I racconti della miniera

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I racconti della miniera
I RACCONTI
DELLA
MINIERA
A cura di Elena Imbergamo e Claudia Tesei
I
UN’AVVENTURA INASPETTATA
DI MARCO IMPIGLIA 1 E
Era buio. Franco, la guida, ci stava illustrando alcune vie di fuga che venivano usate dai minatori per uscire fuori dalla montagna:
quello che raccontava non era una storia inventata per suggestionare
i turisti, ma quello che aveva vissuto alcuni anni prima quando lavorava come minatore tra quelle rocce color rossiccio. Aveva fatto questo lavoro per trentasei anni e quindi sapeva bene ciò che si provava a
rimanere sotto terra per più di dieci ore al giorno e, in alcuni giorni
dell’anno, lui e i suoi compagni di miniera non vedevano mai la luce
poiché entravano a lavorare all’alba e uscivano nel tardo pomeriggio
quando il sole era già tramontato.
In quel momento mi è venuta in mente una domanda per
Franco: “Ti è mai capitato, quando lavoravi, di rimanere bloccato
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dentro?” “Purtroppo sì, – mi ha risposto con una voce malinconica –
sono rimasto intrappolato nella miniera per ventiquattro giorni e la
sensazione più brutta che ho provato è stata quella dell’assoluto
silenzio e del buio totale: quando finalmente mi hanno fatto uscire e
ho visto la luce, ho provato una gioia e un senso di libertà indescrivibili”.
Alla fine della sua commovente testimonianza, in segno di rispetto e solidarietà nei confronti dei suoi molti amici scomparsi sotto
la montagna, abbiamo dedicato loro un grande applauso e ci siamo
lentamente recati verso l’uscita della caverna.
Avevamo conosciuto la nostra guida qualche ora prima: era un
anziano signore, con grandi occhi celesti che catturavano i nostri
sguardi attenti e incuriositi, la pelle del viso e delle mani rovinata dal
duro lavoro in miniera e una voce profonda e roca, causata dalle
polveri tossiche e dai fumi dei processi chimici per l’estrazione del
mercurio respirati in miniera e che Franco, scherzando, chiamava
“raffreddore del minatore”.
Ci aveva illustrato gli strumenti che fino a cinquanta anni prima si usavano in miniera, ovviamente uniti alla fatica e al sudore di
chi ci lavorava. Ogni tanto, nel parlare, si commuoveva e, lo ammetto,
aveva contagiato anche noi ragazzi. Nei cunicoli bui ho cercato di
immedesimarmi nell’anziana guida e pensavo dentro di me che Franco e i suoi amici svolgevano, ogni giorno, quel lavoro massacrante
aiutati solamente da un piccone e da una piccola lanterna. All’epoca,
però, avere un lavoro era importante anche se la paga non era molto
alta.
Ritornando verso la luce, l’ex minatore ci ha informato di alcune usanze caratteristiche dei lavoratori della montagna come, per
esempio, l’uso del “Mao Mao”: un semplice strumento che emetteva
un suono che si distingueva da ogni altro rumore e serviva a richiamare l’attenzione dei minatori quando dovevano andare a parlare
con i loro capi.
All’improvviso, ho sentito dei rumori sopra la mia testa e sono
iniziati a cadere alcuni frammenti di roccia dal soffitto; l’allarme ha
preso a suonare; cercavo negli sguardi dei miei amici e delle professoresse un po’ di conforto, avevamo tutti paura: in pochi secondi la
strada davanti a noi si era bloccata. Siamo rimasti in allerta non so
per quante ore perché nel buio e nella confusione avevamo perso la
cognizione del tempo. Fortunatamente la frana era vicina all’uscita e
per i soccorritori è stato abbastanza facile liberarci. Ogni piccolo
movimento veniva compiuto con la massima cautela perché poteva
cedere qualche roccia, per fortuna nessuno si era ferito grazie soprattutto alle sagge indicazioni di Franco.
In quelle poche ore passate rinchiusi nella montagna ho capito
veramente cosa volesse dire il signore che ci accompagnava quando
parlava dell’assoluto silenzio e del buio totale: due elementi che fanno
perdere ogni speranza di vita. Ho pensato, però, che Franco doveva
combattere senza tregua contro caldo, umidità e polveri non appena
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varcava l’entrata della miniera e lo faceva per mantenere la sua povera famiglia.
II
UN SOGNO IN TASCA
DI MARTINA FEDELE 1H
Scansai un altro fungo… era incredibile la presenza di così tanti funghi in quella sperduta miniera in disuso. Ero circondata da assi
di legno marce di umidità con la misera compagnia di qualche rotaia
sconnessa. La polvere mi fece starnutire e un po’ di quella strana
sostanza biancastra che penzolava dal soffitto mi piombò in testa.
Facendomi strada con la luce del telefono, mi chiesi come avessi fatto
a non vedere quella buca.
Fino a poche ore prima trascorrevo una giornata come le altre
ad Abbadia S. Salvatore con i miei amici. Avevamo deciso di fare un
salto nel passato e di iniziare a giocare a nascondino. Io, come al
solito, ero determinata a non farmi trovare, a tutti i costi. Mi ero allontanata dal gruppo e avevo trovato un nascondiglio perfetto: una
grossa buca, abbastanza profonda da coprirmi tutta. Mi ero rannicchiata, rintanandomi tra la fitta boscaglia, quando un sasso era ceduto
sotto il mio peso ed io mi ero ritrovata a precipitare nel vuoto. Ero
atterrata sbattendo un ginocchio su qualcosa di liscio e duro e, rialzandomi, avevo iniziato ad esplorare la miniera in cui ero caduta.
Piegandomi per far leva sulle mani, avevo finalmente visto la causa
del mio enorme livido sul ginocchio. Era una pietra bellissima, grande
quanto il pugno di un neonato, che sfumava dall’azzurro ghiaccio al
viola scuro. L’avevo infilata in tasca, come portafortuna.
Strinsi le dita sulla sua fredda ma rassicurante superficie e
svoltai un angolo, rimproverandomi per la mia stupidità. Come avevo
potuto nascondermi in quella buca, senza sapere se avrebbe retto il
mio peso? Ormai non aveva più importanza. Persa nei miei pensieri,
mi dimenticai di fare attenzione a quella nuova galleria e andai a
sbattere contro una piccola leva sulla sinistra. Cercai di ricordare
qualcosa del museo che avevo visitato poco tempo prima con la scuola e ne ricordai il nome: i vecchi minatori le chiamavano” marmotte”.
Prima che potessi spostarmi e cambiare strada, la leva fece un “clic” e
si spostò di qualche centimetro. All’inizio non accadde nulla, ma poi
iniziai a sentire un cupo sferragliare in lontananza. Continuai a camminare, turbata dal rumore, quando un grosso vagone arrugginito mi
venne incontro a grande velocità. Non mi restò che saltarci dentro.
Presi posto all’interno del vagone, ma troppo tardi mi accorsi che si
dirigeva verso un dirupo. La velocità era troppo alta per saltare per-
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ciò chiusi gli occhi e aspettai di sentire quella dolorosa sensazione di
vuoto.
“Driiiin, Driiiiin!!!” fece la mia sveglia, accompagnata dal: “Svegliati tesoro!” della mamma. “Arrivo!”, esclamai di risposta.
Solo un sogno. Era stato tutto un sogno, ma potevo ancora sentire lo stridente rumore delle rotaie nelle orecchie. Mi misi a sedere
sulle lenzuola sudate del letto ma, nel farlo, qualcosa di duro e liscio
saltò giù e atterrò sul pavimento.
Era una pietra grande quanto il pugno di un neonato, che sfumava dall’azzurro ghiaccio al viola scuro.
III
ERA MIO PADRE
DI SARA LANZARONE 1I
Giulia urlava. Era circondata da pietre, insetti ed infiniti pericoli. Erano le sette di sera, il sole era calato o forse ancora no, lei non
lo sapeva: era immobile e pensierosa, totalmente avvolta dal buio
perché l’apertura da cui era entrata nella miniera di Abbadia San
Salvatore era impraticabile, completamente invasa da enormi massi
crollati dall’alto.
Giulia era una ragazza curiosa, affascinante, studiosa, determinata e molto sportiva. Era una giovane non molto accetta dai suoi
compagni di classe perché spesso derisa a causa della strana montatura di occhiali che indossava. Era rimasta orfana di padre molto
giovane, aveva solo sei anni quando la famiglia fu colpita dalla grave
perdita dell’uomo. La sua morte fu terribile: egli lavorava nelle miniere e, mentre scavava alla ricerca del cinabro, si staccò una roccia
dall’alto che lo colpì sulla testa. Il decesso fu immediato, ma la bambina non vide mai il cadavere del padre e di conseguenza non aveva mai
creduto a quella verità. Giulia era rimasta intrappolata mentre era
alla ricerca del padre nella miniera di Abbadia San Salvatore, ossia il
luogo dove la bambina lo aveva visto lavorare prima della scomparsa.
Impaurita e spaventata, nel buio attendeva i soccorsi. Insieme a lei vi
era solo Gianni, il suo migliore amico che aveva deciso di accompagnarla in quella avventura. I due si erano inoltrati nella miniera in
serata, non vi erano quindi adulti poiché i minatori avevano terminato di lavorare. Giulia piangeva disperatamente senza interrompersi
neanche un secondo. Fortunatamente il giovane che era al suo fianco
mantenne la calma, cercò di non provare panico e di trasmettere la
sua freddezza a Giulia rivolgendosi a lei con parole dolci.
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“Giulia, non piangere ci sono io con te, non aver paura, ce la faremo!!”, egli la incoraggiò.
“No, Gianni, mi sento male, volevo trovare mio papà ed invece
sto facendo morire anche te!”, singhiozzò lei.
“Giulia non dire queste cose, noi siamo vivi e aiutandoci a vicenda usciremo da questo inferno!”, disse egli tremando.
“E’ impossibile salvarsi, intorno a noi vi è il nulla: come usciamo?”, replicò Giulia.
“Fidati di me, fidati”, le sussurrò Gianni.
“Va bene mi fido, cercherò di rilassarmi”, rispose Giulia.
Gianni era un ragazzo con tanta fantasia, ma anche molta razionalità. Si sentiva invincibile e non voleva arrendersi a quella terribile realtà.
Mentre lentamente Giulia si tranquillizzava, egli rifletteva su
una possibile via di fuga. Quando stava per rinunciare, si ricordò di
avere nelle tasche un cellulare; non era molto moderno e dato che si
trovavano sotto terra non aveva campo, ma era un’importante fonte
luminosa. Appena lo accese i singhiozzi di Giulia si interruppero ed
egli riuscì a rivedere la meravigliosa ragazza. Ora che vedevano avevano più possibilità di sopravvivere. Gianni cercò subito un oggetto
appuntito con il quale si potesse scavare un buco nelle rocce e creare
un’uscita. Dopo qualche minuto di ricerca, trovò un piccone ed insieme a Giulia iniziò a colpire le rocce. Alternandosi, i due colpirono
rispettivamente la parete, ma era troppo dura, non si sbriciolava
nemmeno una piccola parte. Alla fine però, dopo ore di lavoro struggente, grazie soprattutto alla forza di Gianni, i due crearono una fessura tale da permettere loro di raggiungere l’esterno. I giovani, essendo magri e non molto alti, riuscirono a passare attraverso quel
buchetto ed a uscire. Erano affamati, assetati e pieni di graffi sanguinanti, ma erano salvi!
“Siamo vivi Gianni!!”, esclamò Giulia.
“Sì, ci siamo riusciti!”, rispose il ragazzo.
Tra le lacrime di gioia, i sorrisi, la felicità e l’allegria, Giulia e
Gianni si abbracciarono. Appena le braccia della giovane circondarono il corpo del ragazzo, egli non parlò più; stava cambiando qualcosa:
cosa stava succedendo? Gianni si trasformò, il suo viso giovane divenne il volto di un adulto, le gambe e le braccia si allungarono, i
capelli cambiarono colore e divennero brizzolati. Non era più il ragazzo che aveva aiutato Giulia a fuggire dalla miniera di Abbadia San
Salvatore, era un uomo grande. La ragazza era terrorizzata, ma quando lo guardò negli occhi, lo riconobbe: era l’uomo che l’aveva accudita
per sei anni…..era il PAPA’!!
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IV
IL RUMORE DELLA SPERANZA
DI ELENA COLLETTI I E
Un rombo assordante giunse alle orecchie del minatore.
L’uomo era abituato al rumore. Le sue orecchie ormai erano diventate
i suoi occhi in quel buio perenne. Paura, curiosità, speranza e inquietudine erano ormai emozioni passate, tutte sostituite dall’indifferenza
e dalla determinazione di continuare a vivere. A volte, quando quei
rombi perenni si facevano sentire, il minatore prigioniero dava sfogo
alla sua immaginazione. Immaginava la luce che inondava la miniera
e gli permetteva la vista dello stretto corridoio grigio e caldo. Man
mano che passava il tempo e che il rombo aumentava, nella testa del
pover’uomo riemersero i ricordi. Le immagini si fecero più vivide. Le
angosce si fecero risentire.
Il giorno in cui ci fu la frana ormai colmava la vista dell’uomo.
E insieme alle immagini tornarono anche i sentimenti e le sensazioni.
Quel giorno, i ventiquattro minatori erano sulle rotaie a spingere il carretto carico di cinabro. Una giornata piuttosto produttiva
per un casuale giorno di un freddo novembre del 1933. Il caldo aumentava e così anche la fatica, quando allo scricchiolio delle ruote si
aggiunse un rumorino proveniente dalle pareti. E aumentava, aumentava fino a diventare un vero e proprio frastuono. Un frastuono che
divenne ben presto una massa di roccia sgretolata in enormi massi
pesanti. I minatori dapprima, non sapendo la provenienza dello scricchiolio, rimasero in ascolto. In seguito si mossero, correndo a perdifiato lungo il corridoio buio, lasciando il carretto con il cinabro incustodito. Nessuno seppe per quanto tempo corsero: forse un minuto,
forse un’ora. Ciò che si sa è che nessuno in quella corsa perse la speranza di vivere ancora.
Quando quel correre ebbe fine, tutti e ventiquattro i minatori
si riunirono. Si contarono e si assegnarono un numero. Sapevano tutti
quanti che presto sarebbe venuto il buio perenne e finché la candela
bruciava nessun attimo andava sprecato.
Il capo spedizione elencò le procedure da svolgere una volta
persa la visibilità e annunciò i divieti. Nessuno ebbe obiezioni. Nessuno commentò. Nessuno diede sfogo alle emozioni. Tutti restarono in
silenzio durante la spiegazione ascoltando attentamente.
Poi venne il buio perenne.
Un buio che persisteva da forse un minuto, forse un’ora, forse
un giorno, forse un anno.
Un buio nel quale c’era un rombo assordante e un minatore
che lo ascoltava rivivendo gli attimi più angoscianti della sua vita.
Poi ci fu una mano e un colpo.
“Numero!” giunse la voce proprietaria di quella mano. Il minatore si svegliò dai suoi sogni.
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“Quindici. Tu?” rispose.
“Ah quindici sei tu! Io ventuno”, disse l’altro minatore.
“Ventuno, per quale motivo di questo mondo stai tastando il
territorio? Ci sono forse delle comunicazioni?”, chiese il primo.
“Non ufficiali - fu la risposta. - Gli altri stanno indagando, pare
che sia stato introdotto un dispositivo nel tubo comunicatore”, proseguì.
“Potrebbe essere dell’esplosivo!”, disse spaventato il minatore
quindici.
“Si spera di no, ma si vedrà”, disse infine il minatore ventuno.
Si udì uno spostamento veloce e poi di nuovo il silenzio colmato dal rombo.
Come un bimbo svegliato nel pieno della notte che non riesce a
riaddormentarsi, così i pensieri e i ricordi del minatore ripresero il
sopravvento.
Passarono circa due ore, quando il rumore iniziò a far vibrare
tutta la roccia. Ovviamente era più forte, ma si codificava più come un
ronzio che come un frastuono. Tutti i minatori iniziarono ad andare
nel panico e presero a respirare affannosamente, appesantendo l’aria
e l’ambiente.
Un ronzio.
Un ronzio più forte, sempre più forte, sempre più forte.
Non finiva più. Non terminava di vibrare più.
Era infinito.
Quando si fermò ci fu il silenzio.
Silenzio.
Silenzio.
Angoscia.
Terrore.
Il minatore era in attesa di un esplosivo o di un rumore successivo. Nessuno osò aprire bocca, neanche per respirare. Regnava il
silenzio.
Si udirono dei colpi di piccone. Uno, due…
Ci fu il rumore della pietra che si rompeva e del piccone che
avanzava.
Uno due, uno due. Il suono del piccone era regolare.
Passò un’infinità. Il fiato dei minatori era mozzato.
Poi un ultimo colpo. E di nuovo il silenzio.
L’angoscia regnava nuovamente e il minatore tremava dalla
paura e dal terrore di ciò che stava per accadere.
Quando poi saettò un proiettile nell’aria e si schiantò sul petto
di un minatore.
Questo però non rimase ferito. Il proiettile aveva lasciato una
scia.
Tutti si avvicinarono incuriositi alla vittima e osservarono.
Ci furono alcuni attimi di silenzio e tensione, poi compresero.
Luce.
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V
BUIO
DI SILVIA GANGERI I D
Buio. Francesca faceva scorrere la mano sulla mia schiena per
farmi paura. Avevo paura. Riuscivo a capire cosa poteva provare un
minatore. Per qualche secondo chiusi gli occhi e non vidi alcuna differenza rispetto al buio che mi circondava. Quella mattina ero stanca.
Non ero riuscita a dormire e gli occhi mi bruciavano e si chiudevano.
Già entrando nel museo volevo uscire all’aria aperta, ma entrando in
miniera non riuscivo a non sbadigliare. Solo Francesca mi faceva
ridere un po’. I nostri caschetti bianchi e gialli avevano una lucina
debole che illuminava poco l'ambiente. Le pareti erano nere e sorrette da alcune travi di legno. Ogni tanto vedevo dei manichini che imitavano il lavoro dei minatori. Non capivo che cosa di quel luogo potesse interessare alle persone.
L'uomo che ci accompagnava nella miniera decise di fermarsi.
Era un anziano che aveva non poca difficoltà a parlare, non troppo
alto e stempiato solo in parte. Suo padre era morto in miniera e lui
era rimasto chiuso ventiquattro giorni in quella stessa miniera. Il
punto in cui ci fermammo era uno come tanti. E quel signore, quasi
con le lacrime agli occhi, ci disse con voce rauca di spegnere i caschi.
Spenta l'ultima luce, tutto era nero, nero come non lo avevo mai visto.
Tutti tacevano e nessuno si azzardava quasi a respirare. Entrammo in
un mondo surreale in cui non si riusciva a vedere un braccio che si
muoveva. Un buio sordo. Quando la guida parlò, fu come uno squarcio
nel telo nero di velluto che ricopriva ogni cosa e riacquistai la speranza. Ci chiese di tenere gli occhi chiusi. Finalmente quel buio era più
chiaro. Rimanemmo fermi e Francesca si mise a ridere:- Be’? Paura?-.
-No. Mi credi così fifona?-. -Io so che sei così. Io provo solo pena-. Scusa?-. -Per quel poverino. Insomma ha vissuto in questo posto…-. Ma stava sempre con qualcuno e non credo che avesse degli amici
come te-. -In che senso "come me"?-. - Che provano a farti paura. -Però un po' di paura te l'ho fatta?-. -No-. -Ok, vado a sentire che dice
Ilaria. Spero di non inciampare-. -Ciao Francy!Provai a riflettere su quello che aveva detto Francesca. Su
quella sensazione terribile, che non riuscii a sopportare per più di un
minuto. Una lacrima scese sul mio viso e tutti dovevano aver aperto
gli occhi perché circa una ventina di risate si propagava per tutta la
miniera. Aprii gli occhi e il buio tornò e mi assordò e gli occhi che non
avrebbero più visto si asciugarono, perché tutte le lacrime che erano
contenute nelle mie orbite, erano state risucchiate da quel nero senza
fondo.
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VI
LIBERAZIONE
DI TOMMASO MEROLLA 1H
Sono le 17:30. Ho accompagnato l’ultimo gruppo di visitatori
all’uscita della miniera. Sto tornando indietro per controllare che
nessuno si trovi ancora all’interno prima di chiudere i cancelli. Mentre percorro le gallerie e gli stretti cunicoli penso che in questa miniera ho trascorso quasi tutta la mia vita.
Mi ritorna in mente il ricordo di quando entrai per la prima
volta in galleria. Avevo dodici anni e con me c’era Luigi, un amico,
quasi un fratello. Ci conoscevamo da piccolissimi poiché le nostre
case erano vicine. Più o meno coetanei, avevamo da sempre trascorso
ogni giornata insieme. Finite le elementari, eravamo andati a lavorare
in miniera. Non c’era altra scelta: o morire di fame oppure rinunciare
all’aria e al sole.
Avevamo faticato insieme per circa venti anni fino a quel maledetto giorno. Un’esplosione e la galleria era crollata. Luigi ed altri
compagni furono colpiti da terra e massi ed io, solo io, ero salvo e vivo
per miracolo. Per mesi, anni dopo l’incidente ho continuato a sentire
le loro grida di aiuto e ancora oggi il ricordo è così chiaro che sembra
ieri. Nonostante ciò, ho continuato a lavorare in miniera per anni e
anche adesso, che sono in pensione e che la miniera non produce più,
trascorro parte delle mie giornate in queste gallerie ad accompagnare
turisti e scolaresche.
Mentre seguo questi pensieri, un’ombra passa veloce davanti a
me. Sobbalzo dallo spavento. Illumino con la torcia la parete e noto
che è un topo più spaventato di me. Mi tranquillizzo, quando in lontananza vedo delle figure. Sono sorpreso e mi domando tra me e me
come possano trovarsi lì quelle persone. Sono circa una decina. Avanzano lentamente verso di me. C’è qualcosa di strano nella loro andatura: sembra che scivolino sul pavimento. Man mano che si avvicinano, riesco a notare che sono vestiti da minatori e che le loro mani e i
loro visi sono sporchi di polvere. Non riesco a muovermi né a parlare.
Il gruppo è ormai a pochi metri da me e riconosco tra di loro il mio
amico Luigi e con lui tutti i miei compagni.
Le mie labbra sono serrate, ma nella mia testa gli chiedo:” Sei
proprio tu? Siete voi? Cosa fate qui?” e Luigi, che mi legge nel pensiero, sembra dire: ” Sì, siamo proprio noi ”, e con la mano mi fa cenno di
seguirli mentre esclama: “Ti abbiamo aspettato tanto!”. Ed io sento le
sue parole non con le orecchie, ma direttamente dentro la mia testa.
All’improvviso avverto una forte fitta al petto, come una lama
che mi sta trafiggendo e contemporaneamente una mano che mi sta
strappando qualcosa da dentro. Vedo il mio corpo cadere e nello
stesso istante mi sento leggero e felice. Mi allontano insieme a Luigi
ed ai miei vecchi compagni.
Finalmente ho lasciato la miniera.
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