La vera storia dell`uomo scrivania
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La vera storia dell`uomo scrivania
La vera storia dell’uomo scrivania L’importanza di chiamarsi Matteo Sono un uomo scrivania, il copia in colla di milioni di uomini scrivania che per scelta o per obbligo hanno smesso i mortali costumi per vestire i panni più anonimi e smessi dell'uomo scrivania. Ogni giorno faccio cose, ascolto persone, scambio persone per cose. Snocciolo grandi sciocchezze in compresse rivestite da grandi verità. Ho un completo economico e una camicia bianca e una cravatta a righe, una anonima scrivania senza foto di passato, presente o futuro. Da tempo ho capito che grandi città come i grandi uffici come il mio, li ha creati il demonio per privarti della natura e del semplice contatto umano. Ho una vita perfettamente distillata, plastificata al punto giusto, quel non so che di vero fondato sul falso. O meglio, mia moglie è vera, respira e spende soldi come parla. È bella quanto basta per far rosicare i subalterni e non abbastanza per far gola ai miei superiori. Mia figlia no, è bella davvero. Ha quella bellezza dei boccioli in fiore, mi somiglia esteriormente ma non è per questo che dico che è splendida. Lei ama il suo papà, non L'uomo scrivania o Matteo o Max. Lei mi ama perché son io. Ed io la amo profondamente. Ed è forse per lei e solo per lei che mi aggrappo a questa vita e vesto i panni dell'uomo scrivania. Ogni giorno alla solita ora mi desto, non che abbia dormito davvero tutta la notte ma a quell'ora ho sonno davvero per cui come milioni di uomini scrivania mi alzo sbadigliando, faccio colazione, mi doccio e metto il completo da battaglia. Perché vedete, nella gerarchia delle cose, l'uomo scrivania può sembrare che abbia sempre lo stesso completo, come topolino, ma in realtà esso cambia in base a con chi parla. Se parla con il capo, il completo splenderà di quella finta sartoria provinciale che non è cinese badate, ma è di un'onesta sarta italiana: mia madre. Se parlerà con un subalterno mia madre diverrà Valentino all'occorenza. Allora cosa fa di me un uomo sopraffino? I dettagli. Sì, l'uomo scrivania in carriera sa che i dettagli sono il sale della vita. E quindi sapientemente venderà un rene per un paio di scarpe, una borsa porta documenti e un Rolex d'ordinanza. Sui dettagli non si scherza, non si va al mercato o peggio dai cinesi, si va in boutique. Sono i dettagli e il buon gusto a fare carriera. Questo è un sentito e sano senso di bastardaggine intima e istintiva, costruita e affinata nell'arco del tempo. Sto dunque al mio posto, negli anni che furono avrei lo avreu chiamato il mio quartier generale, ma non oggi, che a motivo del mio ieri chiamo la mia poltrona di pelle nera: la cuccia del cane. Ovvio una cuccia ambitissima e stramaledettamente meritata, cuccia per cui milioni di colletti bianchi come me farebbero carte false. Io per la mia cuccia ho dato la mia anima, in cambio lei mi ha regalato rispettabilità. Da quella cuccia ho intrepidamente atteso la nascita della cucciola. Ho visto arrivare e andarsene la donna che in un mondo migliore sarebbe stata l'amore della mia vita. Ho sognato dunque dalla mia cuccia. Fatto voli pindarici che Icaro fatti più in là. Ma ho sofferto anche, dalla mia cuccia ho capito di essere arrivato fin dove potevo arrivare, ho attraversato la linea di confine del punto di non ritorno e ho scelto e scelgo ogni giorno fra i miei due mondi paralleli: quello dell'uomo scrivania e quello di essere Matteo; che non è il mio nome, ma ha tutta la sua importanza di esistere. Grazie ad esso io vivo e sopporto la realtà che mi è dinanzi. Grazie ad esso, io posso aspirare a una cuccia migliore, quella del gran capo. Quella per cui ho sacrificato l'anima, sdrucito la vita. Grazie a Matteo io posso dire no alla vera felicità che nonostante tutto bramo e merito; ad una felicità diversa, a me non consentita che manderebbe in frantumi tutto il mio essere un uomo scrivania. Ma voglio fare un passo indietro ed uno avanti, e vi narrerò la mia vita partendo dalla base; quand'ero Max il goldenboy di casa mia, per poi divenire lo spendido uomo scrivania che un giorno decise di divenire Matteo. Sin da piccolo sono stato considerato come un tipo 'estroverso' ... sulla pagella di seconda elementare ricordo ancora una frase scritta dalla maestra Luini... bambino 'intraprendente', audace. Ricordo ancora, come a sette anni avessi messo in piedi un circolo ricreativo; un mio Fun Club ...vabbè, diciamo che rimaneva circoscritto al mio quartiere di via Carlo D'Azeglio. Un plotoncino di associati, che con una quota base di caramelle e figurine aveva la possibilità di accedere con un po' di sconto al mio mercatino. Il mercatino andava in scena nei pomeriggi del sabato. Sistemavo la mercanzia su fodere di legno, che mio padre utilizzava per pianali di lavoro in garage. Le bancarelle le posizionavo davanti casa. Per la merce inizialmente mi affidavo al Guercio. Già noto alle forze dell'ordine per piccoli furti. Aveva la mia età il Guercio. Detto così non perché avesse problemi di vista. Ma perché il suo cognome era così: Guercio. La collaborazione con lui andò avanti per qualche settimana. Fino a che qualcuno fece la spia, e fui costretto a saccheggiare direttamente la cantina dei miei nonni. Più vicina e redditizia. Il padre di mia nonna, mio bisnonno, era un benestante. Inoltre era stato nell'esercito dove aveva fatto carriera. Era stato affiliato a dei corpi speciali per missioni estreme. Durante la seconda guerra mondiale, stava sulle Alpi francesi col suo selezionato gruppo di uomini - stile quelli della sporca dozzina. Beh, mio bisnonno dovette intervenire in aiuto di alcuni alleati rimasti intrappolati in una gola, senza cibo né acqua... Il mio bisnonno ci riuscì a salvarli tutti, e per questo fu insignito della Legion D'onore. Mio bisnonno era un eroe. Mia nonna invece - sua figlia - era viziata, ed essendo figlia unica non aveva che da spendere soldi. Mio nonno - suo marito - aveva lavorato in miniera ed era poi morto per tubercolosi. Mia nonna rimase sola e ricca. "Sulla Strada" l'ho scoperto a sedici anni, me l'aveva consigliato un aficionados di biblioteca assieme a "Il Pasto Nudo" di Burroughs e "Viaggio al termine della notte" di Céline. Adoro Céline, quel libro, tutta la sofferenza che ha nelle viscere, tutta la franchezza, l'onestà. In quel periodo ebbi a che fare anche con Miller. I due Tropici sono inarrivabili. Degradazione interiore, marciume, e apoteosi letteraria. Pagine che sviluppano poesia e passione senza eguali. Midollo e sangue. Selvaggia padronanza dialettica e onnipotenza linguistica. Ho sempre amato leggere cosa forte. Dell'università ricordo Città Studi; la fermata della metro a Piola; il parchetto che l'attraversava in zona Politecnico. Con la bella stagione tutto si animava di colore e di genti. Nel piazzale adiacente; oltre il via vai solito.. c'era sempre motivo per mettere su una partita a pallone. Partitelle improvvisate a numero spaiato. Le porte delimitate da golf e zaini. E bottiglie d'acqua messe in fila per dissertarsi al cambio di campo. All'università mi ha sempre impressionato la bacheca posta all'ingresso. Carica di strappi multicolori, per compagnie teatrali; spettacoli folk; riviste New auge; corsi di chitarra. La bacheca portava le inserzioni più disparate: da chi cercava una condivisione di stanza, a chi si offriva per lezioni di matematica applicata alle funzioni Gaussiane. Incontri di ramino. Oppure, chi vendeva libri mai usati!! Un altro posto in università che mi tirava scemo era la biblioteca. Io la chiamavo la stanza dei pesci. Quando entravi là dentro al minimo rumore che facevi tutti si voltavano, facendoti sentire un vero idiota. Una volta, ricordo ancora che mi cadde a terra per sbaglio un volume di chimica fisica; un tomo di dimensioni pantagrueliche; che fece un tonfo così secco, un rumore così sonoro; che per tempo non sapevo dove guardare. C'erano persone, che a distanza di settimane dall'episodio, vedendomi entrare in biblioteca; riconoscendomi, memore di quello che avevo fatto, istintivamente si piazzava le Sony alle orecchie. O ancora peggio, mi additava al vicino di libro; come se fossi una specie in via di estinzione. Una volta laureato trovo posto in banca, e come un bravo soldatino, faccio gamba tesa per far cadere altri e tengo la testa china per entrare nelle simpatie di tutti. Avevo intuito e mi piaceva il mio lavoro. Ero abbastanza bello da far innamorare chiunque, sebbene non abbia mai capito il perché. Conosco mia moglie Diana, al momento giusto di una splendida carriera in ascesa. Diana si presenta in banca una mattina cercando i moduli per un F24. Appena la vedo mi piace. Non so spiegare; ma forse c'è qualcosa nel suo modo di parlare; di muovere le labbra; come veste. Di lei mi piace perché non è scontata, del tipo: "Ancora!! Sì,sì; ancora, più forte!" Oppure: "Mi sembra di averti già visto ballare alla Forca." "Sulla che!?" "Quel disco-pub che sta sopra al piccolo mare di Como." "Sul lago, vorrai dire." "Ah, sì; sul lago. Beh, insomma, dove in estate sparano missili che fanno colore, e tremendi scoppi che ti tocca chiudere le orecchie... Eh; ci sei mai stato?" "No." Diana non appartiene neanche a quell'altra faccia del mondo rosa... "Pucci Pucci, sai che tra poco è s.valentino?" "Ma se siamo a ottobre ..." "Beh, non bisogna aspettare mica i saldi." "Uhm." "Sai Pucci, la Betta ha ricevuto uno stupendo zircone da Jimmy o'animale." "Da chi!?" "Jimmy o'animale. Quello che s'è fatto due anni per bancarotta, e sei mesi per ricettazione. Fratellastro di quella che chiamavano 'aborto' prima che si facesse di silicone." "Uhm." "Sai Pucci, la Betta mi ha confidato che Jimmy o'animale si è pagato la pietra con dieci mesi di sole a spicchi. La Betta dice questo, e poi ride. Pucci, pensi che la Betta mi prenda in giro?" "Uhm..." Un tempo Diana scriveva. Prima che la frequentassi; prima di sposarla, aveva provato a pubblicare una raccolta di poesie. Segreti da adolescente; paure e passioni. Un po' più grande, si era accostata all'arte figurativa; con i pastelli prima, poi le tempere, infine la sua scelta prese la via dell'acquerello. I soggetti con cui riempiva il vuoto erano paesaggi lacustri; lande sterminate frustate dal vento, poche case, magari solo una dimenticata da Dio; e noi là, cercando di dimenticarcelo. Quel dopocena, sfiorando le sue dita, mettendo il suo palmo sopra a quello mio, giocando, facendolo combaciare, riuscendoci; pur che le nostre mani fossero discordi. Diana mi confessò di essere incinta. Non so bene, ma ricordo di non aver mai provato nulla di più forte dopo quell'istante. Rimasi in silenzio; ricordo che non riuscivo a smettere di baciarla. Lei ricambiava i miei baci come avesse sete; sete di quell'amore compiuto; maturo e sazio di una vita insieme. E che la nascita di un figlio univa ancora di più. Per sempre. Ma niente è per sempre, o almeno niente rimane uguale per come vorremmo noi. Tutto cambia, si dilata in un verso o in un altro. Neanche Diana rimase se stessa, lasciando che la quotidianità le consumasse i contorni, da mettere in risalto una figura a se stante. Rigida e patinata. La moglie perfetta di un Golden boy bancario. Così da ritrovarmi demotivato come avere davanti un lungo cammino ed essere privo di forze. La mia mente cominciò a vedere così la realtà; destrutturata, senza valenze né principi; non più come prima ma in cerca di qualcosa che mi salvasse da essa; da me stesso. La realtà mi stava corrodendo; io non facevo altro che sfuggirle, con il solo risultato che permettevo agli altri di banchettare con le mie carni, la mia anima. Era una sfida questo dazio di vita. La mia testa, ogni giorno depositata sulla scrivania del capo e le mie chiappe ben poggiate sulla mia cuccia da cane. Cuccia che ogni giorno diventava sempre più possessiva e avida di vita. Con l'avvento dei social, entrai in un flusso nuovo e rilassante. In un circuito dove la mia anima respirava aria nuova e le mie mani rattrapite dallo schiacciare tasti e stringere mani presero forma e la mia esistenza da Golden boy mi sembrò già più leggera. Con ingenuità non utilizzai nickname e mi cimentai nelle prime interazioni. Feci le prime amicizie e mi sconvolse non poco scoprire il lato osceno di molte donne sul web. Giuro che a ogni frase sconcia mi vergognavo, e con altrettanta vergogna arrossivo. Poi la vergogna spariva inghiottita da un'altra frase oscena. Quei gesti all'apparenza sacrileghi, divennero un'onda di vitalità; di adrenalina. E a motivo anche dell'insonnia che mutò in dipendenza. Ovviamente non cercavo la donna della mia vita là dentro. L'avevo già, ed era alta un metro e un tappo, e quando sorrideva ci passava l'autostrada in quella schiera di dentini mancanti. La mia cucciola era la donna della mia vita. La mia Marty era la mia vera bussola della felicità. Sebbene come padre non fossi preparato, e il vederla crescere così velocemente mettesse pepe alle mie membra che si sentivano già vecchie. Lei esercitava un effetto equilibrante, ed io per il bene suo volevo ancora essere ciò che una vita fa avevo scelto di essere: un uomo di successo. Man mano però che passavano i mesi, mi resi conto che la mia vita social pubblica non poteva coesistere con quella intima. Quindi i miei demoni interiori fecero un patto, e colpirono piano piano incuneandosi in anfratti a me oscuri ma presenti. Così che ero sempre lo splendido uomo di sempre; almeno al dire di altri, ma in verità dentro me si fece strada uno strano essere di nome Matteo. Il mio pseudonimo era un altro ma alla fine nella rete dovetti darmi anche un nome, un'età, un lavoro. Un'altra identità. Ma poi successe quel che non ti aspetti debba mai succedere; perché non si programma nulla, né circostanze né incontri... del futuro si sa non vi è certezza. Così conobbi una ragazza del sud, Alessandra era il suo nome. Era graziosa e leggera come una foglia al vento. Dentro sé nascondeva la mia stessa sindrome dell'eterno fanciullo; assommati a disordini mentali tutti suoi. Alessandra era una ragazzetta viziata e volubile a cui piaceva fare la radical chic, ma che alla lunga tradiva con panini ripieni di maionese e melanzane. Alessandra mi piaceva perché era il mio opposto. Mi svagava e soprattutto non si poneva mai domande che mi aspettavo si ponesse. Come ad esempio se fosse vero ciò che le stavo raccontando... Perché su Skype piuttosto che su altre piattaforme non usavo mai il mio vero nome.. La cosa ironica è che non conobbe mai il mio vero nome e non vide mai né una foto di mia figlia o di mia moglie. Però diceva di amarmi. E con lei il presente nonché il passato non esistevano. Esisteva solo il sesso che in delicati incastri riuscivo a darle. Le notti insonni, le parole infuocate, i discorsi insensati, la mancanza e la voglia di un futuro che sapevamo entrambi non sarebbe arrivato. Non era la donna della mia vita; questo lo sapevo, ma era un qualcosa che sapeva rendermi felice lo stesso. Colmava i vuoti. Poi arrivò la noia, giunse poco a poco; non proruppe e sebbene inventammo di tutto per continuare a giocare, la musica cessò e non giocammo più insieme. Un gioco che facevamo era quello di inventarci account differenti senza dircelo e poi vedere se nonostante la maschera riuscivamo lo stesso a trovarci. Un gioco lascivo che precedeva la fine vera. Ma in cuor nostro avevamo paura di essa e ci aggrappavamo a ciò che ci faceva più male. Lei voleva sposarsi come era giusto che fosse vista la sua età. Io no. Io avevo già quello che a lei mancava e mi avanzava pure. E poi sebbene senza di lei mi venne la depressione devo ammettere, col senno di poi, che non l'amavo affatto. E che non avrei mai e poi mai preferito una vecchia ragazzina consumata da tutti alla mia Diana. Tradendo così mio padre e mia figlia. Non potevo. Non volevo. Eppure lasciarla mi strappò l'anima. Persi peso e iniziai ad avere disordini alimentari, nel senso che non accettavo più il disgregarsi del tempo. Dovevo fare. Non mangiavo e non dormivo e lentamente Matteo entrava nelle mie vene, la mia pelle diveniva la sua e il suo modo di vivere il mio. Ma ogni sogno ha i suoi contrordini speciali ed io sebbene fossi divenuto già da un po' Matteo; e nei panni di Matteo avessi trovato stabilità, conobbi la mia cura e la mia nuova malattia, tutto dentro un aristocratico musetto. La conobbi seduto nella mia cuccia del cane. Più precisamente in corridoio dove vidi i più dimessi e splendidi opali che avessi mai visto. Una cosetta scialba, dimessa per l'appunto, insignificante e tremendamente sexy sotto quei panni da operaia qualunque. Era la mia Annina. Se io ero un uomo scrivania, un timbratore di sigle e stupidaggini, lei era un dispensatore di consigli e cattiverie. Una piccola nana da giardino che un sotto un tenero sorriso nascondeva un ninja da cambattimento pronto ad ucciderti. Se la vedevi ti faceva tenerezza e simpatia ma aveva una mancanza totale di parametri e se le davi amicizia, cosa che ti veniva naturale, poi lei la pretendeva davvero, ovunque. Parliamoci chiaro, se parlo al collega francese snob di mercato e cerco di appioppargli un qualche bel contrattino "corvo" e ci sono pure altri; non è che se passa la nana da giardino io la debbo salutare per forza. Anche se si ferma con i suoi occhietti killer ed insiste per salutarmi. Ma sparisci!!! Mi veniva da gridarle; anche se poi infondo la avrei voluta sempre nella mia vita. Se non al centro - perché non potevo, almeno in fianco, così che lei potesse consolarmi quando ero stanco. Ho capito già che state pensando, che sono un capitalista snob e narciso, sì forse è vero. Ma il mio lavoro consiste anche in questo, cercare di portare la gente ad essere affascinata da me per poi spingerla a fidarsi così che io capitalizzi ONESTAMENTE i loro beni. Se lei mi fa una corte spietata in barba alle vecchie galline danarose, io dentro me la rido ma dal di fuori mi crea problemi; tanti problemi. La mia città è fatta di gente invidiosa e squallida e quel bocciolo che è lei, mica lo ama come me; lo vorrebbero sottomesso e poi annullato e morto. Per la verità un certa sottomissione l'avrei gradita pure io, anzi bramata sotto ogni aspetto. Annina era generosa, mi regalava sempre qualcosa ovunque andasse. Era tenera, l'ho già detto lo so, mi regalava sempre qualcosa che mi poteva piacere. Già il gesto mi faceva sentire amato. Quel conoscermi bene mi faceva sentire capito. Ma lasciata da parte la realtà di tutti i giorni me la ritrovai pure in quella virtuale. No! Gente no, non potevo neanche nel virtuale. Via quegli sguardi tristi che già ci basta il mio. Lei rovinava tutto. Voi non sapete cosa vuol dire cadere di nuovo nel vuoto perché la tua vita non ti piace più. Io ero un padre e un marito. Avrei deluso mio padre e poi cosa sarebbe successo? Sarei divenuto invisibile anche per lei come era successo con Diana? Se io le davo corda, sapevo che mi sarei impiccato. A modo mio ci provai e finii al tappeto. Non direttamente ci provai, diciamo che mi accostai indirettamente, così da poter meglio fuggire. Ma a fuggire fu lei e mi rimase in bocca il gusto amaro delle parole giuste dette al momento sbagliato e dalla persona sbagliata; qual ero io. Voleva un compagno di vita non un amante virtuale. Le serviva una presenza fissa che la consigliasse, per potersi confrontare, e dirigerle il passo. Io non sapevo manco dirigere il mio, figurarsi il suo, pieno di passato e cose da dimenticare o da risolvere. Tirai fuori la mia ex così che lei si allontanò disgustata da quello che ero. Si allontanò, e io rimasi sospeso fra passato e il futuro che avrei voluto. Una bozza della persona che ero imprigionato dentro una calotta di marmo integro. Ed ora? Ed ecco un altro giorno, un giorno qualunque di una vita qualunque. Il qualunquismo mi assale come un onda che al suo passare mi lascia pieno di quella sosostanza mista di terra e fatta di cose che vorrei fossero accadute. Mi guardo lo specchio dell'entrata. La casa tace, anch'essa oramai mi odia lo sento. Eppure sono io il padrone. Rimango immobile a fissarmi; quasi a cancellare la stessa mia immagine. Come strappare una pagina da un libro. Chiudo gli occhi e cerco di ricordare il lago di quando ero ragazzo. La bellezza malinconica che mi trasmetteva in autunno, quando mio padre mi portava in zona di Ghirla o Porto Ceresio. In un periodo dell'anno in cui le spiaggette non erano ancora affollate di tedeschi; e gli scafi lasciavano sull'acqua una scia di schiuma bianca che ti veniva voglia di toccare. Faccio una doccia. Poi passo più di un'ora ad ascoltare un programma jazz alla radio. Una session live di Duke Ellington registrata nel '44 all'Hurricane di Broadway. Al termine di ogni esibizione si può distinguere la voce gracchiata dello speaker tra gli ululati della sala: un dissennato confluire di uuh confusi alle richieste di bis e fischi di approvazione. Ha tutta l'aria di essere un delirio. Trascorro così un'altra mezz'ora prima di decidere cosa fare. Spalanco la finestra e mi investe una folata che mi costringe a serrare gli occhi. Il tempo si è nel frattempo guastato. Ha ripreso a nevicare. Quello che adesso viene giù è della nevina fatta ghiaccia che sghemba e scivola via nel vento. Diana mi chiama per la cena e il sorriso birichino della mia Marty mi induce a sedermi accanto e a sorridere di quel che racconta. Questo, mentre Diana medita su altre cose e altri pianeti. Ed è meglio così. Seduto sulla poltrona guardo la porta finestra che da sul retro, dove l'ombra ellittica di un canestro si allunga, e sospinge la luce fin su la collinetta di riporto dominante il cortile posteriore della casa. Mi accendo una sigaretta nel buio. La TV è spenta. Marty è andata a letto e Diana si è rinchiusa in camera. Ormai è notte. Un punto rosso cerchia l'ardere del tabacco. Tiro un paio di boccate. Sento distintamente il richiamo di una civetta provenire da uno dei grossi cedri. Poi tutto si ammutolisce come sempre. Penso per un momento a quello che farò il giorno dopo in banca. Chiudere la pratica per il marchio tedesco resta un obbligo. Ultimo la sigaretta tra le dita; poi vado in bagno. Davanti allo specchio mi sorprendo per le borse sotto gli occhi. Seguendo con la mano il profilo del mento, percepisco la ruvidità canuta della barba. La calvizie ai lati della testa mi da una certa nota signorile; un po' snob penso, senza poi crederci molto. Metto la bocca fatta di labbra sottili dentro una sorta di ghigno che non mi appartiene. Accendo l'ipad e saluto Matteo. Matteo ricambia il saluto, e tutt'a un tratto non sono più nella mia poltrona, ma dentro l'ipad e conduco la mia anima lontano, molto lontano e insensibile al fatto che non saprò più tornare indietro e consapevole del fatto che non m'interessa più farlo. Sono un uomo scrivania, sono Matteo, questa è la mia storia.