sette passi in tibet

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sette passi in tibet
i viaggi
de
ETERNOULISSE
L’
ERNESTO DE ANGELIS
RIGEL LANGELLA
SETTE PASSI IN TIBET
CRONACHE DI SPIRITI ERRANTI
Edizioni Ludica Snc
Scegli pure questo o quel paese per essere tranquillo,
troverai dappertutto motivi di distrazione.
Ma il luogo non contribuisce molto se l’animo non si aiuta da sè.
Infatti Socrate, a un tale che si lamentava perché dai viaggi
non aveva ricavato vantaggio alcuno, rispose:
“te lo sei meritato, perché tu viaggiavi in compagnia di te”.
Che serve infatti passare il mare e cambiare paese?
Se vuoi liberarti da quello che ti tormenta,
non occorre che tu sia altrove, ma che tu sia un altro..
Seneca, Lettere a Lucillo
ERNESTO DE ANGELIS
RIGEL LANGELLA
SETTE PASSI IN TIBET
CRONACHE DI SPIRITI ERRANTI
EDIZIONI LUDICA
A Tashi
e a tutte le piccole grandi donne tibetane
con l’augurio e la speranza che possano un giorno
vedere la patria che amano e non conoscono
I Edizione: dicembre 2010 - ©CISB (Centro Internazionale di Studi Borgiani) - www.premioborgia.it
II Edizione: Ludica editore, Roma 2013 - in collaborazione con i Quaderni del CISB
www. eternoulisse.it
ISBN 978-88-908640-6-3
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I N T RO D U Z I O N E
Un’idea che viene sviluppata
e viene messa in pratica
è più importante di un’idea
che vive solo nella mente
L
’insegnamento, tratto dal Canone buddista, ci ha spronati a condividere l’esperienza del viaggio in Tibet.
A lungo - forse da sempre - abbiamo avuto desiderio di andare, sempre contrastato dalla consapevolezza di
vedere un paese oppresso. Poi, quando sono maturate le condizioni, e come si dice: è capitata l’occasione, non
abbiamo esitato ad andare per davvero, dopo tanti viaggi sui libri o nei film. Del resto dire Tibet è davvero dire:
“il viaggio della vita”. Un’idea che cova e alla fine non può vivere solo nella mente. Per questo abbiamo pensato
di condividere con gli amici cari un’esperienza che, per tanti ragionevoli motivi, non sempre e non da tutti, può
essere messa in pratica.
In un primo tempo guardando le foto degli spazi tersi, dei panorami struggenti, delle distese sconfinate, abbiamo
pensato a un piccolo libro fotografico, accompagnando le immagini con le impressioni di viaggiatori illustri, a
cominciare dai testi di Giuseppe Tucci e del Dalai Lama. Poi, mentre riordinavamo le immagini, altre idee sono
sorte nella mente, e hanno iniziato a scalpitare per non restare confinate in essa. Queste idee sono venute fuori
come la cronaca immediata, viva e vera, vissuta con gioia e fatica, di un viaggio, ma anche la condivisione di
un’esperienza che può essere universale e che potete rivivere senza troppe fatiche.
Se vi trovate tra le mani queste pagine, merito o colpa è del sensibile amico il pittore Italo Gilardi, che questi
itinerari ha percorso con i mitici trekking di Beppe Tenti.
Siamo affascinati dal tuo modo di scrivere, le tue esperienze sono esattamente le nostre, non pensavo che i
luoghi avessero conservato quel fascino che è stato delle nostre passate memorie: in fondo solo adesso capisco
perché il Roby sia così legato a quei luoghi, pasoliniani forse. Ci piacerebbe leggere ancora le vostre cronache,
mi fanno quasi ringiovanire.
gli autori
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CAPITOLO I
Da Roma a Katmandu
rriviamo nella Valle di Katmandu dopo un viaggio eccellente, iniziato il giorno prima, ovviamente. All’arrivo il “buon Gopal” (almeno speriamo
che si riveli tale) ci porta a Bakthapur, obbiettivo
Hotel Planet. Ci accoglie Francesco, il proprietario
italiano con il quale abbiamo avuto un fitto scambio
di corrispondenza via mail. L’hotel è spartano, ma le
camere sono grandi, l’atmosfera familiare, il personale sorridente e accogliente: qualcuno dei ragazzi,
a forza di bazzicare gli ospiti, parla anche un poco
di italiano. Nel pomeriggio ci riposiamo, riordiniamo
idee e valige, ora praticamente svuotate dal carico di
formaggio grana, spaghetti e caffè: qualcosa è per la
nostra “spedizione” in Tibet, un po’ di provviste sono
state richieste da Roby, altre sono per Francesco che,
anche se non vuole darlo a vedere, avrà anche lui,
qualche volta, almeno un po’ di nostalgia dei sapori
italiani, anche se ora è appena rientrato in Nepal, e
tutti quelli che sbarcano al Planet – ci puoi giurare –
avranno la mia stessa idea.
Il Planet è costruito come una casa romana, di quelle che si vedono a Ostia o Pompei: un cortile interno scoperto, sul quale si affaccia un portico coperto
che funge da corridoio, sul quale si affacciano direttamente tutte le stanze. Ma è anche il sistema costruttivo tradizionale delle case nepalesi e non solo.
Effettivamente, non siamo lontani da Bakthapur, ma
la strada ha perso l’asfalto, è sterrata e in questa stagione, ovviamente, piena di fango, però si trova in
mezzo ai resti di qualche risaia, il che fa romantico,
dato lo sconcio edilizio violento, irreversibile e brutale, subito dalla Valle di Kathmandu, invasa da un traffico inquinante e caotico come lo sviluppo (si fa per
dire) edilizio. Ci riprendiamo bene dal fuso orario e la
sera incontriamo i nostri futuri compagni: di viaggio
o di avventura? Destinazione Tibet partiremo in otto,
anche se con diversi itinerari. Conosciamo Giulio e
Marta, una coppia simpatica di Palermo, componenti
A
del nostro equipaggio e ci affiatiamo presto, parliamo
del viaggio dall’Italia e del prossimo viaggio in Tibet, sicuramente quello che si può definire il “viaggio
della vita”, per le difficoltà dell’ambiente, degli spostamenti, dell’altezza e per tante altre che ci vengono
adombrate, ma che non capisco. Almeno per ora.
Roby Robiolo, amico dei mitici Gilardi, è un personaggio davvero speciale: vive da 35 anni a Kathmandu. Ha lasciato il Piemonte e fatto di tutto: la guida
per i trekking, ha aperto 3 o 4 ristoranti italiani, ma
soprattutto ha insegnato ai nepalesi a fare il formaggio! Ebbene sì, proprio il formaggio, ma quello buono, gorgonzola e addirittura mozzarella. Offriamo i
nostri graditi doni, consistenti in formaggio grana, lui
ci offre amicizia e simpatia spontanee e subito ricambiate. Prendiamo una macchina con autista e siamo
pronti per iniziare a scorrazzare nella Valle – una volta “degli dei” – ora un po’ meno.
Arriviamo a Kirtipur, tra nebbia e schiarite, ma l’importante è che non piove. Quest’anno, a differenza del
2009, il monsone sta facendo il suo lavoro.
Piove, insomma, anche se non violentemente e per
poco. Kirtipur è un villaggio dove sembra di rivedere Kathmandu all’epoca hippy: niente moto, niente
auto, strade di mattoni, galline, caprette, pecore, che
girano indisturbate nelle strade. Cereali stesi sulla
via. Peperoncini appesi alle finestre. Roby ci porta a
visitare un amico musicista. Gentilmente ci introducono in casa, una casa semplice, tradizionale, ma
aperta al mondo perché c’è il PC. È davvero curiosa
questa coincidenza perché, navigando in Internet, ho
trovato la storia di Roby che ha portato Battiato dal
“cantastorie nepalese”. Il bello è che Roby neppure
lo sapeva, si incuriosisce, ci racconta i dettagli della
storia. Anche se non vuole darlo a vedere è fiero di
aver “iniziato” tanti personaggi alla conoscenza del
Nepal vero, non turistico.
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Passando da Katmandu visitiamo Teku, il quartiere
alla confluenza dei due fiumi. Anche questo è luogo
di cremazioni, ma lontano dal turismo voyeuristico
che infesta Pashupatinath. Le cremazioni non si vedono, anche se ogni tanto ne arriva l’odore inconfondibile. Ci sono templi, piccoli stupa, case in legno che
purtroppo vanno in rovina, ma anche bimbi vispi e
bellissimi, giardini rigogliosi di piante, il fiume che
scorre. I bambini ci si tuffano nudi, nuotano nella corrente e giocano a ripescare bottiglie di plastica.
Dopo la giornata con Roby, la sera a cena mi viene
l’idea di unirci a Giulio e Marta, i nostri nuovi compagni di viaggio, che vanno a visitare, l’indomani, il
campo profughi tibetano, vicino Patan. Mi sembra
una buona idea per cominciare a conoscerci in una
situazione rilassata e rilassante, prima di affrontare il
“grande balzo” nelle fauci della tigre cinese.
La giornata è piacevole, visitiamo Bungamathi, villaggio noto per la lavorazione del legno. Ci sono bravi
artigiani in ogni piazza e vicolo. Non ridete, ma mi
compro un piccolo presepe con i personaggi tutti ricavati da un unico pezzo di legno vivacemente colorato,
quasi un puzzle: in Nepal il soggetto sarà certo una
rarità esotica.
Il giro prosegue a Komanath, un altro villaggio newari che ha mantenuto l’impronta medievale: è famoso
per il tempio della dea con la spada appesa, una pagoda a più piani, che però non si visita. In piazza vaccinano i cani e un furgone pieno di medicamenti propaganda le virtù terapeutiche dei prodotti di un’insolita
farmacia ambulante. Raggiungiamo Jawalakhel, un
villaggio tibetano, in realtà il campo profughi, anche
se i tibetani si sono dati molto da fare. Visitiamo il
centro di produzione dei tappeti, invero molto cari,
ma comunque compriamo tutti qualcosa: almeno per
placare la cattiva coscienza collettiva dell’occidente
per tutti i casini in Medio ed Estremo Oriente, passati,
presenti e futuri.
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Quando si arriva in una enclave tibetana si nota la differenza rispetto allo standard nepalese. Pulizia, fiori
ovunque, templi pieni di silenzio, pace, serenità. L’induismo nepalese è un induismo popolare, pieno di
superstizioni da gente di montagna. La gente celebra
puja ovunque, in casa e per strada: su lingam, yoni,
stupa, templi e tempietti-edicola oppure anche su un
sasso. Il problema è che versano burro fuso, polveri
colorate e riso. Una miscela irresistibile per tutti i tipi
di animali, galline ma pure topi.
Il buddhismo, anche se popolare è più sobrio, i tibetani sono operosi e bravi commercianti. Credo che questa e altre differenze li facciano notare, forse troppo
in un paese che è tra i dieci più poveri del mondo.
Ora i nepalesi non ne fanno arrivare più: forse per la
loro povertà, forse per non avere un’etnia minoritaria troppo numerosa, forse perché tanti induisti, per i
quali Gautama Buddha è comunque un’incarnazione
di Vishnu, sono attratti dal buddhismo tibetano, forse
perché i cinesi pagano in contanti una taglia per ogni
tibetano che viene respinto alla frontiera…
Arriviamo a Patan dove mangiamo, il ristorante è
quello sulla piazza, lo stesso Temple Café dove ci
portarono lo scorso anno, evidentemente un’attrazione irresistibile o fatale, chissà. Comunque la vista su
Durbar Square è ineguagliabile, considerato che è conosciuta come “la città dai mille tetti d’oro”. Mentre
gli amici girano per la città, noi approfondiamo la
visita al museo. Situato all’interno del palazzo reale
vi si accede dalla Porta d’Oro: davvero imperdibile,
soprattutto per le magnifiche Tang-ka, che ci introducono anch’esse al clima rarefatto del buddismo tibetano. Purtroppo, anche se ora non lo sappiamo, saranno
le uniche che vedremo nel viaggio. Concludiamo a
tema con il Tempio d’Oro, raffinato e suggestivo. La
tradizione dell’artigianato locale affonda le radici in
un terreno solido.
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Oggi facciamo i turisti per caso: da soli ce ne andiamo
a piedi a Bakthapur a gironzolare, dato che è la città
della valle di cui serbo dall’anno scorso il ricordo più
bello. Debbo dire che questo ricordo bello viene incrinato dalle moto che sfrecciano strombazzando nella
città che dovrebbe essere isola pedonale. Restaurata
con sistematicità teutonica dai tedeschi, per entrare si
paga un consistente biglietto d’ingresso (dieci dollari
sono una cifretta da queste parti).
Invece l’intenso traffico veicolare sui mattoni di cotto
ha già dissestato il fondo delle strade, invase da ogni
sorta di veicolo: mi viene voglia di scrivere all’ambasciatore tedesco! Con la sindrome da Photored, mi
piazzo davanti al cartello del divieto di accesso di
Durbar Square (ce n’è una in ogni città importante,
dato che è la piazza del Palazzo reale) e fotografo tutti
i trasgressori… Alla fine anche un poliziotto colpito dalla mia indignazione si smuove dal suo letargo
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monsonico. Peccato, perché i bambini che cercano di
far volare gli aquiloni, tipico gioco della fine del monsone, sono uno spettacolo che mi ipnotizza e evoca
reminiscenze letterarie.
Giriamo come matti, stanchi ci fermiamo al vecchio
caffè Nyatapola, che già conosciamo, mangiamo
bene e incontriamo altri due italiani che tornano da un
trekking in Mustang, provati dagli inconvenienti del
periodo monsonico. In effetti ci sono frane, le strade
ridotte a torrenti e i voli sono sospesi, sapremo solo a
fine viaggio che un aereo è caduto a Lukhla.
Raggiungiamo anche l’Hanuman Ghat, discosto dal
centro e non facile da trovare, il lungofiume dove avvengono le cremazioni. È un’area sacra molto interessante, piena di templi, statue, altari, dove si celebrano
i riti del 7° giorno dalla cremazione.
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Per ora niente fuoco, per fortuna, c’è da spalare il fango lasciato dal fiume.
A cena scambio di esperienze, opinioni sulla giornata
e progetti per il futuro, tra chi arriva e chi parte, chi si
rifugia in biblioteca, come me, tra guide e libri lasciati da altri viaggiatori, e chi cerca su internet le ultime
e penultime notizie dall’Italia (che a me non mancano
proprio, dato che sono sempre le stesse e deprimenti):
questo è il fascino del Planet, sembra di essere antichi
carovanieri attorno al fuoco del bivacco.
Noi, ultimi arrivati, siamo in attesa del visto che si
può avere solo qui e tramite un’agenzia locale.
L’ambasciata cinese apre ogni tanto e nelle prossime
due settimane resterà chiusa. In pratica Gopal ha solo
un giorno per fare tutto, escludendo il week-end, ma
non dubito che ci riesca.
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CAPITOLO II
Da Katmandu a Zhangmu
artenza all’alba per il “grande balzo”. Con il sonno arretrato e il fuso ancora sballato, il romanticismo del viaggio sul Tetto del Mondo, l’avventura
a Shangri-là, l’ingresso nella Città Proibita, passa in
secondo piano, restando garbatamente sullo sfondo,
con un piede nella realtà - faticosa - del viaggio e l’altro nel reame - onirico - delle reminiscenze letterarie.
Penso a Tucci che questo viaggio, attraverso tutti i
sentieri e le mulattiere possibili e impossibili, praticabili e impraticabili, lo ha fatto sempre a piedi, anno
dopo anno, senza GPS, cellulari e all’epoca neppure
il telegrafo e la ruota. Perché è così, anche se vedendo
le centinaia e migliaia di camion Tata che arrancano
e sbuffano tra India e Cina, carichi e stracarichi, non
lo si crederebbe possibile. In questi paesi himalajani,
fino a cinquant’anni, fa si può dire che non esisteva
la ruota. Del resto non essendoci strade non era necessaria. Oppure a causa dell’antica profezia secondo
cui con la ruota si sarebbe persa la libertà. Questo retaggio lo vediamo anche in edilizia e non solo: niente
carriola, niente carrucola, tutto si porta non “a spalla”,
ma “a fronte”, ossia gli sherpa si caricano i pesi sulla
schiena equilibrandoli dalla testa. Non so come siano le vertebre del loro collo. Ma di questo torneremo
presto a parlare. Insomma imbocchiamo l’Highway,
un nome altisonante per una malconcia strada di alta
montagna. Il paesaggio è più che bello, verde intensissimo. Le persone che scorrono sulla strada – sì perché qui ancora si compiono grandi distanze a piedi,
come ai tempi di Kipling – sono un evento. Ragazzi
che vanno a scuola con una divisa impeccabile, senza
che si riesca a capire da dove vengano e dove vadano,
in mancanza di paesi all’orizzonte. E altrettanto vale
per le scuole. Monaci che a bordo strada girano la
ruota di preghiera. Contadini carichi di tutto, legna o
foraggio, sterco da bruciare o pietre da frantumare a
mano. Qualcuno siede e guarda, mentre la vita scorre dal finestrino come un documentario del National
Geographic. O viceversa…
La particolarità della strada consiste nel fatto che a
volte perde l’asfalto, a volte manca la sede stradale,
ingombrata dall’ultima frana caduta dai 6mila, 7mila
e 8mila che sappiamo sovrastarci, anche se nascosti
tra le nubi monsoniche, ma a volte manca pure la
massicciata, crollata nei sottostanti mille, duemila,
tremila … La segnaletica, in tal caso, è costituita da
un mucchio di sassi o di terra, se la pioggia non se
li porta via. In questa strada mancano anche ponti e
gallerie – ovviamente – e quando s’incontra un fiume
bisogna guadarlo, assieme ai detriti che generalmente
si porta giù. E se c’è una cascata l’autista ne approfitta
per fermarsi sotto, abbastanza a lungo per lavare ben
bene la macchina dal fango. Tutto è relativo, si sa.
Infine si arriva alla frontiera. Noi non capiamo cosa
accada, superando kilometri e kilometri di camion
stracarichi e fermi. Penso all’ennesima e definitiva
frana, immagino che non passeremo mai.
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Invece lì, alla frontiera tra Nepal e Tibet (pardon:
Cina, ché da ora questa parola è meglio dimenticarla,
non perché proibita, ma semplicemente perché non
esiste nel vocabolario degli han), il transito funziona
in un modo che supera tutte le possibilità umane di
immaginazione.
Dunque, i cinesi hanno costruito la strada, unico collegamento terrestre tra India e Cina e unico sbocco
a mare dell’immenso altopiano centro-asiatico. La
strada, nonostante guerre e ruggini, vecchie e nuove, per assetti geopolitici, l’hanno voluta tutti: business is business. Ovviamente in Nepal la strada è più
malconcia, ma del resto dopo ogni monsone si deve
praticamente ricostruire. Il collegamento frontaliero è
rappresentato da un superbo ponte, l’unico, come si è
visto e detto. Ora viene il bello: questo ponte dove ci
lasciamo alle spalle Kodhari per arrivare a Zangmu è
pedonale. Solo pedonale.
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Non so se riesco con le parole a rendere l’idea di cosa
questa parola possa significare in quel contesto. Ricordiamo che abbiamo appena visto decine di kilometri di camion fermi, e questo solo sul versante nepalese, ma appena superato il confine li vedremo anche
dall’altra parte. Non sono fermi in attesa di passare,
come ci informa abitualmente il 4212 quando ci parla
dei TIR che aspettano alla frontiera di Como-Brogeda,
al Brennero o al valico del Bianco. Nossignore. Sono
fermi e basta e ci resteranno. Perché i nepalesi e gli
indiani circolano in Nepal e i cinesi in Cina. Vedo che
ancora non mi faccio capire e tento di spiegarmi meglio: un esercito di formiche-sherpa scaricherà tutto a
forza di braccia dai TIR indiani, lo trasporterà a forza
di fronte o di collo – non so – e lo ricaricherà dall’altra parte sui TIR cinesi. E dall’altra parte succederà la
stessa cosa. Il perché non me lo chieda nessuno, Forse
nessuno lo sa. Forse lo possiamo immaginare: così la
frontiera e il paese si può aprire alle merci e chiudere
agli uomini: business is business.
Attraversiamo il ponte one by one, sotto lo sguardo
severo di mitragliuti soldati cinesi. Dall’altra parte
granito lucente nero che stride con tutto: la miseria
delle case, la fatica disumana dei portatori, la gente
che preme e cerca di infilarsi in mezzo a noi. Niente
da fare, ad adornare l’ingresso, modernissimi scanner
per uomini e bagagli, bellissime statue in onore della gloriosa armata cinese. Ma no, appena passo è il
momento del cambio della guardia e quelle che sembravano statue si muovono improvvisamente a passo
dell’oca. Sono forse un po’ubriaca tra gli scossoni del
viaggio in jeep e l’altezza? No, sono due militari che
fanno la guardia, nella loro divisa verde, con le mostrine d’oro, anche se sembravano usciti dalle fucine
di madame Tussaud, sì quella del museo delle cere.
Aspettiamo, con il timore di non riuscire a passare
perché dovete sapere che questa dogana dove passa
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tutto il fiume in piena del commercio via terra dei
due giganti asiatici fa orario d’ufficio. Chiude alle 14.
Non solo, ma siccome il Tibet è Cina, tanto per mettere subito le cose in chiaro, qui e ovunque, si deve
seguire il fuso orario di Pechino, che invece è lontano
3 fusi, quindi si chiude – forse – alle 11 e per chi non
ce la fa a passare arrivederci a domani, dopodomani,
e così via. Non è un segreto e si capisce che già prima
di partire non amavo i cinesi, non i cinesi in Cina ma
i cinesi in Tibet, ma già da ora comincio – e bene – a
capire il perché.
Non è finita, però. All’arrivo dopo scanner e metal
detector, veniamo riperquisiti “a mano”, boccetta per
boccetta, scatola per scatola, goccia per goccia di Novalgina e così via. Ma che cercano? Avete presente
Farheneit 451? Non gli importa né di droga né di alcol né di nient’altro. Cercano libri. E li trovano. Eccome se li trovano. Quale europeo non viaggia con un
libro in borsa? E li sequestrano. Qualcosa sapevo, per
questo ho lasciato Tucci a casa. Ai piedi della commissaria del popolo giacciono affrante decine e decine di Lonely planet, nuove, inutilmente lucide, pagate
in dollari e inesorabilmente sequestrate. Con un ineffabile sorriso, in buon inglese, ci invita a essere grati
e riconoscenti: «contengono tante inesattezze sulla
Cina…». Rigira sopra e sotto Rudolph Otto, guarda il
diagramma Yin/Yang, legge il titolo: Misticism: east
and west, reputa il tutto talmente idiota che sorride tra
imbarazzo e scherno.
In un attimo mi ritornano in mente tutti i libri che ho
letto in vita mia, non mi va di restare senza guida in
un paese sconosciuto, non mi va di essere censurata,
non mi va di vedere libri in fiamme da Alessandria in
poi… Con mossa da guerrigliera e con spirito da Ipazia riesco – non dico come, perché un po’ di suspence
serve anche nei reportage, ma con una immensa e fortunata faccia tosta, stile Spy Game – a salvare la mia
Routard, Assieme alla Routard, salverò in molte cir-
costanze il destino del viaggio e le sorti del gruppo…
Mi torna in mente quello che diceva Giovannino Guareschi nelle sue memorie dalla prigionia: «gli italiani
se c’è da fare fesso qualcuno sono imbattibili, anzi ne
fanno un punto d’onore». E aggiungeva: «questo è il
nostro principale problema», però: «siccome anch’io
ho delle debolezze, mi stanno simpatici» (riferito alla
costruzione di Radio Caterina in un lager, fregando il
rame dalla dinamo delle bici delle SS).
Ecco, oggi mi sto proprio simpatica.
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La jungla. (La) giungla che, quasi non le bastasse la terra in questo umidore prolifica, cresce su se medesima e si moltiplica. Nelle valli
coltivano riso, cannella e spezie. In questo paradiso delle sanguisughe piove spesso; l’acqua zampilla, saltella, scintilla ad ogni svolta
di strada come se un mare sotterraneo prema
dall’interno per trovare un’uscita. Per parecchi
mesi un grigiore nebbioso aduggia i luoghi come
il rimorso un’anima colpevole, ma nell’inverno
è una gloria di luce e uno splendore di nevi. La
primavera e l’estate sono le stagioni peggiori.
(Tucci, A Lhasa ed oltre, 21)
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CAPITOLO III
Da Zhangmu a Old Tingri
a vecchia Routard che leggo, con aria da cospiratore, tra l’invidia generale dei compagni di viaggio, dice che Zhangmu è un Far West di alberghetti,
bordelli, portatori scalzi e businessmen corrotti che
cercano di sdoganare le merci, meglio scappare al più
presto. Non voglio farmi influenzare dalla propaganda anticinese, ma sembra che abbia proprio ragione.
Solo che i permessi per l’EBC (Everest Base Camp)
si debbono prendere qui e, come ci dicono le guide,
gli uffici aprono alle 10. In realtà apriranno alle 11
(sempre come dicono le guide…) e così visto che la
dogana chiude presto e la polizia apre tardi, ci obbligano a trascorrere un interminabile pomeriggio e
un’altrettanto interminabile mattina in questo paesebudello, costituito da una strada di passaggio a tornanti, dove si circola ma non si passa perché tanto
non si va né avanti né indietro. Sulla strada si affacciano casermoni in cemento a vetrate, demenziali, in
puro stile architettura sovietica anni Sessanta.
Oltre che delle guide facciamo la conoscenza con gli
alberghi di stato cinesi. Ne parlo ora e poi non voglio
parlarne più. In camera, peraltro arredata con mobili
di legno molto belli, piove. Però non siamo neppure
all’ultimo piano: in effetti con i lavori di ristrutturazione sono state messe le docce calde, ma se la doccia
è a NE lo scarico dell’acqua è a SO, in contropendenza, per cui l’acqua delle docce non può che finire
nella camera da letto propria o altrui. Con le ovvie
conseguenze del caso in un paese già umido per sua
predisposizione naturale. Per cui, non potendo stare
né dentro né fuori, l’interminabile mattinata ci annoia
ancora di più.
Quello che mi ipnotizza letteralmente, però, è il giovane cinese che sta – o dovrebbe stare – alla reception. Sembra uno degli attori che interpretavano il
ruolo degli eunuchi, corrotti e infidi, inutili e potenti,
in L’ultimo imperatore. Non c’è mai, in questa piccola
L
“città proibita” poi scopriamo che si eclissa sdraiato
sotto il bancone dell’ingresso a fumare roba dall’odore imperscrutabile, dato che dal basso escono volute
di fumo. Sopra di lui il verbo dell’hotel: un cartello
con i prezzi: suite, standard, junior, ore, letteralmente
è scritto clock room o hour room… Più chiaro di così.
Ha i capelli lisci e unti, e va su e giù per le camere, da
solo o accompagnando giovani ragazze cinesi o tibetane, al momento ancora non distinguo, che si accompagnano con anziani grassi, qualità particolarmente
stomachevole nella fisionomia orientale, palesemente
ricchi, a giudicare dagli orologi d’oro, dagli occhiali fumé, indossati anche sotto la pioggia, dai SUV
potenti dai quali scendono e salgono in continuazione. Almeno quelle che non stanno in vetrina appena
all’uscita dal paese, persino a fare la calzetta, perché
dove ci sono caserme, e qui ce ne sono davvero tante,
si incontra subito la civilizzazione dei karaoke, salvificamente portata nella terra che ha fatto germinare
la metafisica più alta mai concepita da menti umane.
Intanto imparo subito che bisogna contrattare su tutto,
che il prezzo di una bottiglia d’acqua varia da 3 a 20
yuan, che i tibetani, anzi le tibetane, in quanto sono
sempre le donne a gestire i piccoli commerci locali,
sono proprio toste. Ma questo mi diverte, noi che conosciamo Roma e Napoli, ma pure Firenze e Venezia
nonché i “portodanzesi”, meno noti ma altrettanto
efficienti abitanti di Anzio, discendenti dalla celebre
etnia dei pirati volsci, in fatto di accoglienza turistica
non ci mettiamo paura.
Alla fine compaiono le nostre jeep, quelle cinesi che
vengono a prenderci su questo versante e, signori, tutti a bordo: inizia l’avventura. Per pochi tornanti sopra
la città ci accompagna ancora la lussureggiante vegetazione tropicale, poi si comincia rapidamente a salire
sulla Friendship Highway, e iniziamo a percorrere in
territorio tibetano i primi dei 948 km di distanza tra
Katmandu e Lhasa. La strada è meglio tenuta che nel
versante nepalese, del resto quest’arteria ha una du-
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plice importanza strategica. La prima parte del tragitto si snoda in pianura a fianco di un torrente dalle
acque limpide, greggi e case sparse, tende di nomadi,
le prime mandrie di yak su sterminati pascoli e piccoli
campi verdi ben coltivati. Poi la strada si inerpica improvvisa e decisa e affrontiamo il primo dei tanti passi
di montagna che verranno.
Passiamo vicino alla grotta di Milarepa, ma la guida
sgrana gli occhi e sembra che non abbia idea di quanto chiedo. Interroga l’autista, ma non arriva risposta.
Conosce Milarepa? O lo confonde con Carneade?
Va detto che molte di queste mie impressioni di un
viaggio che mi ha lasciato il Tibet nel cuore, sono
dettate da una ipersensibilità al problema tibetano,
inoltre la conoscenza abbastanza approfondita delle
religioni orientali, degli autori più importanti e delle
scritture tradizionali, mi fornisce, non volendo, un occhio ipercritico verso la situazione attuale, alla quale
in anni recenti ho dedicato articoli e recensioni, che
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non mi guasta il viaggio, ma mi mette realisticamente
in condizione di capire di più e, di conseguenza, anche di soffrire più di qualsiasi occidentale medio.
Come gli uomini, ma in un altro e alto senso, la natura
dà davvero spettacolo. Tutto è iper e super: montagne,
fiumi, vallate, spazi, nuvole e cielo. Tutto è ampio,
tutto è luminoso. Quando la strada comincia a salire
ci fermiamo qualche minuto per iniziare l’acclimatamento e alzando gli occhi vediamo volteggiare una
grande aquila che si sofferma sulla nostra piccola carovana. Chissà come ci vede lei, da quelle altezze vertiginose, la regina del cielo. Poi sparisce alla nostra
vista, sullo sfondo, tra le nuvole dove si intuiscono
dapprima e poi si aprono alla vista le prime montagne
innevate. Le parole non aiutano, l’esperienza di quelle massicce presenze intuite è una sorta di vertigine
metafisica. Alle nostre spalle uno spicchio di azzurro
si illumina di uno sprazzo di luce che prorompe in
arcobaleno. Praticamente psichedelico.
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Mi siedo in fior di loto e comincio un leggero pranayama, mi sento leggera, ma sto bene: sono attenta alle
reazioni fisiche perché questo è il battesimo dell’altezza. In nessun posto potevo fare prima l’esperienza
dei 5.500: praticamente sto guardando da parecchio
alto il Monte Bianco. Ecco, come fossi un’aquila che
volteggia sulla cima.
Ci fermiamo al Nyalam Pass, ancora sto bene. Ci
offrono acqua calda appena arrivati. Ancora non ne
capiamo la ragione. Presto attenzione al corpo e alla
sua fisiologia, capisco che è meglio mangiare poco,
spesso e liquido. E bere molto, bagni permettendo.
Per ora siamo sempre i due equipaggi della partenza,
con le due guide e i due autisti e le due jeep. Immagino che per non farci rimpiangere i libri sottrattici
alla frontiera, a fine pranzo ci mostrano un libro in
inglese, scritto da un cinese di etnia Han, come puntualizza la quarta di copertina: Le reincarnazioni del
Dalai Lama, più o meno. Il titolo mi sorprende e mi
incuriosisce. E comincio a scorrere le pagine, con una
certa frenesia. Pensavo di comprarlo, poi… Possibile? Ebbene, sì. La storia si può sempre riscrivere.
Insomma, il succo del libro si può riassumere in alcuni passaggi salienti: gli imperatori Ming hanno
sempre sponsorizzato la ricerca delle reincarnazioni
del defunto Dalai Lama. Una volta trovato il candidato hanno sempre ospitato questi giovani a Pechino
perché imparassero l’arte difficile del buon governo.
Allora perché non riconoscere il XIV? Ovvio, è nato
nel periodo in cui il Tibet era occupato dalle truppe
inglesi e allora gli inglesi di Younghusband, brutti e
cattivi (questo sì che non è falso), quegli imperialisti
che hanno mandato dall’India quel generale che ha
distrutto tanti bei monasteri antichi, hanno scelto una
falsa reincarnazione del Dalai Lama per avere un governante asservito alle loro mire espansionistiche. Per
farla corta, una spia (di 40 giorni, perché a quell’età si
cercano per la futura selezione i probabili candidati).
Ipersob!
Domanda: ma se la spedizione inglese è avvenuta nel
1903-4 e Tenzin Gyatzo è nato nel 1935, come quadra questo cerchio? Insomma, il mio viaggio – come
avrete capito – avrà molti aspetti critici, mi troverò
di fronte a molti interrogativi e indignazioni pressanti
che in genere non toccano i pochi turisti che arrivano
fin qui.
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Immagini. Era davvero affascinante poter contemplare il freddo grigio-azzurro delle rocce e il
caldo rosso-ocra della terra e vedere i laghi scintillare in lontananza. (…) La regione alle spalle
del monastero era montuosa, innumerevoli vette
si levavano l’una dopo l’altre in ranghi serrati,
fino a delinearsi nere e torreggianti sull’orizzonte
lontano, contro la luce del sole. Il cielo nel Tibet
è il più limpido del mondo, lo sguardo può penetrarvi sin dove le montagne lo consentono e non vi
sono strati d’aria calda a causare distorsioni. (L.
Rampa, Il terzo occhio, 174)
Acqua calda. Nel pomeriggi prendo solo acqua
calda, un’abitudine contratta in Cina negli anni
Cinquanta. Anche se è insipida, è assai salutare; nella pratica medica tibetana, l’acqua calda
è il rimedio essenziale. (Dalai Lama, La libertà
nell’esilio, 32).
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CAPITOLO IV
Campo base dell’Everest
iori blu e gialli crescono oltre i 5mila, le pietre
vengono messe una sull’altra quando si arriva sui
passi o vicino ai fiumi o in qualsiasi passaggio pericoloso al viandante, per placare le divinità ctonie,
le bandiere di preghiera colorate sventolano al vento,
eppure oggi tutto questo rappresenta per me un’immagine confusa. A causa della dogana che chiude
presto, della polizia turistica che apre tardi non siamo
arrivati alla nostra meta che doveva essere Shegar, città meglio attrezzata e soprattutto più in basso, ma ci
fermiamo a Old Tingri.
Questo paese, dominato dalla mole dell’Everest e del
Cho Oyu, è antica tappa delle rotte carovaniere. Ha
mantenuto qualcosa del fascino antico, nonostante le
caserme nuove, e i lodge sono stati creati nei vecchi
caravanserragli o ricostruiti con lo stesso schema: un
muro di cinta, un ampio cortile e le stanze che si aprono direttamente nel recinto interno.
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Sono utilizzati dai numerosi trekkers per piantarci le
tende e utilizzare i servizi. Il nostro non fa eccezione,
con il bagno fuori e due buchi in terra. Il problema è
che il paese si trova a 4.800 metri, un’altitudine pericolosa per trascorrerci una notte intera.
Mi sento come un’astronauta “allunato”, insomma
atterrato nello spazio, per quanto questo sia possibile, passi lenti, gambe che le dirigi a NE e vanno a
SO, come la doccia di ieri sera. Andare fuori la sera
in cerca di toilet, in queste condizioni e al buio, non
mi sembra prudente. Facendomi forte delle info trovate sulla Routard di contrabbando – che per fortuna
sono ancora esatte – pretendo di traslocare all’Everest
Snow Leopard. Bagno in camera. Unica attrezzatura
che in queste condizioni si desideri utilizzare di tutto
l’hotel.
In effetti, per fluidificare il sangue, in un ambiente
dove mancano più o meno da uno a due terzi di ossigeno, il corpo, che si disidrata, richiede acqua in
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misura spropositata. La notte la trascorro a bere due
bottiglioni di acqua, con le ovvie, inevitabili conseguenze. Nei brevi momenti di sonno la lingua si attacca letteralmente al palato, il che mi fa capire che
l’espressione biblica, contenuta nei salmi, non è solo
letteraria. Capisco anche la fatica fisica del pensare,
un’attività che ha un esborso energetico non lieve. A
lungo non parlo. A volte non penso.
Al mattino si sale ancora, destinazione Monastero di
Rongbuk, il più alto del mondo a 4.900 m. e il fatidico
campo base a 5.370. Qui l’Everest nessuno lo chiama
così: per la gente e sulle carte è il Chomolungma. Più
o meno vuol dire: la dea madre della nazione, una fata
che raramente svela il suo volto ammantato di altissime nubi. Molto meglio del nome di un gallonato e
sicuramente antipatico inglese dell’Ottocento.
Finché sto seduta vado bene, il problema è fare qualsiasi semplice movimento, compreso scendere dalla
jeep e fare foto, versare l’acqua e poi berla.
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Se io sono debole, l’ambiente è duro, ma sono certa che avremmo potuto convivere, magari aiutandomi anche oggi con il pranayama, almeno per il breve
tempo di permanenza necessario a ingollare un the o
una zuppa. Se… se non fosse intervenuto l’aiuto della guida. Credo che il ruolo delle guide-sergenti, alle
quali i cinesi affidano i “tosti” che si ostinano a voler
visitare il Tibet, affrontando rischi e pericoli e disagi
a costi non indifferenti, sia stato svolto con professionalità ineccepibile: colpirne uno per educarne cento
oppure, più soft, accudirne uno per dissuaderne cento.
Nel campo base ci sono tende, che fungono da ritrovo, rifugio e ristorante, letti alle pareti dove si mangia
seduti a gambe incrociate, ma si può anche riposare,
il calore è prodotto da una stufa che brucia, carbone, legna o sterco di yak essiccato. Amorevolmente
mi fanno stendere in un letto nella parte più interna
della tenda e lontana dal varco d’ingresso, mi mettono sopra una coperta che odora, come ogni oggetto o
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persona in Tibet, di burro di yak e mi godo il tepore
e il riposo, in un dormiveglia oscillante, poi sempre
meno, poi in un piano inclinato…
Alt! Un guizzo di coscienza, di intelligenza o semplice istinto di sopravvivenza o colpo d’ala dell’angelo custode mi fa vedere, capire, realizzare in un
flash che la stufa al centro della stanza non ha scarico,
che io sono sdraiata praticamente a terra, che al posto
dell’ossigeno c’è più anidride carbonica che se fossi
attaccata allo scarico di un bus dell’ATAC. Mi rialzo
come una molla per uscire e pretendere l’unica cosa
che si raccomanda di fare in questi casi: ridiscendere.
Sorpresa, la jeep ha la ruota anteriore sinistra smontata, perché i freni non funzionano. Vabbé tanto siamo a
Latina, mica sull’Everest…
A questo punto mi rassegno a ciucciare la bomboletta
d’ossigeno che il medico mi aveva così caldamente
sconsigliato, ma tant’è. Forse per questa volta non è
destino. Mentre i miei goffi e inutili tentativi di respirare producono l’effetto che faceva l’apparizione
di Lord Fenner in Guerre Stellari, l’ineffabile marescialletta mi guarda radiosa: ma noi prima di scendere
a valle dobbiamo mangiare!
Alla fine scenderò e sopravviverò pure, ma i ricordi
sono radi, vaghi, frammentari, come le foto di questo
giorno comunque memorabile. Mi caricano su una
jeep che scende, l’altra si blocca, gli amici di Morena
arrivano dopo mezzanotte, si resta a dormire ancora
una notte in quota a New Tingri, non a Shegar e si
riparte dopo la riparazione. Ma questa è un’altra tappa, un altro giorno, un’altra storia. Il problema è che
bisogna entrare nell’ordine d’idee che i problemi ci
sono, ma i cinesi, dato che sono a casa loro, li risolvono a modo loro.
Lha rtse. Giunti sul passo bisogna raccattare una
pietra e deporla sulla casa del dio (si chiama Lha
rtse), una roccia nuda in cui abita invisibile lo spirito che presidia la montagna; si grida a squarciagola
in tibetano: «Salve o Dio, evviva». Affidate a bastoni sottili che il vento flagella, svolazzano rumoreggiando e tremano tra i sassi piccole banderuole con
preghiere impresse e nastri multicolori offerti dai
carovanieri che percorrono questa strada… siamo
già entrati in pieno buddismo tibetano. E conviene
rispettarne le credenze ed i riti, inchinarsi a questa
aura di religione che spira dappertutto e penetra
ogni luogo di misteriose presenze. Io ho sempre pensato con Ramakrishna che conviene «inginocchiarsi
dove gli altri si sono inginocchiati, perché dove gli
altri si sono inginocchiati, là è la presenza di Dio».
(G. Tucci, A Lhasa ed oltre, 23)
Mal di Montagna. I cinesi … hanno dovuto affrontare … il clima rigido. Molti sono morti d’inedia e
del mal di montagna, che ancora oggi continua a
colpire gli stranieri in Tibet, con effetti anche letali.
(Dalai Lama, La libertà nell’esilio, 60)
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CAPITOLO V
Da New Tingri a Shigatse
ncredibilmente mi sto acclimatando, forse da un
male è venuto un bene, anche se al momento l’abbiamo presa tutti assai male a dover aspettare la riparazione della jeep fino a dopo mezzogiorno. Però,
in tal modo ho riposato tutta la mattina e trovato comunque la forza di arrivare dall’albergo al paese a vedere il meccanico all’opera. Strada facendo abbiamo
curiosato nelle bottegucce-bazar, dove compriamo
acqua, acqua e ancora acqua, Ma pure una camicia
tibetana di cotone tessuto a telaio. L’aria è asciutta,
tersa, limpida e ci sono fiori nei giardini a quasi 5.000
m. d’altezza: la natura continua e continuerà a stupirmi nel corso del viaggio.
Non so dire se ci siano stati effettivamente rapidi cambiamenti climatici a causa dell’influsso del monsone
che arriva sempre più a settentrione. Quel che è certo
ci sono coltivazioni anche in alta quota e il paesaggio
che ho di fronte non è quello che mi aspettavo di vedere (per averlo letto): l’arido e polveroso altipiano
tibetano. Non solo, ma non fa per niente freddo. Anche se è estate e anche se la latitudine è la stessa del
Cairo, mi aspettavo almeno una consistente escursione termica, sempre per averlo letto, Ma no, qui possiamo indossare scarpette da tennis, vestire sbracciati
e al massimo coprirci con una k-way. Non mi sembra
che la temperatura sia mai scesa sotto i 15-16°, sia in
montagna sia in città, sia di notte sia di giorno, durante il nostro viaggio.
Infine partiamo e affrontiamo subito il nostro secondo
passo. Da Gyatso-la si vede l’Everest-Chomolungma
molto bene, meglio che dal campo base. Non solo, ma
si vedono molti altri 8.000 tra cui il Makalu. Gli altri
non so identificarli: secondo l’ineffabile marescialletta in Tibet mica tutte le montagne hanno un nome!
Su questo passo non ci sono monaci, come avevamo
visto a Nyalam. Nella tenda un altare sullo sfondo,
le lampade e le ciotole rituali, una stufa e due lettucci, dove un monaco con il suo Chela, salmodiavano
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le scritture. In cambio di una piccola offerta si sono
lasciati disturbare dalla nostra invasione e lasciati fotografare.
Qui i venditori oltre alle bandiere da preghiera vendono i foglietti quadrati, grandi all’incirca 3 x 3, dove
sono egualmente stampate su blu, rosso, verde, bianco e giallo (i colori dei cinque elementi) le preghiere
di buon auspicio che si abbandonano al vento di alta
quota perché le diffonda lontano. Anche noi cerchiamo di seguire le usanze locali per propiziare la benevolenza degli dei.
Dal numero di foto scattate si capisce come ormai
stia in pieno recupero, tuttavia ancora non riesco a
mangiare. Dal passo scendiamo in un grande paese
agricolo, Lhatse. Il sole splende e immense nuvole
bianche e soffici, mettono maggiormente in evidenza
il blu puro del cielo, che qui sembra davvero più vicino. Non mi fermo al ristorante con gli altri e mi avvio
verso il centro del paese, dove convergono i contadini
vestiti a festa. Per la maggior parte percorrono a piedi
grande distanze, ma usano anche i motocoltivatori, ai
quali attaccano lunghi carri sui quali si assiepa un numero incredibile di uomini, donne, bambini e talora
animali. Alcuni siedono a terra in gruppi e mangiano e bevono in allegria, una caratteristica dei tibetani
per le celebrazioni e le festività. Questo è il Festival
dell’Estate (la guida dice dello Yoghurt), non so cosa
significhi, ma mi piace.
Seguendo il flusso della folla arriviamo al monastero,
è gremito di persone sedute nel cortile e sulla balconata del primo piano. Meraviglia, i monaci eseguono i cham le danze rituali, con maschere e copricapi, proprio quelle che si vedono nei documentari del
National, alle quali ho sempre desiderato assistere. I
movimenti dei monaci che eseguono la pantomima
dell’eterno conflitto tra bene che vince e male che
soccombe (ma questo perché accade solo per finta?),
sono scanditi dal suono cupo di tamburi e delle famose trombe tibetane, ricavate da una tibia umana. Ma
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non tutto lo strumento, solo la parte che si suona e
si impugna. Per suonarle occorre un cavalletto su cui
poggiarle, sono lunghe 5-6 metri o più, ma quando
non vengono suonate possono essere riposte e trasportate agevolmente, grazie a un sistema retrattile.
Insomma Ikea non ha inventato niente. Gli esecutori,
un tempo lama di alto lignaggio, brandiscono la spada e il dorje, la folgore, per scacciare gli spiriti allo
scopo di aprire la strada della liberazione e condurre
all’illuminazione spirituale.
Le persone sono gentilissime perché in mancanza di
posto e con la frenesia dello scatto passiamo in piedi davanti a tutti quelli che sono seduti, ma loro non
solo sono gentilissimi e accettano con benevolenza
le nostre scuse, ma si capisce che sono fieri del fatto
che stranieri come noi apprezzino le loro usanze.
Un anziano con l’aria autorevole ci porge la mano al
modo occidentale, e ci scuote non solo la mano
ma tutto il braccio con aria piena di benevolenza e
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soddisfazione: mi ricorda moltissimo nei tratti del
viso Geshe-là ossia l’abate Sonam Cianciub, che guidava la comunità monastica di Pomaia. Vorrei fotografare tutto, ma la cerimonia volge ormai al termine
e i tibetani, generalmente, non amano molto essere
fotografati. Però se si accorgono che rientrano nella
nostra inquadratura, levano la mano davanti al volto
per coprirsi e non essere raffigurati, sorridendo comunque.
Al ritorno dirigendoci verso la jeep, diventiamo noi
l’attrazione della festa, non credo che vedano troppi stranieri. Le donne sono bellissime, comprese le
vecchiette sdentate. Sono alte e slanciate, indossano
i loro abiti tradizionali, con la gonna nera e lunga
e i grembiali a colori vivaci, ma sempre armoniosi,
mai stridenti. Hanno capelli neri lucenti, annodati in
lunghe trecce, come spesso usano anche gli uomini. Come i pellegrini che vedremo al Jokhang con le
lunghe chiome acconciate in trecce avvolte attorno
al capo. Il portamento è fiero ed elegante, non si affrettano mai in modo concitato come noi occidentali,
mantenendo una compostezza nobile. I bambini vengono portati sulla schiena annodati con lacci. I vecchi
camminano con le ruote di preghiera tra le mani.
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I negozi offrono molte attrezzature agricole e tantissima frutta e
verdura (ma – sempre secondo i
sacri testi di viaggio – non dovevano coltivare solo orzo e mangiare tsampa?). Tra queste l’attenzione viene catturata da una
valigetta rossa, piccola ca. 30 x
40 che contiene un pannello solare portatile che fa funzionare
una lampada a basso consumo.
Una meraviglia. A noi chiedono 60 dollari, ma a loro non ne
costerà più di 20. Una soluzio-
ne geniale, nelle fattorie sparse in montagna o per le
tende dei nomadi, come un altro oggetto misterioso,
a forma di antenna parabolica, di cui capiremo solo a
fine viaggio la funzione, ma anche questa è un’altra
storia e un’altra tappa.
Le danze. Gli attori, quasi scandendo il ritmo delle
agitazioni furiose e della placata serenità, ora si abbandonano a danze circolari, silenziose e lente,ora
sobbalzano e saltano e si sollevano in giri vorticosi,
quasi che i demoni impossessandosene diano ai loro
muscoli una forza non umana che vinca per prodigi
la pesantezza della carne. Non c’è scena; le danze si
compiono sul suolo consacrato, dove per misteriose
corrispondenze più facile è l’evocazione; sopra risplende il cielo di turchese che ammanta di trasparenti velami il giallo dorato della montagna. Gli attori si preparano con lunghe e complicate liturgie le
quali ne predispongono lo spirito ad una partecipazione mistica con gli dei che essi stessi sono chiamati
da impersonare; sono posseduti dal dio…Sulla testa
portano cappelli e diademi vari a seconda dello spirito che impersonano. Tutto è proiettato in un mondo
simbolico: anche gli avvenimenti storici, che alcune
di queste danze evocano, hanno il medesimo fondamentale significato della lotta mai placata tra bene e
male. (G. Tucci, A Lhasa ed oltre, 140).
Quanti momenti felici! Durante gli spettacoli tutti
sedevano e parlavano; le canzoni e le danze erano
talmente note che le conoscevano a memoria. Quasi
tutti portavano un cestino da pic-nic, tè e chang, e
andavano e venivano a loro piacimento. Le giovani
mamme allattavano i neonati al seno, i bambini
correvano ridendo e fermandosi solo qualche secondo per guardare attoniti i nuovi attori che entravano
in scena con costumi fantasiosi e variopinti. In
queste occasioni anche i vecchi che sedevano soli e
impassibili si animavano… (Dalai Lama, La libertà
nell’esilio, 55).
Axis mundi. Il pilastro è l’axis mundi, rappresenta il centro di una superficie magicamente trasfigurata in un
cosmo: piantandosi questi cippi con riti opportuni il re ha preso possesso del suolo, si identifica con le forze
divine cui quel pilastro, per una perforazione di piani, conduce; egli non soltanto trae nuova forza da questa
identificazione, ma può porre sotto il proprio comando le energie della terra e sotterranee, i lu e i sadag, genericamente rappresentati secondo l’iconografia cinese come draghi; così dominandoli egli assicura anche la
fertilità e la prosperità dei campi”. (G. Tucci, A Lhasa ed oltre, 159-160).
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CAPITOLO VI
Shigatse - Tashilumpo
opo aver attraversato un’ampia pianura coltivata
e verdeggiante arriviamo a Shigatse. La città che
ora è diventata e si annuncia di lontano per la caligine
di smog che l’avvolge. La zona himalayana, con la sua
durezza e la sua adamantina meraviglia, è ormai alle
nostre spalle. Shigatse, come tutte le città ricostruite
dai cinesi è anonima, ampi viali, palazzoni in vetrocemento, soprattutto caserme e palazzi governativi. Il
resto sparito. Le città si espandono rapidamente, così
rapidamente che guida e autista impiegano 40 minuti
per trovare l’albergo, così la giriamo tutta, ma senza entusiasmo. Le attrattive sono ristoranti illuminati
come acquari e karaoke, i “loro” karaoke. Concentrati
per sfregio preferibilmente vicino ai templi.
Veniamo a Shigatse per visitare il Tashilumpo, il monastero dove risiedeva il Panchen Lama. La storia
dell’ultimo Panchen Lama è nota ed è tristissima, addirittura più triste di quella dell’ultimo Dalai Lama,
l’attuale XIV, Tenzin Gyatso. Nel 1995 il bambino
riconosciuto dal Dalai Lama come reincarnazione
del defunto X Panchen Lama, viene rifiutato come
tale dai cinesi, che ne nominano un altro che viene
custodito a Pechino, mentre il piccolo e tutta la sua
famiglia spariscono nel nulla: il bambino è passato
alla storia come il più giovane prigioniero politico del
mondo. Poiché i tibetani non accetteranno mai una
reincarnazione “cinese” del Panchen Lama, neppure
l’altro torna in Tibet. E il monastero è vuoto, resta
il guscio monumentale ma l’anima spirituale è come
fuggita via.
Il mio stato d’animo è evidentemente amareggiato,
dato che per ignoti motivi non abbiamo neppure visitato il monastero di Sakya, l’archivio di stato tibetano,
da cui sta sparendo tutto, documenti e opere d’arte.
Pare che quanto si fosse finora salvato dalla distruzione sistematica venga razziato e forse venduto sul mercato antiquario internazionale. Anche se i reperti non
vengono più presi a mitragliate dalla guardie rosse, il
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risultato non cambia molto per i tibetani.
Tashilumpo significa “posto ventoso di buon augurio”
e il sito si è salvato per la politica filocinese svolta nei
secoli dai panchen-lama per bilanciare il potere dei
dalai-lama, con i quali a volte entravano in conflitto.
L’architettura è imponente, Tucci parlava di “pomposità barocca” che comunque ha l’effetto di soggiogare
chi entra. Molti, va detto, sono i pellegrini tibetani
che visitano il monastero, vecchi e giovani, che pregano ed eseguono i gesti rituali di devozione.
Nel cortile un grande palo rappresenta l’axis mundi,
tutto coperto di bandiere di preghiera e ormai storto
dalle avversità atmosferiche e dal corso delle stagioni. I cortili e gli ambienti sono ampi e ariosi.
Non si può fotografare nulla all’interno né qui né altrove. Occorre pagare una tassa elevata non per ogni
sito, ma per ogni singola stanza. Sospetto che con
questi diritti di ripresa vengano pagati gli zelantissimi “monaci-funzionari”, secondo la definizione della
Routard, capaci di inseguirti se scatti anche da fuori
della porta.
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Sulla destra della collina un edificio a tronco di cono
dalla parete bianca colpisce la mia attenzione: un tempo da quella parete venivano srotolate gigantesche e
preziosissime tang-ka in speciali ricorrenze religiose.
I monaci che custodiscono i templi, in effetti, di mo46
nastico hanno solo la veste: capelli lunghi, cellulari
attaccati all’orecchio e vistosi orologi al polso. I monaci europei dicono che sono una sorta di comparse,
uscieri che come divisa indossano il saio monastico.
Questo, non posso dirlo, mi limito a riferire.
La gente malata striscia sotto questi armadi-archivio,
con la convinzione di guarire, per aver assorbito la
potenzialità benefica delle vibrazioni positive oppure
infila denaro tra una matrice e l’altra. Se solo tentassi
potrei stramazzare al suolo, ora che ho ripreso una
qualche vivacità.
Di Tashilumpo mi colpisce la cura dei fiori, una caratteristica anche dei templi tibetani in Nepal. Con i
vasi, magari realizzati con bidoni di latta dipinti, molto ben disposti, creano con maestria, nei cortili e sulle
scalinate, veri giardini pensili. Mi colpisce di questi
monasteri che sono vere e proprie città, con strade e
muri e portoni aperti su cortili con accesso a numerose abitazioni. Tutte ora desolatamente vuote e abbandonate, senza imposte o con le imposte inchiodate.
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A Tashilumpo i monaci stampano con le matrici in legno su stoffa le bandiere di preghiera. In Tibet non si
utilizzavano caratteri metallici. Ne vediamo un’intera
enorme stanza tutta ben catalogata. I testi da stampare, venivano trascritti su tavolette di legno di tipo
adatto, poi si asportava un certo spessore del legno
da tutta la superficie, tranne che là dove erano stati
tracciati i caratteri, in modo che le parti da stampare
rimanessero in rilievo. I libri con le pagine più larghe
e basse, dai fogli non rilegati, sono conservati tra copertine di legno scolpito e avvolti in sciarpe di seta.
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Mi colpisce l’acrilico con cui sono state ridipinte statue e soprattutto affreschi, che fanno sembrare questo
luogo tanto sacro un ristorante cinese. Mi colpisce
che nonostante il voler dare il senso della quotidianità
ritrovata e lo sforzo fatto dai cinesi di normalizzazione e - credo pure dai tibetani - di riappropriazione della pratica religiosa, in funzione si vedono solo le sale
assembleari e le statue sugli altari, alcune antiche, la
maggior parte rifatte.
Quello che manca è l’immenso contorno che doveva
esserci di arredi, rappresentato dalla secolare stratificazione di oggetti di culto, statuette, suppellettili, exvoto, campane e campanelle e migliaia di altre cose
che io non so, non ho mai visto, ma di cui percepisco l’assenza, perché la psicologia religiosa fa parte
dell’inconscio collettivo ed è la stessa in ogni latitudine. Mi sfogo a fotografare i battenti delle porte, di
ottone, intarsiati in rame, bruniti e dorati, che sicuramente, data la loro funzione pratica, debbono essersi
salvati, dunque originali. Sono addobbati con nastri
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colorati nei cinque colori, come le trecce delle donne, le frecce che scoccavano dagli archi, gli addobbi
nuziali e tante altre cose per le quali necessitava una
ritualità propiziatoria.
La visita non si prolunga troppo, anzi decisamente
troppo poco, molte sale non sono accessibili, vediamo solo il tempio principale e la marescialletta non si
cura di farci vedere né spiegare molto di più. Il problema è che non sappiamo esattamente se quello che
non vediamo esista ancora, rispetto alle notizie della
mia non aggiornatissima Routard, se sia irrimediabilmente distrutto o fortunosamente in restauro. Il forte
e la cinta muraria, probabilmente no, forse il mercato
sì. Comunque quel che è certo è che per fare la guida
in Tibet, sotto occupazione cinese, i requisiti essenziali sono due: non conoscere questo paese, non amare questo paese. Affatto.
L’occupazione principale è dormire, durante i lunghi
spostamenti, e mangiare, una volta a terra. Anche ora
ci trascina al ristorante, ma preferiamo girovagare
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nell’animata strada di accesso al tempio, piena di artigiani in attività, fabbricanti di kata, le sciarpe bianche da offerta, fabbricanti di tappeti, sarti, cesellatori,
falegnami. Compro una giacca di lana nera, forse da
uomo, e tutti ridono garbatamente. Sulla strada bambini in bicicletta sciamano in gruppo, uscendo da
scuola, con la loro divisa, una tuta sportiva uguale in
tutta la Cina dall’asilo all’università (beato chi ha preso l’appalto di fornitura).
Insomma, ci ritagliamo un tuffo tra la gente, con i nostri ritmi che cercano di armonizzarsi ai loro.
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Shigatse. Il bazar rappresenta il cuore della città: una piazza rettangolare immensa circoscritta ai
quattro lati da casamenti bassi nei quali s’aprono
le botteghe; poi nel centro, disposte in file parallele, l’una vicino all’altra bancarelle improvvisate.
Vi trovi un po’ di tutto… Shigatse è una città ricca;
te ne accorgi girando nel bazar dove incontri gente
ben vestita, robusta e sana. La campagna però si
restringe serrata da un cerchio di montagne ostinatamente deserte. Quando si arriva a Shigatse da
Penam si ha l’impressione di attraversare un paesaggio lunare…(G. Tucci, A Lhasa ed oltre, 179).
Tipografie. Ogni monastero ha la propria stamperia…contengono, disposte in apposite scaffalature
divisi per opere e volumi, i blocchi di legno duro
su cui sono incise alla rovescia, in nitidi caratteri
le pagine del libro. Ad ogni facciata corrisponde
naturalmente una matrice. (G. Tucci, A Lhasa ed
oltre, 131).
Tashilumpo. Nei primi giorni dell’estate c’è una
gran festa. Per tre giorni appendono a un gigantesco muro che sovrasta il monastero tre immensi stendardi sui quali sono ricamate figure di tre
Buddha, del passato, del presente e del futuro. Li
espongono per poco più di un’ora ogni mattina.
La gente si arrampica su per la collina sassosa e
compie il giro rituale a destra intorno alle immagini. Migliaia di persone si raccolgono sullo spiazzo
a valle, si genuflettono e poi banchettano all’aria
aperta, mentre compagnie di attori girovaghi improvvisano rappresentazioni sacre.(G. Tucci, A
Lhasa ed oltre, 177).
Divieto di fotografare. Avrei voluto fotografare
qualche particolare, ma non c’è stato verso di convincere il vecchio custode: ci ha fatto vedere tutto,
è stato cordiale e accogliente, ma quanto a fotografare è stato irremovibile.(G. Tucci, A Lhasa ed
oltre, 161).
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CAPITOLO VII
Da Gyantse a Zedang
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T
ra fertili vallate e aspre giogaie, l’arrivo a Gyantse è stato rapido, ora le strade sono molto ben
tenute, siamo in pianura, anche se qui il fondo valle
è al disopra dei 3.500 m. Questa città, legata alla presenza del Kumbum, si trova sulla strada che dall’India raggiungeva, anche in passato, Lhasa. Se uno dice
Gyantse pensa subito al grande tibetologo Giuseppe
Tucci e a Franco Ricca che ne ha ricalcato le orme,
con la stessa fatica perché il Tibet è sempre stato un
paese chiuso e vedere, capire, studiare, documentare,
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non è facile neppure da “turisti quasi per caso”, figurarsi da specialisti.
Percorriamo ancora ampie pianure coltivate e verdeggianti per arrivare alla nostra meta, in effetti abbiamo raggiunto la città nel pomeriggio e ci è rimasto
a disposizione il tempo sufficiente per girare intorno al tempio e nei bazar. Allora ci dispiaceva che la
marescialletta finito l’orario in cui era di guardia ci
mollasse senza spiegazioni e senza cure, dato che
nessuno parla lingue straniere, neppure negli hotel o
in aeroporto, ma poi questi periodi “vuoti” risultano
ora nel ricordo “pieni” di contatti diretti, anche se impossibili. I tibetani non si accostano più agli stranieri,
ma guardano e sorridono. Sempre. Come mi ha detto
la nostra figlioccia Tashi, sorridono perché è l’unica e
l’ultima cosa che non gli è stata strappata via.
Nel pomeriggio in pochi minuti il tempo è cambiato
repentinamente e il cielo da blu intenso si è fatto nero,
in un attimo più che nero, inchiostro. Si è alzato un
forte vento, che sollevava polvere e sassolini e poi,
quando si è placato, allontanandosi e portando la tempesta verso i monti, sono rimaste le nubi basse. Anche
se non è piovuto, quando si sono diradate le brume sui
monti attorno, era scesa neve fresca, ma la temperatura comunque è rimasta alta.
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Noi senza problemi abbiamo sorseggiato una tazza di
the e tutto è finito, ma non oso immaginare cosa possa
accadere in alta quota.
Tutto questo nel giro di mezz’ora. Poi siamo tornati a
girovagare nella vana speranza di trovare un cambio.
In effetti finora abbiamo cambiato ovunque, ma qui
no, bisogna cambiare in banca, che ovviamente anche
se doveva essere aperta è chiusa a causa del solito sfasamento di ore reali (fuso di Lhasa) e virtuali (fuso di
Pechino imposto con una differenza di oltre tre ore).
Tenta di aiutarci un tibetano che vive in Australia, vestito come i tibetani ormai non usano più, credo da
proprietario terriero, con tunica e camicia bordata
d’oro, cappello e scialle, stivaloni da cavallerizzo e
cinta con borchia d’argento cesellata, che si nota per
la sua eccentricità, indubbiamente per quello spirito
di rivalsa che hanno tutti gli emigranti quando tornano al proprio paese.
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Si vede che ora sta bene economicamente, ma che
dentro non sta poi così bene. Spiega che è venuto in
vacanza a trovare la sorella minore della moglie, che
quando è partito era giovane e una volta in Australia,
anche se aveva i parenti non capiva nulla e gli inizi
furono tanto, troppo difficili. Ora è diretto a Lhasa, e
il prossimo anno andrà nell’Amdo da cui proviene la
sua famiglia. Chissà quanti tibetani della diaspora ci
sono nel mondo, dagli USA al Canada, dalla Svizzera
all’India e neppure potranno mai tornare, per difficoltà politiche o economiche, a risciacquare nei fiumi
natii gli animi impregnati di nostalgia da diluire.
Passiamo il pomeriggio a vedere i mercati alimentari,
enormi bistecche di yak, cani che gironzolano educatamente e vengono nutriti dai macellai con altrettanto
garbo e rispetto reciproco. Spezie ben esposte nei loro
sacchi, verdure a non finire: melanzane, fagioli, fagiolini, patate, insalate, cetrioli, peperoni, certo tutto
è piccolo ma perché sembra genuino, non forzato.
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zione. Riesco a intuire una certa sequenza iniziatica
attraverso il passaggio dagli stadi informi, mediante
le divinità terrifiche (i protettori) fino alle Tara nei
quattro colori rituali, che sono collocate al vertice. Livello dei piani, sequenza, immagini delle divinità raffigurate e colori, tutto segue una logica precisa, puntuale: metafisica matematica quella tibetana. Sono
sicura che le proporzioni sono fissate da una qualche
regola aurea. Sulla montagna il forte conserva la sua
cinta muraria che cerca – protettiva – di abbracciare il
tempio sottostante.
La rovina della città risale alla spedizione inglese del
1904, comandata da Younghusband, che invase il Tibet per un eccesso di zelo. Con lo stesso zelo trucidò
a colpi di dinamite i tibetani – si dice 5 o 6.000 – che
difesero fino allo stremo la strada della capitale, di
cui il forte era baluardo e si opponevano alle truppe
nemiche lealmente con scudi, lance e frecce e qualche
arma da fuoco, già all’epoca reperto da museo.
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Al mattino, dopo una notte quasi insonne, stavolta
non per l’altezza ma per il rumore degli stramaledetti
karaoke che ammorbano sistematicamente le aree circostanti i pochi templi rimessi in piedi, andiamo a visitare il Monastero di Palkor con il celebre Kumbum.
Il monastero è simile a molti altri, ma la devozione
ancora più intensa, si rivedono le pietre dipinte con
scritte colorate di dedica e offerta. Davanti agli altari,
oltre a lampade e ciotole d’acqua, le offerte modellate
nel burro e orzo tostato, chiamate torma oltre a frutti
freschi. Tutte le divinità nominate durante la liturgia
debbono avere un torma davanti al proprio altare, almeno così dice Tucci.
Nel cortile spicca la costruzione del chorten, edificato
come un mandala tridimensionale. Su piani sovrapposti ha 108 cappelle, comprese le stanze di medita-
Per gli storici l’ingresso degli inglesi fu la causa remota dell’occupazione cinese, dopo che si resero conto che l’inospitale Tibet poteva essere appetibile e una
presenza occidentale mettere a rischio i propri confini.
Comunque anche lo strano inglese, spia da giovane e
mistico in vecchiaia, primo in assoluto ad arrivare a
Lhasa, non amava i cinesi, tanto da scrivere nei suoi
appunti: «rispetto alle razze dell’Asia i cinesi hanno
maniere molto più sgradevoli». Certo un pregiudizio
etnico, condiviso però da qualcuno. Oggi davanti a
quei luoghi una colonna in stile Tien an men, in uno
slargo lastricato di marmo bianco commemora. Non
certo i tibetani, ma l’armata cinese, con foto di soldati
accanto a mezzi militari.
Ci mettiamo in marcia per un percorso che non dovrebbe essere troppo lungo, ma a causa di un’interruzione della strada dobbiamo guadare il Lago di Giada
e poi fare il giro. Il lago è di un colore azzurro intenso, è un lago salato e come tutti i grandi laghi del
Tibet era sede di un oracolo. La sua forma è estrema-
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mente articolata e il giro è lunghissimo, ma si tratta
di paesaggi luminosi, di risaie terrazzate e digradanti
nel verde più smeraldino nell’anno. Prima del passo,
come per intuizione chiedo di fermarci e troviamo
un banco di fossili: pesci, ammoniti, megalodonti.
Troppo pesanti per portarli con noi. Nel banco anche
inclusioni di ferro, talmente puro che si è arrugginito dentro la pietra. Questo suolo e questi monti sono
ricchi di tutti i minerali più ricercati.
Gli yak pascolano, le bandiere sventolano al vento, il
cielo è blu e anche se il viaggio è lungo gli occhi si
riempiono di magnificenza.
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Arriviamo a Zedang che è ormai buio. È una città
completamente cinese, il lungofiume è attrezzato a
parco con le balaustre di granito scolpito con draghi,
come a Nanchino. Sul libro fotografico del TCI degli
anni Ottanta si vede una città tibetana, case basse di
mattoni, mercato in uno spiazzo polveroso, dominato
da un forte, circondato dal nulla. Oggi non ve n’è più
traccia. Il clima è molto mite, la terra fertile è coltivata intensivamente e i coloni cinesi crescono e si
moltiplicano, addirittura si vedono cagnolini bianchi
da compagnia, segno di un benessere occidentale.
La sera entriamo in un ristorante dove un vok a centro
tavola bolle per metà con olio e per metà con brodo:
si può cuocere tutto quello che si vuole. Troviamo assieme a carne e verdure, anche il pesce e ci lanciamo
nell’avventura divertente, accuditi in quattro da ben
sei assistenti che cercano di riparare, con squisita cortesia, alla nostra goffaggine occidentale, in particolare quella di Ernesto e Giulio. In breve diventiamo
l’attrazione del locale, loro sorridono, noi ridiamo e,
infine, ci rilassiamo.
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Caratteri. I cinesi han erano freddi e conformisti. Anche se gli abitanti originari erano stati allontanati con
la forza dalle loro terre, conservavano una gioia e una
libertà che mancava ai loro oppressori. (P. French, Oltre
le porte della città proibita, 33)
Lago Yamdrok. Partimmo per il monastero di Samding,
residenza di Dorje Phagmo, uno tra i bodhisattva più importanti. Il paesaggio attorno a quel monastero, uno tra
i più belli del Tibet, era spettacolare: laghi blu cobalto
delimitati da ricchi pascoli su cui brucavano migliaia
di pecore. Alla luce chiara e tersa dell’estate mi parve
incredibilmente suggestivo. Potei vedere qualche branco
di cervi e gazzelle, assai comuni in Tibet a quell’epoca…
Il monastero di Samding si trova nelle vicinanze della
cittadina di Nagartse, che a propria volta è vicina al
lago Yamdrok, uno dei più suggestivi cha abbi a mai visto. Poiché il lago non ha immissari né emissari, l’acqua
ha un intenso color turchese che stimola i sensi. (Dalai
Lama, La libertà nell’esilio, 79)
Torma. Alle nove trovo Ghiase lama davanti ad un gran calderone di rame intento ad impastare farina e burro per
farne torma. Con le mani lunghe e sottili modella lentamente e quasi affettuosamente cotesti simboli che verranno
posti sull’altare: simboli degli dei da invocare, dei demoni da fugare ed insieme delle offerte propiziatorie. Il torma
più grande raffigura il dio , o per meglio dire il mondo stesso di lui essenziato; una base quadrata su cui poggia una
specie di guglia conica: così i buddisti rappresentano l’universo che per gradi si solleva fino alla punta estrema,
il modo più sottile di esistenza cui si ascende nel processo meditativo, il piano extraspaziale ed extratemporale nel
quale ci si trasporta nel momento dell’estasi e del nirvana. (G. Tucci, A Lhasa ed oltre, 34)
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CAPITOLO VIII
Da Zedang a Lhasa
iornata intensa di spostamenti e contrasti naturali. Arrivati in pianura ogni disagio da mal di
montagna è alle spalle, ma è strano che consideriamo
pianura un’altezza superiore ai 3.700 m. sul livello
del mare.
Yumbulakhang è il santuario civile e militare del Tibet. Qui si incastellarono i primi re, a cominciare dal
mitico Nyari Tsenpo, giunto dall’India nel IV sec.
della nostra era portando i primi testi buddhisti. Del
sito originario saranno rimaste – forse - le fondamenta, ma dalla torre si abbraccia con lo sguardo l’ampia
valle dello Yarlung, con i campi squadrati e le case
basse dal tetto piatto. Nel tempio-torre, ci sono le statue di tutti i personaggi che hanno fatto grande la sto-
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ria del Tibet, ma a mio avviso nulla è antico.
La ripida e lunga salita la effettuiamo a cavallo con
i pony tibetani, la mia cavalcatura è una giumenta,
seguita dal puledrino che ci corre dietro sulle zampe, sottili ma agili, per attaccarsi alle mammelle nelle
pause del tragitto. In questo caso, considerato che la
strada è rimasta il «sentiero precipite» dei tempi anteguerra, si tratta di un necessario servizio taxi e non
folklore locale per turisti. Lasciata la valle ci dirigiamo verso il Ferry – Tsang-po (futuro Brahmaputra,
una volta in India), più che un fiume sembra un lago
che riempie tutta la vallata e non solo, sicuramente ci
sono state forti piogge e alluvioni perché quelli che
credevamo cespugli, sono le chiome degli alberi a
bordo strada che emergono a pelo d’acqua e fango.
Una volta si attraversava a bordo di barche-zattere di
pelle di yak. Tutto in Tibet viene dallo yak o meglio
dalla dri, la femmina, non solo formaggio, carne, lana,
ma perfino il combustibile dallo sterco. Messo a seccare, ricomposto amorevolmente in mattoncini, sulle
pareti e sui tetti delle case, forma artistiche decorazioni a spina di pesce, tanto per dare un’idea simile alla
pavimentazione stradale dei borghi medievali toscani.
Dopo campi verdi e gialli, con i covoni di forma antropomorfa che avrebbero fatto la gioia di un Frazer,
se fosse arrivato fin qua a poter descrivere la raccolta
delle messi, ci troviamo in pieno deserto.
Non un modo di dire, ma Samye è quasi un’oasi elevata in mezzo a dune di sabbia, dune vive, mobili,
che vengono fermate con reticoli di sassi, sarmenti e
pianticelle.
Nel raggio dello sguardo visivo si alternano immagini di grande contrasto cromatico e non solo. Creste a
dente di lupo, rocce nere, colline ocra, pascoli verdi,
dune bianche, fiumi fangosi, cielo blu. Indescrivibile:
campi coltivati e deserto, pascoli e rocce. Secondo il
nostro schema mentale non possono appartenere allo
stesso paesaggio, eppure la retina colpita da tanti stimoli affascinanti e contraddittori trasmette al cervello
un impulso visivo che sembra fare corto circuito non
riuscendo a catalogare le immagini.
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Samye è il primo monastero buddhista del Tibet. Affreschi narrano l’intervento potente di Padmasambava, venuto dall’India per combattere gli influssi nefasti causati dagli sciamani Bon. Anche questo tempio
è strutturato come un mandala tridimensionale con 4
stupa agli angoli e 108 templi (un tempo). Samye fu
raso al suolo, come altri 5mila o 15mila templi, le
statistiche non sono esatte, durante la pacifica rivoluzione culturale. Hanno ritirato su una pagoda, grazie
alle fotografie conservate da un contadino e al legname recuperato, ma su alcuni muri si vedono ancora
i segni delle pallottole e gli affreschi all’acrilico di
peonie e tigri fanno sempre il solito effetto “ristorante
cinese”.
Quanto alle foto conservate da un contadino, non so
se sia vero, ma può darsi: Mele, il fotografo al seguito
di Tucci nel 1948 aveva ripreso il monastero principale, oggi l’unico di Samye.
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La copertura è formata da quattro tetti digradanti su
una struttura quadrata, agli angoli del terzultimo si
ergono quattro torrette, la struttura dal confronto di
immagini sembra più o meno rispettata, pur se con
diverse proporzioni. Comunque nell’insieme è meno
peggio di quanto possa far sembrare la descrizione,
perché in oriente non c’è il concetto di restauro filologico e nulla è mai veramente antico. Né i templi
di Kyoto in Giappone né la Città proibita a Pechino:
ho visto angoli di tetto di preziosa porcellana smaltata, buttati a terra e sostituiti da copie in cemento.
Lo stesso a Samarcanda. Lo stesso in Cambogia nei
monasteri scampati ai khmer rossi.
Constatiamo che sono ripresi i pellegrinaggi, i monaci gestiscono un ambulatorio medico e per il Capodanno si eseguono le danze rituali, la vita religiosa in
qualche modo riprende.
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A Samye capiamo, infine, un arcano: dall’inizio del
viaggio notavamo davanti alle case e ai negozi una
specie di antenna parabolica a farfalla. Niente di tutto
questo: è una sorta di specchio ustorio che concentra
il calore del sole per irradiarlo su un recipiente metallico e far bollire l’acqua per il the. Geniale ed è
anche trasportabile su ruote e richiudibile. In caso di
pioggia.
Da Samye, anziché tornare indietro dal ponte e percorrere la strada asfaltata, procediamo lungo il fiume,
direzione ovest, su un sentiero sterrato. Cerchiamo
di individuare gli eremi di Chimpu sulle pendici del
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monte, scrutando con il binocolo, identifichiamo una
stupa bianca in una gola, l’ingresso di una grotta, segnato da un arcata scolpita, ma ovviamente tutto per
supposizioni, dato che chi ci accompagna non ne sa
nulla. Guadiamo un torrente, l’ennesimo e ultimo, ma
stavolta il guado è molto lungo e profondo, l’autista
mette la ridotta per la prima volta. Giulio, l’amico che
viaggia con noi, stringe la presa della mano sul maniglione di appoggio, come verrà immortalato nella
foto, che mostra vene e tendini in evidenza. Passiamo.
Infine il sentiero si immette sulla strada dell’aeroporto e arriviamo a Lhasa.
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Alloggiamo all’Hotel Tangka, proprio davanti al Jokhang il santuario più venerato, e iniziamo la nostra
scoperta. Seguendo il flusso di monaci e pellegrini arriviamo davanti al tempio dove i tibetani eseguono le
prostrazioni: intrecciano le mani sulla fronte, la gola
e il cuore, prima di prostrarsi a terra. Lungo la strada
abbiamo visto monaci, che in questo modo effettuano
il pellegrinaggio, in giorni diversi sulla stessa strada,
al mattino e al tramonto li abbiamo avvistati ad almeno 80 km di distanza che procedevano, con gesti
senza tempo, verso Lhasa e chissà da dove venivano.
Monaci e pellegrini, girano in senso orario attorno al
tempio, sul Barkhor. Un tempo c’erano tre percorsi
circolari. Il Lingkor, cerchio più esterno è stato demolito dalla pianificazione urbanistica cinese. Ringraziamo Dio, Buddha o chi-per-lui che almeno questo sia
rimasto. Per cena andiamo nella caffetteria con terrazzo sulla piazza. Sui tetti circostanti militari cinesi in
assetto di guerra: elmo a infrarossi, giubbotto antiproiettile, schinieri e mitra imbracciato, ovviamente anche nella nostra direzione. Mi rifiuto di prendere una
foto, ne ho abbastanza di loro e non vorrei prolungare
il mio soggiorno oltre il previsto e prefissato…
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Da sotto non avevamo ancora notato nulla, ma ci accorgiamo anche che ci sono ronde, posti di blocco, postazioni fisse a tutti gli angoli, con i soldati, in assetto
antisommossa, schierati in opposte direzioni, agenti
in borghese che mettono la gente faccia al muro, tutto
sotto i nostri occhi.
In Occidente non si sa nulla, perché ormai mettiamo
le lanterne rosse pure al Colosseo, ma cosa accade
davvero a questi poveretti? E perché un miliardo e
mezzo di cinesi, ormai ricchi e potenti, hanno così
tanta paura di un paio di milioni di inermi straccioni
tibetani, che camminano in ginocchio? Forse perché
ogni tanto qualche monaca, che pagava il bel gesto
con la vita e srotolava qualche striscione di “free Tibet”, hanno raso al suolo tutto quello che c’era attorno al tempio, le vecchie case tibetane non ci sono
più, i localini segnalati dalla Routard, ormai sostituiti
dai Mc Donald cinesi, acquari spettrali dalle grandi
vetrate sul vuoto.
Restano i venditori di souvenir religiosi, le tangka fatte in serie, le ruote di preghiera, gli incensi. E la fede,
ancora tanta, ancora tangibile.
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Pellegrinaggio. Vengono dagli estremi confini del Tibet e della Mongolia, non camminando, ma misurando la strada con continue prostrazioni. Sollevano le
mani giunte all’altezza della fronte, poi della gola,
quindi del petto, simboli dei tre piani, di cui ho sopra
parlato; poi si prostrano con tutta la persona tracciando con le mani un segno sulla terra dove hanno
poggiato la fronte. Quindi, risollevandosi, pongono il
piede dove era la testa e fanno una nuova prostrazione e così di seguito per centinaia di miglia, per mesi
e mesi di cammino, proteggendo le mani con una tavola di legno infilata e tenuta ferma per mezzo di una
cinghia, in salita e in discesa. (G. Tucci, A Lhasa ed
oltre, 98-99)
Restauri. I Tibetani non si danno gran pensiero di
rispettare l’opera d’arte in sé: li interessa soltanto
il soggetto dell’opera stessa. Il ciclo divino che essa
rappresenta. Ad una parete affrescata, annerita dagli
anni, preferiscono la chiassosa lucentezza di un nuovo dispiegamento di figure, affidate spesso a pittori
locali. Provvedere i mezzi per fare un’opera sacra ed
eseguirla è un’azione meritoria che fruttifica e cancella i peccati: insomma il motivo religioso sostituisce del tutto la cura artistica. (G. Tucci, A Lhasa ed
oltre, 45)
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Yumbulakang. Ridiscendendo sulla strada si arriva a
Yumbulakang, il castello dove abitava il primo re del
Tibet cui giunse, piovendo dal cielo alcuni libri, la
prima rivelazione buddistica. È una torre a forma di
pagoda cinese che s’alza ardita su una breve costruzione quadrata arrampicata sulla cima di uno sperone sassoso e ispido. (G. Tucci, A Lhasa ed oltre, 155)
A Tsetang. Il cichiàb (governatore) è un lama: ci accoglie con molte premure nella sua villa festosa d’alberi e di fiori a sud di Tsetang Discorrendo con lui
amichevolmente durante il pranzo riposavo lo sguardo sul giardino addormentato in un’aria dolce di sole
che pareva d’essere nelle nostre campagne di primavera. L’ospite era amabile e colto. Questa affettuosa
cordialità che trovo dappertutto caccia la nostalgia;
sento che qui vivrei benissimo, anzi meglio che altrove, perché avrei più libertà di seguire a mio piacimento i sogni della mia fantasia. (G. Tucci, A Lhasa ed
oltre, 152)
Percorsi accidentati. La strada è lunga e nel suo primo tratto serpeggia fra il fiume e le montagne che si
cadono addosso in un terreno sabbioso tutto pieno di
cespugli spinosi. Non si incontra nessuno: il deserto
ti inghiotte nuovamente. Poi la strada piega per la
valle di Mindoling che è calda di verde e d’alberi. Si
passa di villaggio in villaggio diguazzando nell’acqua che corre dappertutto e per irrigare i campi si fa
letto della strada. (G. Tucci, A Lhasa ed oltre, 161)
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CAPITOLO IX
Lhasa: Jokang, Drepung, Norbulinka
eri sera, circumambulando il tempio, dall’alto arrivavano canti melodiosi dal tetto, accompagnati
da colpi secchi, come di tamburo. Oggi abbiamo scoperto l’arcano. Quasi più affascinante del sacro Jowo,
immagine del Buddha, conservata al suo interno. Si
tratta di giovani volontari, ragazzi e ragazze, che stanno rifacendo i terrazzi. La terrazza viene impermeabilizzata tipo il sistema del cocciopesto, triturando e
ammassando i materiali necessari.
Un sistema arcaico, usato anche dai romani, ma più
arcaico è il trasporto, che non avviene mediante carrucole, ma con tavole di legno a “L” legate alle spalle,
su cui vengono trasportati tutti i materiali da costruzione, portati su e giù per le ripide scale. Una volta
pronti, i materiali vengono sparsi sul pavimento e un
gruppo di lavoratori, davanti le donne, dietro gli uomini, che occupano tutto lo spazio, iniziano a pestare
con i piedi e con una piastra rotonda, dal lungo manico. Il lavoro è scandito da cori alterni, di voci maschili e femminili, che fanno in modo che la pressione
esercitata sul solaio di legno sia equilibrata, ossia efficace ma pure leggera. Voltandosi avanti e dietro più
volte, quasi danzando lievemente, in un alone di armonia sacra. Resto praticamente ipnotizzata dal canto
e dalla scena fuori dal tempo.
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Oltre i tetti, ruspe e gru cinesi divorano passato e presente: il fiume Kyi Chu, tombato; il villaggio medievale di Sho, demolito; i parchi, rasi al suolo; il Chakpori, la montagna-tempio dei celebri lama medici,
spianata e ridotta a un moncone di roccia su cui svetta
oggi l’antenna televisiva. Per fortuna non è girevole
come quella di Berlino.
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Benefattori coreani, vengono ricevuti con tutti gli
onori dagli abati, con lo scambio di katha, le sciarpe
rituali di seta, evidentemente la comunità buddhista
internazionale si attiva a sostegno dei monasteri e
delle comunità rimaste. Tutto questo lo capiamo da
soli, la marescialletta, se non tace, si limita a leggere
i nomi delle statue, scritti sulle vetrine.
Arriviamo a Drepung, una delle grandi università
monastiche del buddhismo tibetano, appollaiato su
una collina appena fuori Lhasa, verso l’aeroporto. Va
detto che i lavori fervono, non sono affidati ai poveri
volontari tibetani, magari contadini e operai che rinunciano al giorno festivo, per servire il tempio, ma a
ditte specializzate.
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Vediamo gru, impalcature, cartelli di cantiere e progetto. Dal fervore della ricostruzione si capisce l’accanimento delle distruzioni, le ferite ancora visibili
dei bombardamenti.
Di Drepung colpisce la grande ruota di preghiera ad
acqua, sovrastata da uno stupa e messa in moto dal
torrente che scorreva dalle balze della montagna e fu
deviato per questa funzione e fatto defluire da una cunetta al centro della scalea d’accesso. Notevoli anche
le cucine, con le enormi caldaie, fiammeggianti, per
far bollire altrettanto enormi marmitte che davvero
ricordano le scene de Il nome della rosa. Sebbene i
fuochi siano accesi dentro c’è solo un gatto a presidiare. Sopra il tetto è rialzato su pilastri e la parte alta
dell’edificio è scoperta, sui piani e ripiani anneriti di
fuliggine si è ammucchiato di tutto.
Essendo tutto un fervore di lavori non vediamo monaci, ma vediamo i monumentali catini da offerta in
rame o bronzo, un tempo dorato, adibiti a container
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per la raccolta dei materiali di risulta e demolizione.
La Routard dice che qui è troppo affollato di turisti,
sarà per la ristrutturazione in corso o per la crisi generale ma qui, come altrove in Tibet, di turisti a frotte,
non ne abbiamo visti proprio.
Dall’alto vediamo anche il fervore dell’attività edilizia intensiva della città cinese che si espande verso l’aeroporto, con centri commerciali e grattacieli
dei centri direzionali, ripresi dal mio obbiettivo. Le
descrizioni di fiumi gorgoglianti, rive verdeggianti,
boschetti ombrosi sono entrate nella leggenda, quasi
come i poteri paranormali dei lama illuminati, di cui
si favoleggiava in Occidente fin dai tempi di Marco
Polo.
Arriviamo al Norbulinka, salvato dall’Unesco, che
lo ha preso sotto protezione. All’ingresso un cartello
avverte che dentro il parco è vietato, assieme a tante
altre cose, l’uso delle ruote da preghiera. Una vecchia
tibetana che forse non sa leggere se ne frega.
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Il parco è ben tenuto e i padiglioni sui laghetti, sono
davvero deliziosi: questa era la residenza privata del
XIV Dalai Lama, che la prediligeva oltremodo. Spesso ha detto che l’ultima immagine del suo paese e
quella più profondamente impressa nella sua mente è
proprio il Norbulinka, al quale gettò un ultimo sguardo di rimpianto, voltandosi indietro mentre fuggiva in
quella tragica notte del 1959.
All’interno le stanze sono tutte visitabili, compreso
lo studio, la camera da letto e la sala da bagno. Nello
studio, come si legge in tutti i libri e memorie del Dalai Lama, è conservata la prima radio e la prima macchina da proiezione, entrate in Tibet. Qui è avvenuta
anche l’apoteosi della nostra guida, di cui ho omesso
di parlare per non sprecare inchiostro: la radio è stata
introdotta in Tibet nel XVII secolo, portata dagli Stati
Uniti. Il mio grido di orrore non la smonta e insiste.
Arriva di rinforzo un’altra guida, richiamata dalle nostre proteste, a confermare la verità di fede.
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Cerco di spiegare che nel Seicento non solo non esisteva la radio, ma neppure gli USA. Nulla da fare: in
Tibet c’era, da voi in Europa, no.
La “prova del chiodo” deve essere il requisito primario
degli addetti al turismo. Senza contare che, secondo
il diretto interessato Tenzin Gyatso, la radio suddetta
sarebbe arrivata dall’India. Ma quel nome meglio non
pronunciarlo, considerato che, come niente, ti ritrovi un uncino da macellaio nella lingua: almeno così
racconta la Commissione giuridica internazionale.
L’unica volta che, senza nominarlo, abbiamo chiesto,
da finti scemi, del “XIV”, la risposta: as you know…
Stasera danze tibetane e mi rifiuto. Penso e le associo alla retorica di regime, alle bamboline in costume
tradizionale di tutte le nazionalità cinesi, vendute nei
Negozi dell’amicizia, che simboleggiamo la convivenza unanime nell’armonia perenne e nel progresso
inarrestabile. A tutto c’è un limite.
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Processioni. Il 5 marzo lasciai lo Jokhang per tornare al Norbulingka, come sempre con una splendida
processione. Per l’ultima volta sfilò il corteo simbolo
di oltre mille anni di civiltà ininterrotta…La folla ammassata alle porte del Norbulingka era decisa a non
andarsene. (Dalai Lama, La libertà nell’esilio, 149)
Mucchio di Riso. Drepung è il più grande monastero del mondo con i suoi diecimila monaci, i suoi alti
templi, le piccole case di pietra e gli edifici a terrazza
che si levano l’uno dietro l’altra. Questa comunità era
come una città difesa da mura e, al pari di una città
ben difesa, godeva d’una vita autonoma. Drepung significa “mucchio di riso” e, veduto da lontano,il monastero sembrava effettivamente un mucchio di riso,
con le torri e le cupole che splendevano al sole… Il
Mucchio di Riso era in realtà composto da sette lamaserie in una; lo formavano sette ordini distinti, sette
collegi separati. Ed era così vasto che non lo dirigeva
un solo uomo. Governavano lì quattordici prefetti e
imponevano tutti una severa disciplina”. (L. Rampa,
Il terzo occhio, 52)
Flora tibetana. Alla fine dell’estate del 1958 mi recai
a Drepung e quindi al monastero di Sera…In omaggio alla tradizione, prima di lasciare Drepung salii
in vetta alla montagna più alta, situata dietro il monastero e dalla quale la vista spazia per centinaia di
kilometri. A una simile quota esiste il pericolo di mal
di montagna persino per i tibetani, ma non ne risentono i graziosi uccelli che nidificano molto al di sopra
dell’altipiano né i rigogliosi fiori selvatici, noti in tibetano come upel. Sono piante spettacolari, di colore azzurro, alte e spinose e simili al delfinio. (Dalai
Lama, La libertà nell’esilio, 146)
Orizzonti perduti 1. In lontananza, al di là dei tetti
più bassi sotto la finestra scorgevo Lhasa spiegarsi
nella luce del sole. Piccole case, rese minuscole dalla
distanza e tutte di delicate tinte pastello. Le acque
tortuose del fiume Kyi scorrevano attraverso la piana
vallata, fiancheggiata da erbe verdissime. In lontananza, le montagne erano purpuree, sormontate da
candidi cappucci di neve scintillante. Le giogaie più
vicine erano maculate dai tetti dorati delle lamaserie.
(L. Rampa, Il terzo occhio, 83)
Orizzonti perduti 2. Lhasa era molto cambiata dopo
l’occupazione. Era sorto un nuovo quartiere per alloggiare i funzionari cinesi e i loro dipendenti. S’intravedeva già una città moderna che avrebbe inghiottito l’antica capitale. (Dalai Lama, La libertà
nell’esilio,143)
Mantra. Ogni giorno il Barkhor e il Lingkhor erano
stipati di fedeli che si aggiravano compunti, alcuni
con in mano la ruota della preghiera, cantando le parole sacre: Om mani padme Hum (Salve o gioiello nel
fiore di loto), praticamente il nostro mantra nazionale. Altri intrecciavano silenziosamente le mani sulla
fronte, la gola o il cuore prima di prostrarsi a terra.
Anche la piazza del mercato di fronte al tempio era
affollatissima: donne con gli abiti fino a terra, ravvivati da grembiuli variopinti; spavaldi Khampa, con i
lunghi capelli legati da nastri rossi e il fucile a tracolla; nomadi venuti dalle montagne, con il volto avvizzito; e ovunque bambini festanti. Mentre guardavo
attraverso le tende del mio appartamento pensai che
non avevo mai visto tanta animazione. (Dalai Lama,
La libertà nell’esilio, 148)
Pacta sunt servanda. Elemento interessante dello Jokhang è il monumento in pietra ancora esistente all’ingresso
che testimonia la potenza storica del Tibet. L’iscrizione in tibetano e cinese, riporta il trattato perpetuo concluso
tra Tibet e Cina nell’821 d.C.: … tutti vivranno in pace e approfitteranno delle benedizioni della pace per diecimila
anni. La fama di questo accordo raggiungerà tutti i luoghi toccati dal sole e dalla luna. Questo accordo solenne ha
stabilito una grande epoca in cui i tibetani vivranno felici nel paese del Tibet e i cinesi in Cina…(Dalai Lama, La
libertà nell’esilio, 49-50)
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CAPITOLO X
Lhasa, Palazzo del Potala
e scale del Potala, un tempo fiumana inarrestabile di pellegrini sono ormai perennemente deserte:
per la visita occorre andare a registrarsi in anticipo,
lasciare il passaporto, farsi fissare l’appuntamento e
poi tornare nel giorno e nell’ora fissata. Con puntualità cronometrica, altrimenti non ti accettano più.
L’accesso è regolamentato severamente, con giorni
riservati ai tibetani e altri ai turisti, ma anche le modalità d’ingresso sono rigide: metal detector, come
in aeroporto, e perfino il sequestro delle bottigliette
d’acqua. Le scale per arrivare a questo palazzo-montagna sono tante e sebbene ci consideriamo arrivati in
“pianura” la fatica si fa sentire, come l’arsura
a 3.700 m. Dalle scale si vede lo spiazzo, un tempo
occupato dal villaggio medievale di Sho, ora demolito, ingombrato da un’altra riproduzione della Piazza
Tien An Men. Tanto per mettere in chiaro…
Il Potala si salvò per ordine personale di Ciu en Lai
e non fu saccheggiato. Appollaiato sulla Montagna
Rossa, è anch’esso protetto oggi dall’Unesco. Visibili
sono 13 piani fuori terra, altissimi. La guida ci molla, per quello che serve.. ma il problema è che non
la ritroveremo neppure all’uscita e per un misterioso
motivo, nessun tassista ci vuole portare in hotel.
Né a noi né agli amici dell’altro gruppo febbricitanti.
L
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Il motivo ci è ignoto, ci spieghiamo benissimo in inglese e abbiamo anche il biglietto da visita dell’albergo scritto in cinese e tibetano, ma la strada di accesso
al nostro hotel è sbarrata e presidiata. Gli autisti, come
notiamo tutti, sembrano spaventati da quell’indirizzo.
Forse non tutti i veicoli vi possono accedere.
Ma torniamo al Potala, la visita segue un percorso
prestabilito dal quale non si devia. La zona più suggestiva è rappresentata dai reliquiari di 7 dalai lama,
tutti a forma di stupa, ricoperti dai 3mila ai 12mila
kili d’oro e più. La loro preziosità non è solo nel valore materiale, ma nel fatto che nonostante tutto siano
ancora qui, nonostante guerre e razzie, sovvertimenti politici e militari hanno sfidato tutte le perversità
dell’animo umano. Qualcosa di simile all’emozione
che per questo stesso motivo – e non tanto per il valore intrinseco – suscita la tomba di Tut. Proprio perché
l’oro riluce ed attira ogni avidità è la prima cosa che
sparisce, invece no.
Sotto al Potala si è salvata una parte del Lingkhor, una
sorta di antica circonvallazione di Lhasa, il cerchio
di pellegrinaggio più esterno, da percorrere in senso
orario come il Barkhor: in tutto tre cerchi, compreso
quello interno al tempio, come i tre piani dell’esistenza. Ora resta un tratto rettilineo tutto fiancheggiato da
ruote di preghiera, vecchie pellegrine, con il vestito
nero, il grembiale e il cappello, le fanno ruotare o ne
oliano per devozione gli ingranaggi.
Molti pellegrini hanno l’ombrello aperto per difendersi dal sole estivo. Queste figure che camminano
assorte con brevi passi, incedendo negli stivaloni di
feltro, contrastano con le cinesine spavalde, vestite di
tute rosa acceso, attillatissime, barcollanti su tacchi
vertiginosi di vernice bianca.
Fortunatamente sono i pellegrini, che ancora e sempre, scendendo dagli altipiani ventosi, ricreano l’atmosfera di preghiera, preservano il carattere sacro e
mitico del Potala. Nella sala del trono del XIV Dalai
Lama, l’attuale, le sciarpe di seta bianca sono un
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cumulo altissimo, alte quanto il trono stesso. E i devoti continuano a gettarle oltre le reti di protezione.
Unico e ultimo gesto d’omaggio ancora non vietato
dopo quarant’anni di normalizzazione.
Dall’alto vediamo il monastero di Sera, il lago di
Lukhang o del serpente, dove credo che un tempo
risiedesse l’Oracolo di Stato. Quello che aveva predetto con esattezza l’invasione inglese nell’anno del
topo-legno, che aveva vietato la ruota perché con essa
il paese avrebbe perso la libertà. Con gli occhi della
mente cerco di vedere quello che una volta c’era e
non c’è più: il Chakpori, la Montagna di Ferro. Il luogo ove è ambientato Il terzo occhio, il libro che per
tutti gli occidentali è stato il primo approccio – certo
fantasioso – alla conoscenza del Tibet, scritto pure da
un idraulico della Cornovaglia, ma non sprovveduto,
quantomeno elaborando i racconti dei tanti esuli.
Ne ritroviamo un pezzetto che sopravvive nell’Ospedale tradizionale tibetano, situato proprio davanti al
nostro hotel nella piazza del Barkhor.
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Il vecchio medico che ha accolto generazioni di turisti
è andato in pensione, ma a quanto pare a 83 anni si è
sposato felicemente e proficuamente con una trentacinquenne.
Così dice il discepolo che ci accoglie, anche se sui
dettagli dell’unione scherza amabilmente. Ci sediamo nella sala congressi, ci mostra le tangka mediche
e astrologiche, grandi pannelli esplicativi che descrivono perfino gli stadi evolutivi dell’embrione, ci introduce nel tempio, l’unico che finalmente possiamo
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fotografare, dove si conservano anche i testi antichi,
preservati negli armadi attorno alle statue.
Quello su cui non scherza è la distruzione della Montagna del Chakpori, di altezza pari a quella del Potala,
quando nel paese, testuale: “è arrivato il progresso e
siamo stati liberati con la pacifica rivoluzione”. Nel
corso della spiegazione lo ripete più e più volte, come
un mantra, sorprendendomi per questa sua franchezza, davanti a noi, ma tutti stranieri.
Forse il fuoco sotto la cenere non è spento.
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La Montagna di Ferro, Chakpori I. La visita dei
luoghi più celebri intorno a Lhasa si può concludere
con il Chakpori, sulle cime di un colle isolato fra il
Norbulinga e il Potala (…) è consacrato agli dei della medicina e, come tale, oltre che tempio è collegio
medico. Ci si arriva arrampicandosi per un viottolo
arduo come la strada del paradiso; ma quando sei
arrivato in cima, ti si apre l’animo: abbracci con un
solo sguardo tutta la valle Kyichu, vedi il fiume
dilatarsi e scorrere lento tra la scorta delle rive verdi
(G. Tucci, A Lhasa ed oltre, 106)
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La Montagna di Ferro, Chakpori II. Non mi stancavo mai di contemplare le colorate sculture nelle rocce che rivestivano un fianco della nostra montagna.
L’intera parete rocciosa era ricoperta di sculture e
dipinti delle divinità. (L. Rampa, Il terzo occhio, 126)
La Montagna di Ferro, Chakpori III. Al Chakpori
avevamo tavolette di legno incise alte un metro e ottanta e larghe circa un metro e venti; contenevano
illustrazioni del corpo umano e dei vari organi. Da
esse si ricavavano cartelloni murali che dovevamo
poi colorare. Disponevamo anche di carte astrologiche. Le carte dalle quali traevamo gli oroscopi
avevano una superficie di circa due metri quadrati.
In sostanza si trattava di carte dei cieli nel momento
del concepimento e della nascita di un individuo. Inserivamo in queste carte i dati ricavati dalle precise
tabelle matematiche da noi pubblicate. (L. Rampa, Il
terzo occhio, 124)
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Religiosità tibetana. Ma la fede la scopri nei pellegrini che ogni giorno salgono a frotte le scalee del
Potala; ricchi e poveri, dignitari e contadini s’inginocchiano di fronte a ogni immagine; sulle facce
leggi la devozione e l’estasi. Con brocche di rame
colme di burro vanno ad alimentare le lampade dei
templi. La religione qui è sentita come in nessun
altro luogo della terra: domina tutta la vita, regola
il calendario, ispira l’arte, informa di sé ogni pensiero ed ogni opera. Così doveva essere da noi nel
medioevo. (G. Tucci, A Lhasa ed oltre, 107)
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CAPITOLO XI
Valle di Drigung,
Monasteri di Drigung e Terdrom
a Lhasa ci rimettiamo in strada e percorriamo un
centinaio di kilometri a N-E, costeggiamo il Kyi
Chu e penetriamo nella valle di Drigung. Sempre verdissima, sempre ben coltivata, sempre sorprendente
per la ricchezza di acque e vegetazione. Drigung più
che un monastero è un insieme di romitori, disposti
attorno al tempio e agli edifici principali, e sembra
proteggere dall’alto, su una cresta rocciosa, la tranquillità della valle.
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Non si visita molto perché i sentieri che si snodano
dal tempio si dirigono verso le abitazioni dei monaci e
poi perché questa è la sede più nota, vicino Lhasa, ove
avviene il Funerale celeste: lo smembramento dei cadaveri per offrirli in pasto agli animali, preferibilmente uccelli. Sopra le nostre teste roteano falchi, corvi,
forse un’aquila, comunque volatili di dimensioni ragguardevoli. Qualcosa di simile alle Torri del silenzio
dei Parsi. La ragione si radica nella mancanza di legna
e nel leggerissimo strato di terra, in un paese quasi
tutto roccioso, che impediscono sia l’inumazione che
la cremazione. Da questa pratica deriva anche la grande conoscenza anatomica della medicina tibetana, che
non era afflitta da nessun tabù di sezionamento dei
corpi.
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Ma l’avventura della giornata e di tutto il viaggio è
la visita al monastero delle monache di Terdom. Ci
volevamo andare per lasciare una donazione a questo monastero patriottico. Quando leggevo o scrivevo
delle monache arrestate per le manifestazioni al Jokhang, non sapevo che venissero proprio da qui. Ovviamente non posso chiedere conferma. Il monastero
si trova in alto, arroccato alla chiusura di una valle.
In mezzo scorre un torrente, ma la sorpresa sono le
sorgenti termali calde. Ieri sera sono caduta malamente da un gradino rotto, pioveva e ho sbattuto forte il
braccio sinistro sul quale si è scaricato tutto il peso del
corpo. Fortunatamente mi sono parata con il palmo
della mano aperto, ma la notte l’ho trascorsa insonne
e impaurita dal timore di aver bisogno di un medico
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o di un ospedale. Il polso mi fa molto male e ho il
braccio al collo. La badessa ci accoglie affabilmente,
offriamo alcuni doni e un po’ di dollari. Parliamo e
ci fa visitare il monastero, questa volta molto bene,
vediamo tutto e restiamo colpiti dalla grande pulizia,
dalla perfetta manutenzione delle sale di preghiera e
di meditazione.
La badessa si interessa al mio braccio, spiego il fatto
e accade una cosa incredibile, di quelle che si leggono
nei romanzi, ma che si stenta e credere vere. Mi assicura che le acque termali faranno benissimo all’arto.
In effetto non volevo bagnarmi a causa dell’ematoma,
considerato che il calore non giova alle contusioni,
ma decido di fidarmi, anche perché l’acqua termale a
4.800 metri è un evento da non mancare. Poi tira fuori
una bustina trasparente e microscopica, che contiene
pillole di erbe altrettanto microscopiche. Tranquilla
dice che vengono dall’India e sono state preparate dal
medico personale di Sua Santità. Dice proprio His
Holiness, riferendosi al Dalai Lama, incurante della
marescialla.
Ne prendo una da non masticare, ma inghiottire, e poi
un’altra alla sera e continuo così nei giorni seguenti.
Dopo la visita e le foto ricordo, con il loro sparuto
gruppetto, ci rechiamo alle sorgenti calde. Un vero
paradiso, anche se siamo molto circospetti a causa dei
serpenti velenosissimi che si aggirano vicino l’acqua
e nel villaggio, ma per fortuna non ne vediamo.
Il mio polso inizia a migliorare subito, non batte più,
la notte seguente dormo e dopo un paio di giorni tolgo
anche la sciarpa con cui lo fissavo al braccio. Tornata
in Italia si rivelerà essere una microfrattura calcificata. Di quelle pillole ne conservo ancora un paio.
La Routard dice che nel 1997 ben 200 monache furono allontanate dal monastero o arrestate. Ora qui ne
vivono una quindicina e noi ne vediamo pochissime
quattro o cinque, molto vecchie e male in arnese.
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Il sito ha una storia antica e intrigante: legato all’iniziazione al buddismo tantrico di una sposa reale da
parte del guru Rinpoche. Per sfuggire alla collera
della corte i due si rifugiarono nella grotta, poi la
principessa effettuò pellegrinaggi, studiò, visitò altri
monasteri, ricevette altre iniziazioni e infine, dopo la
morte del guru, si ritirò nella grotta di Terdrom, primo
nucleo del futuro monastero, uno dei siti religiosi più
significativi della valle.
Ci sarebbe molto da dire e ridire sul ruolo della donna nelle varie religioni, che sul fronte sessista sono
davvero tutte uguali, ma – si sa – non è un problema
metafisico, quanto socio-culturale, se perfino nel buddhismo le donne talora pregano di reincarnarsi come
uomo. Intanto ci arriva un sms, ma meglio sarebbe
dire un sos: il gruppo dei quattro amici di Ravenna,
con i quali abbiamo condiviso una parte del viaggio,
è rimasto bloccato in aeroporto. Non li hanno fatti
partire per un errore della guida che li ha abbandonati soli in aeroporto senza riconsegnare loro il visto
d’uscita: come se uno potesse entrare in Tibet senza
avere il visto d’ingresso! Li ritroveremo in hotel stanchi e furiosi. Ma questi cinesi che vogliono? Quando
sei fuori non vogliono lasciarti entrare e quando sei
dentro non vogliono lasciarti uscire…
Sembra che pochi giorni prima del nostro arrivo un
gruppo di giornalisti italiani, come apprenderemo al
nostro ritorno in Nepal, sia letteralmente venuto alle
mani con le guide cinesi, inscenando una grande rissa.
Da allora sembra che minaccino di negare o ridurre il
rilascio di visti ai nostri connazionali. Nel frattempo
la rieducazione comincia da noi. Gli altri italiani avevano soccorso me offrendomi un passaggio in jeep
giù dall’Everest, adesso li soccorro io, ricambiando
in minima parte l’immenso favore ricevuto, con gli
antibiotici che ancora conservo, dato che la loro scorta è esaurita.
Per fortuna non ne ho avuto bisogno, nonostante tutto.
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Il Rito dei Morti. Una volta terminata la consueta
funzione, ci furono concessi dieci minuti di riposo
prima che avesse inizio il Rito dei morti per il monaco che aveva perduto la vita quel giorno. Tornammo a
riunirci al segnale. Il direttore dei cori, sul suo trono,
intonò un passo del Bardo Thödol, il Libro Tibetano
dei Morti… Monaci e lama seduti in due file al centro
del tempio, rivolti gli uni verso gli altri, sollevando e
abbassando simboli religiosi, secondo l’antichissimo
rito. «Oh! spirito vagante, vieni per poter essere guidato! Non puoi vedere i nostri visi, non puoi sentire
l’odore del nostro incenso, e pertanto sei morto. Vieni! Per poter essere guidato!”. L’orchestra di flauti,
tamburi, corni e piatti colmava i nostri silenzi… Il
tamburo dal suono più profondo e cupo pulsava con
il ritmo della vita stessa, con la comune profonda pulsazione del corpo umano… Accogli i nostri insegnamenti affinché possiamo liberarti. La morte non esiste, spirito vagante, esiste solo la vita senza fine. La
morte è nascita, e noi chiamiamo onde liberarti per
una nuova vita». (L. Rampa, Il terzo occhio, 170-172)
Lasciando questa vita
E tutti i miei amici e parenti
Se è da solo che dovrò andarmene
A che scopo distinguere tra amici e nemici?
(Shantideva, Bhodisattvacharyavatara, strofa 61)
Possano i monaci che desiderano praticare
Trovare luoghi solitari e tranquilli
Possano le monache avere a sufficienza ciò di cui
hanno bisogno,
possano evitare litigi e non subire violenza.
(Shantideva, Bhodisattvacharyavatara, Dedica, strofa
43-44)
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CAPITOLO XII
Lhasa, monasteri di Ganden e Sera
pellegrini che prostrandosi percorrono kilometri e
kilometri per recarsi a Lhasa li ritroviamo ancora
oggi sulla strada che costeggia il Kyi Chu dove procedono imperterriti, nella direzione opposta alla nostra,
che siamo diretti a Ganden.
Lo so che le storie dei monasteri non sono allegre in
questo paese dall’occupazione cinese del 1950 in poi,
ma quella di Ganden è ancora più triste del solito: per
ordine di Mao nel 1966 fu bombardato dal cielo, le
strade minate e in aggiunta accerchiato da carri armati
che sparavano missili.
Quello che restava fu fatto saltare in aria – pare – con i
superstiti dei 2000 monaci che vi vivevano un tempo.
Nel 1996 i cinesi tornarono, ancora con la forza, ancora con la violenza, per strappare dagli altari tutte le
foto del Dalai Lama.
Ma i tibetani sono tenaci e Ganden è risorta.
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Abbiamo visto pellegrini in visita, e i monaci sono
tornati a vivere qui, anche se l’insegnamento è soppresso, a decine e non più a migliaia come un tempo,
ma le funzioni si celebrano, gli incensi bruciano, le
lampade di burro di yak ardono e le sette ciotole sono
piene d’acqua.
I colori sono intensi a 4.800 metri, con il fiume che
scorre nella valle sottostante, gli yak pascolano tranquilli, le margherite sbocciano nei prati e le cime
osservano, dalle loro altezze remote e inaccessibili,
le formiche umane che si avvicendano da secoli sul
sentiero. Ma queste formiche sono affascinanti e le
foto mi sembrano le più interessanti del viaggio. Una
domanda senza risposta è perché in un paese così
freddo le vesti si indossino lasciando una spalla scoperta. L’unica spiegazione che mi posso dare è, per
un popolo nomade, l’esigenza di tirare con l’arco o
prendere la mira.
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Il pomeriggio arriviamo a Sera, il quarto dei grandi
monasteri dei Gyelupa, i berretti gialli, ossia i monaci
appartenenti alla riforma di Tsong Khapa, quelli del
Dalai Lama – per capirci – assieme a Ganden, Tashilumpo e Drepung. Ovviamente durante la pacifica rivoluzione culturale il monastero non si sottrasse alla
sorte degli altri. Ora la strada di accesso si snoda attraverso borghi vuoti. Questo monastero era una vera
città con banche, ostelli, stalle, varie lamaserie, templi e cappelle. A Sera vediamo tanti bambini piccoli
che frignano e hanno la punta del naso macchiata di
nero: per farli dormire la notte vengono portati al monastero da un lama esorcista che scaccia gli spiriti che
turbano il sonno dei piccoli.
La particolarità di Sera è il dibattito dialettico che tutti i pomeriggi si svolge nel cortile adiacente il tempio
principale. I monaci del collegio arrivano, richiamati dai rintocchi di un gong, che si fanno sempre più
pressanti. Si mettono al centro del cortile, sotto gli
alberi, alcuni siedono a terra e altri restano in piedi.
Quelli in piedi fungono da esaminatori o sfidanti. La
sfida viene lanciata alzando il piede sinistro e battendo le palme delle mani sonoramente e lanciando in
avanti il braccio destro con la mano tesa e l’indice
puntato, poi battono pesantemente il piede. La mossa
ricorda le arti marziali, per la rapidità dei movimenti,
la rotazione parziale del busto, la studiata precisione
della sequenza.
Chi sta seduto sotto il fuoco di fila delle domande incrociate degli altri studenti – mentre l’abate sgranando il rosario si aggira tra le file dei monaci, controllando che tutto si svolga regolarmente – ha l’aria non
certo tranquilla. Ma dopo poco il gioco si ribalta: chi
risponde esattamente o meglio dimostra di padroneggiare i collegamenti tra le varie discipline o semplicemente non si scompone, si alza in piedi e diviene, a
sua volta, esaminatore dell’esaminatore…
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È tutto uno svolazzare di tonache, rimboccare di
maniche, srotolare di scialli rossi. Il paradiso per un
fotografo, la scena è sempre la stessa e pure sempre
diversa. E poi è l’unica volta che posso fotografare i
monaci con tutto il mio agio, dato che i tibetani non
amano essere fotografati o forse temono di essere
identificati. Non mi accorgo del trascorrere del tempo
e lì resterei una vita, ma mi trascinano via.
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La Dialettica. La Dialettica, o arte del dibattito, è
fondamentale nel sistema tibetano di educazione
monastica. Due interlocutori si affrontano ponendo
domande con accompagnamento di gesti stilizzati.
Quando viene posta la domanda, colui che interroga alza il braccio destro sopra il capo e lo abbassa
con forza sulla mano sinistra battendo a terra il piede
sinistro. Poi fa scivolare la mano destra sopra la sinistra portandola vicino al capo del suo interlocutore,
il quale rimane passivo e si sforza non solo di rispondere ma anche di avere il sopravvento su colui che
interroga e continua a girargli intorno. L’arguzia è
un aspetto importante di questi dibattiti. (Dalai Lama,
La libertà nell’esilio, 31)
Duplice natura dei tibetani. Il sublime consacrò subito le nozze della scimmia con la demone delle rocce, nella terra delle nevi… Poiché discendono dalla
scimmia e dalla demone delle rocce, gli uomini del
Tibet, terra della neve, debbono essere classificati secondo due categorie: nella misura in cui appartengono alla stirpe del padre, la scimmia Bodhisattva,
sono longanimi, assai devoti, pietosi, energici, amici
della virtù miti e abili nel parlare; nella misura in
cui appartengono alla stirpe della madre, la demone
delle rocce, sono lussuriosi e astiosi,dediti al commercio e al profitto, assai avidi e litigiosi, allegri, di
grande forza fisica e coraggio, incostanti nel portare
a termine un’impresa, sconsiderati, pronti a fuggire,
ricchi dei cinque veleni, felici degli errori degli altri
e iracondi. (Fiabe e leggende tibetane, H. Hoffmann,
ed., Newton, 13)
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CAPITOLO XIII
Da Lhasa a Katmandu
nfine, il giorno della partenza. Fisicamente ed emotivamente è stato il viaggio più impegnativo della
mia vita. Partiamo alle 7 per arrivare per tempo in
aeroporto. Siamo ancora un po’ preoccupati per quanto accaduto all’altro gruppo di amici, bloccati per la
“str…anezza” dei cinesi e l’inaffidabilità dei tibetani.
Da giorni cerco di chiamare l’agenzia di Kathmandu, ma invano, l’unico contatto possibile è attraverso
l’Italia: noi inviamo sms a Roma e dall’Italia mandano
mail in Nepal, ma è difficile spiegarsi in questo modo.
La stessa cosa è accaduta agli amici di Ravenna, partiti con noi, che potevano comunicare con Gopal, il
nostro agente, solo triangolando attraverso Bangkok,
dove vive il loro figlio, che telefonava o mandava
anche lui mail dalla Thailandia in Nepal. Tra l’altro
dopo l’ultimo: help, il nostro unico cellulare si è bloccato per due giorni, forse l’ho messo male in carica.
Insomma, se potessi rintanarmi in una valle recondita, sul cucuzzolo di una montagna, in Tibet tornerei
anche subito, ma per avere di nuovo a che fare con i
cinesi ho bisogno di ruminare e digerire le inutili disavventure causate solo dalla loro insipienza o cattiva
volontà. In effetti i cinesi in Cina, sono cosa diversa
dai cinesi in Tibet. Anche per loro sarà disagevole,
quindi non credo proprio che qui vengano i migliori.
Partiamo che è buio e mano a mano il cielo schiarisce. Costeggiamo il Kyi Chu e arriviamo fino allo
Tsang Po - Brahmaputra. Tucci narra che nell’arido
altipiano tibetano (Lhasa compresa) il monsone arrivava stanco in luglio, ma dopo aver varcato le alte
cime, le nuvole erranti nel cielo blu raramente riuscivano a produrre pioggia. Ai suoi tempi. Ora ai lati
della strada troviamo molti tratti inondati dal fango,
tra quelli più vicini al fiume, e protetti da sacchetti di
sabbia. Indubbiamente debbono essersi verificati dei
cambiamenti climatici e la linea del monsone spostata
sia in latitudine verso nord, che avanzata fino ai mesi
autunnali.
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I paesaggi sono comunque luminosi, l’aura del paese ancora riluce, ma il peso dell’occupazione militare
rende greve il cuore. È stato un viaggio magnifico, ma
non una vacanza.
Lo verifico in aeroporto, mentre la Cina ormai centro
del business mondiale, si modernizza e i suoi aeroporti sono all’avanguardia per favorire le presenze
straniere, qui tutti gli avvisi e i tabelloni luminosi
sono scritti in ideogrammi. E dobbiamo fare tutto da
soli con addetti che non parlano nulla. Il computer si
blocca quando restiamo solo noi quattro a dover transitare e tutti gli addetti dell’aeroporto si riversano al
check-in, guardandoci desolati. Ormai siamo ipersensibili a ogni contrattempo e anche un po’ sul-chi-vive.
Comunque riusciamo, con molta pazienza e molto
tempo, a passare gli estenuanti controlli. Mi aprono
tutti i flaconi di medicine, contano tutte le pillole e
vogliono bloccare i pochi cc. liquidi della Novalgina.
Infine, si va. O forse no, prendono il passaporto di
Ernesto e lo portano in ufficio. Io mi fermo, sembra
Fuga di mezzanotte: infine, mentre aspetto gli altri e
soprattutto mio marito, una volta passata, una militare
mi ferma per chiedere come siamo stati in Tibet: wonderful! very well! Se abbiamo avuto disagi? Never!
Alla fine ci dice che lei è tibetana e si preoccupava
di conoscere gli effetti dell’altezza. Quanto a quello:
Just some headache. Tutte le bugie debbono avere un
fondo di realismo. Per fortuna passiamo tutti e l’aereo
decolla. Ancora cinque minuti e mi sarebbero uscite
le zanne da licantropo.
È sempre più vero: è stato un viaggio magnifico, ma
non una vacanza. La frase celebre dice: nessuno ha
più bisogno di una vacanza di chi è stato in vacanza.
Ma quanto sia vero per me è difficile spiegarlo. Eppure mai, come questa volta, mi porto dietro o dentro un
ricordo vivido e nitido e le tante immagini di luoghi e
persone non si accavallano nella mente, squadernando date e luoghi, sovrapponendosi o dissolvendosi.
No, stavolta no. Rivedo tutto il percorso, quasi un
itinerario iniziatico, snodarsi con estrema chiarezza,
come le pagine di una scrittura. Meglio fissarlo, però.
E questo ho fatto per tutti quelli che, per un motivo
o per l’altro, non se la sentiranno di andare sul Tetto
del Mondo. Finché ci sono i cinesi, se mai se ne andranno.
L’ultimo regalo di questa terra, che amavo e che ancor
più amo, è il cielo che si schiarisce dal nero inchiostro
della notte e delle nubi monsoniche, al blu più intenso e trasparente dell’autunno himalayano. Glorioso
il Chomolari, con la sua forma perfetta, si offre alla
foto, quasi in posa, come mai accade dall’aereo.
Dietro ogni nube, dietro ogni monsone, anche quello
più lungo e insistente, c’è un cielo radioso, illuminato
dal sole senza tramonto.
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Partenza da Lhasa I. Partire da Lhasa non è come
partire da una città qualunque. In ogni altro luogo
si può facilmente tornare, ma Lhasa è così preclusa che pare di essere in un altro mondo; quando te
ne allontani è come il vanire di un’immagine veduta
nel sogno che non sai se più comparirà. (G. Tucci, A
Lhasa ed oltre, 133)
Partenza da Lhasa II. In una giornata di sole che
ruzzolava sullo scintillio delle cime himalayane, abbiamo valicato il Sebula. Per l’ultima volta ho dato
uno sguardo d’addio alle montagne d’oro su cui le
prime tormente di neve hanno gettato un candido
manto ed ho sentito nel cuore una pungente nostalgia: nostalgia non solo per un paese dove la vita è
dura e la bellezza della terra fascinosa, ma anche per
una gente amica che mi aveva per molti mesi ospitato. (G. Tucci, A Lhasa ed oltre, 182)
Partenza da Lhasa III. Al culmine del passo di 5.500
metri (Che-La significa “passo sabbioso”), lo stalliere che guidava il mio pony si fermò e lo fece girare, dicendomi che quella era l’ultima possibilità di
vedere Lhasa. L’antica città appariva serena come
sempre. Pregai per alcuni minuti prima di smontare e
correre a piedi lungo le distese sabbiose che davano
nome al luogo. Poi riposammo un po’ prima di dirigerci verso le rive dello Tsangpo… (Dalai Lama, La
libertà nell’esilio, 158)
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CAPITOLO XIII
Ritorno in Nepal, da Katmandu a Roma
l ritorno in Nepal avviene nel segno del contrasto,
da un lato lieti di trovare cibi migliori, una dieta
variata e un paese dove rispetto al turista si vive un
atteggiamento assolutamente rilassato. Però, una volta rimesso piede a Kathmandu sembra di stare già a
casa, in Occidente. Le vette scintillanti di neve dai
riflessi azzurri come il cielo, le calde vallate verdeggianti, i deserti e comunque gli spazi immensi e i silenzi densi, sono ormai, definitivamente e irrimediabilmente, alle spalle.
Per questo, contravvenendo a tutti i propositi fatti di
ritemprarci prima di tornare a casa, dopo appena un
pomeriggio di relax al Planet, ci viene il desiderio di
ritentare quella roulette russa che sono gli spostamenti in stagione monsonica.
Nella Valle di Kathmandu visitiamo, con la guida
appassionata e amorevole di Roby, il sito in assoluto
meglio conservato, tanto che è meta di gite di scolaresche locali, che con le divise colorate invadono le strade selciate, e disturbano capre e cani tranquillamente
ramenghi: Changu Narayan, la meta di pellegrinaggio
più antica della Valle degli Dei. Si arriva in cima dopo
un percorso tra le risaie, che però spariscono tra nebbie e nubi basse. L’iscrizione in sanscrito risale al 464
d.C. ed è incisa in un sanscrito elegante. Ma templi,
statue di dei e re, si susseguono in una girandola di
stili e decori, materiali e divinità che coprono tutta la
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storia più alta del Nepal e dal III arrivano fino al XVII
secolo.
Mal consigliati dall’oste, al quale chiediamo se il
vino sia buono, ci rimettiamo in strada per Pokhara
con la speranza che il monsone, che da luglio doveva
essere “stanco”, visto che siamo ormai a settembre,
se ne ricordi finalmente. La speranza è che il cielo
si apra per mostrarci la parte della catena himalaiana
verso l’Annapurna. I paesaggi sono davvero splendidi, punteggiati da fiumi, cascate, vallate, frutti esotici,
caschi di banane, fin verso Gorkha. Difficile però, addirittura sovrumano, apprezzare il tutto in un viaggio
di 200 km, percorso in 13 ore, tra frane e TIR indiani,
a centinaia e migliaia, tutti regolarmente sovraccarichi, molti bloccati in mezzo alla strada dalla rottura
dei freni.
A Pokhara il lago, triste e malinconico sotto le brume,
sarebbe pure romantico. I barcaioli, in mezzo ai narcisi d’acqua, si lavano rovesciandosi secchi d’acqua,
comunque tiepida, addosso.
La vista si ferma alle colline verdeggianti e boscose,
appena dietro l’altra sponda del lago. Ripartiamo di167
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rezione Bandipur, ma senza l’intenzione e il desiderio
di fermarci, solo per una visita, dato che il paese è
molto piccolo. Fondato nel XVIII secolo dai profughi Newar, provenienti da Bakthapur, fuggiti a causa
dell’invasione dei Gurkha sulle montagne inospitali
da cui provenivano gli stessi Gurkha, ne mantiene alcune caratteristiche peculiari, ma ovviamente in scala
e in ricchezza decorativa, molto ridimensionate dalla
perduta agiatezza. Appena arrivati, un cartello della
municipalità ci dà il benvenuto assicurandoci che si
tratta di una strana zona franca: defecation free…
La sorpresa vera sono i monti, che si mostrano, infine:
le nubi si diradano per brevi momenti e gli dei pietosi e misericordiosi di questi pazzi viandanti, ci concedono un darshan. Breve ma intenso. Una visione
dell’Annapurna o forse Machhapuchhara, il monte a
coda di pesce. Del resto i ciuffi di nuvole si diradano,
ma non scompaiono del tutto e si confondono forme e
contorni sullo sfondo di neve fresca. Riesco perfino a
fotografare la visione con sfondo di cielo blu, impensabile rispetto alle piogge della notte e del mattino.
Ma tant’è, il monsone ti fa venire voglia di rischiare
proprio per questa sua caratteristica di mutare il clima
in pochi minuti, anche se quest’anno sarà certo ricordato per intensità e durata delle precipitazioni. In altri
anni gli scrosci intensi duravano un niente, quest’anno lunghe ore. Ci fermiamo davanti alla funivia di
Manakamana, il tempo è ora limpido e luminoso, il
picco con il tempio nascosto tra la verzura rigogliosa,
svetta orgoglioso. La voglia di ascendere ci sarebbe,
ma prevale la stanchezza e il pensiero che, visto che
gli dei sono stati così benevoli con noi, forse non è
il caso di metterli troppo alla prova e tentarli con la
nostra prolungata incoscienza. In questi stessi giorni sono caduti aerei, i voli interni fermati per giorni,
ponti, frane, con bus e jeep finiti nel fiume… Dicono che la funivia sia stata costruita e tuttora gestita
da austriaci, ma qui l’erosione è ben diversa rispetto
alle Alpi salisburghesi o tirolesi e, comunque siamo
in Nepal, e non so se siano proprio gli austriaci ad
avvitare i bulloni o personale locale…
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Appena tornati prenoto subito un hotel a Bodnath, la
città santa della Valle, quella con la grande stupa, decorata con gli occhi e il naso (ma è il numero uno,
simbolo dell’unità) che è come il Colosseo o la Torre
di Pisa, il simbolo stesso di Kathmandu e di tutto il
Nepal.
Qui, a cominciare dall’hotel Norbu Sangpo, mi godrò
una full-immersion nel vero Tibet, o forse nel vero
spirito tibetano. Qui i profughi della diaspora hanno
creato monasteri (circa una ventina), grandi e piccoli,
con templi, centri di studio e formazione monastica,
seminari e noviziati. Qui si celebrano le funzioni quotidianamente, si recitano le scritture e si può assistere
ed entrare liberamente, si può fotografare tutto, con
l’educazione e il rispetto minimi che comunque sono
dovuti a luoghi e persone. Gestiscono commerci, artigianato, e piccole guesthouse anche all’interno dei
templi. Artigiani provetti producono statue di bronzo
e tang-ka autentiche per i templi, secondo il canone
rituale, troviamo da comprare perfino un vecchio vajira, il simbolo del fulmine a forma di scettro doppio,
che il commerciante bacia prima di metterlo in mani
profane. Il più grande dei monasteri è Shechen, visitiamo il tempio, ci sediamo a terra mentre i monaci
salmodiano, effettuiamo la circumambulazione delle
stupa e capiamo dalla loro diversa forma la loro di-
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versa funzione (dato che finalmente è scritto qualcosa
e se chiedi ti sanno rispondere tutti, correttamente e
in buon inglese). I pellegrini sono tanti e la sera, al
termine delle occupazioni quotidiane, si ripete il rito
del Jokhang con i tibetani, monaci e monache dalle
rosse vesti svolazzanti, bambini allegri e sgambettanti, vecchi ieratici o dal passo lento per il peso degli
anni, giovani in jeans e nike, donne e uomini in abito
tradizionale, turisti curiosi o, ancor più curiosi, devoti buddhisti occidentali, un po’ impacciati. Tutti si
affrettano, con il passo spedito e veloce dei tibetani,
a fare il giro della stupa. Oggi è festa grande: i fedeli
accendono lampade, portano offerte, bruciano incen-
so e erbe aromatiche per scacciare gli spiriti malvagi
e dispettosi, salgono anche attorno alla cupola, si prosternano. Insomma tutto quello che avviene a Lhasa e
anche molto di più, perché fatto nella libertà. La cupola che ieri sotto la pioggia battente era gialla, anzi
verde di muschi e licheni, è stata ripulita e appare
bianca. In che modo? I fedeli offrono soldi per la calce, volontari e addetti al tempio preparano in grandi
vasche il composto con acqua. Poi con precarie scale
di legno si arrampicano fin sotto il naso (che come
abbiamo già detto non è il naso, ma il numero uno) e
rovesciano di sotto la calce, che colando disinfetta la
cupola e la fa tornare bianca. Il tramonto rosseggiante
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ci dice che il bel tempo sta tornando, solo ora, che già
scintilla sulle cime la prima neve autunnale, il monsone è finalmente “stanco”.
I ristorantini sono deliziosi, spendiamo l’equivalente
di un euro per un’ottima colazione con pane tostato,
uova, the, caffè, burro e marmellata e patate al curry.
Si trovano tante pasticcerie e le torte di mele sono tiepide, zuccherate e deliziose. Tanta attenzione al cibo
ha una ragione. Perché – e questo va detto – non siamo affatto tipi difficili i quali vanno in crisi d’astinenza per mancanza di espresso o spaghetti. Il problema
è che non mangiamo carne. Il pesce non si trova. Le
verdure le servono al vapore, quasi crude e comunque piccanti o speziatissime, quindi, dopo 23 giorni,
indigeste. Le verdure crude non sono certo raccomandabili. Latte e yoghurt altrettanto. Formaggio non ne
producono, e allora? Finita la scorta di tonno, gallette
e parmigiano a volte si mangia davvero poco e soprattutto l’unica alternativa è il riso bollito. Anche Tucci
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ne soffriva. Non entusiasmante, ma anche questo sacrificio vale la pena di farlo, pur di vedere queste regioni tanto affascinanti, gioire di una natura lussureggiante, incontrare lo sguardo di occhi tanto raggianti.
All’interno di Shechen la guesthouse offre stanze
doppie, semplici ma pulitissime a meno di dieci euro,
affacciate su un prato verde all’inglese, contornato da
una fioritura variopinta e rigogliosa di piante tropicali. La caffetteria garantisce che tutti i cibi vengano
lavati con acqua purificata a raggi UV con un sistema
certificato negli USA. Mangiamo perfino l’insalata, e
di avocado, addirittura.
Un sogno ad occhi aperti, finalmente il Nepal tanto
cercato, quello accogliente, semplice e autentico, dei
racconti di viaggio degli hippies anni Settanta.
Una piacevole e meritata conclusione di viaggio, per
meditare sulla gioia del presente, con in tasca il sogno
di un biglietto di sola andata.
Arrivederci.
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INDICE
Introduzione
7
Capitolo I - Da Roma a Katmandu
9
Capitolo II - Da Katmandu a Zhangmu
15
Capitolo III - Da Zhangmu a Old Tingri
19
Capitolo IV - Campo base dell’Everest
23
Capitolo V - Da New Tingri a Shigatse
27
Capitolo VI - Shigatse - Tashilumpo
33
Capitolo VII - Da Gyantse a Zedang
39
CapitoloVIII - Da Zedang a Lhasa
47
Capitolo IX - Lhasa: Jokang, Drepung, Norbulinka
55
Capitolo X - Lhasa, Palazzo del Potala
63
Capitolo XI - Valle di Drigung, Monasteri di Drigung e Terdrom
71
Capitolo XII - Lhasa, Monasteri di Ganden e Sera
81
Capitolo XIII - Da Lhasa a Katmandu
89
Capitolo XIV - Ritorno in Nepal, da Katmandu a Roma
93
Indice
Indice Illustrazioni
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INDICE ILLUSTRAZIONI
Copertina: Monastero di Ganden. Quarta di copertina: Bodhnath, giovane novizio. Frontespizio: Lago
dello Scorpione, disegno di Italo Gilardi 1. Tsongkapha, Monastero di Pelkor; 2 Lhasa, Potala; 3 Patan;
4-5-6-7 Bhakthapur; 8 Komanath; 9-10 Bhakthapur;
11-12-13-14-15 Patan; 16-17 confine Nepal-Tibet;
18 Zangmu; 19 Kodhari; 20 Passo Lalung La; 21-22
Passo Nyalam; 23 Flora del Passo Lalung La; 24-25
Monaco con discepolo sul Passo Lalung La (esternointerno della tenda-monastero); 26-27 Bambini dei
villaggi sotto il Campo Base; 28 Everest Base Camp;
29 Monastero di Rombuk, il più alto del mondo; 3031-32 Everest Base Camp; 33-34 Passo Yulung La;
35-36-37-38-39-40 Lahtse in festa per il festival
d’Estate ed esecuzione di danze Cham; 41 Bandiere di preghiera al Passo Yulung La; 42-43 La mole
dell’Everest vista dal passo Gyatso La, con il rapido
mutare del cielo in alta quota; 44- 45-46-47-48-49-5051-52-53-54-55 Monastero di Tashilumpo; 56- 57-58
Bazar di Shigatse, attività artigianali: sarto, falegname, tessitrice; 59 Bazar di Gyantse; 60-61 Strada da
Shigatse a Gyantse; 62 Veduta della città di Gyantse
dal forte; 63 Gyantse, bambino immigrato cinesetibetano vestito alla moda occidentale; 64 Gyantse,
emigrante australiano-tibetano con abiti tradizionali;
65-66-67-68 Gyantse mercato; 69-70 Monastero di
Pelkor; 71 Lago Yamdrog dal colore smeraldo per i
sali disciolti; 72 Gyantse; 73 Lago Yamdrog; 74 Banchi di fossili; 75 Passo Kambala; 76 Monastero di
Pelkor; 77-78-79-80 Castello di Yumbulakhang; 81
Casa contadina nella Valle dello Yarlung con mattonelle di sterco di yak; 82-83 Samye, sulla strada che
porta al monastero si alternano campi fertili e dune
desertiche; 84 Monaci “berretti rossi” in pellegrinaggio a Yumbulakhang da dove il buddhismo si è diffuso
in Tibet; 85 Monastero di Samye; 86 Forni solari; 8788 Inondazione del Brahmaputra e passaggio del guado; 89 Lhasa, soldati cinesi pattugliano e presidiano
la piazza antistante il Jokhang; 90 Lhasa, pellegrini e
turisti sul Barkhor; 91-92-93-94 Il Tempio e la piazza
del Jokhang dove i pellegrini eseguono le 108 prostrazioni rituali; 95 Buddha, Monastero di Pelkor; 96
restauro del tetto del Jokhang; 97 giovani volontari,
utilizzando una tecnica antichissima, impermeabilizzano i terrazzi del tempio; 98 il Potala visto dai tetti
del Jokhang ; 99 Drepung, panorama sulla vale del
Kyi Chu, un tempo costellato di giardini sul fiume,
ora disseminato di centri commerciali; 100 Drepung,
tempio in ricostruzione; 101 Drepung, monastero in
demolizione dopo la Rivoluzione culturale; 102 Drepung, pietre dipinte; 103-104-105 Drepung, bacini,
cucine, stupa; 106 Norbulinka, bambine cinesi; 107
Norbulinka, pellegrini tibetani; 108 Drepung, pellegrina tibetana con la ruota di preghiera; 109 Tempio
del Jokhang, pellegrini prostrati davanti al monumento in pietra con il patto Cina-Tibet; 110 Potala, la via
di pellegrinaggio disseminata di ruote di preghiera;
111 Potala, scalinate deserte; 112 Riproduzione di
Piazza Tien an Men, vista dal Potala; 113 Potala, borchia in bronzo; 114 Tetti del Potala; 115 Pellegrini
deambulano attorno al Potala; 116 Potala, borchia in
bronzo; 117 Potala, giovani donne cinesi in abbigliamento “non consono”; 118 Lhasa, Ospedale di medicina tradizionale tibetana; 119 Tang-ka medica per lo
studio della medicina tradizionale; 120 Potala, vista
dall’alto del luogo ove sorgeva la Montagna di Fer-
ro, con il collegio medico tibetano, rasa al suolo; 121
Potala, vista sul Lago dell’Oracolo di Stato e verso
il Chakpori: sull’unico moncone di roccia rimasto si
erge l’antenna della televisione di stato; 122 Stupa
nella piazza sottostante il Potala; 123 Drepung rocce
dipinte; 124 Lhasa pellegrine deambulano attorno al
Potala; 125 avvoltoio visto dalla finestra del Monastero di Drigung, dove si celebra il “funerale celeste”;
126-127 Monastero di Drigung, in basso la dolce e
fertile valle; 128 Yak e dri al pascolo; 129 Monastero di Drigung, forno per bruciare le offerte di legni e
resine aromatiche; 130a-130b Monastero femminile
di Terdrom; 131 Terdrom , veduta della valle dai tetti del monastero; 132-133-134-135 Terdrom, interno
della sala di preghiera con le statue dei “protettori”,
quelli dal volto terrifico hanno il viso coperto; 136137 Resti di affreschi che raffigurano mandala; 138
Kumbum; 139 Monastero di Ganden, tamburo rituale; 140 Monastero di Ganden, pellegrini in abiti tradizionali; 141 Monastero di Ganden, veduta dalla valle;
142-143-144-145-146-147-148 Monastero di Ganden; 149-150-151-152 Monastero di Sera, dibattito
dialettico; 153-154-155 Monastero di Sera, neppure
le pellegrine rinunciano al cellulare; 156 Monastero
di Sera, i bambini che non dormono la notte vengono esorcizzati con fuliggine nera sul naso; 157-158
Valle del Kyi Chu, verso l’aeroporto di Gongkar, il
rapido passaggio dall’alba al giorno; 159 Catena himalayana; 160 Lago Yamdrog dall’alto; 161 Jokhang;
162 Catena himalayana; 163-165 Changu Narayan,
studenti nepalesi in gita scolastica; 164 Relax a Bodhnath; 166 Bandiere tibetane a Bodhnath nei colori
del buddismo che simboleggiano i cinque elementi;
167 Lago di Pokhara; 168 Vista dell’Annapurna che
emerge più in alto delle nuvole; 169 Funivia di Ma-
nakamana, nella zona montuosa attorno a Gorkha ;
170 Bandipur accoglie i visitatori come insolita città:
defecation free; 171-172 Stupa di Bodhnath, prima
e dopo la pulizia alla fine della stagione monsonica;
173-174-175-176 Bodhnath, pellegrini orientali e occidentali, induisti e buddisti, nepalesi e tibetani deambulano attorno alla stupa di Bodhnath; 177 Maschere in legno; 178 Palazzo reale di Patan; 179 Il drago
all’angolo degli edifici è un elemento di architettura
tradizionale tibetana; 180 Bodhnath, Ristorante tibetano in Nepal; 181 Bodhnath, 182 Offerte per i morti;
183 Changu Narayan, Garuda, fregio in bronzo.
N.B. la traslitterazione dei nomi tibetani varia da testo
a testo
Sette passi, secondo la tradizione, avrebbe
percorso Gautama Siddharta neonato, appena
sgusciato dal fianco della madre per tastare
coi minuscoli piedi i confini del mondo che la
sua dottrina avrebbe raggiunto.
Nell’evocazione di questa leggenda, due
viaggiatori romani di lungo corso e studiosi di
Buddhismo, Ernesto De Angelis e Rigel
Langella hanno seguito per davvero le orme
illuminate del piccolo Buddha in un viaggio
spossante e memorabile narrato come un
diario: da Katmandu, la prima tappa, a
Zhangmu, Old Tingri, il Campo base
dell’Everest, Shigatse, Tashilumpo, Ghiantse
Zedan, Lhasa e il palazzo del Potala, i
monasteri di Drigung e Terdrom, Ganden e
Sera - fino allo sbarco, felici e stremati
all’aeroporto di Roma Fiumicino. Sette Passi
in Tibet. Cronache di spiriti erranti (Centro
Internazionale di Studi Borgiani ), è un
volume a circolazione limitata arricchito da
un tripudio di foto sbalzate nella luce
smagliante e rarefatta di altitudini da
capogiro. Un dono per gli occhi, la mente e il
cuore di chi sa che il Paese delle Nevi e il suo
clero lamaista ha perso da oltre cinquant’anni
il diritto a esistere quale era stato da millenni:
una terra avara, abitata da gente parca, lieta,
operosa, abbarbicata a una fede atavica
irrorata dal credo buddhista.: immagini sacre,
riti, evocazioni di dèmoni e dèi, musiche e
danze cerimoniali, ruote di preghiera,
genuflessioni e mantram a baluardo di una
dottrina segreta, custodita come un tesoro in
luoghi inaccessibili, dove pratiche ascetiche
asperrime, il silenzio, il digiuno e la preghiera
ritmano i giorni e le notti di uomini e donne
votati alla vita contemplativa. Lo sprone al
viaggio è stata l’amara certezza che tutto ciò
che i viaggiatori hanno visto, ritratto,
palpato, assaporato e immagazzinato nella
memoria, è stato calpestato e violato, ed è
prossimo a sparire. Anche per questo Sette
passi in Tibet, un libro prezioso come un
talismano, è dedicato dai co-autori «a Tashi
e tutte le piccole grandi donne tibetane, con
l’augurio e la speranza che possano un giorno
vedere la patria che amano e non conoscono»
(Grazia Marchianò).
Ernesto de Angelis e Rigel Langella, compagni
di avventure e disavventure, in viaggio e nella
vita, vivono tra i Castelli Romani e il litorale.
Hanno fondato insieme il CISB (Centro
Internazionale di Studi Borgiani). Nel cassetto il
sogno di un biglietto one way. Diversi per
formazione: l’uno ingegnere, l’altra avvocato
per necessità, giornalista e saggista, per vera
passione con molte pubblicazioni al suo attivo.
Insieme si incontrano e scontrano sui sentieri del
mondo e delle idee. Insieme hanno già
pubblicato il volume fotografico: Sette passi in
Tibet. Cronache di spiriti erranti, resoconti di
viaggio nelle aree di cultura tibetana, giunto alla
sua seconda edizione.
€ 8,00
ISBN 978-88-908640-6-3