Le proprietà collettive: storia e significato per le nostre comunità

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Le proprietà collettive: storia e significato per le nostre comunità
 Boschi, Pascoli, Malghe e (ex) miniere. Un patrimonio di proprietà collettiva. Scopriamolo insieme. Venerdì 1 giugno 2012 – Darzo, Casa sociale Gianni Poletti
Le proprietà collettive: storia e significato per le nostre comunità
Cercherò di mettere in evidenza alcuni spunti per ragionare sulla storia e sul significato delle
proprietà collettive per le nostre comunità.
Parto da tre differenze tra i Comuni attuali e le antiche comunità rurali del Trentino, che sono
esistite fino all’epoca di Napoleone e che sono state caratterizzate proprio dalla proprietà collettiva
del territorio.
1. La prima differenza riguarda il nome: «Comune» significava allora la parte indivisa del
territorio comunitario, distinta dalla piccola parte del «diviso», cioè del privato, costituito da
abitazioni e orti e campi adiacenti al paese. La differenza non è solo nominalistica: anche oggi il
«Comune» è un’entità amministrativa determinata da limiti territoriali, ma si caratterizza
prevalentemente come centro per la vita sociale pubblica dei suoi abitanti, richiama funzioni e
servizi, mentre una volta il concetto rimandava prima di tutto ai beni collettivi, che precedono i
servizi organizzati.
2. La seconda differenza attiene la natura dell’ente: l’antica comunità esisteva fondamentalmente
perché c’era una proprietà fondiaria indivisa, esisteva in funzione di un territorio di proprietà
collettiva, di cui erano titolari i membri della comunità detti «vicini»; attenzione, ho detto membri,
«vicini», non «abitanti» di un dato paese; il termine «abitante» indicava il «forèsto», cioè chi abitava
in paese senza essere comproprietario del territorio.
Se non c’era la proprietà fondiaria indivisa, non esisteva comunità. La storia di Darzo ne è un
bellissimo esempio: questa comunità nasce quando nel 1434 i Lodron, che erano i signori del
territorio, assegnano ad alcune famiglie “villam et locum Dartii”, il paese e il luogo di Darzo.
Lo ripeto: una volta, se non c’era la proprietà fondiaria indivisa, non esisteva comunità. Oggi non
è così: possiamo avere un Comune anche senza boschi o pascoli e con scarsissimo patrimonio.
3. La terza differenza riguarda il rapporto istituzione-cittadino: i componenti dell’istituzione
antica («vicini») rispondevano personalmente ed in solido di ogni azione assunta per la gestione del
territorio in pubblica «regola», cioè nell’assemblea generale dei capifamiglia, che era l’organismo
più importante dell’antica comunità. Rispondere solidalmente significa spartire oneri, diritti e
responsabilità, ma anche provvedere agli oneri e ai debiti per il soggetto inadempiente. Oggi la
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Boschi, Pascoli, Malghe e (ex) miniere. Un patrimonio di proprietà collettiva. Scopriamolo insieme. Venerdì 1 giugno 2012 – Darzo, Casa sociale responsabilità degli atti comunali ricade, tutt’al più, su sindaco, assessori, consiglieri e funzionari,
non certamente sui cittadini.
A queste tre differenze fondamentali ne collego alcune - sei - secondarie e derivate.
1. La partecipazione alla vita comunitaria era vincolante. Si pensi solo alla multa (corrispondente
al valore di un terzo di una giornata di lavoro) inflitta a chi non partecipava alla «regola» o agli
amministratori assenti alla cosiddetta «resa dei conti» di fine anno. Ma si pensi anche alle «opere del
Comun» (a Darzo erano dette «giornài dal pàsio»), sopravvissute anche dopo l’abolizione delle
antiche comunità rurali e collegate all’uso dei pascoli e dei boschi. Erano giornate di lavoro non
retribuito che i «vicini» avevano l’obbligo di prestare annualmente a favore dell’utilità pubblica.
2. Notevoli erano le differenze anche nella scelta degli amministratori. L’incarico di console,
corrispondente al nostro sindaco, era assegnato seguendo regole di rigida rotazione e l’assunzione di
esso era obbligatoria. La «regola» eleggeva anche i delegati per trattare cause particolari col signore
del posto (feudatario o vicario vescovile) e con le comunità limitrofe, eleggeva il saltaro (una specie
di messo comunale), i massari (cassieri di particolari enti quali chiese, altari, lasciti), i consiglieri che
aiutavano i consoli nel loro ufficio, gli stimatori dei danni o di eventuali acquisti. Fino ad arrivare a
specifiche mansioni per la gestione delle strutture e dei servizi pubblici, fondamentali per la vita
economica e sociale locale (fontane, mulini, forno, fucina, pescheria, osteria, malghe, custodi delle
capre e dei cavalli, incaricati dei servizi collegati al culto ecc.).
Ne usciva una rete di mansioni articolate che diffondevano la partecipazione e alzavano il tasso
di democrazia. Perché la democrazia è partecipazione. Oltre a far da legante nella comunità agricolopastorale, alcune incombenze conservavano la cultura materiale, un «fai da te» che non ha riscontro
nella situazione di oggi.
3. Un’altra differenza rispetto ad oggi stava nella durata in carica degli amministratori. Ho
esaminato i «Libri di contabilità» di quattro anni della comunità di Storo tra il 1792 e il 1806. Gli
amministratori riportati sono 62, di cui 50 ricorrono una sola volta. Solamente 6 nomi sono ripetuti
due volte, ma in qualche caso ci si riferisce sicuramente a persone diverse. C’era quindi una grande
alternanza, non potevano formarsi caste o clan politici. Il fatto era collegato a una precisa
disposizione degli statuti, che vietano la permanenza in carica per oltre un anno e la non rielezione
nel quinquennio successivo.
Va anche osservato che tra gli amministratori degli anni sopra citati non c’è alcuna presenza
femminile. Quella delle antiche comunità era una società a totale rappresentanza maschile.
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Boschi, Pascoli, Malghe e (ex) miniere. Un patrimonio di proprietà collettiva. Scopriamolo insieme. Venerdì 1 giugno 2012 – Darzo, Casa sociale 4. Chi era eletto si assumeva con gli oneri derivanti dal mandato annuale anche i vantaggi.
Proprio come oggi, ma con qualche significativa differenza. Faccio ancora l’esempio di Storo. Nei
primissimi anni dell’Ottocento il primo console percepiva in un anno, tra indennità e compensi per
lavoro prestato, il corrispettivo del valore di 58 giornate di lavoro. In nessun altro modo era possibile
per il contadino fare in un anno così tante giornate di lavoro retribuito. Trasportati i compensi in
euro, il primo console intascava 3.500 euro, che è poco più di un terzo dell’indennità assegnata oggi
al presidente del consiglio comunale, sempre di Storo, che penso non raggiunga le 15 giornate di
lavoro in un anno, ricevendo quindi un compenso di 700 euro lordi a giornata.
5. L’antica comunità rurale conosceva inoltre una netta distinzione tra vicini e forèsti, oggi molto
mitigata se non cancellata. Il «non vicino» residente era chiamato «abitante» ed era sempre
forestiero anche se stava in paese da secoli. Solo ai «vicini» spettavano le cariche pubbliche ed
eventuali spartizioni e distribuzioni ricavate dall’indiviso. Oggi assistiamo a un andare e venire di
tutti per il territorio, che è usato da tutti con troppo poche regole, senza contropartite. Quando raramente - nell’antica comunità un «forèsto» diventava «vicino», le carte riportano che da molti
anni egli aveva tenuto una buona condotta, che era un bravo artigiano, che da anni faceva le «opere
del Comun». Non voglio qui invitare ad alzare steccati, ma credo che ci sia bisogno di qualche
regola in più e di qualche contropartita.
6. Il territorio della comunità era conosciuto e fatto conoscere. In alcuni paesi gli adolescenti
venivano portati dal saltaro (messo comunale) a conoscere i confini. In quel tempo le comunicazioni
e le frequentazioni erano più lente e “tra-montane”, si comunicava “trasversalmente”, scavalcando le
montagne. Pensiamo ai collegamenti con Val Camonica, Val Vestino, Tremosine e Pregasina.
Oggi che tutto è più veloce, le comunicazioni lente e “tra-montane” hanno lasciato il posto a
quelle più veloci e comode di fondovalle, le valli sono diventate tra loro più lontane perché la
montagna si è spopolata o è meno frequentata. In alcune delle malghe ben ristrutturate non ci sono
più bestie, in altre trovi un pastore romeno (mi è capitato due anni fa all’Alpo di Storo) che non
conosce il territorio e storpia gli antichi toponimi. E, lungo i sentieri di più alta quota, tre su cinque
delle persone che incontri parlano tedesco.
Tutto il mondo delle antiche comunità fondate sul territorio venne cancellato nel primo decennio
dell’Ottocento, quanto in Trentino si alternarono i governi austriaco e bavarese. Scomparve dopo
otto secoli il principato vescovile di Trento, venne sciolto formalmente il Sacro Romano Impero, fu
abolita la giurisdizione signorile (da noi quella dei Lodron), vennero eliminate le «vecchie usanze»,
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Boschi, Pascoli, Malghe e (ex) miniere. Un patrimonio di proprietà collettiva. Scopriamolo insieme. Venerdì 1 giugno 2012 – Darzo, Casa sociale come le assemblee di regola, dichiarate «illecite combriccole di popolo», fu soppressa la distinzione
tra «vicini» e «forèsti».
Da quel momento, un po’ alla volta ma progressivamente, la Comunità si trasformò da gestore di
beni collettivi in Comune erogatore di servizi. Con articolazioni e aggregazioni dei Comuni che nel
corso dei decenni cambiarono, ma cambiarono sempre per interventi calati dall’alto, non per
iniziative condivise che salgono dal basso, come è accaduto negli ultimi anni per Ledro e Comano.
Le Giudicarie, ad esempio, ebbero 64 Comuni nel periodo in cui il Trentino appartenne direttamente
all’impero asburgico (1815-1918), 16 durante il periodo fascista, oggi sono 39.
La partecipazione diffusa creata dall’organizzazione e dalla cultura delle antiche comunità
sopravvisse anche dopo la loro soppressione, sostenuta dall’economia contadina delle valli. Si pensi
alla gestione delle malghe comunali o al caseificio turnario.
Ma cinquant’anni fa col passaggio alla società industriale e dei servizi, il fondamento di questa
partecipazione è scomparso. È finita una cultura. È scomparsa l’idea di paesaggio di cui si prendono
cura tutte le persone di una comunità. Oggi i beni comuni non sono più sentiti come proprietà
condivisa; non si organizzano più servizi assieme dal basso, oggi assieme organizziamo le feste; non
esiste più una rete di incarichi diffusi che alimentano la corresponsabilità dei cittadini, ci sono i
funzionari, gli impiegati e i custodi forestali; sono scomparse le tasse inflitte ai non partecipanti,
sostituite da gettoni di presenza.
La natura e l’organizzazione delle antiche comunità ha creato anche un terreno fertile per la
nascita e la diffusione della cooperazione. Ma oggi della scomparsa di quella cultura può risentir
anche la cooperazione.
Concludo. Quello che è rimasto delle antiche comunità oggi sta soprattutto nelle Asuc, che sono
numerose, ma poco considerate dalla gente e bistrattate dalla normativa. Le Asuc si fondano sul
patrimonio collettivo delle antiche comunità. Non possono, quindi, e non devono essere soppresse.
Reclamano però un intervento legislativo che le riordini, le riformi e le valorizzi.
Questo passaggio è importantissimo se si vuole andare in direzione di un’aggregazione dei
piccoli Comuni, perché le Asuc di paese o di frazione consentono di mantenere i legami all’interno
delle frazioni, sono sorgente di identità e aiutano a non considerare l’ente pubblico esclusivamente
come un erogatore di servizi. Se l’appartenenza ad una comunità, oltre ad assegnare l’individuo a un
determinato centro di servizi, non favorisce la partecipazione e non comprende precisi doveri, il
risultato è la sottovalutazione del servizio prestato e il saccheggio del bene collettivo: «ròba del
comun ròba de nisun».
Gianni Poletti,
Studioso di storia locale
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