la settimana iniziale - Facoltà Teologica dell`Italia Settentrionale

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la settimana iniziale - Facoltà Teologica dell`Italia Settentrionale
LA PARABOLA DEL BUON SAMARITANO (Lc 10,25-37)
Claudio Doglio
Fra i testi più noti del terzo evangelista, la parabola del “buon Samaritano” è incastonata
all’interno di una disputa tra Gesù e un esperto della legge: all’inizio del grande viaggio
essa segue alcuni brani che parlano di vocazione, sottolineando differenti modi di
relazione con colui che chiama; subito dopo inoltre il narratore propone l’emblematico
episodio dell’ospitalità che Marta e Maria offrono a Gesù. Il contesto dunque invita a
considerare il tema dell’accoglienza, che si esprime soprattutto nell’ascoltare la parola
del Signore.
La questione del precetto
Questa parabola è esclusiva di Luca, ma la cornice narrativa in cui è inserita compare
anche in Matteo e Marco. Si tratta infatti della controversia sul comandamento
principale, che però si trova in un insieme organico di dispute ambientate a
Gerusalemme nell’ultima fase del ministero di Gesù. Luca segue lo stesso ordine
narrativo, in dipendenza dalla tradizione seguita pure da Marco e Matteo; tuttavia
omette questo episodio. Uno schema sinottico ci può aiutare anche visivamente a
comprendere il procedimento redazionale adoperato dal terzo evangelista:
11,27-33
12, 1-12
13-17
18-27
28-34
35-37
Marco
disputa: l’autorità di Gesù
parabola: i vignaioli omicidi
disputa: il tributo a Cesare
disputa: la risurrezione dei morti
disputa: il primo comandamento
disputa: su Sal 110,1
20, 1-8
9-19
20-26
27-40
––
41-44
Luca
disputa: l’autorità di Gesù
parabola: i vignaioli omicidi
disputa: il tributo a Cesare
disputa: la risurrezione dei morti
––
disputa: su Sal 110,1
Luca sposta intenzionalmente questa pericope e la inserisce dove la ritiene più utile per
l’insieme del suo racconto, facendola diventare il quadro narrativo di una parabola non
riportata dagli altri evangelisti. Un tale procedimento redazionale ci fa comprendere
come l’ordine del materiale non voglia anzitutto ricostruire la cronaca dei fatti, quanto
piuttosto offrire un insegnamento organico e ben strutturato, frutto della sapiente
riflessione del narratore, autore del Vangelo. Tuttavia proprio questo intervento pesante
di Luca rispecchia fedelmente il modo storico in cui sono state proposte le parabole di
Gesù, in quanto strumenti argomentativi, usati dal maestro per trasmettere un’idea
importante (cf. Lc 7,36-50).
Il dibattito in cui Luca inserisce la parabola è incentrato sul tema del precetto. Sembra
che Marco abbia rielaborato a modo suo l’episodio (Mc 12,28-34), mentre in Matteo
riconosciamo molte somiglianze con la versione lucana: diamo un’occhiata “sinottica”
ai due testi per cogliere rapidamente ciò che il terzo evangelista ha ricevuto dalle sue
fonti e ciò che ha innovato.
Mt 22,34-40
Allora i farisei, avendo udito che egli aveva
chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme
35
e uno di loro, un dottore della legge, lo interrogò
per metterlo alla prova:
36
«Maestro, nella legge, qual è il grande
comandamento?».
Lc 10,25-28
34
25
Ed ecco, un dottore della legge si alzò per
metterlo alla prova e chiese:
«Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita
eterna?».
1
37
Gli rispose:
«Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore,
con tutta la tua anima
e con tutta la tua mente.
38
Questo è il grande e primo comandamento.
39
Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo
prossimo come te stesso.
40
Da questi due comandamenti dipendono tutta la
legge e i Profeti».
26
Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella legge?
Come leggi?».
27
Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con
tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta
la tua forza e con tutta la tua mente,
e il tuo prossimo come te stesso».
28
Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e
vivrai».
Ha conservato la qualifica dell’interlocutore, presentato come un nomikós (= “dottore
della legge”), e ha precisato la sua intenzione come un test di verifica per saggiare le
convinzioni dell’altro; il discorso diretto inizia riconoscendo a Gesù il titolo di
“maestro” (didáskale) e l’attenzione è rivolta a ciò che è contenuto “nella legge”. Luca
però non propone una questione sul “primo comandamento”, forse perché troppo
tecnica e legata a problematiche giudaiche; preferisce invece riprendere la stessa
domanda che la tradizione sinottica ha posto sulle labbra del ricco, relativa al modo di
ottenere la vita eterna1. Inoltre il terzo evangelista interviene a complicare il dialogo,
perché non pone direttamente la risposta in bocca a Gesù, ma lo fa rispondere con due
domande che mirano a coinvolgere personalmente l’interlocutore: non solo egli è
invitato a rispondere su ciò che sta scritto nella legge, ma soprattutto sul suo modo di
leggere, cioè di interpretare le norme. Tale metodo dialogico esprime molto bene il
contesto di una parabola, che serve proprio a far progredire il dialogo e approfondire
l’interpretazione del precetto.
L’esperto di legge non ha chiesto per sapere ciò che ignorava, ma ha domandato per
verificare l’opinione di Gesù; ma il maestro gli ha rigirato la questione, portandolo ad
esplicitare il proprio pensiero. Così egli cita due passi della legge, cioè del Pentateuco.
Il primo – tratto da Deuteronomio 6,5 – appartiene alla classica preghiera giudaica che
costituisce una fondamentale professione di fede (“Ascolta Israele”: Dt 6,4-9)2; il
secondo testo invece – preso da Levitico 19,18 – deriva da una ricca antologia di
precetti all’interno del “Codice sacerdotale di santità” (Lv 17–26). L’accostamento di
questi due precetti (enfatizzato da Mt 22,38-39) è frutto della tradizione cristiana, ma
Luca li pone tranquillamente in bocca al dottore giudeo con l’intento di mostrare la sua
competenza teorica. La reazione di Gesù è un commento positivo, che approva quella
“lettura” biblica, ma aggiunge un importante imperativo pratico: «Fa’ questo e vivrai»3.
Per ereditare la vita eterna non basta sapere la teoria normativa, ma è necessario
eseguirla con costanza e sempre.
1
L’episodio di triplice tradizione conserva sostanzialmente la stessa domanda: «Maestro, che
cosa devo fare per ereditare (avere) vita eterna?» (cf. Mt 19,16 // Mc 10,17 // Lc 18,18).
2
Rispetto al testo originale del Dt, in Lc è aggiunto un quarto modo («con tutta la tua forza»),
che è presente anche nella stessa citazione in Mc 12,30 seppure spostata in fondo.
3
In greco viene adoperato un imperativo presente (póiei), che esprime una continuità abituale
dell’azione: il “fare” è dunque un comportamento costante e necessario.
2
La questione del prossimo
A questo punto il racconto potrebbe essere finito e infatti negli altri sinottici termina
così. Invece Luca lo fa proseguire con una nuova domanda del nomikós, esplicitando di
nuovo la sua intenzione recondita: come prima aveva detto che intendeva “mettere alla
prova” Gesù, ora spiega che vuole “giustificare” se stesso4. Dal tenore del racconto
infatti sembra che questo maestro della legge abbia fatto una brutta figura, ponendo una
domanda elementare di cui conosceva bene la risposta; perciò la sua precisazione mira a
sottolineare la complessità della domanda e focalizza l’attenzione sulla questione del
“prossimo”.
Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?» (10,29).
In italiano il termine “prossimo” ha perso la sua valenza originale di superlativo che si
riconosce nel latino proximus (= “vicinissimo”), derivando dall’avverbio prope, che
significa “vicino”. Con questo vocabolo traduciamo il greco plēsíon, che corrisponde
bene al termine latino e designa semplicemente il “vicino”. Il riferimento però è
all’interpretazione della normativa citata da Lv 19,18: in ebraico il precetto usa il
termine rea~ che ha il significato più pregnante di “amico, compagno, collega”,
designando in genere colui che appartiene allo stesso ambiente ed è legato da vincoli e
relazioni positive. Non si tratta quindi di oggettiva vicinanza, ma piuttosto di soggettiva
relazione di amicizia: così si comprende meglio la questione ermeneutica posta a Gesù.
Il passaggio dalla prima alla seconda questione risulta perciò significativo: si passa
infatti dal fare all’essere. Su questo punto insiste l’insegnamento di Luca: non si tratta
solo di fare qualcosa di buono, quanto piuttosto di essere prossimo, cioè vicino, attento
e solidale. Nella prospettiva del fariseo, legato ad un ambiente sociale e religioso
distinto dagli altri, è un’autentica questione interpretativa stabilire chi sia il “vicino”: il
giurista infatti chiede a Gesù chi si merita di essere amato.
Il racconto parabolico invece lo porta ad una conclusione paradossale, per cui constata
di dover capovolgere la prospettiva. Una parabola in genere ha lo scopo di coinvolgere
il destinatario, portandolo a formulare un giudizio in cui sia personalmente coinvolto,
anche senza rendersene conto. Anzi, proprio perché non se ne rende conto, è più libero
nel formulare una valutazione e così il parabolista può concludere la propria
argomentazione, mostrando i legami col caso concreto in questione. Gesù dunque
racconta una vicenda esemplare con personaggi diversi che mettono in scena reazioni
differenti; termina quindi con una domanda di valutazione:
Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?
(10,36).
Il dottore della legge deve compromettersi e giudicare. Ma la domanda posta da Gesù ha
capovolto il modo di vedere la questione e lo ha condotto ad ammettere che l’importante
è essere capace di amare. La questione non è: «Chi si merita di essere amato da me? Chi
mi è amico?». Deve invece essere riformulata così: «Di chi io sono prossimo? Chi sono
capace di amare? A chi mi faccio vicino? Chi tratto da amico?». In base al racconto
4
Il verbo greco dikaiōsai appartiene al linguaggio tipico di Paolo e richiama la decisiva
questione teologica della “giustificazione” affrontata dalla prima comunità cristiana. Una
sfumatura negativa deriva dal fatto di avere come complemento oggetto “se stesso”; Luca
adopera la stessa formula in un aspro rimprovero contro di farisei: «Voi siete quelli che si
ritengono giusti (hoi dikaiountes heautous) davanti agli uomini» (Lc 16,15).
3
proposto e alla domanda che gli è stata rivolta, anche se non apprezza il personaggio del
Samaritano, il giurista è costretto ad ammettere che è lui il modello positivo.
Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui» (10,37a).
Letteralmente bisognerebbe tradurre: «Colui che ha fatto (ho poiēsas) la misericordia
(tò éleos) con lui (met’ autoû)». L’espressione non è corretta in greco, ma costituisce un
calco semitizzante usato talvolta dai LXX per rendere alla lettera l’espressione ebraica
“fare misericordia con”, nel senso concreto di dimostrare affetto agendo in modo
benevolo5.
Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così» (10,37b).
L’obiettivo della parabola è stato raggiunto: il destinatario ha compreso e condiviso il
messaggio di Gesù. Si ritorna perciò al verbo iniziale («che cosa devo fare?») e alla
conclusione della prima parte («fa’ questo e vivrai»). L’imperativo presente di “fare”
(póiei) segue però l’imperativo presente di “camminare” (poréuou): proprio nel contesto
narrativo del viaggio, Gesù invita il dottore a mettersi anch’egli in cammino in modo
abituale, per divenire capace di vedere nell’altro un amico da amare.
Un racconto esemplare
Nell’originale greco l’ultima parola del testo è l’avverbio “ugualmente” (homóiōs): esso
sta a significare che il racconto inserito nella disputa ha una valenza esemplare, offre
cioè un modello buono da imitare.
Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei
briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo
mezzo morto (10,30).
L’ambientazione del racconto è geograficamente precisa: la strada che porta da
Gerusalemme a Gerico attraverso il deserto di Giuda è un itinerario ben noto ai
pellegrini e – nella direzione inversa – sarà la strada percorsa da Gesù stesso alla fine
del suo viaggio (cf. Lc 19,1.28). La vicenda narrata riguarda diverse persone che si
incontrano casualmente: tutti sono caratterizzati dal fatto di essere in cammino. Il
personaggio principale, presente in tutto il racconto, è assolutamente passivo e
silenzioso: è «un uomo» generico (ánthrōpos tis), vittima di un’aggressione, spogliato
dei vestiti e di ciò che possedeva, gravemente ferito e abbandonato sulla strada fra la
vita e la morte.
Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre.
Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre (10,31-32).
Due altri personaggi compaiono sulla medesima strada e casualmente si imbattono in
quell’uomo. A differenza di lui, questi sono qualificati in modo preciso: entrambi
appartengono alla classe sacerdotale e sono quindi identificati certamente come Israeliti.
In tutti e due i casi il narratore descrive le loro azioni, ripetendo gli stessi verbi: vedono,
ma passano oltre6; percepiscono cioè la situazione problematica, ma non si avvicinano e
non entrano in relazione.
5
Cf. Gen 24,12; Es 20,6; Gs 2,12.14; Gdc 1,24; 8,35; Rt 1,8.
6
In greco il verbo adoperato due volte è un composto significativo: anti-par-érchomai indica
infatti un movimento “a fianco” (pará), ma “dall’altra parte” (antí). Gli passano accanto, ma
dall’altro lato della strada, per non entrare in contratto.
4
Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione.
Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua
cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due
denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo
pagherò al mio ritorno”» (10,33-35).
Con una forte contrapposizione compare finalmente il personaggio positivo, che è
espressamente indicato come appartenente al gruppo dei Samaritani, ben distinti dai
Giudei e da questi disprezzati come eretici e considerati estranei al popolo eletto.
Sembra chiaro che un tale personaggio sia introdotto volutamente con una motivazione
provocatoria: il racconto non cerca semplicemente di evidenziare un contrasto fra chi è
generoso e chi resta insensibile; tende piuttosto a rimarcare in modo problematico una
distinzione socio-religiosa.
Il narratore si dilunga a descrivere molti particolari di per sé inutili, ma che vogliono
sottolineare con grande enfasi il ritratto positivo di una persona che, secondo il normale
punto di vista del giurista, avrebbe dovuto essere valutato come un “cattivo”. Anzitutto
di lui si dice che «era in viaggio»: il participio presente hodéuōn richiama il sostantivo
hodós (= “via”) e indica propriamente uno che è per strada, che compie un cammino.
Fin dall’inizio il personaggio è dunque presentato in forte sintonia con il Cristo stesso
che ha iniziato il suo viaggio decisivo. Giunto sul posto, il Samaritano «vide» il ferito,
esattamente come era successo al sacerdote e al levita; ma la reazione che ne segue è
ben diversa. Luca adopera al proposito un’espressione molto significativa:
esplanchnísthē (= “si commosse in modo viscerale”). Tale verbo deriva dal sostantivo
splánchna che designa propriamente le “viscere” (cf. Lc 1,78) e indica quindi una forte
emozione affettiva, un profondo e appassionato coinvolgimento “materno”. Il terzo
evangelista adopera lo stesso verbo solo altre due volte, attribuendolo a Gesù quando
incontra la vedova di Nain (7,13) e al padre della parabola quando può riabbracciare il
figlio minore che torna a casa (15,20)7. Tale sentimento di misericordia si concretizza in
tutte le azioni seguenti, descritte con cura. Anzitutto «si avvicinò»8 e medicò le ferite
con mezzi di fortuna che poteva aveva con sé; quindi si fece carico di quell’uomo,
prendendosi cura di lui in modo ancor più coinvolgente, pensando ad un intervento che
potesse portare lo sconosciuto alla piena guarigione.
Entra così in scena un albergo: in greco è detto pan-dochéion, termine che letteralmente
significa “il luogo che accoglie tutti”; analogamente l’albergatore (pandochéus) è
indicato come l’onni-accogliente. A lui il Samaritano, pagando di persona, affida il
compito di continuare a curarsi9 di quell’uomo e promette di passare di nuovo10,
impegnandosi a pagare ogni ulteriore spesa.
7
Ricorre anche negli altri Sinottici ed è usato sempre per indicare una reazione di Gesù (cf.
Mt 9,36; 14,14; 15,32; 20,34; Mc 1,41; 6,34; 8,2; 9,22). In Mt 18,27 è detto del padrone che
si commuove per la supplica del servo debitore.
8
Questa volta il verbo érchomai (= “andare”) è adoperato in composizione con pros (=
“verso”): infatti prosérchomai significa “farsi vicino” ed è scelto per contrastare il
precedente doppio uso del verbo “passare a fianco dall’altra parte”.
9
Viene ripetuto come imperativo (v. 35) il verbo epimeléomai già usato all’indicativo (v. 34)
per descrivere il primo intervento del Samaritano: tale forma verbale non è tipica del medico
che dà una terapia, ma esprime il senso comune di “prendersi cura”.
10
Questo è un altro interessante verbo di movimento, composto di érchomai: ep-an-érchomai
esprime il cammino di chi ritorna alla stesso punto.
5
Un esempio di “triangolo drammatico”
Il racconto che Gesù ha proposto al dottore della legge termina con una domanda, che
porta inevitabilmente alla conclusione voluta. Possiamo così osservare – utilizzando il
metodo dell’analisi narrativa – che questa parabola è strutturata secondo uno schema
che è stato definito “triangolo drammatico”11: lo si riconosce nei racconti in cui
compaiono tre personaggi, significativamente correlati fra di loro. In genere due
personaggi stanno sullo stesso piano, ma esercitano una funzione differente: sono
denominati rispondenti, in quanto rappresentano risposte contrastanti al tema centrale
proposto dal racconto. Invece il terzo personaggio sta su un piano diverso, spesso ha
una funzione di prestigio e – soprattutto – gioca il ruolo dell’arbitro: perciò viene
chiamato determinante (o sovrano dell’azione). Applicando tale schema narrativo alla
nostra parabola per scoprirne il contenuto teologico, dobbiamo riconoscere che il
personaggio determinante è paradossalmente l’uomo ferito: egli è a tutti gli effetti
“arbitro” della situazione, perché la valutazione degli altri personaggi è determinata dal
confronto con lui.
Sacerdote e levita sono strettamente accomunati e rappresentano quindi un’unica
posizione; l’altra risposta invece è impersonata dal Samaritano. Ma ci dobbiamo
domandare: perché Gesù ha scelto come esemplari proprio questo tipo di personaggi?
Non essendoci nel testo indicazioni precise, le risposte restano ipotetiche. Una potrebbe
essere questa: secondo le norme di purità rituale i membri della classe sacerdotale erano
tenuti ad evitare assolutamente il contatto coi cadaveri e coi moribondi; il loro
comportamento si spiegherebbe quindi non come pigrizia o cattiveria, bensì come
intenzione di osservare con scrupolo la legge. Paradossalmente invece un fuori-legge
come il Samaritano compie un gesto di misericordia e così realizza veramente
l’essenziale della legge. La nota critica sarebbe dunque verso la mentalità legalista che,
osservando la lettera, rischia di tradirne lo spirito: il punto di vista di Gesù invece
induce l’ascoltatore (e il lettore) a scoprire una prospettiva diversa e migliore.
Un’altra spiegazione risulta ancora più convincente. Nel racconto è evidente il contrasto
fra i leviti appartenenti al popolo di Israele e il Samaritano che ne è escluso:
l’appartenenza religiosa sembra quindi discriminante nel caratterizzare i personaggi. Il
dottore della legge, che ha sollevato la questione del prossimo, si trova di fronte ad una
storia con persone diverse da lui, appartenenti ad altri partiti e movimenti: nella
prospettiva di chi vede l’altro come potenziale nemico da cui distanziarsi e difendersi, il
giurista (molto probabilmente fariseo) si trova spiazzato nel dover interpretare i
differenti comportamenti. Comprendiamo così che l’impianto narrativo della parabola
risulta un valido stratagemma per indurre l’ascoltatore a valutare i personaggi,
rimodellando il proprio punto di vista sulla visuale del narratore stesso. In tal modo
Gesù ha guidato il dottore della legge a cambiare prospettiva, riconoscendo che proprio
quel “bastardo” di Samaritano è stato prossimo, cioè capace di superare le barriere
ideologiche, facendosi vicino a chi aveva bisogno, senza pregiudizi.
11
Un pregevole studio su tale metodologia è stato condotto da M. CRIMELLA, Marta, Marta!
Quattro esempi di “triangolo drammatico” nel “grande viaggio” di Luca, Cittadella, Assisi
2009. L’esegesi della parabola del buon Samaritano occupa le pp. 59-133.
6
L’interpretazione cristologica
Gli antichi lettori cristiani, oltre all’orientamento etico, hanno riconosciuto in questa
parabola anche una componente cristologica: il personaggio del Samaritano infatti
potrebbe essere un’immagine di Gesù stesso che, mosso da misericordia, si prende cura
dell’umanità, realizzando così il divino progetto della salvezza.
La più antica testimonianza di questa lettura si trova in Ireneo di Lione che, verso il 180
d.C., a proposito dello Spirito Santo afferma:
Il Signore affidò allo Spirito Santo il suo uomo, che era caduto in potere dei briganti: ne
ebbe compassione, gli fasciò le ferite, dando due denari regali affinché, ricevendo mediante
lo Spirito l’immagine e la scritta del Padre e del Figlio, facciamo fruttificare il denaro a noi
affidato e lo riconsegniamo al Signore moltiplicato (Adversus haereses III,17,3)12
In questa interpretazione il Cristo si prende cura del genere umano – il “bene proprio di
Dio” (suum hominem) – affidandolo all’albergatore che è lo Spirito Santo, il quale porta
a compimento l’opera del Cristo, in quanto rende l’uomo capace di far fruttificare i doni
di Dio.
Un’esegesi completa della parabola in chiave di allegoria cristologica è condotta da
Origene nelle sue Omelie su Luca, composte verso il 230; ma ancora più interessante è
la sua sintesi in un prezioso frammento conservato nell’originale greco, che traduco
letteralmente13:
Descriviamo dunque con un discorso sintetico il significato della parabola. L’uomo “può
essere ricondotto” (anágetai) ad Adamo ovvero al discorso sull’uomo e sulla sua vita in
precedenza e sulla caduta dovuta alla disobbedienza. Gerusalemme [rimanda] al paradiso
ovvero alla Gerusalemme di lassù; Gerico invece al mondo. I briganti [rinviano] alle forze
avverse, sia i demoni sia i falsi maestri che vengono al posto di Cristo: le ferite
[richiamano] la disobbedienza e i peccati; mentre lo spogliamento delle vesti [allude] al
fatto di essere denudato dell’incorruttibilità e dell’immortalità e di essere stato privato
dell’intera virtù; il fatto che lascino l’uomo mezzo morto dimostra che la morte raggiunge
metà della natura, giacché l’anima è immortale. Il sacerdote [rimanda] alla legge, il levita al
discorso profetico, il Samaritano a Cristo, che ha preso la carne da Maria; l’animale da
soma [rinvia] al corpo di Cristo, il vino alla parola che istruisce e corregge, l’olio alla
parola della bontà e misericordia ovvero della carità viscerale. L’albergo [richiama] la
Chiesa; l’albergatore [allude] agli apostoli e ai loro successori, vescovi e maestri delle
Chiese, ovvero agli angeli che presiedono alla Chiesa. I due denari [richiamano] i due
testamenti, l’antico e il nuovo, ovvero l’amore verso Dio e quello verso il prossimo, oppure
la conoscenza relativa al Padre e al Figlio. Infine il ritorno del Samaritano [si riferisce] alla
seconda manifestazione di Cristo.
Seguita pure da Agostino (Quest. Ev. 2,19), questa interpretazione divenne comune in
Occidente e in tutto il Medioevo influenzò anche la produzione artistica. Ne sono
esempio due splendide vetrate gotiche nelle cattedrali di Chartres e Bourges in cui i
quadri della parabola sono accompagnati (e interpretati) dalle scene del peccato
originale e della passione di Cristo, per evidenziare il ferimento dell’uomo e le cure
prestate dalla misericordia divina.
12
IRENEO DI LIONE, Contro le eresie e gli altri scritti (Introduzione e traduzione di Enzo
Bellini), Jaca Book, Milano 1981, 272.
13
ORIGENE, Homélies sur s. Luc (SC 87), Paris 1962. L’Omelia 34 dedicata al buon
Samaritano è conservata nel testo latino tradotto da Girolamo (pp. 400-411). Il testo greco
del Frammento greco 71 (Rauer 168) su Lc 10,30 è a p. 520.
7
L’esegesi moderna, seguendo il metodo storico-critico, ha rigettato assolutamente una
simile interpretazione; tuttavia un approccio più moderato può riconoscervi degli
elementi di valore, senza voler esagerare nella spiegazione allegorica dei particolari. «Il
Samaritano adotta in realtà i sentimenti e riprende i gesti di Cristo stesso»14: infatti il
modello positivo che il racconto lucano intende proporre è proprio Gesù Cristo, che col
suo cammino storico si è fatto effettivamente vicino all’uomo e se ne è preso cura,
offrendogli la possibilità di guarire. In questa linea si colloca anche la tradizione
liturgica che nella nuova edizione italiana del Messale propone un Prefazio (comune
VIII), intitolandolo “Gesù, buon Samaritano”:
Nella sua vita mortale egli passò beneficando e sanando tutti coloro che erano prigionieri
del male. Ancor oggi come buon Samaritano viene accanto ad ogni uomo piagato nel corpo
e nello spirito e versa sulle sue ferite l’olio della consolazione e il vino della speranza. Per
questo dono della tua grazia, anche la notte del dolore si apre alla luce pasquale del tuo
Figlio crocifisso e risorto.
14
F. BOVON, Vangelo di Luca, II, Paideia, Brescia 2007, 120.
8