinante la fortuna), gettando semi che forse fruttificheranno; sta poi a ciascuno di noi di far lievitare il nostro sapere e di fare individualmente le proprie scelte culturali. Silvia (al secolo, Teresa Fattorini), nel film, spiata dal giovanissimo poeta, fa tre rapide apparizioni alla sua finestra: una volta la vediamo lavorare al telaio, la seconda scrollare una tovaglia, la terza la sentiamo tossire … così capiamo tutti che è malata di tisi e sta per morire … Per La ginestra, che conclude il film, recitata da Germano/ Leopardi sullo sfondo dello “sterminator Vesevo”, vale quanto detto per L’infinito; aggiungendo che il brano scelto è un breve stralcio da un poemetto di ben 317 versi (più lungo dei Sepolcri di Foscolo), un “canto” di difficile e di impegnativa lettura e interpretazione; per cui sorge, anche qui, il dubbio che al pubblico non ne sia rimasta in mente nemmeno una parola. Si potrà eccepire che questi piccoli rilievi non inficiano il valore complessivo dell’opera. Ma per un film “capolavoro”, in concorso a Venezia - dove peraltro non ha avuto alcun premio ufficiale, ma solo il “Piero Piccioni” per la colonna sonora da parte della Gervasuti Foundation - basta una défaillance, un cedimento perché crolli tutto l’edificio. Forse, “alla somma delle somme”, come recita Serpina ne La serva padrona, la dimensione più appropriata in cui va collocato il film, è quella che indica Corrado Augias rispondendo nella sua rubrica di lettere su La Repubblica (29 ottobre) ad un lettore: “Esiste invece un diverso tipo di divulgazione in cui, senza la pretesa di raccontare intero un personaggio o un periodo, se ne danno tuttavia tratti sufficienti a capirne la natura e il peso. Il film di Martone appartiene, a mio parere, a questo tipo di opere”. È augurabile che il film serva a risvegliare - senza pretesa di aver scoperto chissà che di nuovo - l’interesse, che già si registra in tante lettere, specie di giovani, inviate ai giornali, per la figura e l’opera del Recanatese e che dal film si passi alla lettura dei suoi testi e degli studi su di lui; anche se ci sfiora il dubbio che, mentre la trascrizione cinematografica di tanti romanzi, ad esempio dal Gattopardo, allo Straniero e alla Ciociara, abbia invogliato a leggere i libri di Tomasi di Lampedusa, di Camus o di Moravia, sembra più improbabile che si correrà in libreria a comprare i Canti, le Operette morali o - che manco si trova - lo Zibaldone … Ovviamente auspichiamo che sia così. L’arte e il grido, saggio filosofico di Stefano Crisafulli L’ARTE E LA MANUTENZIONE DEL MISTERO di Fabio Francescato “Io non posso concepire nulla che esuli dal sentimento del mistero” P. P. Pasolini Mentre Stefano Crisafulli mi parlava e mi illustrava i progressi del suo lavoro mi sembrava sempre più di essere come il celebre “tenente Colombo”. Riempivo il mio quadernetto di appunti concitati e di nomi che mi erano spesso sconosciuti. Eppure dovevo mantenere una certo tono: era stato mio allievo al Liceo Petrarca e alla Scuola di specializzazione all’Università ed ora le parti si erano invertite! In realtà su quegli argomenti la sua preparazione era senza dubbio più ampia e più profonda della mia. Mai che comparissero nomi “confortanti”: un Platone, un Sartre, un Hegel, un Cartesio. Imperava la filosofia francese contemporanea con i suoi pensatori di punta, in un impian- to teorico che non nascondeva la sua eredità della linea Nietzsche - Heidegger: un impianto che certamente non era il mio preferito! Alla fine di questi incontri, la stima e l’affetto che ho per lui ebbero la meglio: a casa avevo fatto i compiti ed avevo accettato la sfida e quindi le mia capacità di comprensione e di discussione critica erano sensibilmente migliorate. Avevo approfondito Derrida e avevo ripreso in mano Foucault. Le mie conoscenze sull’influenza dei dadaisti in campo letterario e fotografico, mi permettevano di comprendere correttamente il decostruzionismo e i suoi risvolti in campo estetico? Avevo compreso correttamente il filo conduttore del suo saggio L’arte e il grido. Percorsi filosofici tra pittura e cinema (edizioni Asterios, 2014)? Credo che il punto di partenza delle riflessioni di Crisafulli sulla pittu20 - Trieste Artecultura - dicembre 2014 ra contemporanea sia da individuare nell’abbandono della tradizionale categoria della “mimesis”, del canone estetico che da più di duemila anni aveva prescritto agli artisti di trovare nella natura il modello ideale, perfetto, da imitare: “Con la pittura del 900 e le avanguardie, questa presunta somiglianza si spezza, l’immagine non rimanda più alla cosa ‘lì fuori’, ma ad un’altra immagine, la quale rimanda ad un’altra immagine e così via. La similitudine tra immagini ha preso il posto della somiglianza tra cosa dipinta e cosa reale”. In questa prospettiva - sottolinea opportunamente l’autore l’approccio di Foucault all’arte di Magritte diventa essenziale, anche perché alla fine si allarga in modo esplicito alla pop-art e alla serialità così tenacemente ed emblematicamente perseguita da Andy Warhol.