ML - Update n. 72

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ML - Update n. 72
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Musica & altri percorsi | La prima non-rivista che “sceglie il meglio” - www.musicletter.it - Anno VI - Update N. 72
INTERVISTA
BUD SPENCER BLUES EXPLOSION
MUSICA DIRTMUSIC, DANZIG, SERENA-MANEESH, SUN KIL MOON, BIG BOI, MOTORAMA,
PERTURBAZIONE, LOUIS PRIMA, JACKSON BROWNE & DAVID LINDLEY, LOKUA KANZA,
TAPE FIVE, THE DEAD WEATHER, SAKEE SED, IL GENIO, IL TRICERATOPO, VERLAINE,
BADLY DRAWN BOY, THE SUMNER BROTHERS, THE ELECTRIC PRUNES, THE PRIMEVALS,
RAGE AGAINST THE MACHINE, SOUNDGARDEN, JOY DIVISION, SEAL, BLACK SABBATH,
THE PRETTY THINGS, DIRTMUSIC & TAMIKREST, IGGY POP, THE CULT SPECIALE
PROGRESSIVE ITALIANO RUBRICA PRESI NELLA RETE LIBRI ASCANIO CELESTINI
FRAMMENTI DI CINEMA RIMOSSO DODICESIMA PARTE
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chi siamo
Luca D’Ambrosio
Domenico De Gasperis
Nicola Guerra
Jori Cherubini
Massimo Bernardi
Marco Archilletti
Manuel Fiorelli
Pier Angelo Cantù
“Eravamo stati via solo due giorni, eppure
la città sembrava diversa. Più piccola.”
Stand by Me - Ricordo di un'estate
Pasquale Boffoli
Franco Dimauro
Gianluca Lamberti
Nicola Pice
Gianluigi Palamone
Stefano Bon
Giorgia Mastropasqua
Costanza Savio
Rossella Spadi
Marco Tudisco
Alessio Zago
Alessandro Busi
Claudia De Luca
Laura Carrozza
Antonio Anigello
Valerio Granieri
Matteo Ghilardi
Luigi Lozzi
Gaia Menchicchi
Ilario La Rosa
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copertina update n. 72 / 2010-08-04
BSBE | photo by Ilaria Maglioccetti Lombi
ML 02
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update n. 72
sommario
MUSICA | SPECIALE INTERVISTA
04 BUD SPENCER BLUES EXPLOSION by Laura Carrozza
MUSICA | RECENSIONI
09 DIRTMUSIC BKO (2010) by Luigi Lozzi
10 DANZIG Deth Red Sabaoth (2010) by Manuel Fiorelli
11 SERENA-MANEESH No. 2 - Abyss in B Minor (2010) by Valerio Granieri
12 SUN KIL MOON Admiral Fell Promises (2010) by Valerio Granieri
13 BIG BOI Sir Lucious Left Foot: The Son of Chico Dusty (2010) by Domenico De Gasperis
14 MOTORAMA Alps (2010) by Luca D’Ambrosio
15 PERTURBAZIONE Del Nostro Tempo Rubato (2010) by Jori Cherubini
16 LOUIS PRIMA The King Of Jumpin’ Swing - Greatest Hits (2010) by Luigi Lozzi
17 JACKSON BROWNE & DAVID LINDLEY Love Is Strange / En Vivo Con Tino (2010) by Luigi Lozzi
18 LOKUA KANZA Nkolo (2010) by Luigi Lozzi
19 TAPE FIVE Tonight Josephine! (2010) by Luigi Lozzi
20 THE DEAD WEATHER Sea Of Cowards (2010) by Matteo Ghilardi
21 SAKEE SED Alle Basi della Roncola (2010 ) by Nicola Guerra
22 IL GENIO Vivere Negli Anni X (2010) by Nicola Pice
24 IL TRICERATOPO Volume I (2010) by Nicola Pice
25 VERLAINE Rivoluzioni a Pochissimi Passi dal Centro (2010) by Nicola Pice
26 BADLY DRAWN BOY Is There Nothing We Could Do? (2010) by Nicola Pice
27 THE SUMNER BROTHERS Sumner Brothers (2008) by Luca D’Ambrosio
28 THE ELECTRIC PRUNES Too Much To Dream (2007) by Franco Dimauro
29 THE PRIMEVALS On The Red Eye (2005) by Franco Dimauro
31 RAGE AGAINST THE MACHINE S.T. (1993) by Franco Dimauro
33 SOUNDGARDEN Badmotorfinger (1981) by Franco Dimauro
35 JOY DIVISION S.T. (1980) by Franco Dimauro
36 BLACK SABBATH Sabbath Bloody Sabbath (1973) by Franco Dimauro
37 THE ROLLING STONES Exile On Main Street (1972) by Franco Dimauro
38 THE PRETTY THINGS Get The Picture? (1965) by Franco Dimauro
MUSICA | SPECIALE PROGRESSIVE ITALIANO
39 TRACCE DI PROGRESSIVE ITALIANO by Luigi Lozzi
MUSICA | LIVE REVIEW
42 IGGY POP Azzano Decimo (PN), Fiera della Musica (16.07.2010) by Matteo Ghilardi
43 SEAL Lucca, Piazza Napoleone (16.07.2010) by Manuel Fiorelli
44 DIRTMUSIC & TAMIKREST Faenza, Piazza Nenni (17.07.2010) by Nicola Guerra
45 THE CULT Roma, Ippodromo Capannelle (26.07.2010) by Manuel Fiorelli
RUBRICA | PRESI NELLA RETE
46 STONED MACHINE, ORANGE BEACH… by Stefano Bon
ALTRI PERCORSI | LIBRI
48 LOTTA DI CLASSE Ascanio Celestini (2009) by Alessandro Busi
FRAMMENTI DI CINEMA RIMOSSO | DODICESIMA PARTE
49 SOTTO I RAGGI DEL SOLE Scampoli di cinema “in stile balneare” al tempo d’estate by Nicola Pice
© ML 2005-2010
BY L UCA D’AMBROSIO
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speciale intervista
BUD SPENCER BLUES EXPLOSION
Intervista
Non solo blues
© 2010 di
Laura Carrozza
Un nome perfetto per una band che dell’attore
napoletano/romano conserva l’ironia e la capacità di
non prendersi troppo sul serio e che con lo storico
gruppo newyorkese, Jon Spencer Blues Explosion,
condivide
presenza
sonorità
scenica.
esplosive
I
BSBE,
e
al
un’incredibile
secolo
Adriano
Viterbini e Cesare Petulicchio, sono musicisti nel
senso pieno del termine: il primo è chitarrista di
diversi artisti italiani (The Niro, tra gli altri), il
secondo vanta collaborazioni con la cantautrice
Valentina
Lupi
ed
è
parte
attiva
della
scena
underground capitolina. Nel 2007 comincia il loro
percorso artistico come formazione a due: finalisti
al contest dell’Heineken Jammin Festival, decine e
decine di serate, il primo EP e on stage per il
concerto del Primo Maggio per due anni consecutivi
(2009-2010). Il loro primo vero album è omonimo e
contiene dodici tracce più due bonus tracks (le
versioni live di “Hey boy hey girl” e “Fanno meglio”,
feat. Valentina Lupi). Abbiamo provato a capire cosa c’è dietro la loro incredibile ascesa.
Ho provato a cercare una definizione adeguata per descrivere in modo efficace la vostra
musica ma senza esito: è un mix & match incredibilmente efficace di blues, grunge,
rock, elettronica e molto altro. Mi date una mano?
(Cesare) In realtà siamo noi a cercare sempre un aiuto dalle persone che ascoltano la nostra
musica per provare a definirla. Entrambi ascoltiamo generi molto vari e differenti tra loro,
possiamo acquistare un disco di musica leggera italiana così come un album hardcore;
inevitabilmente il background musicale viene fuori con le varie sfumature quando ti ritrovi in sala
di incisione a comporre. Naturalmente, la matrice blues è quella che si avverte di più perché è si
tratta di un genere che è stato fondamentale per la nostra crescita artistica. La musica che
facciamo è un insieme di tutti i generi che hai citato ma crediamo non sia possibile individuare
una singola etichetta, ci sentiamo molto liberi nel comporre e cerchiamo di non ci porci troppi
limiti. Se si ascolta il nostro primo lavoro, questi aspetti emergono con forza, si tratta di un album
molto vario e ricco di influenze diverse.
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speciale intervista: bsbe
Com’è
nato
l’amore
per
la
musica
blues?
Siete
stati
influenzati da circostanze esterne oppure tutto è cominciato
senza una ragione precisa?
(Cesare) Entrambi amiamo molto questo genere musicale, anche se
con preferenze diverse. Adriano è molto legato al vecchio blues,
quello riconducibile al delta del Mississippi, grazie anche a un disco
di Ry Cooder regalatogli dal padre; le mie preferenze si orientano,
invece, più verso l’hard blues anni ’70, da Jimi Hendrix ai Led
Zeppelin. Ci accomuna il fatto di essere molto più vicini musicalmente alla prima tipologia di blues
(che per noi è l’anima vera del genere) e non alla scuola di Chicago. Il blues è un genere molto
particolare, che non consente vie di mezzo: lo ami oppure lo detesti, non può esserti indifferente.
Pur essendo a inizio carriera come band, avete raggiunto traguardi eccellenti
apparentemente facendo quello che realmente avete voglia di fare, senza compromessi
e imposizioni. Quanto conta avere la possibilità di restare fedeli al proprio percorso e di
non doversi piegare a regole di mercato più o meno restrittive?
(Cesare) È assolutamente fondamentale, per noi conta al 100%. Se cominci a sottostare ai
compromessi, diventi schiavo di quello che ti propongono e che sei costretto a fare per andare
avanti. Così non riesci più a capire qual è la tua strada, quella che vuoi davvero seguire, sei
sempre meno te stesso. L’aspetto triste di tutta la questione è che oggi fare musica libera è
l’eccezione e non la normalità, come invece dovrebbe essere e come la storia della musica
insegna: i capolavori sono frutto dell’arte e della genialità dei musicisti.
Il primo disco dei BSBE era un’autoproduzione, per il secondo vi siete affidati a
un’etichetta
indipendente.
Come
definireste
il
vostro
rapporto
con
il
mondo
discografico? Mi riferisco soprattutto alla possibilità di lavorare con una major e ai
relativi vantaggi/svantaggi che ne deriverebbero.
(Cesare) Per il nostro primo album ci siamo affidati per la produzione a Yorpikus e per la
distribuzione ad Audioglobe, entrambe indipendenti, cosa che ci ha permesso di non avere
imposizioni e di strutturare il disco seguendo i nostri desideri e le nostre peculiarità. Crediamo
comunque che oggi la linea di demarcazione esistente tra una major e un’etichetta indipendente
sia molto meno marcata rispetto al passato: noi facciamo moltissimi concerti, il disco è disponibile
in tutti i negozi, abbiamo realizzato dei videoclip, insomma, ci permettono di fare tutto quello che
faremmo con un’etichetta importante. Quello che accadeva negli anni ’90, quando una major ti
stipendiava anche se non realizzavi un album, oggi non accade più. Personalmente non
avvertiamo l’esigenza di passare a un’altra etichetta, naturalmente se dovessero esserci delle
proposte interessanti, le valuteremo con attenzione ma in questo periodo di transizione, in cui il
mondo della discografia è in crisi, la cosa fondamentale resta la possibilità di fare quello che ti
passa per la testa e non permettere al marketing di intaccare l’immagine che vuoi trasmettere al
tuo pubblico.
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speciale intervista: bsbe
A quale pezzo dell’album siete più legati e per quale
motivo?
(Cesare) Essendo il nostro primo vero disco siamo molto
legati a ogni singolo brano, anche se tra tutti spiccano “Hey
Girl Hey Boy”, la cover dei Chemical Brothers che ci ha
portato molta fortuna ed è stata l’inizio di tutto quello che è
venuto dopo e “Mi sento come se”, perché è un pezzo dalle
potenzialità live davvero elevate e che ci consente spesso di
improvvisare on stage tutta la parte centrale.
“Blues di merda”, un brano del primo album, è
diventato per i vostri fan storici una sorta di inno
generazionale; è un pezzo che sprigiona ironia già dal
titolo, considerando il vostro amore sconfinato per la
musica
blues.
prendersi
Quanto
troppo
sul
conta
serio
la
per
capacità
di
sopravvivere
non
nel
contesto musicale italiano?
(Cesare) È indispensabile! Quando cominci a fare musica e carichi i tuoi pezzi su una piattaforma
come Myspace ti metti in gioco e, se prendi le cose troppo sul serio, rischi di rimanere scottato e
di non riuscire a gestire la situazione e le conseguenze che ne derivano. In fondo noi abbiamo la
possibilità di seguire i nostri desideri facendo il lavoro che abbiamo sempre sognato ed è un
privilegio non da poco. Per i BSBE tutto è iniziato come un gioco e continua ad esserlo, vogliamo
conservare la leggerezza e l’ironia pur senza perdere la nostra professionalità.
Come nascono le vostre canzoni? Seguite dei rituali precisi
oppure ogni volta è differente?
(Cesare) Non abbiamo una particolare “procedura creativa”, di solito
nasce tutto da un riff che crea Adriano e che io seguo a ruota con la
batteria. Ci capita di unire vari pezzi creati magari in momenti
differenti e di trovare poi un filo conduttore che possa far sviluppare
efficacemente il brano. Per il resto, inizialmente usiamo testi fittizi e
in un secondo momento Adriano crea quelli che sono poi i testi reali
e definitivi. Seguiamo molto lo stile della musica grunge in questo,
anche perché in Italia il testo è molto importante a causa della
tradizione del grande cantautorato ma negli altri paesi, negli Stati
Uniti in primis, il testo non è poi così rilevante.
Mi viene in mente “Io sono le mie parole”, celebre aforisma di Bob Dylan utilizzato
spesso per spiegare il modo di vivere e interpretare le proprie canzoni: secondo voi
quindi qual è il peso di un buon testo, soprattutto quando si sceglie di fare un certo tipo
di musica in cui la parte strumentale invade la scena, sia dal vivo sia in studio, in modo
così imponente?
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update n. 72
speciale intervista: bsbe
(Cesare) Ha certamente il suo peso
perché
il
vero
messaggio
si
trasmette con il testo di un brano;
anche da qui deriva la nostra scelta
di cantare in italiano e non in
inglese,
proprio
per
creare
un
canale comunicativo efficace con il
nostro
pubblico.
Nella
scena
musicale italiana ci sono molti artisti
che
riescono
perfettamente
i
a
due
coniugare
aspetti,
ad
esempio Il Teatro degli Orrori, la cui
musica è potente e presenta una struttura particolare e molto riuscita sia dei testi sia degli
arrangiamenti. Per tutte queste ragioni abbiamo già in mente di lavorare con maggiore impegno a
livello testuale, così come vogliamo far emergere in modo più evidente l’aspetto live. Del resto i
ragazzi che ci seguono hanno cominciato a conoscerci ai concerti e vogliamo provare a ricreare
quell’atmosfera che si avverte in tour anche nell’album.
Quanto contano le affinità elettive e l’armonia a livello caratteriale quando si suona in
un gruppo di due elementi, al cui interno una rottura dell’equilibrio può causare anche
lo scioglimento della band?
(Cesare) È fondamentale, anche alla luce del fatto che passiamo gran parte del tempo in tour, dal
mese di ottobre a oggi abbiamo fatto quasi 50 concerti e per l’estate sono previste ancora diverse
decine di date. Fortunatamente noi due andiamo molto d’accordo, condividiamo anche la stessa
casa quindi tutto diventa più semplice. Abbiamo iniziato a suonare insieme circa tre anni e mezzo
fa, cominciando sin dai primi mesi a girare l’Italia e avendo modo di conoscerci subito molto a
fondo. Può capitare di avere non tanto dei litigi quanto delle discussioni ma ciò che conta è il
rispetto: se ci si rispetta, tutto il resto si può gestire.
Il fenomeno BSBE è esploso anche grazie alla Rete e alle diverse piattaforme web che
consentono immediata visibilità. Che cosa avrebbero fatto Adriano e Cesare negli anni
’70 per promuovere la loro musica?
(Cesare) Bisogna sottolineare che il mondo della musica è cambiato molto negli ultimi anni; oggi
per promuovere un disco si è tornati a suonare live, esattamente come si faceva negli anni ‘70.
C’è stato un periodo, nei due decenni successivi, in cui i musicisti giravano solo con grosse
produzioni, i tour erano imponenti e la promozione era assegnata ai videoclip ma adesso quello
che conta è dare un impatto live in grado di lasciare il segno. In linea di massima quindi avremmo
fatto le stesse cose!
Avete avuto l’occasione di suonare negli States, in città simbolo come Seattle e New
York. Quali aspetti dell’esperienza a stelle e strisce vi hanno fatto desiderare di restare
lì e quali, invece, vi hanno fatto pensare alla fortuna di essere nati in Italia?
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speciale intervista: bsbe
(Cesare) Siamo pro Stati uniti al 99%! Culturalmente è diverso, si studia tecnicamente e alla
perfezione ogni strumento e c’è molta attenzione e rispetto da parte delle persone che ti
ascoltano mentre suoni. C’è una cultura musicale diffusa, a prescindere dalle preferenze di
genere, che i musicisti possono toccare con mano. In realtà avevamo voglia di tornare in Italia
solo perché la nostra partenza era coincisa con il post del concerto del primo maggio 2009 che
per noi è stata davvero una svolta radicale. Le notizie che ci arrivavano dai nostri amici e dai
nostri supporters erano incredibili, piene di entusiasmo e di buoni feedback e noi avevamo voglia
di vivere tutto live, in prima persona.
Qual è la differenza emozionale nel suonare on stage una cover (penso a Vodoo Child di
Jimi Hendrix) rispetto a un pezzo scritto da voi?
(Cesare) Si tratta certamente di due emozioni diverse: le cover riusciamo sempre a renderle
molto personali e le improvvisiamo ogni volta in modo diverso, mentre la struttura dei nostri
pezzi non cambia e resta sempre a grandi linee la stessa. E’ chiaro che sentire le persone cantare
insieme a te sulle note di Jimi Hendrix è molto emozionante ma quando le senti intonare un tuo
pezzo le sensazioni sono diverse, molto più amplificate.
L’aspetto live per un “power duo” come il vostro è fondamentale: preferite le decine di
migliaia di persone del Concerto del Primo Maggio oppure qualche centinaio di
fedelissimi in un piccolo club?
(Cesare) Può sembrare strano ma noi ci mettiamo sempre il 100%. Quello che cambia forse è la
tensione con la quale saliamo sul palco ma, quando si inizia a suonare, si chiudono gli occhi e ci si
lascia andare.
Ci sono dei gruppi emergenti della scena indipendente italiana che apprezzate in modo
particolare e con cui vorreste collaborare?
(Cesare) Assolutamente! Per noi le collaborazioni sono molto importanti e cerchiamo sempre di
coinvolgere artisti che stimiamo, sperando che la cosa sia ricambiata. Siamo poi più invogliati
magari a collaborare con chi fa un genere diverso dal nostro, curiosi di vedere che tipo di risultato
possiamo raggiungere. In Italia comunque ci sono tanti gruppi che stimiamo!
“Non so se voglio ma vorrei”: possiamo riferire quest’affermazione a un vostro
desiderio realizzabile nel prossimo futuro?
(Cesare) I nostri desideri si stanno decisamente realizzando! In futuro, forse, fare un disco
perfetto, almeno per noi.
(Adriano) È una frase legata alla paura di osare, che inibisce molti musicisti giovani qui in Italia.
Quando con i Bud abbiamo suonato negli Stati Uniti, abbiamo avuto la possibilità di essere a
contatto con realtà indipendenti di gruppi giovanissimi "superpreparati" sotto qualsiasi punto di
vista. In Italia ho sempre percepito l'incombente sensazione del giudizio e non del confronto. Solo
quando ho cominciato a chiudere gli occhi su un palco, sono nati i Bud Spencer Blues Explosion.
BUD SPENCER BLUES EXPLOSION: www.myspace.com/budspencerbluesexplosion
Foto di Ilaria Magliocchetti Lombi Intervista di Laura Carrozza | www.musicletter.it
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musica
ARTIST: DIRTMUSIC
TITLE:
BKO
LABEL:
Glitterhouse | Venus
[CD + DVD]
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.myspace.com/dirtmusicband
MLVOTE: 9/10
Due anni fa un esordio all’insegna dello sperimentalismo e della contaminazione, ma così positivo
(seppur passato quasi inosservato) e ricco di auspici da suggerire al trio formato da Chris
Eckman (Walkabouts), Hugo Race (True Spirit, e ex-membro degli originari Bad Seeds) e
Chris Brokaw (ex Codeine, ha lavorato con i Lemonheads e con Liz Phair) di bissare
l’esperienza. Con un album, se volete, ancora più pregno di buone vibrazioni nel quale trova
magistrale sintesi l’incrocio tra il rock blues, che da sempre guida le mossa di Eckman & Co., e la
musica maliana che, tra quelle della Madre Africa, è la più ambita dai musicisti occidentali per
instaurare una proficua collaborazione. Il Mali – come saprete – negli ultimi tre lustri ha
dispensato una serie di materiali e di musicisti sublimi che hanno stimolato numerosi artisti
stranieri a recarsi in quei posti per abbeverarsi alla sorgente della loro cultura ancestrale e far
scoccare la scintilla dell’ispirazione. Il primario motivo che ha spinto tanti a recarsi nel Mali (nelle
zone del delta del Niger o in altri stati africani di grande tradizione) è quello del ricercare le radici
più autentiche del blues, almeno da quando Ry Cooder (per il magnifico Talking Timbuktu con
il mitico Ali Farka Touré) e Martin Scorsese (con la serie di documentari sul Blues) hanno
messo in rilievo un dato di fatto che in America hanno fatto fatica a metabolizzare, ovvero che il
Blues – così com’è universalmente noto - è nato sì nei campi di cotone del Sud degli States ma
che è nel cuore dell’Africa che si sono ritrovate tracce del tipico suono in levare. Con queste
premesse, e consapevoli del lavoro accurato e meticoloso di cui sono capaci Eckman, Race e
Brokaw, il disco snocciola una dietro l’altra alcune perle musicali d’incantevole fluidità, ricche di
suggestioni e magie sonore, restando un esemplare lavoro collettivo proprio laddove si conta la
presenza di numerosi musicisti di estrazione diversa. Le registrazioni sono state effettuate ai
Bogolan Studios voluti da Ali Farka Touré nella capitale Bamako. I Tamikrest, la giovane band
tuareg di desert blues guidata dal chitarrista Ousmane Ag Mossa, di cui è recente la
pubblicazione (sempre per la Glitterhouse) dell’eccellente Adagh, fanno da backing band in questo
disco, ma oltre ai Tamikrest troviamo anche il vocalist Fadimata Walet Oumar (dei Tartit) in
un paio di brani (Ready For the Sign e Desert Wind), Lassana Diabaté e Issa Kone della
Symmetric Orchestra di Toumani Diabaté, il bassista Cheikhe Ag Tigly, Lobi Traoré,
figliastro di Ali Farka Touré. Insomma una collaborazione multiculturale ad ampio spettro. Un
autentico capolavoro è la strumentale Niger Sundown, malinconica e crepuscolare in cui si
intrecciano deliziosamente banjo, slide guitar, ngoni e balofon; Black Gravity in apertura ha un
groove ipnotico, Unknowable è caratterizzato dal banjo di Chris Brokaw, Desert Wind è tra le
cose migliori del disco. In più, incredibile la rilettura del classico dei Velvet Underground All
Tomorrow’s Parties. Illuminante poi il DVD allegato al disco che ci aiuta meglio (per immagini) a
imprimere nella nostra memoria una collaborazione così intensa e foriera di “good vibration”
grazie a un bel documentario e a videoclip inediti. Per saperne ancora di più imperdibile è il
booklet interno ricco di immagini e informazioni sui musicisti e sulla realizzazione di questo
superlativo disco.
Luigi Lozzi
ML 09
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update n. 72
musica
ARTIST: DANZIG
TITLE:
Deth Red Sabaoth
LABEL:
Evilive | The End Records
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.danzig-verotik.com
MLVOTE: 8/10
C’è un limite a tutto e a questa sacrosanta verità dovrà pur essere giunto il vecchio Glenn prima
di cominciare a comporre il nuovo studio album. Dopo aver indelebilmente caratterizzato le sorti
di band leggendarie come Misfits e Samhain e realizzato quattro dischi dei Danzig spettacolari
(diciamo pure tre e mezzo eccedendo forse in pignoleria), se non ne azzecchi più una per almeno
tre lustri, gettando nello sconforto anche i fan più fedeli, c’è poco da stare allegri. Il Blackest Of
The Black Tour aveva riacceso qualche flebile fiammella di speranza, resta il fatto però che
nessuno avrebbe scommesso più un solo cent su una rinascita di questa band se non ad ascolto
compiuto. Lo stato d’animo con cui mi sono avvicinato a Deth Red Sabaoth non era di
conseguenza dei migliori, una sensazione di preventiva rassegnazione che, non senza sorpresa,
mi ha fortunatamente abbandonato istantaneamente! Questione di un attimo, il tempo di premere
“play” e venire investiti dal massiccio riff di Hammer of the Gods che sembra rivendicare un
vincolo di sangue con gli episodi più azzeccati del primo album. Danzig ha tirato a lucido la
vecchia scorza e per meglio rappresentare il suo status si è avvalso di una line-up extralusso
comprendente Tommy Victor, chitarrista dei grandi e mai troppo apprezzati Prong e la batteria
dell’ex Type O Negative Johnny Kelly. In questo susseguirsi di numeri ben riusciti anche la
voce di Glenn, libera da filtri ed esperimenti che per troppo tempo l’avevano orrendamente
violentata, sembra giovarsi di un rinnovato vigore, tornando ad apporre la giusta firma in calce a
ogni composizione. I tempi di Rick Rubin in regia sono lontani (ma la registrazione praticamente
in analogico rende che è una meraviglia) e sarebbe ingeneroso intavolare qualsivoglia parallelo
con titoli storici che appartengono ormai a un’altra epoca, tuttavia i sei anni trascorsi dal
deludentissimo Circle of Snakes hanno ricaricato positivamente le batterie del buon Danzig che
si è dato un gran daffare anche in fase di incisione dove non si è occupato solo delle parti vocali
ma anche di gran parte delle tracce di basso e perfino della batteria in Black Candy. Una carezza
dalla stessa mano che ti aveva percosso è tanto inaspettata quanto sorprendentemente gradita;
per quanto poco valga, ti giunga integro e convinto il mio bentornato, vecchio demonio, con
l’augurio di una nuova e splendente sporca estate nera!
Manuel Fiorelli
ML 10
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update n. 72
musica
ARTIST: SERENA-MANEESH
TITLE:
No. 2 - Abyss in B Minor
LABEL:
4AD
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.serena-maneesh.com
MLVOTE: 9/10
A cinque anni dallo strepitoso esordio, che aggiornava in salsa shoegaze la dolce violenza e il
terrore degli Stooges, tornano i Serena Maneesh, forti di un nuovo prestigioso deal con la
mitica 4AD, e tornano con un disco tentacolare, che calca la mano e carica gli estremi del suono,
un disco dirompente, esplosivo e delicato, un proiettile che compie il suo volo con ali di farfalla.
Magnifico, diciamolo subito. Un disco completo. Compiuto in ogni sua parte. Un affresco
iridescente ma ribelle, tossico ma spirituale. Magnifico, di nuovo. Un viaggio tra rock’n’roll
dirompenti che evaporano in tintinnanti visioni psichedeliche, grooves krautrock che diventano
psichedelia pura, ed elegie shoegaze da rigare il volto di lacrime. Un’alchimia quasi impossibile a
descriversi. Un approccio multiforme, che sfoggia come tratto comune uno sguardo alla materia
musicale stupito e frastornato nonché molto retrò, che però, ed è questa la forza unica dei
Serena-Maneesh, è spesso contrappuntato da un cinismo e da una violenza concettuale che ci
riportano all’istante ai nostri anni. Violenza che si dà forma a grooves inquieti e psicotici, violenza
rock’n’roll depravata e slabbrata; e, improvvisi, brani fatti di puro sogno che irrompono nella
tracklist senza preavviso, a far vibrare d’estasi, a redimerci, in cui l’influenza degli Slowdive è
più di una suggestione. Non si resiste al groove kraut di Ayisha abyss né alla sua inquietudine.
Non si scende a patti con la violenza sonica di Blow yr brains in the morning rain. Non c’è scampo
al lento incedere di Reprobate! Non si può non farsi contagiare dalla melodia pop di
D.I.W.S.W.T.T.D. Non si trattengono lacrime di sogni infranti ma maledettamente reali ascoltando
Melody for Jaana e Magdalena (Symphony #8). Un disco splendido, compiutissimo, furioso e
sognante, che segna morte e rinascita e che restituisce fiducia a quello che genericamente
chiamiamo rock’n’roll, e che, nonostante si faccia a gara a scriverne l’epitaffio, non vuol saperne
di morire.
Valerio Granieri
ML 11
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musica
ARTIST: SUN KIL MOON
TITLE:
Admiral fell promises
LABEL:
Caldo Verde
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.sunkilmoon.com
MLVOTE: 10/10
Ubi maior, minor cessat. Deponete le chitarre, smettete di mettere a nudo i vostri sentimenti, così
cheap e scontati. Torna il signore della malinconia, uno dei pochi che abbia saputo prenderla
sottobraccio, dialogare con essa da pari, senza soccombere, cedere, cadere. Gli anni non
scalfiscono il signor Kozelek, uno dei pochi a poter dire, senza timor di smentita, di non aver
mai, e dico mai, sbagliato un disco. Uno che usa sempre gli stessi ingredienti, ma con sapienza e
abilità tali da farli apparire sempre nuovi o, quantomeno, per farci pensare che sì, vale la pena,
anche stavolta, l’ennesima. Uno che indubitabilmente ha già toccato il suo apice compositivo,
espressivo, comunicativo con i Red House Painters, ma a cui capita sovente di lambirne
l’intensità, anche a distanza di molti anni, di molti dischi, di molte storie. Quanti possono dirlo?
Pochi. Uno la cui credibilità e il cui peso sono ancora lì, mastodontici, perché supportati da una
qualità con pochi eguali. La strada, dopo lo splendido April, che poneva l’accento sul lato
“elettrico” à la Neil Young/Crazy Horse dei Sun Kil Moon, con lunghi excursus strumentali, che
rispolveravano le immortali cavalcate di zio Neil, diverge: il consueto spleen del Nostro si esprime
in ballate acustiche gentili, in punta di dita, arpeggiate e lievi. Sì, stavolta il nostro eroe è solo.
Non c’è una band, non altro
supporto strumentale eccetto la sua chitarra, in questo disco.
Kozelek è solo, come forse è sempre stato, e finalmente questo suo stato d’animo ha trovato
compiuta rappresentazione in una solitudine fattiva, reale: abbiamo solo una voce (sempre
emozionante) e una chitarra che stavolta, nuda, sola, ombrosa, assume quasi toni esotici,
flamencati, nella pletora di arpeggi cui dà vita. Una vita sommessa, fatta di emozioni violente ma
soffocate, narrate con delicata consapevolezza da un cantastorie perfettamente padrone dei
propri mezzi espressivi, che sembra non invecchiare mai e che ancora una volta incanta, in
queste vesti scarne e minimali che lo avvicinano al live Little Drummer Boy in cui rileggeva il
suo repertorio con l’unico aiuto di una seconda chitarra; e così Alesund, Third and Seneca, You
are my sun e gli altri gioielli contenuti in questo Admiral Fell Promises, baciate da
un’ispirazione che sembra senza fine, sono nuove perle del rosario di Kozelek, un rosario da
snocciolare nella semioscurità di una sera in cui si è deciso che il mondo che non esiste, se non
nelle parole tenui e lucide di un cantastorie immarcescibile. Pura poesia.
Valerio Granieri
ML 12
musicletter.it
update n. 72
musica
ARTIST: BIG BOI
TITLE:
Sir Lucious Left Foot: The Son of Chico Dusty
LABEL:
Def Jam
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.myspace.com/bigboi
MLVOTE: 9/10
Big Boi, l’altra metà del duo più famoso e stravagante di Atlanta, incide il suo primo album
solista (non volendo considerare il celeberrimo Speakerboxxx targato Outkast e confezionato
insieme a The Love Below di Andrè 3000 nell’anno 2003) per la gloriosa Def Jam. Più di tre
anni di gestazione non sono passati invano giacchè Sir Lucious Left Foot: The Son of Chico
Dusty è una vera bomba: ogni canzone presenta trovate geniali e l’opera suona come se si
avvertisse una fottuta esigenza di ascoltare questa musica. Hip hop grondante di funk, rhythm
and blues, pop, elettronica anni Ottanta, cori perfetti e orchestrazioni sontuose e talvolta
ridondanti che comunque non rovinano affatto la festa. In quasi tutte le composizioni sono
presenti ospiti più o meno illustri: Cutty (Shutterbugg), Sleepy Brown & Joi (Turns Me On), Big
Rube (General Patton), Vonnegutt (Follow Us), Jamie Foxx (Hustle Blood), George Clinton,
Too short & Sam Chris (Fo Yo Sorrows), Janella Monàe (Be Still), Gucci Mane (Shine
Blockas) e B. o. B & Joi (Night Night). Big Boi (alias Antwan Andrè Patton ovvero il vero figlio
di Chico Dusty) con Sir Lucious Left Foot…The son of Chico Dusty ha realizzato un classico
della Black Music e non mi meraviglierei se per questi anni diventasse quello che Thriller e
Purple Rain hanno rappresentato per gli anni Ottanta, Prince & The New Power Generation
per gli anni Novanta e Stankonia per gli anni Zero.
Domenico De Gasperis
ML 13
musicletter.it
update n. 72
musica
ARTIST: MOTORAMA
TITLE:
Alps
LABEL:
Autoprodotto
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.myspace.com/motoramapage
MLVOTE: 7,5/10
A scanso di equivoci la prima cosa che va detta è che i Motorama di cui mi appresto a parlare
non hanno nulla che vedere con la band italiana e tanto meno con quella argentina. I Motorama
in questione sono russi, anche se la formazione di Rostov sul Don con questo primo album
autiprodotto attinge a piene mani da quella cultura anglofona di fine anni ’70 e inizio anni ’80;
potere della musica, ma soprattutto forza della globalizzazione che, con la caduta del muro di
Berlino, ha prodotto (nel bene e nel male) dei profondi cambiamenti culturali (e non solo). Alps è,
difatti, un piacevolissimo disco dalle sonorità new wave che ripercorre quelle traiettorie già
tracciate da formazioni come Joy Divison, Echo & the Bunnymen, Interpol, National, Pains
Being Pure at Heart e che potrebbe essere collocato in quel movimento cosiddetto post-punk
revival molto in voga negli anni zero. Ciò che infatti colpisce di Vladislav Parshin (voce e
chitarre), Irina Marchenko (basso), Roman Belenkiy (batteria), Alexander Norets (tastiere)
e Maxim Polivanov (chitarre) non è tanto l’originalità della musica realizzata quanto, invece, la
naturalezza con cui suonano ciascun pezzo del disco (tutti cantati in inglese da Parshin alla
maniera di Paul Banks) che li rende, almeno per chi scrive, di gran lunga superiori a gruppi
come, per esempio, gli Editors. Questione di gusti personali, ovvio, tuttavia i Motorama con
questo primo lavoro sulla lunga distanza hanno dimostrato di avere talento e personalità, e per
capirlo basta ascoltare Northern Seaside, Warm Eyelids oppure ancora la splendida Ghost che
riecheggia, addirittura, qualcosa dei Magnetic Fields. Brani che hanno saputo conquistarmi fin
dalle prime battute e che vanno oltre il puro e semplice esercizio di stile. È evidente però che non
sono qui a gridare al capolavoro, lungi da me, quantunque Alps mi abbia in qualche modo
stregato.
Luca D’Ambrosio
ML 14
musicletter.it
update n. 72
musica
ARTIST: PERTURBAZIONE
TITLE:
Del Nostro Tempo Rubato
LABEL:
Santeria | Iceberg | Audioglobe
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.perturbazione.com
MLVOTE: 8/10
Ognuno sceglie il proprio disco dell'estate. Possibilmente leggero e sbarazzino, adatto alla
stagione calda e alle gite in macchina, ma per questo uso l’album dei Record’s: De Fauna Et
Flora. Del Nostro Tempo Rubato, quinto lavoro della band piemontese, invece lo scelgo per
quei pomeriggi di luglio quando fuori dalla finestra persistono i 40 gradi e in casa le tapparelle
abbassate, un ventilatore e tu, sdraiato nel letto, immobile. È un bellissimo album, probabilmente
il miglior lavoro dei Perturbazione, dove si possono percepire racconti, desideri, ricordi e
nostalgie di un tempo che fu. Nello sfondo un'Italia dove "Per arrivare in fondo non basta avere i
numeri". Pop surreale, evocativo, ben raccontato, liquidamente melodico e quasi miracoloso. Gli
autori non hanno lesinato o tagliato, e nemmeno passato un minimo di pialla per ridurre la durata
del disco: che continua per più di un'ora in virtù di ben 24 tracce che possono essere scambiate
per ipertrofia dell'io ma in realtà scorrono bene dall'inizio alla fine, senza un'increspatura o un bip.
Come che sia, per non rubare tempo al tempo, i nostri hanno avuto l'idea originale di inserire,
all'interno della confezione - scarna, minimale ma artistica e in odor di vinile - un cd "vergine" per
dar modo all'ascoltatore di ricostruire la scaletta secondo la preferenza di ordine e traccia. Per
quadrare il cerchio avrebbero dovuto ridurre l'album a una quindicina di tracce, allora sarebbe
stato meno dispersivo. Questo in una logica moderna, dove tutto diventa a uso e consumo
dell'avventore occasionale, radiofonico. No. Il giusto approccio richiede un po' d'attesa, durante la
quale sarà d'uopo prestare attenzione alle mille sfaccettature del disco, fino a riconoscerlo e
apprezzarlo pienamente.
Jori Cherubini
ML 15
musicletter.it
update n. 72
musica
ARTIST: LOUIS PRIMA
TITLE:
The King Of Jumpin’ Swing - Greatest Hits
LABEL:
Rattle & Roll | Egea
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.louisprima.com
MLVOTE: 8/10
“Quando metti su un bel disco di Louis Prima / senti il cuor battere al ritmo dello swing / che ti
sale su dai piedi e arriva in cima / e anche Roma può sembrarti New Orleans / E ogni clackson
che riecheggia per la strada /assomiglia ad una tromba o ad un vecchio sax (…)” recita una
canzone che sintetizza alla perfezione lo stile del cantante, trombettista e band leader, nato a
New Orleans, al crocevia dove si fondono il jazz e lo swing, nel 1910 (nipote di un emigrato
siciliano). È stato sempre orgoglioso e fiero delle sue origini italiane e siciliane, Louis Prima, ed è
stato la punta più avanzata di certo swing italo-americano, interpretato in modo bizzarro e
giocoso, in voga nel periodo a cavallo tra i ’50 e i ’60. Nel suo modo di cantare (nello scat, tipico
dello swing, e per la voce roca) erano palesi molte influenze comuni a Louis Armstrong, suo
illustre concittadino. Louis moriva nel 1978, tre anni dopo essere entrato in coma a seguito di un
intervento chirurgico per l'asportazione di un tumore al cervello. Per chi frequenta i territori
cinematografici è indimenticabile la scena di Lo sbirro, il boss e la bionda (‘93, di John
McNaughton) con il grigio poliziotto De Niro che, galvanizzato dall’aver trascorso una notte di
sesso con la splendida Uma Thurman, procede ai rilievi di routine in un locale dove si è compiuto
un truce delitto di mafia canticchiando la Just A Gigolo che si diffonde da un juke box, ma non è
solo questo brano a fare bella figura nel repertorio del “re dello jumping swing”, ci sono anche
Buona sera (signorina) (ripresa dal nostro Buscaglione che a Prima deve certamente molto al
pari di Renato Carosone), Sing, Sing, Sing (un grande successo nel ’36 e standard per chiunque
si cimentasse all’epoca con lo swing), Angelina e Oh Marie, cover della canzone napoletana Maria
Marì. Possiamo definire questa compilation (27 brani per un totale di 79’) “apocrifa” perché non si
tratta delle registrazioni discografiche originali bensì di quelle effettuate tra il ’56 e il ’59, nel
periodo in cui Prima si esibiva tra Hollywood, Lake Tahoe e Las Vegas assieme alla giovane
cantante (la sua quarta moglie) Keely Smith e alla formazione del sassofonista Sam Bufera, e
hanno non minore pregio. Sulla sua tomba l’epitaffio recita: «When the end comes / I know /
They'll say / Just a gigolo / As life goes on / without me» («Quando arriverà la fine, / Lo so, /
Diranno è solo un gigolò, / Mentre la vita va avanti / Senza di me»), citazione tratta dal testo di
Just a Gigolo, una delle sue canzoni più celebri.
Luigi Lozzi
ML 16
musicletter.it
update n. 72
musica
ARTIST: JACKSON BROWNE & DAVID LINDLEY
TITLE:
Love Is Strange / En Vivo Con Tino [2 CD]
LABEL:
Inside Recordings | Audioglobe
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.insiderecordings.com
MLVOTE: 9/10
Da qualche tempo – e anche in qualche occasione precedente attraverso recensioni su Musicletter
– ho iniziato a cavalcare quello che in questo momento può essere solo un mio pallino o forse
anche il mio cavallo di battaglia, ovvero quella sorta di crociata avviata – così per gioco - per
individuare chi tra i giurassici eroi del rock invecchi meglio di altri. Alla stregua, direi, del vecchio
adagio di Celentano, “questo è Rock, questo no!”, ma con un significato leggermente diverso.
Ora, il ritrovare Jackson Browne sulla scena (negli ultimi 7 anni ha pubblicato un solo disco di
inediti, e due album live, acustici) si presta a qualche distinguo. È vero che l’artista ha dato il
meglio di sé sul finire dei ’70, pur tuttavia ha continuato a “esistere” musicalmente e a profondere
l’impegno politico ponendosi come un punto di riferimento per gli appassionati del rock
californiano. È vero che si è smarrita presto memoria del miglior Jackson Browne,
ingenerosamente costretto all’oblio (anche) da una sua naturale riservatezza, da un suo pudore
esistenziale che convivevano con l’uomo e l’artista. Le sue canzoni, con tratti malinconici e
crepuscolari, parlano sì di utopie andate deluse ma trattano soprattutto della condizione umana,
che resta fragile ed esposta alle intemperie della vita anche ai nostri giorni. Tanti anni sono
oramai passati da quel suo primo album inciso a 23 anni con un songwriting di grande sensibilità,
quintessenza della scuola (cosiddetta) di Laurel Canyon. Nel 2006 Jackson ha ritrovato sul suo
cammino l’amico David Lindley e ha provato a ricreare (ma solo per amor proprio) la magica
atmosfera che c’era intorno alla tournée del 1978, l’anno della realizzazione di Running On
Empty, frutto della loro simbiotica partnership. Quell’anno, il ’78, il sottoscritto era in viaggio
attraverso gli States a bordo dei mitici Greyhound, e ricordo con particolare piacere d’aver
pianificato le mie tappe nel tragitto da San Francisco a New York per poter assistere a un loro
concerto (in un ben determinato giorno) in Virginia. Un momento per me indimenticabile, ma
torniano ai nostri. Lindley è un magnifico outsider, un polistrumentista raffinato e preparato, per
Browne è stato un po’ quello che Mauro Pagani ha rappresentato per De Andrè; sicuramente un
gradino al di sotto di Ry Cooder ma animato dallo stesso spirito di ricerca delle roots. Il doppio
disco è stato registrato durante le date spagnole nel marzo 2006, con il contributo di una serie di
musicisti locali, tra i quali il percussionista flamenco (e produttore) Tino di Geraldo, Carlos
Núñez, virtuoso della gaita, la cornamusa spagnola o la nostra zampogna (d’origine molisana), i
cantanti Kiko Veneno e Luz Casal, e il principe della banduria, Javier Mas, oltre ad altri. I brani
del repertorio dell’artista californiano assumono una nuova veste soprattutto grazie all’accurato
lavoro di David; in ognuno dei pezzi (tra questi Running On Empity, Late For The Sky e For
Everyman; alcuni fanno parte del repertorio di Lindley) si respira una magnifica atmosfera
strumentale, impreziosita da strumenti locali e da incantevoli armonie vocali. Una delizia per le
orecchie che ci porta ad affermare senza esitazioni, alla luce della premessa dell’inizio, che
Jackson invecchia bene.
Luigi Lozzi
ML 17
musicletter.it
update n. 72
musica
ARTIST: LOKUA KANZA
TITLE:
Nkolo
LABEL:
World Village | Ducale
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.worldvillagemusic.com/lokuakanza
MLVOTE: 8/10
Un piede in avanti verso le moderne contaminazioni, mantenendo però l’altro saldamente
conficcato nella tradizione musicale della sua terra d’origine, il Congo, tra istanze tribali e retaggi
religiosi. Parliamo di Lokua Kanza (classe 1958), autentico cittadino del mondo, che ha scelto
questo come il modo migliore per divulgare e far conoscere fuori dai confini nazionali la musica di
cui vuol farsi ambasciatore. Forte di un vocalismo dalla timbrica suggestiva Lokua ha messo a
punto uno stile personalissimo e sofisticato che gli ha consentito di raggiungere consensi
considerevoli presso le platee occidentali. Non dei colori fantasmagorici e variopinti della cultura
d’Africa si articola la musica di Lokua, bensì di un raffinato cerebralismo, d’un sospeso tocco
ancestrale che ne fanno una personalità unica. Questa duttilità artistica gli deriva dalla varietà di
esperienze vissute fin dalla più giovane età, quando i suoi genitori (e lui aveva solo 6 anni) si
trasferirono nella capitale Kinshasa e, da adulto, per le continue frequentazioni degli ambienti
della musica world parigina e del Brasile soprattutto (importante è stata una recente
collaborazione con Gal Costa, figura di riferimento in patria), quasi a voler gettare un ideale (e
per nulla peregrino) ponte tra la madre Africa e le sponde dell’America verso le quali vennero
tradotti in regime di schiavitù i suoi avi. E numerose sono state in questi anni le collaborazioni di
spessore che ha inanellato; ne citiamo solo alcune: Youssou N’Dour, Geoffre Oryema, Bisso
Na Bisso, Enzo Enzo, Al Jarreau, Miriam Makeba, Sara Tavares, Papa Wemba. Il suo
primo disco (inciso per la Universal), dal titolo che recava semplicemente il suo nome, risale al
1993 e a questo sono seguito altri 4 album (Wapi Yo e 3, il secondo e il terzo, tra il ’95 e il ’98,
per la BMG, gli altri ancora per la Universal) e poi questo nuovo che segna il passaggio
all’indipendente World Village (dell’Harmonia Mundi). Il nuovo album è stato registrato proprio tra
Kinshasa, Parigi e Rio de Janeiro; e la globalizzazione delle tante sfumature che l’hanno ispirato si
percepisce bene all’ascolto. Nel solco delle roots africane prendono il sopravvento – nonostante
l’utilizzo di strumentazioni elettriche (tastiere e chitarre) - i toni gentili, pacati ed evocativi del
soul spirituale messo a punto dall’artista. In apertura Elanga Ya Muinda è una delicate kalimba,
Dipano è sostenuta da uno splendido giro chitarristico, Loyenge poggia su un accattivante
vocalismo, Yalo è un’autentica gemma mentre Vou Ver si anima di saudate e non sfigurerebbe nei
dischi dei cantautori brasiliani che vanno per la maggiore.
Luigi Lozzi
ML 18
musicletter.it
update n. 72
musica
ARTIST: TAPE FIVE
TITLE:
Tonight Josephine!
LABEL:
Chinchin | Audioglobe
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.tapefive.com
MLVOTE: 8/10
Non vogliono avere l’ambizione di incidere sui destini della musica i Tape Five – e noi
(criticamente) ci sottraiamo dar fargli da sponda per una simile eventualità -, vogliono solo
divertire e divertirsi, cavalcare l’onda propizia del divertissment sofisticato che impera nei club e
negli ambienti più “alla moda”. Quello che oggi viene definito il loro lounge nu jazz (o modern
retro-swing), un tempo, negli anni ‘80, sarebbe potuto essere patrimonio dei Kid Creole & the
Coconuts, Working Week o Matt Bianco. Un sound brioso, elettrizzante, pronunciatamene
vintage, che curiosamente si rifà principalmente agli anni Venti, agli anni della nascita del Jazz,
ma non vi sono precluse nemmeno certe atmosfere anni sessanta riaffiorate prepotentemente
nell’immaginario di moda negli ultimi tempi. Una formula carica di ritmo e istintività, infarcita
degli stili più svariati (oltre al jazz degli albori, il vaudeville, una spruzzata umori latini),
probabilmente pronta ad essere riciclata nel tempo (magari con altri nomi) ma destinata ad
esaurire la sua spinta propulsiva nel breve volgere delle stagioni (della musica), ma che al
momento ben si concilia con la frammentarietà della vita moderna. È questo il terzo album per il
gruppo creato dal produttore tedesco Martin Strathausen. Clarinetto e tromba in bella evidenza
(Bad Boy Good Man, Pantaloons, Dixie Biscuit), Pousse l’amour è pieno di quel “french touch” che
in passato abbiamo imparato ad apprezzare con Saint Germani e Llorca, The Smurf
(rivisitazione del classico brano break beat di Tyrone Brunson) ha un groove che non
dispiacerebbe agli eponimi del Philadelphia Sound, The Sky is Not The Limit (la voce è quella di
Iain Mackenzie) fa il verso a provvidi crooner odierni, Alcazar è brano di echi dub noir; ogni
brano è insomma un’ideale spot pubblicitario buono per ogni stagione e ogni uso.
Luigi Lozzi
ML 19
musicletter.it
update n. 72
musica
ARTIST: THE DEAD WEATHER
TITLE:
Sea Of Cowards
LABEL:
Third Man Records
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.myspace.com/thedeadweather
MLVOTE: 7/10
Prima di tutto spero voi abbiate dimestichezza con i progetti paralleli di Jack White, nella
fattispecie Raconteurs e Dead Weather. Benissimo: avete notato per caso alcune analogie tra i
due gruppi? Ok, d’accordo, fanno due generi abbastanza diversi. A nessuno viene in mente altro?
La prima cosa, abbastanza lampante, è il fatto che abbiano pubblicato il loro secondo disco in
tempi relativamente brevi; secondo: Jack White durante il parto sembra un ascoltatore che
collabora alla stesura dei pezzi, mentre durante la crescita del pargolo la sua presenza diventa
centrale, aggiungendo il suo classico tocco schizoide; terzo, il secondo disco di entrambi i gruppi
si presenta legato a una sfida: se i Raconteurs se la presero con i giornalisti pubblicando
Consolers Of The Lonely senza rilasciare interviste, preavviso d’uscita o interviste, con Sea Of
Cowards lo scherzo consiste nell’aver registrato tutti i pezzi dal vivo e a distanza di pochi mesi
dall’esordio. Quest’ultimo punto è centrale durante l’ascolto: se da un lato si può notare una
maggiore varietà musicale, di contro è innegabile come l’insieme risulti incompiuto, grezzo, non
lavorato. Mentre il primo disco poteva essere una dolce buonanotte ai sognatori, Sea Of
Cowards è l’improvviso risveglio durante il sonno. Durante il primo e distratto ascolto avevo dei
dubbi sul fatto di aver inserito il disco giusto e non Icky Thump: chitarre seventies sorrette da
sintetizzatori (strumento conduttore di tutta l’opera), la voce di Jack White in primo piano, il
pezzo inconfondibilmente White Stripes. Proseguendo, il discorso si farà più articolato, la furia
hard garage si confronta con suadenti linee dub e la Mosshart prende le redini del progetto.
Subito dopo The Difference Between Us, che suona come una versione riveduta di Sweet Dreams,
ci imbattiamo in I’m mad, vero apice e primo pezzo in cui la carismatica cantante e il famoso
batterista giocano a carte scoperte. Il risultato è un pezzo che suona come se gli ultimi Kills e i
White Stripes venissero remixati dai Prodigy. Degne di nota pure Gasoline, collocabile
indicativamente nel periodo in cui i Deep Purple si facevano le ossa distillando divagazioni dal
sentore psichedelico e No horse, un furioso pezzo rock deliziosamente sfilacciato. Notevole il fatto
che, spesso e volentieri, non si riesca a riconoscere da cosa siano prodotti alcuni suoni, in quanto
basso, chitarra e sintetizzatori sposano sonorità tanto care alle pedaliere, creando un effetto
sottovuoto che può essere visto sia come pregio che come difetto. Sea Of Cowards sembra un
buon disco di transizione, anche se non saprei proprio verso quali direzioni. Domandatelo pure a
Jack!
Matteo Ghilardi
ML 20
musicletter.it
update n. 72
musica
ARTIST: SAKEE SED
TITLE:
Alle Basi della Roncola
LABEL:
Mousemen
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.myspace.com/sakeesedfamily
MLVOTE: 6,5/10
“Alle Basi della Roncola” è un piccolo prodotto artigianale delle mie zone che richiede attenzione e
dedizione che però rilascia la sua rustica essenza dopo pochi assaggi ripetuti. Come una bottiglia
di vino senza etichetta da cui un tappo di sughero profumato fa capolino, come un’ampolla di
acquavite con data annessa e la scritta “grappa” scolorita dal tempo oppure come un rustico
salume affettato troppo largo per sentirne meglio pregi e difetti, l’esordio dei Sakee Sed è un
disco maturo e acerbo allo stesso tempo, è la necessità di mettere in musica umori e tremori di
chi vive la provincia ma ha lo sguardo lucido e bizzarro di chi vorrebbe evadere da essa. È folk
sghembo e surreale (testi in italiano davvero originali quali Cenami il Cefalo), è ubriaco ritratto di
passione verso la musica italiana che non si siede su allori e cliché ma attraverso un suono
ipnotico e minimale condito da vibrafoni, ukulele, pianoforte, batteria e percussioni, dimostra che
l’artigianato è ancora sinonimo di
qualità. Non ci saranno appariscenti veline a far mostra di
prosperosi seni ai loro concerti, non ci sarà pubblicità tritura palle nelle radio e non ci saranno
faraonici tour conditi da monotone rappresentazioni carta carbone; solo walzer di provincia che la
famiglia della coppia Ghezzi/Perucchini (responsabili del progetto) alterneranno fra un bicchiere
di whisky, una ballata dolce e un R'n'B proteso all’infinito. Facendo un inchino agli amici,
all’analogico e alla psichedelia.
Nicola Guerra
ML 21
musicletter.it
update n. 72
musica
ARTIST: IL GENIO
TITLE:
Vivere Negli Anni X
LABEL:
Disastro Records
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.myspace.com/ilgenio
MLVOTE: 9/10
Le critiche dal tono insolitamente duro che hanno accompagnato due anni fa l'omonimo esordio de Il
Genio (moniker dietro il quale si cela il duo salentino Gianluca De Rubertis e Alessandra Contini)
sono state paradossalmente causate - ad avviso di chi scrive – soprattutto dall'inaspettato successo
che lo ha caratterizzato. Intendiamoci: ogni rilievo è legittimo. Meno giustificate sono l'acredine,
l'acidità nei giudizi (dispensata a piene mani particolarmente dal mondo musicale indie italiano), la
fretta con cui l'anthem catchy Pop Porno (diventato persino lo stacchetto di una nota trasmissione
televisiva) è stato considerato non più che una sciocchezza insignificante. “In Italia si perdona tutto,
tranne il successo”, diceva Ennio Flaiano, aforisma di cui ha fatto tesoro la scena indie italica
(purtroppo storicamente affamata di risorse economiche e di visibilità) e la stampa specializzata
(spiazzata da un fenomeno che – come al solito – non è stata in grado di prevedere) a cui non è parso
vero sbertucciare le pose della Contini e l'apparente snobismo di De Rubertis, contestare una scarsa
originalità musicale, una fin troppo marcata leggerezza nello stile ed il presappochismo nei temi
affrontati. La popolarità raggiunta (con un solo brano per giunta) è sembrata al provincialismo “indie e
non...” come il risultato di un compromesso con il mainstream, la realizzazione di logiche mercantili in
luogo d'una purezza artistica possibile (secondo alcuni) solo in caso di assoluta mancanza di riscontro
commerciale presso il grande pubblico. Troppo severe, dunque, le critiche mosse a Il Genio, per non
sembrar viziate da antichi pregiudizi sebbene sia abbastanza inevitabile che nell’analisi di un musicista
influisca parecchio la visione che ciascuno ha del mondo, della vita, delle persone e della musica
stessa. A molti (lodevoli eccezioni ci sono, comunque) sfuggono l'ironia con la quale il duo stempera
l'allure sciattamente decadente con cui si mostra all'esterno, l'incosciente grazia leggera con cui
vengono ammorbidite le mossette estetizzanti espressione d'una visione del mondo romanticamente
aristocratica che esclude le miserie d'una morale perbenista per comportarsi secondo una scala di
valori in cui al primo posto v'è solo il microcosmo sentimentale – languido e morboso – della coppia,
baluardo per difendersi dall'assurdità del mondo esterno e della vita. Il nuovo lavoro de Il Genio Vivere Negli Anni X - si muove ancora sui binari della levità stilistica con cui i conflitti erotico-emotivi
(e l'esistenza stessa) sono assorbiti in un processo di rarefatte e maliziose schermaglie dialettiche
scevre da qualsiasi enfasi intellettuale ma ricche, al contrario, sia d'elegante verve che di malinconica
dolcezza che s'interrompe con il fragore della risata di chi non si prende troppo sul serio. Sorretto dalla
sontuosa produzione di Amerigo Verardi, il disco dispiega sull'ascoltatore un ventaglio sonoro
vastissimo e accattivante, pieno di infiniti rimandi musicali che comprendono eleganti orchestrazioni (la
struggente Si, per sempre, mai), assortiti ammiccamenti vintage, la disco italiana dei primi anni '80
(come non pensare in Del lei all'indimenticabile Diana Est?), la canzone d'autore francese dei sessanta
(il ping pong vocale del duo è puro Gainsbourg-Birkin, veri numi tutelari dell'operazione Il Genio),
l'electro (Amore chiama terra) e, persino, il rock (nella surreale Overdrive che
mette in mostra
taglienti distorsioni chitarristiche giocando sul senso stesso del titolo del brano). Stupisce, pertanto, la
capacità di costruire melodie poppeggianti di grande fruibilità senza offrire, in ogni caso, un punto di
riferimento sonoro certo e di immediata identificazione.
ML 22
musicletter.it
update n. 72
musica
Un approccio che potremmo definire “psichedelico” cioè ondivago, come emerge, d'altra parte,
nell'apertura del disco (“Il genio”) che cita spudoratamente i Beatles più “psychy” di Sgt. Pepper's,
nei deliziosi esotismi gainsbourgiani alla Couleur Café di Tahiti, Tahiti che, però, vibrano d'una
sintetica ruvidezza kraut assimilabile alla storica Trans Europe Express oppure nel duetto cinematico
da b-noir sincopato di Cosa dubiti. Nell'epoca del post-moderno in cui ogni prodotto artistico (e
dell'intelletto umano) appare “derivativo”, privo di una sua propria originalità rispetto a un ipotetico
modello di riferimento classico, e in cui gran parte dell'arte stessa sembra paccottiglia senza alcun
valore (come teorizzato anche da Wharol) perfettamente riproducibile, l'opera de Il Genio è la
migliore (più sincera e più genuina) replicazione possibile di nobili modelli imitativi in una specie di
gioco sonoro… In un'ideale (in)verosimile congiunzione tra la salace “commedia all'italiana” e la
sentimentale “commedia francese”, tra “La voglia matta” e “La bella scontrosa”. Giocate anche voi,
allora, ascoltando il disco senza ulteriori artificiosi pregiudizi. Non ve ne pentirete.
Nicola Pice
ML 23
musicletter.it
update n. 72
musica
ARTIST: IL TRICERATOPO
TITLE:
Volume I
LABEL:
Autoprodotto
RELEASE: 2010
WEBSITE:
MLVOTE: 9/10
Quattro brani completamente acustici, dedicati (!?) nella titolazione a celebri film degli anni '80
(Guerre Stellari, Karate Kid, Ritorno al futuro e Ghostbusters nell'ordine). Una chitarra elettrica, una
acustica, un basso: nessun altro tipo di percussione. Una voce disperata che s'impenna rabbiosa nella
declamazione di amori giovanili passati - ormai abbandonati nelle pieghe della memoria - tra lo spirito
Jedi, una Delorian, spade laser e molari rotti, kimono improvvisati con asciugamani, Darth Vader,
frigoriferi rumorosi infestati da fantasmi e porte cigolanti in un desolante ambito di incertezza
esistenziale a (non) definire un orizzonte privo di prospettive di senso che pietrifica i gesti e le
emozioni rendendo(ci) quasi immobili, lenti come quel Triceratopo che è anche il nome del trio autore
di questo (piccolo) progetto. Ovunque nel disco si respira aria di dolorosa nostalgia per ciò che non è
più (se mai lo è stato) e non potrà essere com'era: la perdita ma anche la mancanza – come direbbe il
filoso e scrittore Sergio Moravia - di ciò che abbiamo passato a rincorrere tutta la giovinezza o la vita
- l'amore ma anche un ideale o una passione... Qualsiasi cosa insomma che ci potesse regalare anche
un solo istante di felicità – per poi rimpiangerne l'assenza nei giorni successivi alla sua immancabile
scomparsa. Il passare degli anni scandisce un rimpianto nostalgico rivolto soprattutto alla giovinezza
stessa sepolta dalle macerie dell'incombente età adulta nella consapevolezza che il tempo andato sia
finito e non c'appartenga più per goderne gli eventuali benefici e nella consapevolezza dell'impossibilità
di ritornare indietro per correggere gli errori commessi (Ritorno al futuro). Alla nostalgia del passato
non fa il paio, però, ne Il Triceratopo la speranza nel futuro, la capacità, cioè, di trasformare tutto
questo vagheggiare in un progetto solido quasi che la furente malinconia (mi si perdoni l'ossimoro) che
pervade il disco impedisca anche la possibilità stessa di immaginarlo e pianificarlo precipitando
l'esistenza in una sorta di limbo nebuloso popolato dai fantasmi dei propri ricordi (“...mi guardano,
ricordano e mi dicono che tu non sei più qui...e non mi fanno dormire neanche stanotte, il frigo fa
rumori strani, cigolano le porte...” da Ghostbusters). In un certo senso, pertanto, questo Volume I de
Il Triceratopo - pur nutrendosi di un immaginario cinematografico suggestivo ma ormai datato nel
tempo e quindi quasi sconosciuto ai più giovani – veicola universalmente la condizione di totale
disillusione esistenziale che è peculiare della generazione contemporanea a questi anni terribili e
indefiniti, sospesa anch'essa in uno stato di anaffettività vaga e inconcludente, compressa in un “hic et
nunc” ostile tra la labile memoria d'un (grande) passato che non può essere presente e l'incertezza
d'un futuro che non è ancora (con tutto il suo carico di incognite). Qualunque siano gli sviluppi,
comunque, di questo progetto (per comunicare i componenti del gruppo Gilbe, Moris e Simone –
seppur non alla prima esperienza musicale – hanno solo una pagina facebook, non ancora un sito
proprio), al di là delle possibili imperfezioni stilistiche e della scarna veste sonora (un folk cantautorale
di pochi accordi, essenziale ma diretto al viso come un fendente ben assestato) non riesco a pensare in
questo periodo a nulla che sia più struggente e poeticamente naïf di questi brani. “Da piccolo il mio
dinosauro preferito era il Triceratopo”. Beh, da oggi anche il nostro...
Nicola Pice
ML 24
musicletter.it
update n. 72
musica
ARTIST: VERLAINE
TITLE:
Rivoluzioni a Pochissimi Passi dal Centro
LABEL:
70 Horses Records
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.myspace.com/verlaineindie
MLVOTE: 9/10
Le Rivoluzioni a Pochissimi Passi dal Centro sono quelle di là a venire, vagheggiate passando
le giornate al bar tra patetici tentativi d'abbordaggio, risate insensate e spacconate tra amici,
storie vissute o, per lo più, inventate e solenni bevute. Nell'attesa (improbabile) di cambiare la
propria vita è più facile e consolatorio immaginare di essere altrove, magari nella Francia dei film
visti al cinema di Godard o di Truffaut, fascinosa e a portata di mano appena poco più sù, dopo
le Alpi, lontana dalle brume sabaude. Il disco d'esordio dei torinesi Verlaine, prodotto da
Giancursi e Lo Mele dei Perturbazione, dopo una manciata di EP, è una sorta di manuale di
sopravvivenza per maniaci sentimentali dai cuori infranti, in perenne “empasse” esistenziale, che
distilla sapientemente nell'apparente brevità - otto brani appena - gocce di spleen romantico con
raffinatissime sonorità retrò da “orchestrina scalcinata ad assetto variabile” (come amano
definirsi). Melodie delicate di tastierine “Bontempi” si impastano alla dolcezza di una viola tra
riverberi di chitarra, loops elettronici, rumori di strada, voci su nastri pre-registrati e sincopi
malinconiche in un'atmosfera che attraversa la musica d'autore italiana (il Lucio Battisti della
prima ora ma anche i Non voglio che Clara) e il folk rock d'oltreoceano, il catalogo "Morr Music"
e la profusissima ironia amarognola pierociampiana percepita qui come autentico antidoto al male
di vivere. Senza quest'ultima, infatti, il quadro offerto dai Verlaine sarebbe desolante. Dai testi
(scritti peraltro con fine eleganza) emerge l'assoluta gratuità di quella vita che si vorrebbe
ingannare (per impedire di esserne fottuti) con mille inutili gingilli: una coazione a ripetere
(cocktail ingollati uno dietro l'altro), un flusso di esperienze - il più delle volte – insensate
nell'attesa dell'arrivo di un improbabile Godot travestito da “femme fatale”, sfibrati dall'immane
tentativo di trovare e dare un senso ad una realtà che non ha un significato in sè. In un orizzonte
apparentemente privo di fini, il problema è proprio quale vita scegliere di vivere nell'accettazione
difficilissima del ruolo che si vuole interpretare nella consapevolezza dell'antinomia tra vita e
forma (in quanto espressione di bisogni e di valori l'uomo è forma, in quanto creatore di tali
esigenze è al tempo stesso produttore di vita) della coscienza, pertanto, che l’esistenza in alcun
modo può essere ricondotta alle sue forme, sempre inadeguate. L'eros (presunto taumaturgico
rimedio) non farebbe eccezione – per i Verlaine - rispetto alle altre passioni, non potrebbe
cambiare definitivamente il mondo ma potrebbe renderlo meno ostile e - in quello strano melànge
di gioia, nostalgia, sogni, speranze, delusioni, rimpianto, addii, sofferenza, ritorno, pulsioni che gli
è proprio - fornirci, comunque, uno slancio pieno di contraddizioni, sì, ma di vitali contraddizioni. I
Verlaine, avrete capito, confezionano un'opera dal cui ascolto non ci si può esimere,
irrinunciabile per la grazia musicale che emana e per la profondità che la sottende. Direttamente
proporzionale all'understatment che li contraddistingue e che non può non entrare nell'olimpo
delle “cose sonore” più care. Una sola controindicazione: genera forte dipendenza.
Nicola Pice
ML 25
musicletter.it
update n. 72
musica
ARTIST: BADLY DRAWN BOY
TITLE:
Is There Nothing We Could Do?
LABEL:
101 Distribution
RELEASE: 2010
WEBSITE:
www.myspace.com/badlydrawnboy
MLVOTE: 8/10
Dopo una pausa durata quasi quattro anni è uscito - nell'indifferenza generale, Regno Unito
esluso - Is There Nothing We Could Do?, il nuovo lavoro di Damon Gough, meglio conosciuto
come Badly Drawn Boy. Sebbene colonna sonora del film tv “The fattest man in Britain”, andato
in onda in Inghilterra e che vi consiglio di procurarvi, il disco può considerarsi a tutti gli effetti
come il "ritorno" musicale di uno fra gli autori più sensibili e raffinati della sua generazione. Un
lavoro completamente anomalo anche rispetto alla media dei prodotti assimilabili a un certo
cantautorato folk pop di cui il nostro fa (o ha fatto) parte. Predominano, infatti, gli stacchi
strumentali (e questo è persino ovvio trattandosi di una colonna sonora) e nelle ballate di cui è
disseminato il disco è davvero esigua la presenza di incisi vocali: quando ci sono, le parole sono
sussurate e calibrate. Is There Nothing We Could Do? è dunque, tutto caratterizzato da un
intimismo sincero quanto agrodolce, privo di fronzoli barocchi, da cui traspare una rassegnazione
pacificata e serena di fronte alle sconfitte dell'esistenza. Le melodie cristalline - il ragazzo sarà
pure disegnato male ma è sempre stato un compositore eccelso - sono impreziosite dalla
presenza di un quartetto d'archi che fornisce ai brani il sapore d'un vagito malinconico. I toni non
si distaccano quasi mai, pertanto, da questo clima soffuso e lieve, fanno eccezione le ondulazioni
da banda paesana di Welcome me to your world e la marcetta increspata di Wider than a smile
che s'interseca efficacemente alla fine con il tema sonoro della bellissima title track (Is there
nothing we could do?). Damon Gough è per sua stessa ammissione ormai lontano dai
meccanismi spietati del mercato discografico: la sua assenza dalle scene musicali - i proventi dei
pochi concerti fatti negli scorsi anni, ultimo tour compreso, sono regolarmente devoluti ad
associazioni benefiche - è la dimostrazione d'un rifiuto radicale delle logiche mercantili che
governano lo showbiz, corente con dichiarazioni inequivocabili fatte a suo tempo. Il lirismo di
questo disco e la sua austera integrità sonora testimoniano, però, che le qualità dell'autore sono
ancora vive, auspici - e chi vi scrive lo spera ardentemente - di future prove musicali altrettanto
valide e non troppo distanti nel tempo. Se c'è qualcosa a cui questo mondo non può rinunciare è
la bellezza sonora di cui questo delicato musicista è espressione, unica che possa tentare (forse)
di cambiarlo in meglio. “... e un poeta disse: parlaci della bellezza. E lui rispose: dove cercherete
e come scoprirete la bellezza, se essa stessa non vi è di sentiero e di guida? E come potrete
parlarne, se non è la tessitrice del vostro discorso?... E la bellezza non è un bisogno, ma
un'estasi. Non è una bocca assetata, né una mano vuota protesa, ma piuttosto un cuore bruciante
e un’anima incantata...” come il cuore e l'anima di Damon. A presto, allora, caro ragazzo mal
disegnato...
Nicola Guerra
ML 26
musicletter.it
update n. 72
musica
ARTIST: THE SUMNER BROTHERS
TITLE:
Sumner Brothers
LABEL:
In The Garage
RELEASE: 2008
WEBSITE:
www.myspace.com/thesumnerbrothers
MLVOTE: 7,5/10
Certi dischi sono talmente densi che potresti tagliarli a fette. Fette di una passione autentica,
quella per la musica delle radici, quali il country e il blues, che in questo secondo e omonimo
lavoro dei canadesi Sumner Brothers si assapora appieno. Musica folk, insomma, che i fratelli
Brain e Bob Sumner realizzano in maniera del tutto originale, con un taglio certamente
passatista ma mai stucchevole. La sensazione che si ha ascoltando questo nuovo lavoro dei
Fratelli Sumner, che segue di appena due anni In The Garage del 2006, è quella di avere a che
fare con quel Bruce Springsteen malinconico e solitario che noi tutti conosciamo, ma anche con
quell’attitudine intima, alienata e allo stesso tempo fuori dalle regole di personaggi come Bob
Dylan e Lou Reed. Tuttavia ciò che cattura l’attenzione di questo album è la capacità di saper
scavare in profondità nonostante le strutture compositive di ciascuna traccia, così come gli
arrangiamenti, siano estremamente semplici e sempre in bilico tra Johnny Cash ed Elvis; ma
sappiamo benissimo, come questi ultimi ci hanno insegnato, che per scrivere delle belle canzoni
non occorrono grandi mezzi, bisogna avere semplicemente un’anima in continua agitazione.
Chissà, forse è proprio il fantasma de “L’uomo in nero” che scuote l’animo della formazione di
Vancouver, facendoli suonare come dei moderni cantastorie alla maniera di Micah P. Hinson e
Felice Brothers. Tutti i brani del disco, da quelli acustici (la gran parte) a quelli più ritmati, sono
di una bellezza disarmante e mai così eccessivamente alt. country come potrebbero essere invece
quelli di Bonnie Prince Billy. Quelle dei Sumner Brothers sono canzoni che vanno dritte al
cuore. Canzoni da tirar fuori nei momenti di solitudine; di quella solitudine sospirata, di cui ogni
tanto non possiamo fare a meno.
Luca D’Ambrosio
ML 27
musicletter.it
update n. 72
musica
ARTIST: THE ELECTRIC PRUNES
TITLE:
Too Much To Dream
LABEL:
Rhino
(Reprise 1966-1967)
RELEASE: 2007
WEBSITE:
www.electricprunes.com
MLVOTE: 7/10
Se metti sul piatto le Nuggets, la prima cosa in cui ti imbatti è un ronzio. Un ronzio che ha fatto la
storia della musica contemporanea tanto quanto il fuzz di (I can ‘t get no) Satisfaction degli
Stones. È l’unico pezzo delle Nuggets ad avere avuto una visibilità oltre i confini dell’
underground. Lenny Kaye lo usa per aprire la sua raccolta, e ha ragione di farlo. L’intro di I had
too much to dream (last night) schiude un mondo. Un mondo bellissimo. È il mondo della musica
psichedelica. Della musica che sperimenta con l’elettronica, che crea universi paralleli, che “apre”
le porte. La musica delle Prunes è, allora, una giostra di eccentricità. È come stare seduti su un
cavalluccio volante, e a volte pare di perdere l’equilibrio. Altre volte, quando l’ effetto delle
pasticche diventa blando, ti viene il dubbio che sia tutta una messinscena. Perché pezzi come The
king is in the counting house, About a quarter to nine o Onie sono di un orrore che si perdona a
fatica, ma poi arrivano a soccorrerti pillole come Train for Tomorrow, Are you lovin’ me more,
Sold to the highest bidder, Bangles, Get me to the world on time e il mondo ti pare nuovamente
fatato. La musica delle Prunes è figlia del suo tempo, passato il quale è finita per risultare inutile,
comunque mediocre. È figlia dei pedali e dell’effettistica che l’industria musicale sta mettendo a
disposizione delle giovani leve del rock underground. Come lo sono Hendrix e i Pink Floyd.
Gente che se fosse nata quaranta anni dopo probabilmente avrebbe fatto del glitch pop o del
dubstep, e il mondo sarebbe salvo dall’ incubo perenne di un The Wall suonato per intero e senza
variazione di una sola nota ogni tre anni, per dire. Il meglio di quanto hanno fatto è circoscritto al
biennio ‘66/’67, che è quello trattato per intero in questa antologia della Rhino. Che, si sa, quando
mette le mani su qualcosa, lo fa sempre mettendole nel posto giusto, come me quando faccio la
mano morta sui pullman. C’è dentro tutto quanto inciso per la Reprise prima della svolta mistica
della Messa in Fa Minore, compreso il primissimo folgorante singolo Ain ‘t it hard/Little Olive
uscito prima di entrare nelle officine di Annette Tucker e Nancie Mantz e che all’ epoca non si
cagherà nessuno e c’è il solito corredo di belle foto e copertine d’epoca più una bella intervista
che nessuno leggerà (visto che verrà omessa dai torrent che tutti usano per scaricare la musica,
anche quella necessaria, NdLYS) e in cui la band spiega anche perché venne costretta a incidere
le lordure di cui parlo all’inizio del pezzo e di come i Prunes non fossero niente più che un
marchio registrato già all’indomani dell’uscita di Underground. Qui dentro ci sono pepite e
bigiotteria, e tante, troppe cose da sognare.
Franco Dimauro
ML 28
musicletter.it
update n. 72
musica
ARTIST: THE PRIMEVALS
TITLE:
On The Red Eye
LABEL:
Last Call
RELEASE: 2005
WEBSITE:
www.myspace.com/primevals
MLVOTE: 7/10
Mi piace parlare di band delle quali nessuno conserva memoria. Ho sempre la tentazione di dire
delle solenni minchiate. Così, per il gusto di farlo. Del resto, mi dico, sono in pochi a leggermi, e
di quei pochi i tre/quarti non sanno di che sto parlando. Così potrei dire, che so, che i Primevals
suonavano come gli Smiths. Anzi no, che erano i Depeche Mode sotto falso nome. O ancora,
che era un progetto che vedeva Nick Cave duettare con Penelope Houston degli Avengers.
Minchiate così. Poi però, non per un’etica professionale che sconosco (l’etica professionale è
quella cosa che giustifica recensioni strepitose per dischi che sono merda pressata, NdLYS) ma
per un’onestà intellettuale e una questione di rispetto proprio per quei pochi che si ostinano a
leggere i deliri di questa protuberanza alla china della storia del rock ‘n’ roll che si chiama Franco
“Lys” Dimauro, mi freno e torno sui binari della correttezza storica. Così torno sui miei passi e vi
dico che no, i Primevals non suonavano affatto come gli Smiths, che con i Depeche Mode
avevano proprio nulla a che spartire e che non c’ è nessun duetto vocale, men che meno tra Cave
e la Houston. Però i Primevals erano (sono) una grande band, questo ve lo assicuro. Detto in
due parole, facevano suonare gli Hoodoo Gurus come fossero i Gun Club. Che per me è già
sulla carta la cosa più bella del mondo. scozzesi di nascita ma apolidi per scelta, avendo trovato
radici musicali in mondi lontanissimi come quelle che vi ho descritto, i Primevals nascono nel
1983 a Glasgow. L’anno successivo, dopo un 7” su Raucous Records, si accasano alla corte della
miglior etichetta di quegli anni: la New Rose. Il risultato esce nel Gennaio del 1985 ed è un mini
LP intitolato Eternal Hotfire. Un dischetto contraddittorio che, se da un lato (My emancipation,
Blues at my door, Lucky I‘m leaving) mostra già la caratteristica del loro suono, dall’altro contiene
anche un mostro come See the tears fall che, nonostante l’uso delle chitarre slide, mostra un
pesante debito verso gli eroi locali, ovvero Jim Kerr e i Simple Minds. La band intanto affina il
proprio stile dividendo il palco con Gun Club, Alex Chilton e David Johansen. La svolta
decisiva avviene durante l’anno grazie alle attenzioni e alle cure di Richard Mazda, il produttore
dei seminali primi due album dei Fleshtones ma anche di Wall of Voodoo, Birthday Party,
Scientists. È lui a sedersi in consolle per le registrazioni di Sound Hole e per Live a little.
Richard è totalmente affascinato dal gruppo inglese tanto da diventare il sesto Primeval, finendo
per suonare qui e là l’organo Hammond, qualche traccia di percussioni, diventando corista,
arrangiatore, fotografo, grafico. Sono i due dischi che definiscono definitivamente il suono dei
Primevals, con questo suono scivoloso di chitarre e la voce di Michael Rooney che, lontano
dalle sofferenze di un Jeffrey Lee Pierce o di un Tex Perkins, canta con la solarità di un Dave
Faulkner in crociera e sì, ogni tanto, torna a fare il Jim Kerr in pausa dal lavoro (Cotton Head).
ML 29
musicletter.it
update n. 72
musica:
Però è questo contrasto con musiche che altrove sono segnale di un logorante demone interiore
(Scientists, Gun Club, Beasts of Bourbon, Tex and the Horseheads) che rende i Primevals
una band unica, privandoli del contesto delirante che eleva le altre band allo status di culto
adolescenziale ma facendone un fenomeno buono per tutte le stagioni per i pochi che hanno
avuto la fortuna di avvicinarsi ai loro dischi. Questa doppia raccolta curata dalla Last Call,
l’etichetta che raccolse il testimone dalla New Rose, allinea un bel gruzzoletto di materiale
d’epoca: gli album di cui vi ho detto per intero, i singoli del periodo (compresa la cover di
Diamonds, Furcoat, Champagne dei Suicide che il gruppo regalò alla compilation Play New Rose
for me, NdLYS) e un pugno di nuove incisioni datate 27 Febbraio 2000. Ce n’ è abbastanza per
innamorarvi. O per lasciare che qualcuno con meno onestà intellettuale della mia vi dica che
suonavano come i China Crisis. Fate voi.
Franco Dimauro
ML 30
musicletter.it
update n. 72
musica
ARTIST: RAGE AGAINST THE MACHINE
TITLE:
S.T.
LABEL:
Epic
RELEASE: 1993
WEBSITE:
www.ratm.com
MLVOTE: 10/10
Avere la lingua lunga non serve solo a letto. Però, sia lì che altrove, è necessario saperla usare.
Zack De La Rocha impara a usarla giovanissimo. Come tanti “rapper” della prima ondata (anche
italiana), anche lui viene dal punk. Ha girato in qualche band portando a compimento la sua
devozione per Bad Brains, Black Flag, Minor Threat, Bad Religion, Clash prima di restare
folgorato dall’ impatto con i denti d’oro di Flavor Flag, e capisce che spesso la parola può far
male più di un ceffone. Quando Tom Morello lo “scopre” per puro caso in uno dei club di Los
Angeles, ha imparato a farla schioccare come una frusta alternandone l’uso con quello massivo
dell’ugola. Roba che riesce difficile anche a Linda Lovelace. Sembra un cane rabbioso cui hanno
appena tolto l’osso da sotto il naso. Tom, dal canto suo, ha affinato lo stile funk metal che ha
sfoggiato sul disco dei Lock Up, una band che suonava come una versione povera dei Living
Colour. Ha lavorato sul suo strumento cercando uno stile innovativo, secco e potente come una
raffica a ventaglio di una sega di Hitler (Bombtrack, Killing in the name, Freedom) ma allo stesso
tempo capace di simulare le ruote d’acciaio di Terminator X e della Bomb Squad (Know your
enemy, Bullet in the head, Fistful of steel, Township Rebellion). Rage Against The Machine,
l’album e la band, non concedono sconti. Né sull’ immagine né sulle parole, tantomeno sulla
musica. Thich Quang Duc, il sessantaseienne monaco buddista che si da fuoco al centro di
Saigon introduce al clima barricadero del disco che è la riformulazione del combat rock
guerrigliero dei Clash in un contesto metropolitano di scontro culturale, sociale, religioso, politico,
musicale. Bombtrack ne definisce la formula sin da subito. È come la benzina che lambisce la
carne di Thich Quang Duc e che, dopo aver riempito ogni millimetro di epidermide, prende
improvvisamente fuoco con una furia cannibale. Burn! Burn! Yes, ya gonna burn!!! Il suono è un
funky da trincea che non ha nessuna voglia di far ballare nessuno. Sembra muoversi dentro un
parallelepipedo e rimbalzare come una palla da biliardo. Poi ti avvicini e scopri che è una palla sì,
ma da cannone. La sensazione è identica per Killing in the name, feroce proclama antimilitarista
per il quale Zack sfodera una forza persuasiva fomentata dall’uso marziale di strofe di
disobbedienza che si susseguono con reiterata e crescente, incessante veemenza, come fossero
urlate dentro una caserma da marines americani. Take the power back ha un passo più morbido
anche se non meno implacabile. Merito soprattutto dell’uso funky del basso che tra l’altro
riproduce chissà quanto inconsapevolmente quello di Peacekeeper, dal disco dei Lock Up. Settle
for nothing avvicina il suono della band a quello dei gruppi emo della Dischord, forse proprio ai
Fugazi. I migliori dell’intero lotto. Anzi, come i Fugazi con Henry Rollins alla voce.
ML 31
musicletter.it
update n. 72
musica
Tanto che quando Rollins uscirà con quella cosa incredibile che è Liar su The Weight, sembrerà di
rivivere la stessa sensazione di dolore che parte dallo stomaco e finisce per gonfiarti le vene del
collo come un eroe del wrestling. Wake up è una sorta di Kashmir del crossover con questo
mammuth zeppeliniano che si perde prima in un gonfio giro alla Urban Dance Squad, poi in un
piccolo anfratto di vibrazioni elettriche che ricordano il giro armonico di 24 Hours dei Joy
Division e infine in un’intricata giungla di rumori, voci, urla su cui gli At the Drive-In costruiranno
qualche anno dopo il loro suono. RATM è disco dalla forza d’urto impressionante, lesiva, ignea,
furiosa. È l’album che servì a definire i canoni di un suono e a identificare un’estetica stilistica con
la nitidezza e la profondità d’ ombra di uno scatto in bianco e nero e di cui loro stessi rimarranno
prigionieri, incapaci di violarne la cornice ridipingendo per i dischi successivi la stessa identica
tela. È un manifesto attitudinale che ha urgenza di essere letto, mandato giù a memoria,
somatizzato. Pensateci, ogni volta che vi capiterà di vederlo appassire sugli scaffali di un negozio
di dischi.
Franco Dimauro
ML 32
musicletter.it
update n. 72
musica
ARTIST: SOUNDGARDEN
TITLE:
Badmotorfinger
LABEL:
A&M
RELEASE: 1991
WEBSITE:
www.soundgardenworld.com
MLVOTE: 9/10
Il 1991 è l’anno in cui il grunge capitalizza, diventando l’affare musicale del decennio e, col senno
di poi, l’ultimo investimento non strutturale delle multinazionali del disco. Tutto ciò cui le major si
dedicheranno negli anni successivi, di fronte alla crisi del mercato del disco e allo sviluppo del
junkismo illegale, sarà solo il reinvestimento con poco capitale sul “catalogo” e sulla iTunizzazione
del proprio materiale d’archivio e una lunga ristrutturazione aziendale fatta di fusioni,
incorporazioni, abbattimenti, cessioni, licenziamenti e quant’altro. Sono gli ultimi anni in cui gli
A&R delle case discografiche vengono pagati per battere il territorio come cani da tartufo in cerca
di galline dalle uova d’oro da far diventare i nuovi beniamini della popolazione indie rock, da allora
in poi resteranno comodamente seduti davanti al loro desk scandagliando la rete. Insomma, il
grunge fu l’ultimo bagno di sudore della storia del rock. L’ultima esperienza totalizzante condivisa
dalle folle “alternative” e confortata dai dati di vendita. Dopo torneranno le nicchie. Non a caso, si
comincerà anche a parlare di “post”, com’era stato per il dopo-punk. Una stagione di riflusso,
stavolta più lunga del previsto, ma è in quest’anno palindromo che si gioca la scommessa sul
grunge, con i dischi che marcheranno a fuoco l’intero decennio ma di cui molti, anche tra i profeti,
ancora ignorano la portata. Il 16 Aprile è proprio la A&M a celebrare l’intera scena e il primo
martire che ogni fenomeno rock che si rispetti deve esibire con la pubblicazione dell’ album dei
Temple of The Dog. Il martire era Andrew Wood, leader dei Mother Love Bone. Il 28 Maggio
è la volta del grunge fluorescente di Gish degli Smashing Pumpkins, da Chicago. Il 27 Agosto
esce Ten dei Pearl Jam, destinati a diventare l’ultima rock band del millennio anche se nessuno
lo sa ancora. Il 24 Settembre arriva Nevermind dei Nirvana. Rockerilla, la rivista che aveva
odorato il culo alla scena di Seattle quando il grunge era ancora una belva famelica e aveva
“adottato” il movimento in Italia, gli dedica una striminzita recensione indicandolo come un’ottima
scopiazzatura dei Replacements e sacrificando ben due pagine della rubrica al doppio color nero
dei Metallica e al quadruplo odor di cacca dei Guns‘n’Roses. Credo si siano morsi le mani per i
dieci anni successivi. L‘8 Ottobre viene pubblicato Badmotofinger dei Soundgarden. I cloni
sono già alle porte, educati agli esercizi di copiato. Si chiamano Everclear, Bush, Stone Temple
Pilots, Stiltskin, Creed, Silverchair. Il plurale è quasi bandito dall’iconografia della vera giunge
band. Chissà perché. I Soundgarden sono, tra tutti, quelli con una propensione più marcata
verso il metal spacca timpani. Vuoi per l’uso di riff elaborati e vorticosi, vuoi per l’ugola di Chris
Cornell, capace all’epoca di eguagliare la forza di un Robert Plant e o di un Dave Tice, ma in
loro vive questo innovativo taglio cerebrale e concentrico che fa ancora storcere la bocca a tanti,
non solo ai metallari.
ML 33
musicletter.it
update n. 72
musica
È qualcosa di strutturalmente complesso, cervellotico, spiazzante, e loro lo sanno, ne sono
consapevoli. Come il riff contorto di Jesus Christ Pose, tutto incurvato e rappreso. Saranno loro
stessi a definirlo simile al rumore delle pale di un elicottero. Una roba con cui ora abbiamo fatto
pace ma che allora suonava del tutto aliena. Io ci misi qualche mese per aprirgli la porta di casa.
Rusty Cage non gli è da meno. È meno spiritato ma è il riff chiave dell’hard rock moderno come
quello di Whole Lotta Love lo era stato per quello storico. Sesta corda abbassata in sì e un
rapidissimo raddoppio di legati che, filtrati attraverso un effetto a pedale, sembrano fare andare il
riff a rovescio. Il nuovo bassista (dapprima “bocciato” e poi recuperato tra i ranghi proprio prima
di entrare in studio, NdLYS) Ben Shepherd porta con sé un ottimo gusto creativo. È sua l’idea
del giro torcibudella di Jesus Christ Pose così come sono in parte farina del suo sacco gli scatti
propulsivi e la furia hardcore che violentano Face Pollution e totalmente sua è la dolcezza di
Somewhere che diventerà il canovaccio estetico per i Soundgarden melodrammatici di Fell on
black
days e Black
Hole Sun
su
Superunknown.
La
scrittura
dei
‘garden
trova
su
Badmotorfinger la giusta pista di asfalto per lanciare il proprio velivolo in fuga dal loro aeroporto
privato e pronto a solcare i cieli del mainstream rock di fine secolo, muovendosi tra gli archi torti
di Mind Riot, le montagne russe del tour de force di New Damage, e i trampolini di Drawing Flies o
Room a Thousand Years Wide con tanto di fiati fusi assieme alla colata di zolfo dei riff di Kim
Thayil. È con questo disco che si consegnano alla storia del rock come gli Zeppelin della
stagione del grunge. Una folgore infuocata che squarciò il cielo plumbeo del rock ficcandosi nella
pietra come un’Excalibur che ancora nessuno è riuscito a tirare fuori dalla roccia.
Franco Dimauro
ML 34
musicletter.it
update n. 72
musica
ARTIST: JOY DIVISION
TITLE:
Closer
LABEL:
Factory
RELEASE: 1980
WEBSITE:
www.neworderonline.com
MLVOTE: 8/10
I dieci anni sono la soglia oltre cui cominci a conoscere la morte. Prima di allora, se non è
inevitabile, te la tengono nascosta, te ne edulcorano la percezione. Non ci sono morti, nei tuoi
primi anni di vita ma soltanto gente che è andata lontano. Solo dopo scoprirai quanto lontano. Io
a dieci anni ebbi il mio incontro con la morte che passò portandosi via mia zia. Era il 1980, e i Joy
Division uscivano col loro secondo album. Un disco su cui, più che sul primo, aleggia l' alito della
morte. Ci sono tante interpretazioni del dolore. I Joy Division diedero la loro. Che era quella di
una claustrofobia lancinante. Non c'erano coltelli nella musica dei Joy Division, ma uncini. Non
era una musica nata per ferire, ma per scavare nel proprio dolore. Quando si chiudono con
Martin Hannett nei Britannia Row Studios non lavorano su delle canzoni ma su un'idea di suono.
Un suono che Martin ha dapprima reso classico e che ora intende far diventare statuario,
marmoreo. Closer è un disco che ti impedisce di essere felice. È un tempio dove il sorriso è
bandito, ma sono bandite pure le lacrime. Qui nessuno ti verrà in soccorso. C'è una solitudine
immensa dentro questi solchi, dentro queste sagome di marmo. Non c'è traccia di pietà, né di
struggimento. C'è la desolazione che mette a disagio, un deserto interiore estetizzato nei suoni di
tastiera che incombono lungo i sei minuti conclusivi di Decades con questo ticchettio che schiocca
sui vetri. Una pioggia che non bagna, che si rifiuta di essere acqua, di poter in qualche modo
placare una qualche sofferenza ma che pare adagiarsi su tutto, senza scalfire, senza sporcare.
Una presenza ingombrante, barocca, eccessiva che torna a cucirsi addosso alle ruote meccaniche
di Isolation cercando di bloccarne gli ingranaggi. Closer è un disco nauseante, da qualsiasi
prospettiva lo si guardi. Ha un fascino sgraziato e soffre delle stesse malattie di Curtis, dei suoi
scatti epilettici (Colony), del suo amore disadorno (The Eternal), della sua claustrofobica
fascinazione per la mutilazione (24 Hours). La voce di Ian Curtis incalza senza trasporto.
Inflessibile. Atona. Scivola immobile come un iceberg tra questi prismi diafani. Ian morirà prima
di poterlo toccare, prima di poter inumidire di lacrime la sua confezione. Che rimarrà uguale
nonostante la tragedia: una scultura funeraria di Bernard Pierre Wolff installata nella tomba
della Famiglia Appiani nel Cimitero Monumentale di Staglieno, in Liguria. Un mese prima un' altra
opera di Wolff aveva dato un volto all' ultimo canto disperato di Ian Curtis, sulla copertina di
Love will tear us apart. Una scelta che qualcuno riterrà inopportuna e oltraggiosa, una
commemorazione funeraria che suona spudorata e di cattivo gusto e che getterà un' ombra scura
sui primi anni dei New Order, sospettati di sfruttare il fenomeno Curtis per inaugurare la loro
carriera. Oppure una scelta di coerenza, di stile, di etica, di celebrazione mortuaria della bellezza.
Del resto la morte cantata dai Joy Division non è mai truculenta, mai torva. Come nelle statue di
Wolff ha un suo romanticismo, una devozione muta ed elegante. Un suo statuario, solenne,
raggelante sepolcro.
Franco Dimauro
ML 35
musicletter.it
update n. 72
musica
ARTIST: BLACK SABBATH
TITLE:
Sabbath Bloody Sabbath
LABEL:
WWA
RELEASE: 1973
WEBSITE:
www.blacksabbath.com
MLVOTE: 8/10
Per tutti gli anni Settanta i Black Sabbath incarnarono il suono del Male. Un Helter Skelter che
dalle selve britanniche portava in rovinosa e vorticosa caduta fin dentro la pancia dell’inferno. Una
voce folle e luciferina, un suono intarsiato nelle pareti rocciose dell’Inferno. I Black Sabbath agli
inizi del decennio ridefiniscono i canoni estetici e stilistici dell’hard rock ripulendolo dalle scorie
blues e levigandolo come una scultura di pietra lavica, raffreddandone l’anima fino a renderlo
gelido, esanime. Rimodulano distorsioni e accordature e disegnano la sagoma del metal
scolpendolo con tratti perfidi e diabolici. È il primo inquietante e minaccioso ritratto della musica
ossianica che poi verrà elaborata, partendo da inquadrature diverse ma speculari, dai Banshees
di Join Hands e che i Sabbath mettono a fuoco nella tetralogia classica degli esordi, dopo di che
Ozzy e Tony decidono di agganciare il loro suono alla montante scena progressive sfruttando l’
amicizia con Rick Wakeman. Rick diventa il membro aggiunto e i suoi sintetizzatori diventano la
cosa nuova dentro il suono della band. A loro affidano il sipario di Who are you? imbastito da
Osbourne proprio attorno elle evoluzioni di synth del tastierista degli Yes, creando un
esperimento inedito nelle solide architetture del progetto Black Sabbath. Altrove (il requiem
elettrico di Sabbra Cadabbra e la sognante Spiral Architect ispirata proprio da un sogno del
bassista Geezer Butler, NdLYS) il tocco di Wakeman è più misurato, bilanciato dalle solite
colate dei riff di Iommi. Tuttavia l’introduzione all’opera è puro Sabbath style con quel giro di
chitarra monolitico, pressante come un infarto e all’apparenza impenetrabile e che invece dopo
appena 40 secondi si squarcia lasciando passare fasci di luce, per poi richiudersi come un
sepolcro. A National acrobat è anche lei sgombra del peso delle tastiere ed è una minisuite in tre
movimenti dalla quale pescheranno a piene mani schiere di metal bands a venire, dai Metallica ai
Fu Manchu. Finale mozzafiato ed eccoci dentro le bellissime trame liquide di Fluff che, come già
successo con Orchid o Laguna Sunrise, asseconda il vezzo di Tony Iommi di riservare per sè
piccoli angoli bucolici, piccoli rifugi antiatomici nascosti tra foglie di platano. Gli altri due classici di
Sabbath Bloody Sabbath si intitolano Killing yourself to live e Looking for today. La prima è una
canzone robusta che finisce in una vera galoppata hard. Non come quelle di Rocco Siffredi ma
poco ci manca. Allo scadere dei primi due minuti la chitarra di Iommi si infuoca e si intreccia
attorno a se stessa, con un ottimo lavoro di overdubbing che ne accresce il tono drammatico.
Succede la stessa cosa tre minuti dopo, ma a questo punto il pezzo è già diventato una corsa di
formula uno, e lo schianto è vicino. Looking for today è uno dei pezzi più eleganti della storia dei
Sabbath. Rivestita di apparente ottimismo e colorata dagli accenti di un flauto, è una delle perle
nascoste del repertorio del Sabba Nero, a torto ritenuto uno dei pezzi minori per questa sua
natura ambigua e formalmente distante dalle gravi atmosfere catacombali che li distinguono, e
invece chiude in maniera straordinaria l’ultimo grande disco dei Signori del Male. Poi verranno
storie di pipistrelli, estasi tecnologiche, morti in autostrada, fiction televisive e fiction da
palcoscenico e poi ancora altre morti.
Franco Dimauro
ML 36
musicletter.it
update n. 72
musica
ARTIST: THE ROLLING STONES
TITLE:
Exile On Main Street
LABEL:
Polydor
RELEASE: 1972
WEBSITE:
www.rollingstones.com
MLVOTE: 10/10
Nel ‘72 gli Stones scappano, letteralmente, dall’Inghilterra. Dietro di loro uno stuolo di agenti del
fisco. In auto, in motovedetta, in fila indiana, in gruppi organizzati. Si rifugiano in Francia, sulla
Costa Azzurra dove Keith Richards ha rilevato un vecchio rifugio nazista e ne ha fatto il suo
quartier generale. Qui dentro gli Stones tirano fuori le lamette e si tagliano le vene. Tutto quello
che ne esce è emoglobina infettata dall’eroina. È la consumazione dell’ultimo atto. Quando
torneranno con Goats Head Soup, avranno un pallore che con fatica riusciranno a placare. È da
quel momento che nascono gli Stones con la linguaccia, gli Stones iconizzati dell’immaginario
rock fatto di stadi assiepati, tour galattici e fazzoletti bagnati dentro gli slip. Dentro Exile gli
Stones vomitano tutto il loro amore per la musica nera gozzovigliando col bluegrass, la soul
music, il blues, il gospel. Senza ambizione, mettono mano al loro disco più ambizioso. Un doppio
dove regna il disordine e dove tutto sembra stare nel posto giusto solo per puro caso, per istinto,
per fatalità. Una lunghissima sequenza di smorfie rollingstoniane deformate dall’eroina. Con loro
ci sono un mucchio di complici: Gram Parsons, Dr. John, Nicky Hopkins, Billy Preston,
Jimmy Miller, Ian Stewart, Richard Washington, Lisa Fisher, Tami Lynn, Jim Price,
Bobby Keys. Alcuni di loro entrano ed escono dalla villa di Villefranche col proprio carico di blues
e se ne tornano a casa col fegato in panne. Hanno messo le mani dentro questa merda e ora si
ritrovano in qualche vicolo a vomitare, a qualche isolato dagli yacht ormeggiati nel porto di Nizza.
Hanno preso del corpo degli Stones e hanno bevuto del loro sangue, in questa eucarestia
luciferina da ultima cena. Altri sono stati agganciati da Mick Jagger a Los Angeles, dove ha
deciso di portare i nastri per avvicinarli all’ umore spirituale del gospel. A rimettere mano in quella
latrina in cui gli Stones abitano dai tempi di Beggars Banquet è, trenta anni dopo, Mr. Don
Was, e non per pulirla, grazie a Dio: Exile on Main Street resta quella cosa sporca che era,
quella sputacchiera di catarro e fiele che ognuno dovrebbe avere attaccata ai muri del proprio
bagno, ma si sa, le esigenze delle agenzie immobiliari di oggi sono diverse. Ti chiedono un
adeguamento dell’immobile, e così ecco che Don chiama un po’ di manovalanza e allestisce un
doppio servizio. Non sporco come quell’altro ma nemmeno confortevole come quei B&B dove puoi
portarti la merendina in bagno mentre ti depili. Dentro, ci sono una decina di sozzure dell’epoca,
che Was ha, stavolta sì, rimesso a nuovo coinvolgendo a volte in prima persona Jagger e
Richards. Si comincia da Sophia Loren, un sincopato gospel latineggiante carico di fiati e
armonica che i fanatici degli Stones conoscono già da un pezzo e si scende giù fino al boogie
metallico del breve strumentale Title 5 che Don Was riveste di un suono attualissimo. Nel mezzo
c’è una bella versione di Soul Survivor, una So Divine che pare aprirsi sull’arpeggio di Paint it
Black e che invece diventa subito una dolcissima canzone d’amore dal suono a tratti quasi
innaturale o una Following the river ai cui tocchi di pianoforte viene adesso aggiunto il testo e la
voce di Jagger e altre cose meno sconce recuperate dal cassonetto dei rifiuti della Main Street.
Tutt’intorno danzano gatti randagi che ridono come iene. Per l’ultima volta. Poi saranno anni
affollati da magliette con le labbra e stelle filanti. Fino alla caduta di Babilonia.
Franco Dimauro
ML 37
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update n. 72
musica
ARTIST: THE PRETTY THINGS
TITLE:
Get The Picture?
LABEL:
Fontana
RELEASE: 1965
WEBSITE:
www.rollingstones.com
MLVOTE: 8/10
Lasciare i Rolling Stones e metter su una band che suoni meglio degli Stones. Voi ci riuscireste?
Dick Taylor ci riuscì. Dopo aver condiviso con Brian Jones, Keith Richards e Mick Jagger ore
e ore di religioso ascolto dei classici del blues che arrivavano dagli Stati Uniti provano qualche
abbozzo di canzone, registrano qualche provino ai Carly Clayton Sound Studios quindi Dick
decide di lasciare il tavolo da gioco. Dice ai compagni che vuole concentrarsi sugli studi. Non
quelli discografici, ma quelli dell’ Istituto d’Arte dove si è iscritto. Invece recluta altri quattro
disadattati con meno ego dei suoi amici e si inventa una nuova band, battezzandola come un
brano di quell’omaccione nero che gli appare ogni notte in sogno con una chitarra quadrata e un
paio di occhiali dalla montatura improbabile. Non vuole suonare sporco e cattivo come i Rolling
Stones. Vuole suonare più sporco e cattivo che i Rolling Stones, e ci riesce. I primi due album
dei Pretty Things sono manuali debosciati di come si possa suonare il blues elettrico facendolo
sembrare la cosa più pericolosa del mondo. A Marzo realizzano il primo, pieno degli stessi
standard lerci su cui stanno lavorando gli Stones ma anche altre band con l’anima nera come gli
Animals o gli Yardbirds. Poi Dick affina il tiro e quando a Dicembre dello stesso anno
pubblicano il secondo album, ci infilano dentro un bel po’ di roba loro, seguendo un po’ lo stesso
percorso dei vecchi cuginetti Stones. Ne tirano fuori un disco devastante e bellissimo come Get
the Picture? nel quale mette mano anche Jimmy Page, all’ epoca richiestissimo session-man. Viv
Prince molla la band otto giorni prima dell’ uscita del disco, anche se è già da un po’ che diserta le
registrazioni, costringendo i compagni a cercare dei sostituti come Bobby Graham (che però
vuole essere accreditato come autore, manco stesse scrivendo la Marcia dei Nibelunghi) e il più
accomodante John C. Alder, alias Twink che diventerà il drummer ufficiale per la messinscena
dell’ incredibile S. F. Sorrow. Era andato alle sessions per caso, per fumare qualche spinello col
bassista dei Fairies (la sua band di allora, una splendida meteora delle Nuggets inglesi, NdLYS)
chiamato a sostituire per una settimana John Stax, impegnato nella sua luna di miele. Ma Prince
buca le prove, e stavolta forse non per colpa sua. Non direttamente, perlomeno: è in gattabuia.
Pare che al matrimonio di Stax avesse sbeffeggiato un poliziotto facendogli volare via il cappello.
Lo sgabello è vuoto, Twink si accomoda. Se il debutto li aveva consegnati alla storia come degli
infuocati pischelli alle prese col Diddley-sound più selvaggio, Get The Picture? ne modera e
stempera il calore ridisegnando parzialmente il profilo musicale del gruppo e proiettandolo verso
le nuove congetture psichedeliche che si muovono tra i capelloni inglesi fino ad esplodere nella
scena freakbeat, elaborandone e arricchendone il suono con l’ uso di ronzanti fuzzbox e la scelta
di pezzi dall’ andamento “zoppicante” come Buzz the jerk o sottilmente psichedelici (Can‘t stand
the pain, London Town) a contrastare le solite smorfie jaggeriane ostentate nelle cover di Cry to
me e Rainin’ in my heart dove sfidano gli Stones nel loro stesso giardino di casa, pisciando sulle
siepi. Ma ci sono pure i pezzi di violento garage beat come You don ‘t believe me, Get the Picture?
o We ‘ll play house o di R ‘n’ B maniacale ma elegantissimo di I want your love o You ‘ll never do
it baby a fare di Get the Picture? uno dei dischi fondanti del beat-punk inglese del decennio e un
capolavoro a molti ancora sconosciuto con cui val la pena tormentarsi nei pomeriggi estivi,
lasciandolo riverberare fuori dalle imposte spalancate. Magica fantasia freakbeat. Ricevuta la foto?
Franco Dimauro
ML 38
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update n. 72
speciale
SPECIALE PROGRESSIVE ITALIANO
Tracce di progressive italiano
© 2010 di
Luigi Lozzi
Il Progressive Rock è stato sempre uno dei generi
più discussi della storia della musica giovane,
amato appassionatamente o contestato in modo
veemente. Un genere che, potete comprenderlo
bene,
più
che
figlio
del
disimpegno
e
del
divertimento suggerito dal rock'n'roll e dai suoi
surrogati, è diretta emanazione di una concezione
musicale sofisticata e d’avanguardia, legata alla
sperimentazione e allo sviluppo di tematiche di
certo più impegnative; di derivazione, insomma, più
classica. Il progressive (detto anche prog), così
come si è sviluppato sul finire degli anni Sessanta
(data virtuale della nascita il 1967, periodo di
maggior
visibilità
quello
tra
il
’69
e
il
’76),
prendendo il via da musica elettronica, musica
psichedelica e folk, ha avuto la sua migliore espressione soprattutto in Inghilterra, ma subito
dopo anche in Italia, Francia, Germania (con il cosiddetto rock cosmico) e Olanda. Praticamente
nullo il contributo dagli Usa; probabilmente perché in conflitto con le radici culturali americane.
Nei rivoluzionari anni ’60 solo la psichedelia là ebbe spazio e il folk è stato quello giovane
ereditato da Woody Guthrie, non altro. I grandi paladini del genere sono noti a tutti: gli
antesignani Moody Blues, e poi King Crimson, Genesis, Pink Floyd, Yes, Jethro Tull, Emerson,
Lake & Palmer, Colosseum, Brian Eno, Nice, Gentle Giant, Focus, Curved Air, Family,
Reinassance, Caravan, Van Der Graaf Generator, Strawbs, Quatermass, Beggar’s Opera, Hatfield
& the North, Greenslade, Audience, Magna Carta, Atomic Rooster, Camel, Magma, Soft Machine,
Nucleus, e scusate se ne ho tralasciato qualcuno. Ricerca sonora e virtuosismi dal piglio epico
nell’esecuzione, cura negli arrangiamenti e nelle scenografie Live, questi gli elementi trainanti di
un fenomeno che ha fatto adepti dappertutto e che, anche dopo il suo tramonto, ha continuato a
tenere desta la passione (spesso collezionistica) e la curiosità degli adepti più integralisti. Senza
addentrarci eccessivamente nell’analisi (perché non è questa la sede più adatta), la cosa niente
affatto scontata all’epoca è che l’Italia ha fornito un importante contributo allo sviluppo del
Progressive in fatto di idee, dischi e personaggi, del cui valore ci si è accorti solo molto tempo
dopo. I gruppi guida all’inizio dei Settanta sono stati la Premiata Forneria Marconi (con l’album
“Storia di un minuto”), il Banco del Mutuo Soccorso (con il primo omonimo album) e le Orme (con
“Felona e Sorona”), formazioni che sono state le nostre punte di diamante ed hanno conservato la
leadership per diverso tempo; ma dietro di loro ha preso corpo un movimento di vaste proporzioni
– ricordiamo per dovere di cronaca anche il Franco Battiato che cominciava a muovere i primi
passi in questo contesto, i New Trolls di "Senza orario, senza bandiera", considerato il primo
concept album italiano, e “Concerto Grosso N° 1”, gli Area, gli Osanna, il Rovescio della Medaglia,
il Balletto di Bronzo – che è lievitato negli anni, mantenendo sempre alto l’interesse degli
appassionati e suscitando la curiosità dei collezionisti fin nel lontano Giappone.
ML 39
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update n. 72
speciale progressive italiano
È nato sostanzialmente come imitazione del Prog
d’oltremanica
(influenzato
anche
dal
Rock
Sinfonico) ma è anche vero che l’Italia è stato il
paese in cui il Progressive ha attecchito meglio e
più
rapidamente:
è
sicuramente
superfluo
ricordare come gruppi quali Genesis, Gentle Giant,
Van Der Graaf Generator hanno avuto successo
prima da noi che in patria. Evidenti anche i tratti
distintivi: concept album, negazione della forma
canzone, brani lunghissimi a mò di suite, con
lunghi
intermezzi
improvvisazioni,
strumentali
gusto
per
e
spazio
certe
alle
soluzioni
melodiche, testi criptici ed evocativi dai ripetuti
riferimenti
a
mitologie
fantastiche,
enfasi
strumentale, utilizzo privilegiato di moog, tastiere
e mellotron. Il Festival Pop di Villa Pamphili tenutosi a Roma dal 25 al 27 maggio 1972 sanciva
l’ufficialità della nascita di un fenomeno musicale assolutamente innovativo ai tempi per l’industria
del disco in Italia. La stampa specializzata sulla materia cresceva in forma esponenziale e quanti
si occupavano di Pop (Renzo Arbore, Carlo Massarini, Fegiz ecc.) riuscivano persino a rinnovare
gli ingessati palinsesti della RAI. È pure vero che nell’incredibile mole di album pubblicati nel
periodo d’oro del Progressive, sono molti i dischi mediocri; va da sé, però, che possono essere
tutti utili a tracciare una mappa nazionale del fenomeno. Oggi il recupero di questi dischi assume
il sapore dolce della (ri)scoperta. La Universal, dopo un certosino lavoro di ricerca negli archivi di
casa, ha proposto sul mercato una serie di sei cofanetti dedicati al meglio della (spesso oscura)
produzione Progressive dei Settanta. Ogni mini box – pubblicato con il titolo di “Progressive Italia
– Gli Anni ‘70” nella collana The Universal Music Collection ed in ‘Limited Edition’) contiene sei CD
inseriti in copertine cartonate simil vinile e a un prezzo davvero incoraggiante (intorno ai 26,90
euro; 4,5 euro a disco). C’è poi un cofanetto con ben 11 album delle Orme, tutti quelli incisi per la
Philips (etichetta del gruppo Phonogram, prima, e PolyGram dopo). Ad un prezzo ancora più
ghiotto delle precedenti proposte (35 euro in tutto: lascio a voi il facile calcolo cadauno dei cd). In
pratica quasi l’intera produzione del gruppo veneto composto da Aldo Tagliapietra, Tony Pagliuca
e Michi Dei Rossi: manca qualcosa in testa (il debutto “Ad Gloriam” del ‘69) e qualcosa in coda
all’avventura del gruppo, ma in sostanza c’è tutto il corpo discografico. Elementi barocchi in un
costrutto assemblato più (è proprio il caso di dirlo) sulle orme classicheggianti dei Nice (e di
rimando agli Emerson Lake & Palmer) che a inseguire lo stile dei Genesis, con un pop-melodico di
elegante fattura. Il momento artisticamente migliore è scandito dalle posizioni raggiunte nella hit
parade degli album: “Collage” 26° nel ’71, “Uomo di pezza” 7° nel ’72 e “Felona e Sorona” 18° nel
’73.
ML 40
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update n. 72
speciale progressive italiano
Nel dettaglio i cofanetti citati contengono:
“Progressive Italia - Gli anni 70 - vol. 1" [6 CD]
• Balletto di bronzo: “YS” (1972)
• De De Lind: “Io non so da dove vengo e non so dove mai andrò…” (1972)
• Jumbo: “Vietato ai minori di 18 anni?” (1973)
• Sensations’ Fix: “Portable Madness” (1974)
• Latte e Miele: “Passio Secundum Mattheum” (1972)
• Mauro Pelosi: “Al Mercato degli uomini piccoli” (1973)
“Progressive Italia - Gli anni 70 - vol. 2" [6 CD]
• Locanda delle fate: “Forse le lucciole non si amano più” (1977)
• Ibis: “Ibis” (1975)
• Sensations’ Fix: “Finest Finger” (1976)
• Roberto Cacciapaglia: “Sei note in logica” (1979)
• Pasquale Minieri/Giorgio Vivaldi: “Carnascialia” (1979)
• Stradaperta: “Maida Vale” (1979)
“Progressive Italia - Gli anni 70 - vol. 3" [6 CD]
• Jumbo: “Jumbo” (1972)
• Billy Gray: “Feeling Gray?” (1972)
• Sensations’ Fix: “Boxes Paradise” (1977)
• Tritons: “Satisfaction” (1973)
• Toni Esposito: “La banda del sole” (1978)
• Mauro Pelosi: “Mauro Pelosi” (1977)
“Progressive Italia - Gli anni 70 - vol. 4" [6 CD]
• Ibis: “Sun Supreme” (1974)
• Jumbo: “DNA” (1972)
• Madrugada: “Madrugada” (1974)
• Sensations’ Fix: “Fragments of Light” (1974)
• Mauro Pelosi: “La stagione per morire” (1972)
• Latte e Miele: “Papillon” (1973)
“Progressive Italia - Gli anni 70 - vol. 5" [6 CD]
• Claudio Pascoli: “Naifunk” (1979)
• Maurizio Arcieri: “Trasparenze” (1973)
• Sensations’ Fix: “Flying Tapes” (1978)
• Claudio Dentes: “Pantarei” (1979)
• Mauro Pelosi: “Il signore dei gatti” (1979)
• Madrugada: “Incastro” (1976)
“Progressive Italia - Gli anni 70 - vol. 6" [6 CD]
• Franco Falsini: “Cold Nose” (1975)
• Maurizio Fabrizio: “Movimenti nel cielo” (1978)
• Pangea: “Invasori” (1976)
• Carlo Siliotto: “Ondina” (1979)
• Pueblo: “Pueblo” (1975)
• Sensations’ Fix: “Sensations’ Fix” (1974)
“Le Orme – The Universal Music Collection" [11 CD]
• Collage (1971)
• Uomo di pezza (1972)
• Felona e Sorona (1973)
• Contrappunti (1974)
• In Concerto (1974)
• Smogmagica (1975)
• Verità nascoste (1977)
• Storia o leggenda (1977)
• Florian (1979)
• Piccola rapsodia dell’ape (1980)
• Orme (1990)
ML 41
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update n. 72
live review
ARTIST: IGGY POP
LOCATION:
Azzano Decimo (PN), Fiera della Musica
DATE: 16.07.2010
WEBSITE:
www.iggypop.com
photo by
www.iggyandthestoogesmusic.com
Pordenone, la città del Great Complotto, ha ospitato l’unica data italiana di Iggy & The Stooges.
Il palco per l’esibizione serale è collocato all’interno del Palaverde di Azzano Decimo, adibito a
fiera della musica. Non sazi di avere questa incredibile esclusiva, gli organizzatori hanno deciso di
assoldare come gruppo spalla i redivivi Gang Of Four. Partiamo proprio dal quartetto di Leeds: i
brani sono quasi tutti ripescati dai primi dischi, soprattutto da quell’ “Entertainment!” tanto amato
sia da critica (presente nella lista dei 500 dischi di sempre di Rolling Stone), che da pubblico.
Un’esibizione intensa e allo stesso tempo distaccata, dove stenta ad arrivare una vera interazione
tra band e spettatori. L’esecuzione è comunque impeccabile, anche se si ha avuto spesso la
sensazione che i due membri originali, Jon King e il chitarrista Andy Gill, vivessero in un mondo
tutto loro, distaccati sia dal resto della band che dalle persone presenti. Degno di nota il lavoro di
Andy alla chitarra: suoni freddi, note sospese, chitarra gettata nel bel mezzo dell’esecuzione, è
sicuramente il fulcro musicale dei Gang Of Four. Bisognerà aspettare più di una sudatissima
oretta prima dell’entrata del Circo dell’Iguana. La formazione è quella di Raw Power, ovvero
James Williamson alla chitarra e l’ottimo Mike Watt al basso, al posto del mai troppo rimpianto
Ron Asheton. L’impatto iniziale è devastante: un’intensa Raw Power crea il clima giusto,
permettendo a Iggy di scatenare la propria carica erotica/distruttiva verso il caloroso e reattivo
pubblico che ormai ha stipato il piazzale del Palaverde. La scaletta è incentrata sulla Potenza
Rozza, eseguita completamente escludendo I Need Somebody. Nel mezzo anche vecchi pezzi
come 1970, No fun e l’immancabile I wanna be your dog. Con molto piacere arriva pure
un’inaspettata (almeno per quanto mi riguarda) e carichissima I got a right, seguita dall’inno
oppiaceo Open up and bleed. Ci sono diverse domande che mi tormentano: come fanno Iggy e
Scott Asheton a essere ancora vivi e a suonare questa musica dopo tutti i loro eccessi e la loro
età? L’iguana sta ringiovanendo? È impressionante pensare di poter assistere all’esibizione di un
gruppo che è stato leggendario dal ’69 al ’73, non solo per la loro fondamentale trilogia, ma pure
per l’incredibile aurea di maledetti che giustamente gli fu attribuita in quegli anni. Un concerto
caldissimo in tutti i sensi, una band molto affiatata, Iggy Pop incredibilmente vitale e intonato.
Qualcuno potrà dire che sembrava tutto sin troppo perfetto, senza l’effetto imprevedibilità di anni
fa, qualcun altro potrà pensare che la formazione con Ron alla chitarra fosse più sporca e malsana
(il sottoscritto, pur non sottovalutando l’ottima esibizione di James), sta di fatto che questo
gruppo leggendario sa ancora entusiasmare un pubblico relativamente giovane, e non è poco.
Matteo Ghilardi
ML 42
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update n. 72
live review
ARTIST: SEAL
LOCATION:
Lucca, Piazza Napoleone
DATE: 16.07.2010
WEBSITE:
www.seal.com
photo by seal.com
Avevo tanti capelli in più e nemmeno un filo di pancia quando nel 1990 scoprii “quel cantante coi
dreadlocks e una voce fantastica”, passione sorprendente per chi aveva orecchie esclusivamente
per chitarre e distorsori; da allora ho seguito la carriera di Seal con l’attenzione che si concede
solo ai preferiti, maledicendo le vicende che mai prima d’ora mi avevano permesso di assistere a
un suo concerto. C’è voluta la bellezza di due decenni affinché il sogno s’avverasse e la cornice
del Lucca Summer Festival 2010 ne è stato il degno teatro. Con non più di cinque minuti di ritardo
sull’orario in cartellone, come da tradizione “soul” è la band che ha preso possesso del palco e lo
ha fatto con una riproposizione del superclassico Papa was a rollin’ stone sfociato nella vecchia e
sempre efficace Killer sulle note della quale Seal è comparso on stage; da quel momento Piazza
Napoleone sarebbe diventata creta nelle sue mani, modellata ed esaltata con la sola forza di
feeling, anima e un talento infinito, sostenuto da una band di cinque eccellenti elementi e un
altrettanto valido quartetto femminile di fiati. A fronte dei pochi e inevitabili richiami all’ultima
pubblicazione, la raccolta di cover Soul (tra cui una It’s a man’s man’s world strappa applausi) la
scaletta ha attinto prevalentemente dai primi due album e dal pluridecorato Seal IV esaltando nei
passaggi più movimentati e dispensando brividi in quelli più intimi: è così che Prayer for the
dying, Bring it on, Get it together hanno intrecciato il loro mood con l’euforia dance di Amazing o
con il ritmo irresistibile di Waiting for you…Tutti aspettavano Crazy e Seal l’ha proposta al suo
meglio anche se credo che l’apice del pathos si sia raggiunto con una sentitissima Kiss from a
rose; io personalmente ho aspettato venti fottutissimi anni per poterla cantare insieme a
quest’uomo che, fisicamente imponente e vocalmente in forma strepitosa, riesce con disinvoltura
a farti saltare sulla sedia e a strapparti via il cuore con una delle sue insuperabili ballate con la
stessa efficacia, senza dosare forze o estro, stabilendo anzi una connessione continua con un
pubblico entusiasta (e composto prevalentemente da ultratrentenni). Dall’imminente Seal VICommitment sono stati estratti un paio di convincenti brani, il secondo dei quali, The way I love,
è stato furbescamente ripescato durante il bis, dilatato e riarrangiato a dovere per presentare i
suoi compagni di palco e permettere alla piazza gremita di cantare ancora una volta col suo
beniamino. Dispiace non aver ascoltato classici come Future love paradise o Don’t cry (Human
Being poi è stato sacrificato del tutto) ma la consapevolezza che i brani omessi dalla scaletta
avrebbero potuto costituire un greatest hits avvalora ulteriormente la tesi che quell’uomo sul
palco attraversa una condizione sovrannaturale. Lui si chiama Seal Samuel, canta da Dio, parla
d’amore e io lo adoro.
Manuel Fiorelli
P.S. – Alice, ovunque tu sia, grazie di cuore per la dritta!
ML 43
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update n. 72
live review
ARTIST: DIRTMUSIC & TAMIKREST
LOCATION:
Faenza, Piazza Nenni (ex della Molinella)
DATE: 17.07.2010
WEBSITE:
www.willienile.com
photo by Last.fm
Vivere di musica significa anche fare pazzie per essa; e la pazzia, se gestita con dovizia, può
anche regalare momenti indimenticabili. Dopo aver prenotato un biglietto aereo a/r per Roma,
dove vive la mia dolce metà, scopro che la domenica stessa nella mia città (cioè Bergamo)
avrebbero suonato i Dirtmusic assieme ai Tamikrest. Occasione più unica che rara per ascoltare
dal vivo il progetto di Hugo Race (True Spirits, Bad Seeds, Wrenckery), Chris Eckman
(Walkabouts) e Chris Brokaw (Codeine, Come) che hanno, con BKO, scritto uno dei dischi
più interessanti di questo ottimo 2010 (a settembre intervista a Hugo Race su queste pagine).
Due date in Italia, dicevo, una a Bergamo e una a Faenza, che da Roma dista “solo” 400 Km
invece dei 600 abbondanti che separano la capitale dalla mia città natale. Così prenoto in un
bellissimo agriturismo immerso nel verde e nel giallo dei girasoli, e all’alba, io e colei che un po’
pazza lo sta diventando a forza di stare con lo zoppo, ci mettiamo in viaggio evitando un terribile
incidente sul grande raccordo anulare. Spavento passato, la nostra mente è ora pronta a gettarsi
nell’ozio prima di respirare il profumo del deserto. Così dopo un bagno in piscina, una passeggiata
per Faenza e una deliziosa cenetta di pesce, ci troviamo in Piazza Nenni (ex della Molinella) per
assistere a questo strano connubio fra America e Africa, fra il blues e la musica tuareg, fra le
chitarre elettriche e le percussioni che alimentano incessantemente il fuoco sacro del rock. The
Other Side dall’omonimo Dirtmusic apre in acustica con i tre musicisti accompagnati dal solo
percussionista Aghaly Ag Mohamadine, poi i Tamikrest salgono uno a uno sul palco e
l’alchimia si crea; i brani di Adagh sono pura magia, sono canti lontani che raffigurano una
cultura a noi misteriosa, sono litanie che ampliano gli spazi e tutti (compreso un bambino di pochi
anni) vengono rapiti e catapultati
in questo mondo meraviglioso. Quando poi il nostro mondo
entra in collisione con quello africano, ecco i pezzi di BKO (Glitterhouse Records, 2010) esplodere
in tutto il loro splendore; dal groove di
Black Gravity e Lives we did not live, alla notturna
Unknowable fino alla cover velvettiana All Tomorrow’s Parties che si espande a macchia d’olio
nella provincia emiliana, oramai diventata per noi ascoltatori estasiati, il nuovo centro del mondo.
Si ritorna a casa seguendo il volo irregolare dei pipistrelli, con la sensazione di aver assistito a
qualcosa di unico e con uno strascico di mal d’Africa.
Nicola Guerra
ML 44
musicletter.it
update n. 72
live review
ARTIST: THE CULT
LOCATION:
Roma, Ippodromo Capannelle
DATE: 26.07.2010
WEBSITE:
www.thecult.us
photo by seal.com
L’unica data italiana del “Love Live tour 2010” ha rinnovato ancora una volta, qualora ce ne fosse
bisogno, il patto d’amore tra i fan della capitale e The Cult. Da queste parti non venivano dal
giugno 2007 e il colpo d’occhio sotto il palco dell’ippodromo Capannelle è più che lusinghiero. Un
intollerabile ritardo di oltre 45 minuti rischia di far perdere la pazienza un po’ a tutti ma poi, come
al solito, il demone del rock fa da paciere e amici come prima alle prime note di un’ottima Lil’
devil. La prima mezz’ora dello show è incentrata su vecchi cavalli di battaglia come Phoenix e una
Rain insospettabilmente eseguita dopo soli tre brani. I capelli di Ian Astbury sono ricresciuti ma
con essi anche un girovita ingombrante che ha francamente fatto coppia con le condizioni non
proprio ottimali della sua ugola; le canzoni le ha accennate, accompagnate in qualche modo ma
non è apparso certamente nel miglior stato di forma per cui ha fatto spesso e volentieri ricorso
all’aiuto di un pubblico comunque ben disposto. Il precedente concerto romano era stato
caratterizzato da molteplici problemi tecnici patiti dalla chitarra di Billy Duffy e lascia alquanto
interdetti appurare che i tre anni trascorsi da allora non abbiano impartito lezione alcuna; il
biondo chitarrista trascorre infatti buona parte del tempo a “smadonnare” contro il tecnico di
palco poiché evidentemente scontento di quanto fuoriesce dalle casse spia e finisce col suonare la
parte centrale della tracklist con l’entusiasmo tipico del 2 novembre. All’improvviso però qualcuno
da sotto il palco recapita alla band un vassoio di birre e come per magia una splendida Nirvana
inaugura una seconda parte ben più convincente; il volume non è quello assassino dei
Motorhead dell’anno scorso, l’impianto restituisce l’audio con buona qualità ed è un piacere
cantare con loro Fire Woman, Revolution o una ripescata Sun King. Non c’è dubbio alcuno che si
stia assistendo al concerto di una band che da molto tempo ha abbracciato definitivamente l’hard
rock, ne risente il ripescaggio più vecchio, Spiritwalker che, con le sue atmosfere wave, finisce col
sembrare un pesce fuor d’acqua in un acquario popolato di riffoni pesanti e tempi marcati. Wild
flower è assolutamente incendiaria e non potrebbe chiudere meglio il set ufficiale; ci sono tuttavia
un paio di numeri rigorosamente immancabili in una scaletta dei Cult ragion per cui non è una
sorpresa quando incentrano i bis sull’immarcescibile She sells sanctuary e Love removal machine
il cui break finale fa segnalare il livello più alto di movimento sotto il palco. Qualche ombra in più
rispetto allo show di tre anni fa ma a tratti le luci sono riuscite ancora ad abbagliare.
Manuel Fiorelli
ML 45
musicletter.it
update n. 72
rubrica
PRESI NELLA RETE
Stoned Machine, Orange Beach, My Morning Needle, Manthra Dei e Gengis Khan Voodoo Racket
© 2010 di
Stefano Bon
Uno
strano
caso.
Tempo
addietro
dovendomi
occupare di “stoner” italiano, mi trovai a parlare di
due band che oggi, più o meno negli stessi tempi,
affrontano l’ardua prova discografica. Parliamo di
Stoned Machine e Orange Beach e, se vogliamo,
la parola “stoner” (come poi tutte le etichette) va
strettina.
In
progressive,
Italia
c’è
però,
stato
un
come
fiorire
ai
di
tempi
del
band
che
recuperando l’hard rock degli anni Settanta, hanno
dato vita se non ad un vero movimento ad un
insieme di artisti che presto non avevano nulla da invidiare ai maestri di oltreoceano.
Non ci
troviamo di fronte degli esordienti sia chiaro, ma gente profondamente innamorata della musica
(la “loro” musica) e affatto disposta a cedere di un solo millimetro alla “tendenza” del momento.
Gli Stoned Machine per esempio (www.myspace.com/stonedmachine) sono i più vicini, anche
grazie al nome, allo stoner classico, quel macinare di saturazione chitarristica impiantato su una
potente base ritmica che ha fatto la fortuna di tante band. Oggi esordiscono su CD, dopo anni di
intensa attività live. Il che è meno bizzarro di quanto possa sembrare, perché è proprio il concerto
la dimensione ideale per loro. Show che li ha visti dividere il palco con formazioni assai blasonate.
Ora raccolgono tutta questa sapienza (sebbene il titolo sia Human regression) e la trasferiscono
su disco senza perdere un solo milligrammo dell’originaria potenza. Tanto per fare i soliti discorsi:
se non ve lo vengono a dire li prendereste per “americani” e dei migliori poi, tra suggestioni
desertiche e un sound che richiama fra l’altro i primissimi Soundgarden. Da qualche tempo invece
è uscito il lavoro degli Orange Beach (www.myspace.com/theorangebeach) intitolato in modo
geniale Fuzz you! alla cui produzione c’è Kramer, non proprio il due di briscola. Se vogliamo è
l’ironia il marchio di fabbrica degli OB e lo si vede anche dai titoli delle canzoni; sia chiaro,
un’ironia non da ciarlatani, ma da professionisti, da gente che intende il suono psichedelico come
una forte ventata destinata a ribaltare gli ombrelli grigi della convenzione. Le composizioni del
terzetto sono cavalcate elettriche tenute saldamente da una linea melodica sempre presente e
mai banale a cui non è certo estranea la matrice mediterranea dei componenti degli OB. Un
esperimento affascinante in cui, come in un vortice, una volta entrati è quasi impossibile uscirne.
Tornando
in nord Italia, Brescia per la precisione, troviamo i My Morning Needle
(www.myspace.com/mymorningneedle) dove è diverso l’approccio, ma non certo la passione o la
qualità. Qui siamo più vicini alla psichedelia intesa in senso classico dove il crescendo della trame
chitarristiche convoglia l’ascoltatore in un territorio a metà fra il sogno e la realtà, dove lo
zucchero si fonde con il metallo.
ML 46
musicletter.it
update n. 72
rubrica: presi nella rete
Qualcuno lo potrebbe chiamare post-rock, non io che non ho mai amato questa inutile definizione
e non riferita ai MMN perché ascriverli a questo movimento solo perché i loro brani sono ipnotici
non rende loro giustizia, dato che le frecce nel loro arco sono molte di più. Sempre da Brescia
arrivano i Manthra Dei (www.myspace.com/manthradei) che presentano due lunghi brani
registrati in modo amatoriale e piuttosto acerbi, soprattutto dal punto di vista ritmico, ma che
lasciano intravedere un’interessante capacità nello sviluppare le loro idee musicali, scorrazzando
senza timori e senza cadute di stile dal blues ad approcci più progressive (un solo appunto
ragazzi: se nella vostra pagina ci fosse qualche notiziola in più…). Ci spostiamo di poco e
arriviamo a Milano dove troviamo un ensemble dal nome bizzarro, Gengis Khan Voodoo Racket
(www.myspace.com/voodoojacket), ma dalle idee chiarissime che si possono tradurre in due
parole: musica pesante. Nella loro pagina parlano di doom per bambini, ma come infanti possono
riferirsi solo alle gemelline di “Shining” perché il loro sound è puro inferno, senza orpelli e senza
attimi di tregua. Pure nei momenti dilatati la tensione emotiva non scende mai, anche grazie ad
una capacità strumentale non comune e se saranno in grado di mantenere questo stato di grazia
(sebbene “grazia” non sia il termine più adatto per loro) si parlerà molto di loro in futuro.
ML 47
musicletter.it
update n. 72
altri percorsi: libri
ASCANIO CELESTINI
Lotta di classe
Einaudi, 2009
di Alessandro Busi
La trama non c'è, o quantomeno è secondaria. In Lotta di classe di Ascanio Celestini, l'idea
della grande narrazione che metta assieme e giustifichi i vari momenti del romanzo è svanita e ha
lasciato il posto al resto, alle persone. Ci sono molti psicologi che sostengono che, anche nelle
nostre vite, noi ci costruiamo a posteriori quel senso di continuità che ci fa sembrare tutto con
una logica più ampia, più alta, mentre, in fin dei conti, il nostro procedere è un susseguirsi di
incontri, anche casuali, che vanno a costruire il nostro romanzo. È una specie di teoria che
appiccichiamo sugli eventi, collegandoli tra di loro, per tentare di spiegare ciò che è stato e
provare a prevedere ciò che sarà. Insomma, per fare ordine. Ecco, Celestini questo non lo fa. Ciò
che accomuna i vari personaggi, talmente centrali da essere i titoli e i narratori in prima persona
dei capitoli del testo, sono i luoghi, le vicende e gli incontri. Tutti lavorano, hanno lavorato, o sono
toccati dal call center e dai suoi contratti a progetto, che sono come bombe a orologeria in tasca
ai lavoratori, ai quali resta solo da aspettare lo scoppio. Tutti vivono nella periferia romana,
praticamente nella stessa palazzina, dove avvengono gli incontri, immaginati e reali, assieme agli
eventi, piacevoli e drammatici, e perfino le morti. E poi tutti hanno le proprie storie da raccontare.
Chi quelle vecchie dei tempi della guerra, chi quelle della propria quotidianità, comunque, sempre
storie con punti di vista diversi e specifici, attraverso i quali, chi legge riesce a ricostruire ciò che
accade. La realtà è una costruzione sociale, una costruzione dell'interazione, direbbero
Berger e Luckmann. Celestini questo principio riesce a farlo intuire, a non spiegarlo, ma a
renderlo evidente attraverso il racconto. Anche lo stile, così frammentato e orticante nell'ironia
amara tipica dell'attore-scrittore romano, aiuta nel sentire Salvatore, Marinella, Nicola e Patrizia
come dei conoscenti che parlano del proprio mondo, talvolta con rabbia, talvolta con sarcasmo,
anche per mascherare un dolore troppo grande. Insomma, in Lotta di classe, Celestini
conferma il proprio stile e la propria immensa capacità di capire le persone. Si avvicina, entra
nelle storie e le ripropone, come solo i migliori narratori sanno fare. E poi, riesce sempre a
strappare un sorriso, quantomai pesante, perché, come dice Patrizia: “Il mondo deve essere la
parodia di qualche altro mondo”.
ML 48
musicletter.it
update n. 70
frammenti di cinema rimosso: dodicesima parte
SOTTO I RAGGI DEL SOLE
Scampoli di cinema “in stile balneare” al tempo d’estate
© 2010 di
Nicola Pice
Dimensione temporale o nonluogo psicologico?
Che cosa è o rappresenta l’estate? Una cesura
(sempre
più
breve)
dell’io
da
un
continuum
produttivo – che invero non si ferma mai - o lo
spazio della ricomposizione del sé tra ricordi,
rievocazioni, pratiche ritualistiche, momenti di
libertà individuale e di spensieratezza e il consumo
del fantomatico feticcio che va sotto il nome di
“vacanza”? Per un popolo circondato dal mare,
compresso per più di due terzi tra risicate pianure
e le coste, la stagione estiva non può che essere “balneare” (anche semanticamente) e il teatro in
cui si mette in scena la sua stessa celebrazione è ovviamente “la spiaggia” e le sue estensioni: i
lidi, i bagni, microcosmi umani esaustivi, metafore sempre più evidenti della “scatola sociale”, di
un’omologazione dei comportamenti e dei gusti inesorabile nonostante la frammentazione
classista e le differenze economiche. L’estate come “tempo di vacanza”, l’estate al mare su
spiagge assolate, l’estate come rituale collettivo fu un fenomeno pressoché ignorato dal cinema
italiano almeno fino agli anni ’50. Il nostro popolo - si badi bene - continuava ad andare al mare: i
luoghi della vacanza, però, erano semplici sfondi alla rappresentazione, incidentali, non necessari
(all’economia del racconto) e non ancora, pertanto, soggetto/oggetto capace di evocare
l’immaginario di un’intera nazione e di catalizzare l’interesse degli autori. Il cinema del ventennio
fascista, ad esempio, fortemente dirigista, perbenista e propagandista, lungi dal poter considerare
un qualsiasi luogo balneare soggetto cinematografico “moralmente decente”, evitò con cura
l’argomento vacanziero impegnato tra rivisitazioni storiche in costume e celebrazione conformista
di ideali piccolo-borghesi (il cosiddetto cinema dei telefoni bianchi). Pertanto, le sequenze balneari
de “La canzone dell’amore” (primo film sonoro italiano del 1930) di Gennaro Righelli o del
popolare “La famiglia Brambilla in vacanza” (1942) di Carl Boese con Massimo Girotti sono casuali
nel primo esempio o puramente decorative nel secondo. La caduta del regime, però, e gli anni
immediatamente successivi sono l’inizio di una fase nuova per il nostro paese che determinerà
cambiamenti profondi di cui il cinema saprà essere degno rappresentante. La guerra ha azzerato
tutto (convinzioni e ideologie comprese): gli sceneggiatori e i registi di una stagione culturale
irripetibile per l’Italia sapranno descrivere le modificazioni di un popolo cogliendo le contraddizioni
e la sofferenza nella rincorsa verso un benessere non privo di costi in termini sociali ed identitari.
L’occhio della macchina da presa sarà il fondo in cui confluiranno centinaia di personaggi
corrispondenti ad altrettante categorie umane e sociali: volti, corpi, gesti che comunicheranno
forza, dolore, capacità di reazione e sconfitte.
ML 49
musicletter.it
update n. 70
frammenti di cinema rimosso: dodicesima parte
È evidente, in tutto ciò, l’importanza che assumono i
luoghi (le strade, le piazze, le chiese ed anche le
spiagge) non più soltanto come oggetti d’uso e sfondi
complementari alla narrazione ma soprattutto come
segni, sintomi anche minimi, di una condizione
antropologica più generale. È, dunque, “Domenica
d’agosto” (1950) di Luciano Emmer, nel mutato
clima, a inaugurare - capostipite - una lunga serie di
film balneari i cui esiti estetici, però, non saranno
sempre convincenti. Quest’opera ha il merito di
comporre quadretti graziosi (con storie che s’intersecano) nello stile leggero del cosiddetto
“neorealismo rosa” (proprio di Emmer) esplorando i cambiamenti delle abitudini all’interno della
famiglia, la perdita del senso dell’autorità paterna, l’emancipazione delle donne, il desiderio di una
vita migliore scevra da pregiudizi e tabù. Lo spostamento verso il luogo di vacanza dei
protagonisti anticipa le migrazioni oceaniche degli anni ‘60 e la condivisione di uno spazio comune
balneare – la spiaggia – diventa elemento fondante di un processo di identificazione linguistica e
culturale (L’Italia era un arcipelago di dialetti e di abitudini differenti): in questo senso il cinema
sarà il motore principale (con la successiva televisione) di un lungo percorso di alfabetizzazione di
massa in una simbiosi speculare tra schermo e platea. Alla fine degli anni ’50 nasce, però, la
commedia all’italiana, fenomeno epocale nella storia del cinema, che si nutre della disfunzionalità
antropologica dell’Homo italicus (pensiamo alla straordinario “I mostri”). È al contempo satira di
costume, non sempre esplicitamente politica, dal forte impianto realistico con qualche incursione
nei territori della storia oscura del nostro paese che, grazie al registro leggero, prevalentemente
comico, sebbene puntellato d’amarezza, raggiunse quel gran pubblico che al neorealismo aveva
quasi sempre voltato le spalle. Tra il ’59 e i ’61 un nucleo di
sette film interpretato da Alberto Sordi (tra cui “Il vigile”, “La
grande guerra”, “Tutti a casa”, “Una vita difficile”) codificherà
tutti gli elementi principali della commedia made in pizzaland
ma va notato, però, che già nel 1954 con “La spiaggia” di
Alberto Lattuada s’erano intravisti i prodromi di quella
rivoluzione stilistica. Sarebbe riduttivo confinare quest’opera
nello spazio angusto della sola balnearità perché è un
prodotto d’autore doc, tuttavia nel film il luogo vacanziero e la
circostanza vacanziera stessa diventano il pretesto per un “conte morale” che sferzi il bestiario
umano che s’inizia a delineare nella società italica pre boom economico: i cafoni arricchiti, il
perbenismo tanto maschile che femminile, la beceraggine dei gesti, tutti elementi tratteggiati con
un realismo borghese ormai col fiato corto che, con le successive prove, lascerà il passo alle
caratteristiche tradizionalmente fondanti della commedia all’italiana. Da questo momento in poi e
per tutti gli anni ’60 il cinema vacanziero – balneare o turistico (sottogenere del primo) non
importa - darà alla luce decine e decine di pellicole (e per ovvi motivi di spazio e qualità artistica
in questa analisi ne dimenticheremo volontariamente moltissime).
ML 50
musicletter.it
update n. 70
frammenti di cinema rimosso: dodicesima parte
Degne d’una qualche menzione tra le
tante a dispetto di un intreccio narrativo
che appare esile e che li rende fin troppo
datati: “Vacanze ad Ischia” (1957) di
Mario Camerini – curiosamente finanziato
da Angelo Rizzoli per pubblicizzare alcuni
suoi investimenti immobiliari – “Brevi
amori a Palma di Maiorca” di Giorgio
Bianchi e “Costa Azzurra” di Vittorio Sala
– entrambi del 1959 – eccellenti prove
d’attore del solito Alberto Sordi così come
il precedente (1958) “Racconti d’estate”
di Gianni Franciolini è film a sketch non
privo
di
ironia,
straordinari
come
a
firma
Amidei,
di
autori
Flaiano
e
Sonego, e caratterizzato da amarezza e disincanto malinconico. Tuttavia, questi film non riescono
a trascendere il genere e rimangono, alla fine, un esempio di buon assemblaggio di scenette poco
più che divertenti che non incidono affatto nella carne del corpus sociale, limitandosi a un
bozzettismo che è anche clichè sui luoghi comuni del “tempo estivo”: il mito della conquista
sentimentale. “Ferragosto in bikini” (1960) di Mario Girolami e “Frenesia dell’estate” (1963) di
Luigi Zampa, infatti, non si discostano dalla riproposizione dell’ovvio cinematografico “balneare”
anche se quest'ultimo mette in mostra il vitalismo del “mattatore” Vittorio Gassman, ormai
acclamato interprete del cinema popolare, le cui qualità d'attore erano state esaltate – nello
scorcio iniziale degli anni '60 - dai ruoli
disegnati per lui da uno dei più grandi autori della storia
del cinema italiano: Dino Risi. L'azione svolta dal regista - romano d'adozione ma milanese di
nascita - nell'ambito della “commedia all'italiana” assume senza alcun dubbio un significato
eversivo che avrà non poche ripercussioni anche sugli esiti del genere vacanziero. Risi, infatti,
modifica profondamente la struttura della commedia ampliandone i ritmi e le tipologie, ricodificando di fatto la forma e il senso stesso di ciò che fino ad allora era stato rappresentato sullo
schermo del nostro paese. Accantonato il ricorso al facile happy ending, concentrato, invece, nella
costruzione dei personaggi e, dunque, impegnato nel disvelamento delle loro peculiarità
psicologiche (a cui giunge non di rado con geniali ellissi narrative) il regista mette a punto uno
stile essenziale (ma al contempo raffinatissimo) in cui convergono tutti gli spunti necessari per
tracciare i segni d'una arguta e sarcastica analisi sociale. Le maschere grottesche de “I Mostri” ma ancor più quella del Bruno Cortona de “Il Sorpasso” – non hanno più una valenza (soltanto)
caricaturale
ma
sono
espressione
(equivalente)
dell'alterazione
caratteriale
d'un
popolo
inesorabilmente destinato alla mostruosità. Il boom economico per Risi ha plasmato una nuova
figura d'italiano che, sotto le mentite sembianze d'un attivismo aggressivo ed ipercinetico,
nasconde una dirompente carica distruttiva ed auto-distruttiva. L'autore, pertanto, diventa l'acuto
osservatore della mutazione antropologica di questo paese, testimone consapevole e sprezzante
delle sue devastazioni parallelamente anche ambientali ed urbanistiche.
ML 51
musicletter.it
update n. 70
frammenti di cinema rimosso: dodicesima parte
L’industria vacanziera non può rimanere immune da siffatte vorticose trasformazioni assumendo
sempre più i contorni di un divertimentificio vacuo e frenetico specialmente nelle località balneari
della riviera romagnola o ligure - turisticamente più attrezzate e in voga - anzi con la
trasmigrazione di oceaniche folle che si muovono in un folle peregrinare da un punto all’altro
dell’Italia alla disperata ricerca di un “posto al sole”, diventa essa stessa il segno del boom, della
modificazione dei ritmi produttivi, della diffusione d’un benessere piccolo borghese precario e
sterile. Sebbene non esente da pecche, “L’ombrellone” (1965) ha il merito di fotografare - come
un’indelebile istantanea su un’epoca della nostra storia recente – il compiuto cambiamento della
gens italica. D’un paese fino all’immediato dopoguerra rurale e dignitosamente povero nel film di
Risi non v’è più traccia: al suo posto è comparsa un’umanità rampante, vorace, socialmente
conflittuale, violenta e corrotta nei rapporti interpersonali, perbenista eppur oscena nell’esibizione
dei propri modesti status-symbol. Il formicaio mostruoso della spiaggia di Riccione, insostenibile
allo sguardo, è l’esemplificazione grottesca ed amarissima della mistificazione del boom, una
sorta di catastrofe entropica, e lo sfilacciamento del tessuto sociale ed affettivo costituisce il duro
prezzo da pagare al presunto miracolo economico. La malinconia che pervade tutto il film,
nonostante la leggerezza narrativa, è l’inconscia consapevolezza per i protagonisti che la stagione
dell’euforia volge al termine (non è forse l’estate, metereologicamente breve, metafora stessa
della caducità?), che la crisi (nella incombente, successiva decade) spazzerà ogni illusione e
velleità come inevitabile, ciclica riequilibratrice delle umane vicende. Il film di Risi, pur nella sua
imperfezione, è, dunque, uno spartiacque per il genere vacanziero: da un lato si nutre degli
elementi tipici del cinema balneare (l’ambientazione spazio-temporale in primis), dall’altro ne
frantuma i codici ponendosi, invero, come implacabile denuncia non solo dell’insulso modernismo
degli anni ‘60, ma soprattutto dell’insensatezza della ritualistica estiva stessa, cialtrona, effimera
e colma di vizi, perfettamente speculare al neo-italiano che va formandosi. È probabilmente
l’apice d’un (sotto)genere, la sua celebrazione ma anche il suo funerale così come l’intera
produzione del Risi degli anni ’60 che per arguzia, profondità d’analisi e varietà di temi costituisce
una sorta di corpus onnicomprensivo della “commedia all’italiana”, un punto di riferimento per
chiunque decida di fare cinema “brillante” ma anche una montagna troppo grande (e, dunque,
impossibile) da scalare. Lo stesso autore negli anni ’70, consapevole di un’ulteriore cambiamento
che avrebbe visto l’agitarsi, scomposto e violento, proprio di quei mostri evocati e così ben
rappresentati con la telecamera (la deriva conflittuale delle ingiustizie sociali non sanate o
insanabili si transustanzia nell’orrore del terrorismo), preferì cambiare registro filmico affrontando
i temi dell’irrazionale, delle pulsioni e dei dissidi dell’inconscio con la messa in scena d’un cinema
non più iper-realista ma giocato tutto sulle sfumature psicologiche, crepuscolare e ben lontano da
quella commedia che aveva portato ai massimi livelli espressivi. Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio
dei ’70, dunque, inizia a venir meno il rapporto di stretta complicità tra il cinema comico ed il suo
pubblico e la commedia all’italiana, pur continuando ad esistere, conosce un lento ma inesorabile
declino attribuibile da un lato al logoramento dei suoi illustri specialisti, dall’altro al miglioramento
della qualità televisiva (la rai si pone come autentico competitor dell’intrattenimento) e, in
particolare, all’altissimo tasso di violenta conflittualità sociale che sembra indirizzare gli autori
cinematografici ad analisi e a commenti più in chiave drammatica che leggera.
ML 52
musicletter.it
update n. 70
frammenti di cinema rimosso: dodicesima parte
Il cinema balnear-vacanziero (disimpegnato ed effimero per definizione, piccola parte o
sottoinsieme dell’enorme “insieme commedia”) non può, dunque, non declinare anch’esso,
oscurato, tra l’altro, dall’esplosione commerciale di nuovi generi cinematografici: il western,
metaforico veicolo di istanze rivoluzionarie, l’horror (con una galassia di geniali artigiani che
diventeranno con le loro opere punto di riferimento nel mondo per intere generazioni di autori), la
commedia scollacciata, infarcita di nudità femminili, boccaccesca con i cosiddetti “decamerotici” in
(scarsi) costumi medievali, e il “poliziottesco” quale perfetta esemplificazione della giungla
sociale, della trasformazione dell’Italia in un immaginario campo di battaglia tra la malavita e le
forze dell’ordine. Finisce, quindi, per diventare una presenza marginale all’interno di un contesto
filmico più generale: la vacanza non più palcoscenico di storie ma elemento di contorno per fugaci
rappresentazioni, e il suo luogo “simbolo” per eccellenza – la spiaggia – il segno della
devastazione ambientale, sociale e umana di ancor più evidente tragicità in quei terribili anni ’70.
In “Dramma della gelosia - Tutti i particolari in cronaca” (1970) di Ettore Scola la spiaggia
ostiense s’intravede come una sporca discarica, il perfetto habitat per un’umanità proletaria e
infelice o, anni dopo, nel magnifico “Sinite parvulos” (episodio del film collettivo “Signore e
signori, buonanotte”, 1976) un gruppo di scugnizzi gioca vicino al mare tra cumuli di rifiuti e
carcasse di animali morti a veicolare un’immagine funerea di degrado e abbandono oppure in
“Ecce Bombo” (1978) e “Bianca” (1983) – entrambi di Nanni Moretti – si presenta come un nonluogo alieno, caldissimo ed inospitale, allegoria del disagio psicologico, dello smarrimento d’una
intera generazione, nonché testimonianza dell’impossibilità per il suo autore d’essere normali,
palude espressiva in una sorta di sospensione stagnante della realtà. Un processo (teoria?), a ben
vedere, di astrazione che suggerisce, rimanda, evoca, fino a diventare radicale rifiuto di
rappresentazione in “Durante l’estate” (1970) di Ermanno Olmi in cui il teatro di una fiabesca
storia d’amore nella canicola agostana tra personaggi socialmente marginalizzati non è più la
spiaggia con le sue regole di corteggiamento ma il deserto urbano di una grande città (Milano) a
misurare l’impossibilità per i protagonisti di sincronizzare i tempi della loro vita interiore con quelli
dei ritmi (folli) del mondo in cui vivono. Oppure in “Casotto” (1977) di Sergio Citti, geniale
“kammerspiel” borgataro, ambientato integralmente nella buia cabina di uno stabilimento
balneare laddove il mare è completamente nascosto al dipanarsi bizzarro delle vicende di una
grottesca fauna umana sottolineandone l’esclusione (l’espulsione?) da un posto dignitoso nella
compagine sociale e il confinamento nel recinto d’un ghetto. Il cinema balneare riprenderà fiato
agli inizi degli anni ’80, paradossalmente proprio con l’inizio di un declino diverso da quello che fu
successivo agli anni d’oro della “commedia all’italiana”, ma ben più grave, caratterizzato viepiù
dallo sfaldarsi del sistema organizzativo e produttivo della nostra cinematografia e dalla
progressiva, inesorabile scomparsa dei “generi” (fondamentali non solo al finanziamento del
cinema degli “autori” ma soprattutto all’intero apparato) a causa dell’affermazione definitiva della
televisione commerciale (forte dei finanziamenti pubblicitari) con un’offerta senza pari nel settore
dell’intrattenimento a tal punto da modificare gli interessi e le abitudini consolidate del nostro
popolo. Gli anni ’80, molto più vitali della plumbea decade precedente, conoscono un secondo
“miracolo economico” (il consolidarsi dell’Italia come potenza manifatturiera e nel settore del
terziario avanzato) che, però, anche in questo caso sono un’occasione persa sulla strada della
renaissance socio-culturale di questo paese.
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frammenti di cinema rimosso: dodicesima parte
Sono i fratelli Vanzina (Enrico e Carlo) a rilanciare
il cinema “balneare” con “Sapore di mare” (1983)
e il suo sequel sull’onda (sarebbe il caso di dire)
del revival degli anni ’60 cui sono dedicati. Inoltre,
con la serialità di “Vacanze di Natale” (un film
all’anno a partire dal 1983 fino ad oggi in località
straniere o, comunque, esotiche), rafforzano tout
court il genere “vacanziero” sganciandolo dalla sua
tradizionale collocazione estiva per inserirlo in un
continuum temporale all’insegna d’un benessere spensierato e godereccio. I film dei Vanzina sono
ripetitivi nell’intreccio narrativo, privi di qualsiasi sussulto stilistico che ne riscatti la banalità
intrinseca, ma hanno il merito della messa in scena (seppur caricaturale e monodimensionale) di
personaggi totemici, esemplari magnifici d’un bestiario arrivista, consumista, volgare e griffato. È
la nuova Italia: simile a quella del primo boom economico nei comportamenti ma ancor più
spregiudicata e completamente priva di anima perché asservita alla logica perversa dell’apparire
sull’essere. I protagonisti dei film vanziniani non hanno nulla da invidiare, per dilatazione iperrealista, alla mostruosità di quelli di Risi configurando un paese artificiale, plasmato dal vaniloquio
televisivo e da stupidità modaiole ma, differentemente dal regista romano che le rappresenta per
esprimere tutto il suo cinico disprezzo, esse sono colte come “fenomeno in sé” senza alcuna
intenzione di giudizio moralistico quasi che il processo di orrorificazione dell’Italia fosse
irreversibile. Fuori dal solco tracciato dal duo, se “Rimini, Rimini” (1987) di Sergio Corbucci volge
lo sguardo al cinema balneare classico, a episodi, ma appare infarcito soltanto di gags grossolane
per un pubblico di bocca buona, “Abbronzatissimi” (1991) di Bruno Gaburro, a dispetto d’una
irritante sciatteria stilistica e dell’imbarazzante approssimazione della messa in scena, propone
(per la prima volta) ed afferma come protagonista cinematografico la centralità del corpo (brunito
dall’esposizione ai raggi solari, la cui cura e plastificazione con l’avvento del body building è ormai
un must negli incipienti anni ‘90) marcando, probabilmente in maniera inconsapevole, la necessità
sociale di conformarsi ad uno standard estetico in un processo di omologazione inarrestabile. Con
“Ferie d’agosto” del 1996, invece, il genere balneare esce (solo per un breve momento,
purtroppo) dall’ambito farsesco in cui lo hanno confinato i film dei fratelli Vanzina per rientrare
nell’alveo della migliore commedia d’autore per merito del livornese Paolo Virzì (dotato di notevoli
qualità artistiche, erede più autentico della gloriosa tradizione del nostro cinema popolare). La
vacanza, in questo caso, diventa luogo di contrapposizione di gruppi sociali differenti, costretti a
condividere spazi comuni o contigui, portatori di valori e comportamenti sideralmente lontani
secondo lo schema politico bipolarista destra-sinistra. Opera deliziosa, leggera nel tocco ma di
grande acume, commedia chiave per interpretare la contemporaneità, come quelle di Risi o di
Scola, sulla nascita del consenso di (delle) massa(e) alla nuova barbarie reazionaria (sono questi
gli anni della nascita politica del berlusconismo) e, soprattutto, sul parallelo distacco dalla realtà
d’una sinistra che non è più in grado di comprendere il senso degli eventi storici, lega
mirabilmente lo spirito vacanziero al luogo “balneare” della narrazione nell’esemplare racconto
della (mediocre) Italia di questi anni.
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Non
invece,
altrettanto
è
il
positivo,
giudizio
sugli
ultimi (recenti) film con cui
chiudiamo
questa
breve
analisi: “Un’estate al mare”
(2008) e “Un’estate ai Caraibi” (2009) entrambi opera dei fratelli Vanzina. Non solo per l’infima
qualità di scenette sempre uguali, non solo per la modestia stilistica ed espressiva che rivela
un’attrazione fatale per l’estetica del brutto, neppure riscattata da qualche sgangherato sussulto
trash (anche il campionario di volgarità è ormai déjà vu), quanto, piuttosto, per l’inaccettabile
compiacimento del duo per la pessima messa in scena. Nei Vanzina, ormai, è evidente la totale
adesione alla materia narrata e alla sua indecente forma nel colpevole contributo alla costruzione
d’un immaginario popolare ancor più qualunquista che tracci una linea di continuità con
l’avanspettacolo politico berlusconiano della cui ortodossia sono diventati fedeli sacerdoti
officianti. Non si spiegherebbe altrimenti la presenza del sosia del suddetto (Maurizio Antonini) in
“Un’estate ai Caraibi” dello scorso anno che, in pieno scandalo Noemi-Papi e “affaire” escorts,
fornisce propagandisticamente un’immagine affettuosa del premier laddove la decenza o il buon
gusto (visto il battage mediatico) avrebbero suggerito ben altro comportamento. L’auspicio,
pertanto, alla fine di questo – spero piacevole - divertissement è che il cinema italiano, pur nelle
mille difficoltà economiche, sappia trovare nei suoi autori migliori la capacità di tornare a parlare
(come un tempo) senza reticenze dell’anima profonda di questo paese denunciandone i mali o con
la forza del dramma oppure con il sorriso della commedia che può incrociarsi talvolta anche con la
leggerezza del cinema vacanziero… Buona estate!
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