Arteterapia e tossicodipendenza

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Arteterapia e tossicodipendenza
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Arteterapia e tossicodipendenza
Lucia Minerbi
L’arteterapia con tossicodipendenti viene usata nella maggior parte dei casi nelle
Comunità Terapeutiche, come parte di un complesso programma di ricupero, i cui
obiettivi terapeutici sono limitati e ben definiti. Per questo motivo e per la complessità
del fenomeno tossicodipendenza, prima di entrare nello specifico dell’arteterapia
nella tossicodipendenza sarà necessario riprendere alcuni concetti generali.
Vorrei citare a Judith Rubin (1987), arteterapeuta e psicoanalista di formazione
freudiana che spiega come riesce a tenere separate le due pratiche professionali,
servendosi però delle teorie freudiane quando le ritiene adatte: “...le teorie di Freud
non riescono a spiegare tutta la ricchezza, il mistero e la bellezza del processo
creativo che è il cuore dell’arteterapia. ”E ancora: “..tutte le teorie sia di Freud sia di
Jung, sia della Gestalt, ecc., hanno una loro ragione di essere..”. Segnala anche che
tante idee teoriche non si possono mescolare se non con cautela e conclude
dicendo: “La cosa più probabile è che una teoria sull’arteterapia potrà emergere
dall’arteterapia stessa.”
I due termini, arte e terapia, sono stati usati con molteplici significati, ma, in un
contesto di arteterapia, per arte s’intende il disegnare come linguaggio altro dalla
parola, privilegiando il linguaggio visivo (colori, forme e segni) attraverso il quale
comunicare. Per terapia, invece, s’intende un processo che dovrebbe facilitare
cambiamenti tali da ristabilire un certo equilibrio psicologico.
Dietro il fenomeno della tossicodipendenza ci sono patologie diverse, ma la difficoltà
di percepire le proprie emozioni e l’uso della parola come difesa sono comuni a
quasi tutti i soggetti.
Arteterapia troverà un modo di avvicinarsi alle proprie emozioni attraverso una lenta
sperimentazione, per poi confrontarsi con un disegno, oggetto tangibile, attraverso il
quale ristabilire un dialogo con aspetti autentici di se stesso. Poiché l’essenza
dell’arteterapia è insita nella creazione di immagini, tradurre emozioni, esperienze o
ricordi in un linguaggio visivo può essere, per un tossicodipendente, un modo di
comunicare molto più efficace e meno minaccioso della parola. In questo modo,
l’esperienza del laboratorio può ridare un senso di autocontrollo e padronanza,
introducendo in una situazione di dipendenza dalle sostanze, una possibilità di scelta
autonoma non condizionata dall’assuefazione. La produzione di immagini diventa
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anche un canale attraverso il quale il tossicodipendente può liberare emozioni e
affetti condividendoli con un gruppo senza giudizi né valutazioni di tipo etico o
estetico, grazie al processo creativo.
Benedetti e Peciccia (1987) hanno studiato
l’effetto delle immagini in psicoterapia,
proponendo una serie d’idee teoriche molto pertinenti per pazienti tossicodipendenti.
Benedetti spiega che, in alcuni pazienti, le strutture di difesa del carattere si trovano
in una zona mentale situata tra il linguaggio e le emozioni. Queste strutture difensive
vengono scavate grazie alla possibilità che ha il paziente, attraverso arteterapia, di
accedere direttamente all’immagine, il cui investimento libidico e la cui dinamica
d’esplicazione dissolvono le difese per così dire “dal basso”, evitando il confronto
verbale con il problema razionale. Partendo da quest’ipotesi, disegnare permette di
avvicinarsi a situazione regressive arcaiche e più tardi, grazie ad un’elaborazione
delle immagini disegnate, si porranno le basi per un nuovo inizio. Per mezzo del
disegno si può indurre un’evoluzione e forse giungere a una ricostruzione
successiva. Nella creazione di un’immagine è poi contenuto, come nel gioco, un
agire per tentativi, in cui il gesto spontaneo dosa e, configurandolo, interpreta il
grado e l’esigenza della realtà fantasmatica stessa. In questo modo il confronto con
la tematica razionale dolorosa è come rimandato al momento in cui l’Io sarà
sufficientemente alimentato e rinforzato.
Benedetti dice anche che arteterapia è, in fondo, una terapia di proiezione, nella
quale però la proiezione attraverso l’immagine testimonia che il paziente esprime
qualcosa che lo pervade totalmente. Una volta esternato, quello che lo pervadeva
rimane “fuori” e si lascia contemplare dall’esterno. E’ accessibile anche senza
parole, tanto per il paziente quanto per il terapeuta, e può essere visto
contemporaneamente nella sua interezza da entrambi, in un solo colpo d’occhio. Là
dove prima c’era un’identificazione con l’insieme di un’identità intrapsichica
ammalata, si è stabilito uno spazio tra dentro e fuori. Questa proiezione, che dà al
paziente uno spazio nel mondo, permette la localizzazione dell’emozione espressa.
Così, per esempio, la depressione viene rappresentata dal paziente come una
pozzanghera d’acqua sporca e scura che ha dei limiti. Il colore permette di
distinguere i contorni di qualcosa che è amorfo. La linea confusa indica lo
straripamento del contenuto ma esprime ugualmente un certo limite. La
localizzazione indica anche una limitazione: il persecutore invisibile nello spazio
intrapsichico, che con una mano da fantasma vuole acchiappare il paziente è ora
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fissato dalla mano stessa del paziente che tiene la matita. Fissare, oggettivare,
limitare sono attività dell’IO. In questo modo le difese acquistano un significato
positivo, là dove prima non c’era che la passività di chi é in preda alla sofferenza.
Proiezione, localizzazione, delimitazione, difese servono a significare che ciò che era
diffuso, che era percepito come un’angoscia o una depressione si è trasformato per
il paziente in una cosa più tangibile.
Tossicodipendenza e comunità
Olivenstein, Direttore nell’Ospedale Marmottan di Parigi, ha segnalato più volte che
ogni tossicodipendente, nel mondo occidentale, ha alle spalle problemi specifici e
originali che riguardano l’inizio e la fine dell’adolescenza. Il tempo, ma anche lo
spazio vengono vissuti dall’adolescente in modo particolare. Aggiunge poi
(Olivenstein 1987) che la tossicodipendenza è il risultato di un incontro tra una
sostanza, una personalità e un momento socioculturale. Cercando di capire questi
rapporti specifici con il tempo e lo spazio si è potuta elaborare una nuova concezione
del tempo terapeutico e dello spazio terapeutico, per cui le istituzioni chiamate
terapeutiche diventano il luogo idoneo per prendersi cura del tossicodipendente.
Lo studioso americano Erik Erikson, già negli anni cinquanta aveva analizzato
i
problemi d’identità nell’adolescenza e in altri cicli della vita, lavorando in una delle
prime strutture terapeutiche nate negli USA alla fine degli anni cinquanta, che poi
presero il nome di Comunità Terapeutiche. Erikson (1959) afferma che, nella
maggior parte dei casi, il paziente che chiede di entrare in una C.T. lo fa cercando
quella che egli chiama una “moratoria”. Ha bisogno di mettere tra parentesi, per un
certo periodo, la crisi costituita dalla sua vita. Cerca protezione in una “cultura” che si
può considerare artificiale, ma al cui interno le esigenze sociali esistenti sono minori
e soprattutto diverse da quelle della vita comune. La nozione di moratoria psicosociale è stata descritta da Erikson nei seguenti termini: “...è un periodo durante il
quale la persona può sperimentare liberamente tutta una serie di ruoli possibili, può
finalmente trovare una nicchia sociale che sarà sufficientemente ben definita e dove
i limiti lo aiuteranno ad inquadrarsi nelle sue necessita specifiche. Nel momento in
cui il giovane adulto trova una nicchia, si rafforza in lui il senso di continuità interiore
e di stabilità sociale.
Queste acquisizioni gli serviranno come trait d’union tra quello che egli era quando
era bambino e quello che egli è sul punto di divenire, nello stesso tempo, lo
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aiuteranno a riconciliare il concetto che egli ha di se stesso con l’immagine che la
comunità ha di lui.”
Anche Emilio Rodriguè (1965), medico e psicoanalista, che lavorò nella medesima
comunità insieme ad Erikson, nel suo libro “Biografia de una Comunidad
Terapeutica” dice: “I giovani che entrano in una C.T. hanno bisogno di allontanarsi
dalla società. Con l’ingresso in un’altra società
impareranno a funzionare e, a
differenza dalle istituzioni totali (esercito, prigioni, sette, ecc.), la comunità fornirà
loro un alimento sociale benefico dato da un sistema di regole (garanzie e
responsabilità di gruppo) che saranno stabili e non contraddittorie.”
Partendo da quest’ipotesi di “moratoria psico- sociale”, i giovani che entrano in una
struttura terapeutica si trovano in qualche modo a “depositare” la propria identità, il
proprio IO, nell’istituzione che li accoglie. Quest’approccio diventa molto importante
per l’arteterapeuta. D’altra parte la scelta
non è soltanto quello di essere aiutati a
riorganizzare un IO frammentato e confuso, ma anche – nel caso del
tossicodipendente – di ricuperare (ricordando a questo proposito l’utilità dei
laboratori d’espressione corporea) un corpo negato e usato in modo autodistruttivo.
Non dimentichiamo che il lungo contatto con la droga ha in qualche modo negato la
possibilità
di
una
crescita
normale,
nascondendo
tutte
le
problematiche
adolescenziali: riconoscere i limiti della realtà, accettare l’impossibilità di vedere la
realizzazione immediata dei propri desideri e progettare un ideale possibile. (Zucca
Alessandrelli C. 1989).L’adolescenza dovrebbe essere il lungo e sofferto percorso
che pone termine all’onnipotenza infantile. Ciò non può avvenire nel caso dei giovani
tossicodipendenti, che invece rafforzano la loro struttura infantile attraverso l’uso di
sostanze. Ci troviamo di fronte a giovani che hanno un IO fragile in certi campi, ma
intatto in altri (percezione della realtà, pensiero logico, ecc.). La comunità sarà
dunque il luogo dove potranno provare a diventare autonomi e responsabili per
avviarsi a una vita più adulta.
Si può dire che il “luogo” diventa l’anello più forte
teorizzata da Olivenstein,
della
“catena terapeutica”
e in quest’anello per lo più s’inserisce il gruppo di
arteterapia.
Attualmente in Italia esistono vari luoghi terapeutici per aiutare i tossicodipendenti.
Dai Servizi Ambulatoriali per la Tossicodipendenza (SerT) inseriti dentro le ASL, alle
Comunità residenziali, ai Centri diurni e ai Centri crisi, sia pubblici sia privati. In
genere, in queste strutture si propone un discorso comune, ma diverso per obiettivi
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terapeutici e tempi di percorso. In certi casi l’intervento ambulatoriale del SerT potrà
aiutare a definire ulteriori interventi. Per alcuni soggetti sarà proposto un Centro crisi
o una Comunità residenziale, per altri un Centro diurno. Queste strutture
generalmente offrono un intervento educativo e terapeutico nell’ambito di un
progetto complessivo
il cui
elemento di base è la vita comunitaria,
ossia
l’esperienza della vita di gruppo. Le diverse azioni educative e terapeutiche sono
guidate per lo più da una visuale teorica di tipo psicodinamico e relazionale.
I progetti per ogni soggetto, sebbene inseriti nel contesto di gruppo, sono individuali
e sottoposti a una continua verifica e ripuntualizzazione degli obiettivi. È utile
osservare che negli ultimi vent’anni sul
mercato della droga sono state introdotte
sempre nuove e più potenti sostanze e anche i luoghi e il modo di uso sono
totalmente cambiati. Questo fenomeno
è eloquente circa la
necessita
di una
ricerca permanente per aggiornare le strutture terapeutiche e cosi seguire il più
possibile i mutevoli momenti sociali, i continui cambiamenti dei tipi di sostanza e
delle modalità di assunzione. L’arteterapeuta dovrà adattare il suo intervento alle
linee generali impostate dalla struttura in cui si trova a lavorare. In quei gruppi dove
gli obiettivi e i tempi terapeutici non sono
l’arteterapeuta
uguali per tutti i partecipanti,
dovrà affrontare sia le dinamiche di gruppo che le situazioni
individuali.
Processo Terapeutico e la sua cornice
I giovani che entrano in una struttura terapeutica accettano di partecipare a tutte le
attività del progetto, per il tempo ritenuto necessario per ognuno. Le difficoltà che
nascono in un laboratorio saranno affrontate all’interno del medesimo e, nel caso del
laboratorio di arteterapia, i disegni saranno conservati nel laboratorio stesso, come
testimonianza di un percorso. Tuttavia sarà opportuno che la comunicazione tra
l’arteterapeuta e i responsabili della struttura sia permanente. In linea di massima i
gruppi della durata di due ore, si svolgono una o due volte alla settimana. A
disposizione degli utenti c’è una varietà di materiali artistici di buona qualità. Ogni
utente ha una cartellina in cui tenere i suoi disegni, attraverso i quali, in qualunque
momento, può rivedere il proprio percorso sia durante la sua permanenza nella
struttura sia nel momento della chiusura finale.
L’obiettivo fondamentale dell’incontro tra pazienti e arteterapeuta è la ricerca del
potenziale nascosto di creatività propria di ogni soggetto (Winnicott, D. 1971);
questa capacità assopita va riportata alla sua funzione originaria, attraverso un
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opportuno lavoro espressivo- creativo. L’arteterapeuta potrà offrire ai pazienti la sua
disponibilità, non solo emotiva, ma anche relativa al
“saper
fare”, date le sue
conoscenze artistiche e tecniche dei materiali. Facilitando l’espressione creativa dei
pazienti, si entra in
comunicazione anche a livelli profondi, perché l’oggetto-
immagine che essi realizzano è un’oggettivazione plastica ossia concreta di parti
significative della loro realtà psichica, dei loro bisogni insoddisfatti di dipendenza o
dei loro bisogni di emancipazione, autentici o falsi che siano.
L’attività viene strutturata in quattro tempi, caratterizzata da un’estrema flessibilità al
loro interno:
1. Un momento iniziale di presa di contatto, in cui l’arteterapeuta può sentire il polso
del gruppo, ma anche percepire i problemi individuali. Lo stile di conduzione del
laboratorio non è di tipo direttivo, salvo che le circostanze lo richiedano. Questo
significa che l’arteterapeuta si può trovare
di volta in volta di fronte a situazioni
totalmente diverse, per cui dovrà tenere sempre presente alcune strategie operative
per facilitare la libertà espressiva o far fronte alle difese dei pazienti, che si possono
tradurre in atteggiamenti di svogliatezza e rigidità (Corti Lucia, 1987). Tali strategie
verranno scelte a seconda delle circostanze. Nei momenti di difficoltà, dovuti a nuovi
inserimenti o abbandoni del programma, l’arteterapeuta può proporre al gruppo la
ricerca di un tema di comune interesse offrendo
spazi fluidi, ma anche di
contenimento.
2. Il momento di avvio tiene conto di quanto sopra. A volte il ruolo dell’arteterapeuta
può essere più attivo. Può indicare al paziente come ogni materiale artistico abbia
una sua logica e possa essere piegato alle esigenze della formazione di una certa
immagine.
Oppure può suggerire di rinchiudere il disegno dentro una cornice,
poiché il foglio vuoto rimanda, ad alcuni pazienti, la percezione del proprio vuoto
interiore, provocando un senso di panico. Ciò impedisce il loro mettersi in relazione
col foglio stesso: rivolgersi a un foglio già incorniciato, darà un senso di confine. In
altre occasioni potrà opportunamente suggerire una tecnica o seguire un tema che
può essere individuale o di gruppo.
3. Il momento del lavoro individuale. A volte l’arteterapeuta si può trovare davanti un
paziente molto angosciato o inibito. In questo caso, anche se si lavora in gruppo,
l’arteterapeuta può proporre in modo individuale, di disegnare qualcosa insieme al
paziente sullo stesso foglio o su un foglio diverso, proponendo però al paziente di
scegliere lui stesso un colore, invitandolo in questo modo ad un ruolo più attivo. Al
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limite si può proporre di interrompere l’attività con qualcosa di diverso, come
sfogliare libri d’arte le cui immagini hanno grandi capacità evocative. L’importante è
che l’arteterapeuta riesca a mantenere viva la fiducia che permette di continuare a
lavorare insieme.
4. Il momento della riflessione sugli elaborati. Avviene con la partecipazione di tutti i
presenti che lo desiderano. È vissuto come un momento di gran soddisfazione e
coesione, che procura un sentimento di appartenenza e un confronto positivo.
Diventa anche un momento di comunicazione durante il quale si completano i
disegni con titoli, impressioni o ricordi suscitati dal processo creativo. L’arteterapeuta
può intervenire anche in modo verbale per chiarire o farsi spiegare il senso di un
segno o di un colore, per fare da tramite tra la rappresentazione grafica e la
rappresentazione mentale che essa evoca. Se occasionalmente si percepiscono
reticenze o volontari silenzi, questi atteggiamenti vanno rispettati
Il processo terapeutico si svolge in due fasi: dal momento dell’inizio, sia con o senza
tema, al momento del caos che precede la composizione dell’immagine. I tempi di
questi passaggi sono necessari per rompere le immagini stereotipate e dare spazio a
nuove forme. La funzione dell’arteterapeuta in queste circostanze, sarà di aiutare a
contenere i momenti d’incertezza e confusione che possano emergere nel periodo
dell’elaborazione dei disegni, dando così spazio, e soprattutto tempo, per lasciare
sorgere il nuovo. Dovrà solo aspettare che “.....il paziente arrivi alla comprensione
in modo creativo”. (Winnicott, D. 1971).L’arteterapeuta, dopo avere aperto le strade
per un incontro con le immagini fantasmatiche dei pazienti, li aiuterà nel momento
della riflessione a ricondurre a loro stessi le immagini prodotte, suggerendo alcune
possibilità di relazione tra loro, sia logiche, analogiche o narrative. Il processo aperto
proseguirà attraverso domande aperte (open- ended questions) e non interpretazioni
verbali che possano chiudere le evoluzioni personali, iniziate nell’esperienza di
creare immagini. Tutto ciò sarà più comprensibile esaminando l’evoluzione di alcune
situazioni.
Il caso della ragazza che voleva lezioni di disegno
Spiega che non riesce a
l’arteterapeuta
disegnare quello che immagina e che vorrebbe che
le insegnasse in particolare la prospettiva. Visto che questo
laboratorio non è un luogo dove imparare a disegnare nel senso accademico e che
la prospettiva geometrica è un’illusione, un gioco tra quello che sai e quello vedi,
l’arteterapeuta chiede quale
prospettiva le interessi, se quella convenzionale
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forse quella che possiamo sognare. Senza neanche rispondere, si mette subito a
lavorare.
Disegna un teatrino e una strada che entra dentro al palcoscenico.
Sembra molto soddisfatta del suo disegno e tiene a spiegare che non si tratta di una
realtà virtuale,
ma una di cosa vera. Aggiunge che davanti alla vita ha messo un
teatrino, ma che lei n’è fuori. In qualche modo è riuscita ad abbandonare la sua
richiesta quasi ossessiva della prospettiva, per dare spazio a una rappresentazione
più libera del suo mondo fantasmatico: la difficoltà di collegarsi col mondo vero,
quello degli adulti.
Il caso del ragazzo che disegnava come una “scarpa”
Si
tratta
di
un
giovane
fisicamente
provato,
dallo
sguardo
triste
ma
dall’atteggiamento arrogante, e la prima cosa che dice all’arteterapeuta è che lui non
è uguale agli “altri” e che non sa bene perché è entrato nella struttura. Dopo avere
preso conoscenza delle caratteristiche dell’attività di arteterapia, ci tiene a precisare
che lui disegna come una “scarpa”. Ci sono vari modi di affrontare queste difese.
Gli viene proposto
di provare a fare un collage,
disposizione, gli elementi
estraendo dalle riviste a
che possono avere qualche analogia con il suo stato
d’animo. Si tratta del suo primo lavoro.
Inizia sfogliando le riviste a disposizione, poi bruscamente decide di disegnare a
matita in bianco e nero. Lo stile è molto realistico, quasi quello di una persona che
ha buona dimestichezza col disegno.
Ci sono due persone di profilo, una seduta per terra e appoggiata ad un muro con
espressione triste. L’altra in ginocchio la guarda e le porge una mano. Una volta
finito il disegno lo guarda con sorpresa. Davanti alla duplice contraddizione tra le sue
parole – disegno come “una scarpa” – e l’atteggiamento arrogante, è facile per
l’arteterapeuta, chiedere se non c’è qualche cosa d’inaspettato nel suo disegno. La
risposta è immediata e il cambiamento del suo atteggiamento sensibile. Risponde
con gentilezza, riconoscendosi nel giovane uomo seduto che riceve aiuto. Attraverso
quest’immagine riesce a fare emergere una parte di se stesso, cosa che non riusciva
a fare né attraverso le parole né con l’atteggiamento. Da quel momento stabilisce un
rapporto sincero e costruttivo all’interno del laboratorio, abbandonando il discorso
iniziale difensivo così frequente nel tossicodipendente.
Il caso del ragazzo che amava fare i disegni protratti nel tempo
Un paziente, seppure ben integrato nel gruppo, ha un ritmo di lavoro molto
personale. Si tratta di un giovane che conserva una vita apparentemente normale,
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nonostante il problema droga. Nel primo incontro dichiara che sa perfettamente
quello che vuole disegnare, lo dice in modo gentile ma fermo. Come un chiaro invito
a non intervenire. Completa ogni disegno in tre o quattro incontri e non in un incontro
solo, come normalmente s’invita a fare. I suoi disegni sono un fedele racconto del
suo percorso dentro la struttura e dei suoi stati d’animo, ma ha molte difficoltà a
verbalizzare il contenuto. Vista la sua capacità fuori dal comune nel rappresentare le
immagini interiori, l’arteterapeuta gli propone di scrivere “una lettera” ad ogni suo
disegno, man mano che lo completa. Darò un esempio. Entra nel laboratorio e dice
che vuole fare un disegno “autobiografico”. Ci vorranno quattro incontri per finirlo.
L’espressione è molto precisa e i colori sgargianti. Per la prima volta introduce un
paesaggio nello sfondo nel quale compaiono un burattino e una coccinella. Visto
che anche nel disegno precedente c’era un burattino da lui stesso definito “falso”, gli
chiedo se per caso c’è un legame tra l’uno e l’altro. La risposta viene data nella
“lettera” dove fa una descrizione precisa dell’immagine e di che cosa significa per lui.
Scrive: Storia Autobiografica Numero x: “Il burattino questa volta è un personaggio
vero: sono io. Ho le catene ancora alle caviglie, ma le mani e soprattutto le labbra
sono libere. Ciò rappresenta la mia situazione nella struttura: libertà = niente; catene
= regole; braccia = volendo potrei liberarmi; labbra = libertà di pensiero e parola.
Non ho occhi però, o almeno non ancora. La coccinella è molto importante per me,
rappresenta il mio amore verso il mondo delle fiabe” firmato: M.
Aggiunge poi: “PS: Le regole però sono una protezione. M.”
E’ importante segnalare che è la prima volta che riesce a manifestare un’emozione
affettuosa verso un ‘immagine, la coccinella, ma anche la percezione che le catene
= regole sono i limiti che lo aiutano a frenare i suoi impulsi incontrollabili.
Analizzando questi episodi
appaiono evidenti
le due maggiori difficoltà del
tossicodipendente: reggere le proprie emozioni e l’uso della parola a scopi difensivi,
problemi specificamente accessibili con arteterapia. Affrontare questo, richiede da
parte dell’arteterapeuta una notevole capacità creativa per scegliere lo strumento
più utile alle singole situazioni. Le emozioni che ora hanno una “forma” permettono
un incontro col mondo interiore in modo più differenziato, diventando così meno
pericolose. Le immagini che ora sono visibili e che prima erano solo nella mente del
paziente, sono la testimonianza delle sue capacità creative e del “suo sapere fare”,
che ignorava di possedere.