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TERZA PAGINA
Corriere della Sera Martedì 27 Dicembre 2016
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La «prima» a Milano in primavera
La Fondazione Prada
coproduce cortometraggio
del regista Iñárritu
Il regista messicano premio Oscar Alejandro
G. Iñárritu (Città del Messico, 1963), dopo 4
anni di ricerca, ha intrapreso la realizzazione
di un cortometraggio sperimentale di realtà
virtuale prodotto e finanziato da Legendary
Entertainment e Fondazione Prada.
Ambientazione e personaggi virtuali
saranno progettati da ILMxLAB, il nuovo
dipartimento di Immersive Entertainment
della casa di produzione Lucasfilm. Il
Alejandro
González Iñárritu,
53 anni
progetto, che esplorerà l’esperienza di un
gruppo di persone che attraversano il
confine tra Messico e Usa, sarà presentato in
anteprima mondiale nella primavera del
2017 nella sede milanese della Fondazione
Prada. Alla realizzazione partecipa anche
Emmanuel Lubezki, direttore della fotografia
premio Oscar per Gravity di Alfonso Cuarón e
per Birdman e Revenant di Iñárritu. Il regista,
autore di Amores perros, 21 grammi e Babel,
ha vinto due Oscar consecutivi per la regia,
nel 2015 per Birdman (anche miglior film e
sceneggiatura originale) e quest’anno per
Revenant. Prada fa sapere che il progetto «è
sviluppato in totale autonomia rispetto ad
altre iniziative sul tema dell’immigrazione
proposte da Iñárritu per la città di Milano che
non vedono il coinvolgimento della
Fondazione Prada o Legendary
Entertainment».
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Elzeviro/ Baudelaire 150 anni dopo
Riflessioni a partire dall’analisi di Pierre Rosanvallon edito in Francia da Seuil
METAMORFOSI
DELL’ARTE
IN LETTERATURA
Un buon governo non è mai debole
Impariamo da Guizot, Weber e Mill
di Sebastiano Grasso
Politologo
I
l 31 agosto prossimo cadono i 150 anni
della morte dell’autore de I fiori del male
(1821-1867) e Parigi li celebra già con la
mostra L’occhio di Baudelaire al Musée de
la Vie romantique. Curata da Sophie Eloy, Jérôme Farigoule, Robert Kopp e Charlotte Manzini
(sino al 29 gennaio), mette a confronto gli
scritti del poeta (che esordisce a 20 anni su «Le
Corsare») con dipinti, sculture, disegni e grafica di cui si occupa, capaci di «sedurlo», ma
anche di «irritarlo».
Cronista e critico d’arte, Baudelaire scrive su
quotidiani e riviste («L’illustration», «Revue de
Paris», «Le Tribune dramatique», «Le Monde
littéraire», «Le Figaro», «La Vie parisienne»,
ecc.). «Poeta-giornalista» (come ha chiamato
Sainte-Beuve e come si autodefinisce), inizia
facendo il resoconto del Salon del 1845, cui
seguiranno quelli del ’46, del ’55 e del 59.
Charles collega tecnica ed estetica, come ha
fatto Denis Diderot circa un secolo prima, in
forma epistolare, rivolgendosi all’amico Friedrich Grimm.
Resoconti, ma anche saggi. L’arte diventa
letteratura. A quanti diventeranno «classici»,
Baudelaire associa anche pittori di cui si occupa una sola volta, ma che anticipano «il vento
che soffierà domani» (vengono in mente
Ramón Gómez de la Serna, Rafael Alberti, Raffaele Carrieri e Giovanni Testori).
Di quali dipinti si occupa la rassegna parigina? Ecco, fra gli altri, Deroy, Delacroix («senz’altro il pittore più originale dei tempi antichi
e moderni. Proprio così,
che farci? Nessuno dei
suoi amici, anche i più
entusiasti, ha avuto il
coraggio di dirlo con la
semplicità, la crudezza e
l’impudenza con cui lo
facciamo noi»), Decamps («grande colorista,
Charles Baudelaire
ma senza accanimenti»),
Chasseriau («per chi ha
seguito attentamente i suoi studi, è chiaro che
si agitano nel suo giovane petto ancora molte
rivoluzioni, e che la lotta non è finita»), Chazal
(pittore di animali e fiori), Guys («l’infinito nel
finito»), Tassaert («Erigone è semiriversa su un
poggio ombreggiato di viti, in una posa provocante, una gamba quasi piegata, l’altra diritta e
il corpo proteso in avanti; il disegno è fine, le
linee sinuose e accordate in modo sapiente. Ma
vorrei rimproverare a Tassaert, che è colorista,
di avere dipinto il torso con un tono troppo
uniforme»), Daumier, Courbet, Penguilly-L’Haridon (pittore di paesaggi e ufficiale d’artiglieria), Legros, Manet.
C’è anche Lorenzo Bartolini, allievo del Canova e amico di Ingres («A Parigi abbiamo il
diritto di diffidare delle glorie straniere (…).
Ma stavolta ci è stato davvero impossibile negare la nostra ammirazione a un artista» che
ha «gusto, nobiltà, grazia»). Una selezione
esaustiva di autori di cui Charles riesce a cogliere suoni e profumi.
Note, osservazioni rese in maniera discorsiva, colloquiale dove suggestione ed immaginazione giocano un ruolo preponderante. Come
la poesia, la pittura diventa quasi «un’invocazione, un’operazione magica», scriverà Ezio
Raimondi nell’introduzione agli Scritti sull’arte di Baudelaire pubblicati nel 1981 da Einaudi.
«Operazione magica» aiutata dalla droga e da
una vita dissoluta (rapporti con prostitute e
relativa sifilide, continue depressioni, due
tentativi di suicidio) che lo distruggeranno a
soli 46 anni.
Non si dimentichi che, diventato maggiorenne, Charles aveva scelto la vita del dandy e
quella dei letterati del Club des Hashischins, di
cui facevano parte anche Moreau, Gautier, de
Nerval, Balzac, Delacroix e Dumas-padre. E,
quindi, cercava i cosiddetti paradisi artificiali
(hashish, oppio e alcol) che, credeva, fossero
in grado di accelerare «il potere dell’immaginazione».
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di Michele Salvati
P
 Il saggio
Le bon
gouvernement
dello storico e
politologo
francese Pierre
Rosanvallon
(nella foto qui
sopra) è edito
da Seuil
(pagine 416,
e 22,50)
 Nato a Blois
nel 1948,
Rosanvallon è
autore di molti
libri che sono
stati tradotti
nel nostro
Paese. Tra di
essi: La
legittimità
democratica
(traduzione di
Filippo
Domenicali,
Rosenberg &
Sellier, 2015);
La società
dell’uguaglianza (traduzione
di Alessandro
Bresolin,
Castelvecchi,
2013);
Controdemocrazia
(traduzione di
Alessandro
Bresolin,
Castelvecchi,
2012)
ierre Rosanvallon è uno
dei massimi studiosi
della democrazia, di come questa forma di governo effettivamente funziona
nei più diversi Paesi e di come
potrebbe funzionare se i suoi
ideali di eguaglianza e di buon
governo fossero meglio approssimati nelle sue realizzazioni
concrete. Storico e sociologo,
soprattutto — ma con solide
conoscenze di scienza e filosofia politica e di economia —,
nell’ultimo quarto di secolo ha
dedicato al tema cinque grossi
volumi e numerosi saggi, in
buona misura tradotti in italiano. Per questo mi ha sorpreso
che il volume che chiude provvisoriamente il suo magnum
opus e ne riassume i risultati
principali non sia stato (ancora?) tradotto e soprattutto ampiamente recensito e utilizzato
negli innumerevoli dibattiti
che si sono svolti nel nostro Paese a proposito della riforma
costituzionale. Di che cosa si
dibatteva, in fondo, se non di
come migliorare la nostra democrazia, di come renderla più
capace di un buon governo e
più idonea a garantire una
maggiore partecipazione dei
cittadini alle decisioni collettive che li riguardano? Insomma,
a promuovere un compromesso efficace tra rappresentanza e
governabilità?
Edito da Seuil, Le bon gouvernement («Il buon governo»)
comincia con un’analisi delle
forze che spingono oggi la decisione politica sempre più nelle
mani dei governi, rispetto a un
passato — ricostruito in modo
esemplare per le più importanti democrazie avanzate — in cui
era prevalente la convinzione
che il governo di un Paese dovesse discendere unicamente
dalle leggi che lo reggevano e
dai Parlamenti cui era affidato
il compito di farle: il governo, il
potere esecutivo, aveva il solo
compito di attuarle. Questa era
la visione normativa che discendeva da una concezione rigida della sovranità popolare e
Allegoria del Buon Governo (1338-1339), Parete di fondo della Sala dei Nove, Palazzo Pubblico, Siena (particolare)
del Parlamento come suo unico
detentore. In realtà anche nel
passato non era mai stato così
e, soprattutto nei casi inglesi e
americano, il governo era cosa
assai diversa da un meccanico
esecutore delle leggi votate dal
Parlamento.
La reazione contro una visione ideologica che così poco si
accordava con i fatti non tardò
però a farsi sentire e Rosanvallon la segue in un’affascinante
carrellata, in cui la storia e la
politica — la necessità di decisioni urgenti connesse soprattutto con le guerre e la crescente complessità dell’economia
— si mischiano con le teorie
dei grandi studiosi — dagli elitisti italiani a Max Weber, da
Carl Schmitt a John Stuart Mill
— e con le riflessioni di grandi
statisti, da François Guizot a
Winston Churchill. Quando si
arriva alle conclusioni normative finali il terreno è ben preparato: oggi il governo è il perno
della decisione politica e non
La tendenza
Le migliori democrazie
non monarchiche sono
oggi tutte presidenziali
di fatto o di diritto
può essere altrimenti e il Parlamento non può che svolgere un
ruolo di sostegno e di controllo.
Non desta dunque meraviglia che le migliori democrazie
odierne, a parte le monarchie
— di queste ne residuano ancora alcune —, siano tutte democrazie presidenziali, de iure o
de facto: quando sono democrazie parlamentari, e in Europa ce ne sono ancora molte, i
poteri del primo ministro sono
così rafforzati da quello che Rosanvallon chiama «parlamentarismo razionalizzato» (ad
esempio dalla possibilità del
governo di sciogliere il Parlamento, dalla sfiducia costruttiva, da percorsi privilegiati per
le leggi d’iniziativa governativa,
o da altri vincoli) da assomigliare molto ad un governo presidenziale. Le ragioni di questi
sviluppi, anche in Paesi che
provengono da tradizioni di
parlamentarismo puro, stanno
nella superiore efficacia decisionale di questa forma di governo, nell’erosione della capacità dei partiti di resistere alle
fluttuazione dell’opinione pubblica, nel fascino democratico
di un capo del governo scelto
dai cittadini.
Fin qui i fatti, la forza delle
cose. Ma come giustificare nor-
mativamente uno spostamento
di peso politico che potrebbe
condurre, e in taluni casi ha
condotto, a forme di governo
non democratiche? Tutta la
lunga seconda parte, quasi metà del libro, è dedicata ad una
discussione storica, teorica e
normativa e a proposte istituzionali dettagliate che intendono rispondere a questa domanda. E la conclusione è che la
scelta diretta del capo del governo, o di forme parlamentari
razionalizzate, dev’essere accolta non solo perché efficace e
inevitabile, ma perché è giusta
e conforme agli ideali di democrazia nelle attuali circostanze
…se accompagnata da robusti
anticorpi contro possibili degenerazioni.
Chi scrive trova l’analisi e le
conclusioni di Rosanvallon
molto convincenti. Il rafforzamento del governo e la razionalizzazione del Parlamento — il
vero obiettivo della riforma costituzionale appena bocciata
dai nostri concittadini — dovranno attendere tempi lunghi
e imprevedibili e nel frattempo
il nostro Paese dovrà confrontarsi con democrazie che funzionano meglio. Speriamo che
l’Italia riesca a cavarsela lo
stesso.
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«Bisogna saper perdere» di Filippo Maria Battaglia e Paolo Volterra (Bollati Boringhieri)
Parri e Umberto II uniti, ma solo nella ripicca
di Antonio Carioti
S
embra strano, ma nel 1945 il primo
leader a mostrarsi affetto dal vizio
italianissimo di non accettare la
sconfitta fu l’austero e rigoroso azionista
Ferruccio Parri. Quando il suo effimero
governo venne silurato dai liberali e dalla
Dc, con l’avallo sostanziale dei comunisti,
il coraggioso capo partigiano gridò addirittura al «colpo di Stato», mentre si trattava solo dell’esaurimento di un equilibrio politico transitorio.
Quello di Parri è il primo dei casi esaminati da Filippo Maria Battaglia e Paolo Volterra nel libro Bisogna saper perdere (Bollati Boringhieri), una rassegna impietosa,
ma per altri versi divertente, del modo poco sportivo e cavalleresco in cui di solito i
politici italiani accolgono gli eventi sfavorevoli. Mentre all’estero chi viene battuto
sgombra il campo, di solito per sempre,
senza fare troppe storie, nel nostro Paese,
illustrano i due autori, è tutto un fiorire di
recriminazioni, ripicche, tentativi (spesso
riusciti) di tornare in sella.
Basti pensare al democristiano Amintore Fanfani, più volte affondato dal suo
stesso partito e regolarmente riemerso.
Oppure agli sfoghi amari di tanti esponenti della sinistra (Bettino Craxi, Achille
Occhetto, Massimo D’Alema, Pier Luigi
Bersani) dopo che la sorte aveva girato loro le spalle. O ancora a Silvio Berlusconi,
del quale Battaglia e Volterra, con notevole perfidia, presentano una fittizia confessione «inedita»: un’autodifesa così enfatica da apparire a volte surreale, costruita
assemblando citazioni raccolte da discor-
Il libro
 Bisogna
saper perdere
di Filippo Maria
Battaglia e
Paolo Volterra
(Bollati
Boringhieri,
pp. 163, e 12)
si e interviste del leader di Forza Italia.
Il difetto non riguarda solo gli uomini
di partito, visto che il re Umberto II nel
1946 rifiutò di accettare l’esito referendario avverso. E nel 1954 perfino Alcide De
Gasperi, nel suo ultimo discorso alla Camera dopo gli smacchi subiti l’anno precedente, inveì contro la «miseria parlamentare» cui gli era dato di assistere. Diverso l’atteggiamento di Palmiro Togliatti,
che accolse senza drammi la disfatta del
1948. Ma solo perché sapeva bene, suggeriscono Battaglia e Volterra, che la situazione internazionale era tale da non consentirgli di vincere, mentre la conquista
del primato a sinistra sui socialisti, consacrata dal voto del 18 aprile, gli avrebbe
permesso di costruire a vantaggio del Pci
«una fruttuosa rendita politica».
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