HAPPENING Roma ospita le Maccabiadi ovvero le Olimpiadi
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HAPPENING Roma ospita le Maccabiadi ovvero le Olimpiadi
I giochi dello Shalom A sinistra, le ragazze del volley in riscaldamento. Qui sotto, anche sul campo da calcio si festeggia la fondazione di Israele. In basso, allenamento di taekwondo. A fianco, la squadra di bowling si prepara per la sfida olimpica. HAPPENING Roma ospita le Maccabiadi ovvero le Olimpiadi ebraiche. Per dimostrare che la comunità è viva e sa divertirsi di Alessia Gallione Foto di Massimo Berruti ragazzi delle Maccabiadi si sono dati appuntamento dietro la sinagoga. Hanno preparato uno stand: il simbolo dei giochi - un uomo che corre verso il Colosseo - stampato su striscioni e volantini, un bussolotto di plastica per le offerte. «Forza, adottate un atleta: serve ad aiutare gli sportivi dei Paesi dell’Est a pagare la quota di iscrizione». C’è anche una cabina per chi vuole registrare un messaggio che diventerà un video. Si ferma Leone Paserman, il presidente della comunità romana. «L’Italia non è riuscita ad aggiudicarsi gli Europei di calcio, peccato. Però abbiamo le Olimpiadi: è un’occasione unica per tutta la città», dice orgoglioso alla telecamera. Le chiama proprio così: Olimpiadi. E non sta sbagliando. Perché è questo che sono le Maccabiadi, i Giochi ebraici che, per la prima volta, saranno ospitati in Italia dal 4 al 12 luglio. A Roma: la più antica comunità della diaspora. Al ghetto, stasera, è festa. Si celebra l’anniversario della fondazione dello Stato di Israele. Ma anche quello che tutti, qui, definiscono «il più grande evento ebraico mai organizzato in Italia»: otto giorni, 2.500 tra atleti e delegazioni in arrivo da 30 Paesi, pronti ad affrontarsi in 16 discipline sportive. Gare e medaglie, ma anche un’occasione per conoscersi, pregare, mangiare. Insieme. Millenni dopo l’era dei faraoni. «Perché la prima corsa», scherzano, «è stata la fuga dall’Egitto». E a vincerla fu un popolo intero. Le Maccabiadi sono anche questo: la possibilità di unire l’Esodo e una manifestazione sportiva. Identità e spirito agonistico. Sono lo specchio della storia più recente, anche la più dolorosa. Praga, 1929. Agli atleti ebrei non è conces- I so partecipare alle manifestazioni sportive ufficiali. Per questo vengono organizzate le prime Maccabiadi. Che oggi si svolgono ogni quattro anni in Israele in parallelo ad altri Giochi, quelli europei che vengono ospitati a turno - sempre ogni quattro anni -, in diversi Paesi del continente: Marsiglia, Amsterdam, Glasgow, Anversa. E ora tocca a Roma. Un’edizione importante, la dodicesima. La più grande di sempre. Perché per la prima volta si sono iscritte anche nazioni extraeuropee. «È stata una gara nella gara», racconta il presidente dei Giochi, Vittorio Pavoncello. «Prima statunitensi, poi canadesi, argentini e infine gli australiani. Ma questa è la forza di Roma. Ecco perché vorremmo coinvolgere la città con una grande corsa che attraversi la capitale. E con manifestazioni culturali». Per otto giorni - il sabato però ci si ferma, per rispetto al giorno di riposo tradizionale: a ogni partecipante sarà consegnato anche uno speciale libro di preghiere - si affronteranno atleti non professionisti, divisi in tre categorie, dai 14 anni in su. Un vero happening. Anzi, «il miglior modo per dimostrare che quella ebraica è una comunità viva», spiega Claudia De Benedetti, gli occhi azzurri che si accendono ogni volta che parla di queste Olimpiadi speciali. Sempre in viaggio per partecipare a riunioni e manifestazioni in tutto il mondo, Claudia è anche una delle fondatrici del festival di cultura ebraica Oy, Oy, Oy!, che partirà venerdì a Casale Monferrato. Insieme alla fiaccola, come in ogni Olimpiade che si rispetti. Un ideale passaggio di testimone dalla Torino dei Giochi invernali dello scorso anno. Fino a Roma dove, seicento chilometri e 34 giorni dopo, entrerà allo stadio Nando Martellini, alle Terme di Caracalla, per la cerimonia di apertura ufficiale. «Nel 1977 partecipai alle Maccabiadi come atleta», ricorda Claudia. «Gareggiavo nel nuoto, ma fui coinvolta anche nella scherma senza aver mai impugnato un fioretto. Sembra incredibile, ma - grazie alle mie due compagne-conquistammo l’argento». A Roma si respira già l’atmosfera olimpica. Tanto che, quest’anno, anche il giorno dell’anniversario della fondazione di Israele è diventato un’occasione per vestire l’antico ghetto con i colori ufficiali della manifestazione: il rosso e il giallo. Ci si ritrova per le strade intorno al Portico d’Ottavia che, per una sera, vengono chiuse. Tra bancarelle, musica, giochi per i bambini e migliaia di persone. Per gli estranei è impossibile entrare: ogni accesso è presidiato dalla polizia e dagli uomini della sicurezza. Un quartiere blindato. Così come, necessariamente, dovranno essere le Maccabiadi. Anche se nessuno tra gli ebrei romani sembra più far caso ai Sarà l’edizione più grande: 2.500 partecipanti in arrivo da 30 Paesi e 16 discipline. Dall’atletica agli scacchi L’allenatore di basket, il rabbino Moshe Hacnun. In alto, Ludovica Di Cori: i compagni del tennis puntano su una sua vittoria. D 142 26 MAGGIO 2007 controlli, alle camionette, all’obbligo di mostrare il contenuto della borsa per entrare al tempio. «Perché ci si abitua anche a questo», ripetono. Da Roma a Milano, dove luoghi di culto e scuole sono perennemente sotto controllo e la presenza delle forze dell’ordine è diventata familiare. Uomini e donne divisi, i più piccoli entrano con le madri, le bandiere con la stella di David legate al collo. Al tramonto, la sinagoga è piena per la preghiera. Sono venuti tutti a sentire lo shofar, il corno rituale che, solitamente, viene utilizzato come strumento musicale soltanto durante il Capodanno ebraico e Kippur, il giorno dell’espiazione. Un suono antico, acuto, che si perde in un’altra musica, quella della festa in piazza. Tobia Zevi, il responsabile dei volontari, coordina i ragazzi: «Avete i moduli? Mi raccomando: cercate di coinvolge- Adesso però c’è soprattutto da pensare a quegli otto intensi giorni di luglio. Si deve organizzare ogni particolare. Compresi i 70mila pasti rigorosamente kasher, ovvero cucinati secondo le regole ebraiche. La stesura del menù è affidata a Giovanni Terracina, responsabile della ristorazione, che ha ereditato dalla madre la passione per il cibo. «A dieci anni ero attaccato alle sue gonne per scoprire ogni segreto». Con lo stesso entusiasmo racconta di sapori e ingredienti tipici della cucina giudaico romanesca, ma anche del Mediterraneo e della tradizione askenazita. Piatti che si sono amalgamati con quelli dei Paesi più disparati attraverso i secoli. «Passeremo dal couscous alla stracotto, che le donne cucinavano in anticipo per rispettare il sabato. E poi falafel, l’humus, i biscotti del ghetto come dolci, i burik che sono panzerotti ripieni di carne e verdure...». La sfida sportiva è al centro di tutto. Gli atleti non sono professionisti, ma la voglia di vincere è tanta. I partecipanti sono appassionati che spesso, però, hanno militato a livelli molti alti. Come Manuela Ascoli, 32 anni, una laurea in Chi- «Uniremo sport ed ebraismo: è l’occasione migliore per dimostrare che quella italiana è una comunità viva» Flaminia, una delle ragazze della squadra di volley. A sinistra, il giocatore di basket Emanuele Braha. re tanta gente». A fine serata saranno 400 le firme di possibili candidati. A luglio ne serviranno almeno 500 per occuparsi di tutto: dall’accompagnamento degli atleti alle traduzioni fino alla presenza sui campi da gioco. «Ci sarà da lavorare», ammette Tobia, «ma la vera sfida sarà coniugare l’impegno con le straordinarie opportunità di conoscenza. Quello che ci interessa, poi, è allargare questa esperienza oltre i confini della comunità, farne un’occasione di dialogo tra le religioni». Tra chi ha già aderito: enti di promozione sportiva, il mondo cattolico delle Acli, associazioni laiche internazionali, il Comune che ha messo a disposizione il registro del volontariato, una scuola della capitale. Parlano di dialogo tra fedi diverse, gli organizzatori. E il simbolo di questa volontà di apertura potrebbe offrirlo lo stesso luogo dove si svolgerà la maggior parte delle gare e dove verrà costruito il villaggio olimpico con tanto di mensa e discoteca. L’Acqua Acetosa è il centro di preparazione olimpica del Coni: campi da calcio e da rugby, piscine, palestre. E poi, all’improvviso lo vedi, oltre il verde: è il minareto della grande moschea. È qui che, poco più di un anno fa, si incontrarono il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni e il segretario del Centro culturale islamico, Abdellah Redouane. Ebrei e musulmani. “Shalom”. “Salam”. D 144 mica, i capelli corti e un fisico minuto. Vista così non si direbbe mai, ma ha vinto la medaglia d’oro per il triathlon. «È stata una sorpresa incredibile: l’Italia non conquistava il gradino più alto del podio da 20 anni». La sua storia è quella di molti altri che parteciperanno alle Maccabiadi. Persone normali, che per lo sport sono disposte a fare sacrifici: «Lavoro in farmacia e per potermi allenare 3 o 4 ore al giorno faccio i turni di notte». Ci si sfiderà in discipline tradizionali come l’atletica, il calcio, il tennis, la pallacanestro, ma anche scacchi e bowling, bridge e golf. La delegazione italiana è stata formata: 250 tra atleti, preparatori, medici. Arrivano da Roma, Milano, Livor- 26 MAGGIO 2007 no, Torino. Oggi è giorno di allenamenti e la tabella di marcia è impegnativa. All’una si incontra la squadra del tennis. Una delle più forti è anche la più piccola: Ludovica Di Cori ha 16 anni ed è cresciuta con la racchetta in mano. Seguita passo dopo passo dal nonno. «Mi alleno tutti i giorni», dice lei. «Ce la stiamo mettendo tutta», continua lui parlando sempre al plurale. Anche Attilio Lattes confessa di dedicare molto tempo alla preparazione: «Gioco tre volte alla settimana, altri due giorni sono in palestra. Se riuscissi a passare il primo turno sarebbe una vittoria». Ha 65 anni e, prima della pensione aveva un negozio di abbigliamento. L’ebraismo, Attilio, l’ha riscoperto pochi anni fa. Insieme alle radici della sua famiglia. «Pensi, ho imparato l’ebraico a 55 anni». Adesso è un membro attivo della comunità. Dall’altra parte della città, alle quattro, i giocatori di basket scendono in campo con le casacche azzurre. I colori italiani. «È lo spirito delle Maccabiadi: sul campo appartengono al loro Paese; fuori sono tutti ebrei», spiega Angelo, il responsabile del settore pallacanestro. Impossibile non notare Moshe Hacnun, al centro del parquet, la kippah in testa, gli occhiali, un’espressione rassicurante, impartisce indicazioni in italiano, ebraico e ingle- La sconfitta di Londra A Londra, racconta, avevano già stampato le brochure con il loro logo: credevano di avere la vittoria in tasca. Ma se la candidatura dell’Inghilterra era così forte, come ha fatto Roma ad aggiudicarsi le Maccabiadi? Vittorio Pavoncello sorride. Poi rivela. «È stata una questione di alleanze. Sì, direi che l’abbiamo scippata agli inglesi». Il presidente dei Giochi europei ricorda le trattative. «Nel 2004 si è svolto a Roma il convegno europeo del Maccabi e il primo a suggerirci di tentare è stato il sindaco Walter Veltroni. Londra, Mosca e Barcellona erano avvantaggiate. Dalla nostra avevamo la storia di Roma e quella della comunità ebraica, che da duemila anni fa parte integrante della città». La battaglia non è stata facile. «Il Maccabi è un’associazione sportiva presente in 5 continenti, oltre 50 Paesi e conta circa 400mila iscritti. A decidere la candidatura, però, è una rosa ristretta di membri. Pazientemente sono riuscito a convincere Germania, Turchia e Israele e ho capito che era fatta». D 146 se. È l’allenatore e arriva da Israele, dove ha giocato come professionista «prima di rompermi un ginocchio, a 22 anni». Poi, dieci anni fa, l’incontro con la donna che è diventata sua moglie, l’arrivo in Italia e la decisione di diventare rabbino. Senza mai perdere di vista il canestro. A Roma, rav Moshe ha organizzato una scuola di basket: un campo, 11 squadre e 110 allievi. Poco lontano, inizia il riscaldamento delle ragazze del volley, maglietta rosa del Maccabi, un avvocato come mister e tanta voglia di esserci. E l’antisemitismo che contagia, spesso, anche lo sport? Quanto servirà questo appuntamento per infrangere i pregiudizi? Roberto Di Porto è seduto sulle tribune, tra i genitori delle atlete. «Sono accompagnatore delle squadre di calcio, anche quelle formate da bambini, e ogni settimana accade qualcosa. Spesso è solo una parola di troppo, ma fa male. Non è facile, però tutto può servire». Cos’hanno di speciale le Maccabiadi? «Basta parlarne», dice il responsabile del team Italia, «e mi viene la pelle d’oca. Ho partecipato a sette edizioni come atleta: in Israele sembra di partecipare a vere Olimpiadi. E poi c’è l’aspetto religioso, la voglia di stare insieme, gli incontri con persone che parlano venti lingue diverse». A volte arriva anche l’amore. «Ad Anversa, era l’83, la cugina di mia moglie ha conosciuto il suo futuro marito...». E il racconto ricomincia. Pensando a quella prima vittoria. I ragazzi delle Maccabiadi l’hanno voluta sintetizzare con un’immagine. Le piramidi: piccole, stilizzate, lontane. E gli “atleti” guidati da Mosè. Che corrono verso la fine della schiavitù. (Foto dell’agenzia Grazia Neri) Un’immagine della festa per l’indipendenza di Israele nell’antico ghetto di Roma. In alto: un allenamento della squadra di tennis. 26 MAGGIO 2007